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Lazio, record di spesa pubblica. Fa peggio solo la Valle d’Aosta

Lazio, record di spesa pubblica. Fa peggio solo la Valle d’Aosta

di Valerio Maccari – Il Tempo

Vola la spesa pubblica nel Lazio. Dal 2012 a oggi, infatti, in media lo Stato ha sborsato 13.684 euro per abitante della regione. È il dato più elevato tra le regioni italiane, secondo solo a quello della Valle d’Aosta dove, grazie allo statuto speciale e a un maggiore reddito medio della popolazione, la mano pubblica sborsa 15.731 euro per cittadino. La consistenza della spesa pubblica laziale è ancora più eclatante se si considerano le evidenti inefficienze dei servizi garantiti ai cittadini, dal trasporto locale alla sanità.

A elaborare la classifica della spesa pubblica pro-capite per regioni è il Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati ogni anno dalla Ragioneria Generale della Stato, conteggiando – oltre alle spese del bilancio statale – anche quelle realizzate nei vari territori di riferimento dai rispettivi enti locali, da Fondi alimentati con risorse nazionali e comunitarie, da Enti e organismi pubblici.

Nella classifica delle regioni così redatta, il Lazio è circondato da stagioni a statuto speciale: al terzo posto, infatti, c’è il Trento Alto Adige con 13.278 euro di spesa pro-capite, seguito a sua volta dal Friuli Venezia Giulia con 12.975. Le altre grandi regioni, invece, sono in coda: la Lombardia è ultima per spesa pubblica pro-capite (8.647 euro), preceduta dal Veneto (8.734 euro) e dalla Campania (9.082 euro). Se invece si passa a valutare l’incidenza della spesa pubblica rispetto al Prodotto interno lordo di ogni singola regione, la classifica si inverte: prima è la Calabria, con una spesa pubblica complessiva superiore ai due terzi del Pil; seguono la Sardegna (59,9%) e la Sicilia 56,55%).

«L’enorme differenza della quantità di spesa tra regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica: si spende tanto al nord quanto al sud. Va però considerata la sua qualità» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Prendiamo ad esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese anche se il costo pro capite è di poco superiore; per l’Istat di soli 130 euro annuali a cittadino: un’inezia. È solo un esempio che riafferma però un concetto ineludibile. Si tratta di spendere di meno ma anche e soprattutto di spendere meglio. Dal trasporto pubblico ai servizi postali troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Anche i costi della politica non sono uguali per tutti. Agli oltre 42 euro pro capite per il funzionamento degli organi istituzionali della Sardegna o ai quasi 32 euro della Sicilia fanno da contraltare Piemonte ed Emilia Romagna che si attestano attorno ai 5 euro annui».

Le Regioni che spendono di più

Le Regioni che spendono di più

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Restano tuttora vistose le differenze nella spesa pubblica pro capite sostenuta nelle singole regioni italiane. Valutando la media degli ultimi tre anni disponibili (dal 2012 al 2014) si scorge infatti quasi un abisso tra gli 8.647 euro annui pro capite spesi in Lombardia e i 15mila spesi in Valle d’Aosta o gli oltre 13mila spesi nel Lazio. Lo sottolinea il Centro studi ImpresaLavoro, che ha rielaborato i dati contenuti nel rapporto annuale in cui la Ragioneria Generale dello Stato analizza la dimensione e l’andamento della spesa consolidata nelle regioni italiane.

Occorre precisare che il perimetro considerato nella costruzione di questi dati non coincide con le competenze di queste ultime ma si allarga a  ogni importo sostenuto nelle singole regioni da qualsivoglia organismo pubblico: tiene insomma conto delle spese dello Stato (ad esempio quelle relative al pagamento delle pensioni, degli ammortizzatori sociali o gli oneri relativi alla sicurezza o al controllo dei confini), della Regione, degli altri enti locali e di ogni fondo alimentato con risorse nazionali o comunitarie. A restare esclusi dal calcolo sono invece gli oneri relativi al pagamento degli interessi sul debito pubblico.

Osservando la classifica stilata da ImpresaLavoro, la regione con la spesa pubblica pro-capite più elevata risulta così essere la Valle d’Aosta, con 15.731 euro all’anno. Seguono il Lazio con 13.684 euro, il Trentino Alto Adige con 13.278 euro e il Friuli Venezia Giulia con 12.975 euro. In coda si collocano le regioni più grandi: la Lombardia è ultima per spesa pubblica pro-capite (8.647 euro), preceduta dal Veneto (8.734 euro) e dalla Campania (9.082 euro). La classifica cambia se si raffronta la spesa pubblica al Prodotto Interno Lordo che ogni singola regione produce. In questo caso le regioni con percentuale di spesa pubblica più elevata rispetto al Pil risultano la Calabria (66,15%), la Sardegna (59,9%) e la Sicilia (56,55%). In coda alla graduatoria troviamo invece le regioni più ricche del Nord: la Lombardia (dove la spesa pubblica pesa per meno del 25%), il Veneto (29%) e l’Emilia Romagna (30%).

«L’enorme differenza della quantità di spesa tra regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica: si spende tanto al nord quanto al sud. Va però considerata la sua qualità» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Prendiamo ad esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese anche se il costo pro capite è di poco superiore; per l’Istat di soli 130 euro annuali a cittadino: un’inezia. È solo un esempio che riafferma però un concetto ineludibile. Si tratta di spendere di meno ma anche e soprattutto di spendere meglio. Dal trasporto pubblico ai servizi postali troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Anche i costi della politica non sono uguali per tutti. Agli oltre 42 euro pro capite per il funzionamento degli organi istituzionali della Sardegna o ai quasi 32 euro della Sicilia fanno da contraltare Piemonte ed Emilia Romagna che si attestano attorno ai 5 euro annui».

La spesa pubblica consolidata nelle regioni italiane

La spesa pubblica consolidata nelle regioni italiane

Ogni anno la Ragioneria Generale dello Stato realizza un interessante rapporto (La Spesa Statale Regionalizzata) in cui analizza la dimensione e l’andamento della spesa pubblica nelle singole regioni italiane. Un intero capitolo è dedicato alla cosiddetta “Spesa Consolidata”, nella quale vengono incluse oltre alle spese del bilancio statale, quelle realizzate nei territori di riferimento dagli enti locali, da Fondi alimentati con risorse nazionali e comunitarie, da Enti e organismi pubblici.

In questo valore vengono conteggiate, ad esempio, le spese relative al pagamento delle pensioni, degli ammortizzatori sociali o gli oneri relativi alla sicurezza o al controllo dei confini. Il perimetro considerato, quindi, non coincide con le competenze delle singole Amministrazioni Regionali ma punta a ricomprendere la spesa pubblica effettuata in una determinata regione indipendentemente dal soggetto che gestisce quelle risorse.

Nella costruzione del dato consolidato sono stati eliminati i pagamenti intercorsi tra i vari soggetti: potrebbero residuare talune duplicazioni di modesta entità, relative a flussi non evidenziati nelle fonti utilizzate. La Ragioneria Generale dello Stato ritiene che tale circostanza non alteri in modo significativo i risultati della ricerca, in termini di distribuzione tra le regioni.
Rimangono esclusi dal perimetro analizzato gli oneri relativi al pagamento degli interessi sul debito pubblico.

Trattandosi di valori di cassa, la collocazione nella graduatoria di una regione in ciascun anno
potrebbe dipendere in alcuni casi dal profilo di cassa di talune erogazioni di importo più rilevante, le cui annualità potrebbero essersi concentrate in un dato esercizio. L’analisi di ImpresaLavoro prende in considerazione la media degli ultimi tre anni disponibili (2012,
2013, 2014) così da rendere meno evidenti eventuali picchi nelle uscite di cassa dovuti a peculiarità del singolo anno.

La regione con la spesa pubblica pro-capite più elevata è la Valle d’Aosta, con 15.731 euro all’anno. Seguono il Lazio con 13.684, il Trentino Alto Adige con 13.278 e il Friuli Venezia Giulia con 12.975. In coda le regioni più grandi: la Lombardia è ultima per spesa pubblica pro-capite (€ 8.647), preceduta dal Veneto (€ 8.734) e dalla Campania (€ 9.082).

La valutazione cambia se raffrontiamo la spesa pubblica al Prodotto Interno Lordo che ogni singola regione produce. In questo caso le regioni con percentuale di spesa pubblica più elevata rispetto al Pil risultano la Calabria (66,15%), la Sardegna (59,9%) e la Sicilia (56,55%). In fondo alla classifica troviamo le regioni più ricche del Nord: la Lombardia, dove la spesa pubblica pesa per meno del 25%, il Veneto (29%) e l’Emilia Romagna (30%).

Quelle Regioni unite dalla spesa

Quelle Regioni unite dalla spesa

di Massimo Blasoni – Panorama

Se ne parla poco, l’argomento sembra passato di moda, ma resta un fatto che vi sono vistose differenze nella spesa pubblica pro capite sostenuta nelle varie regioni italiane. La spesa è in via generale alta e certamente va ridotta, se vogliamo creare le premesse per una ripresa dell’economia nazionale che non sia timida come quella attuale. Tuttavia, valutando la media degli ultimi tre anni disponibili, si scorge quasi un abisso tra gli 8.647 euro annui pro capite spesi in Lombardia e i 15mila spesi in Valle d’Aosta o i 13mila spesi nel Lazio. I valori sono tratti dal rapporto annuale della Ragioneria Generale dello Stato che analizza la dimensione e l’andamento della spesa consolidata nelle regioni italiane.

Il dato considera ogni importo sostenuto nelle singole regioni da qualsivoglia organismo pubblico, tiene dunque conto delle spese dello Stato, della Regione, degli altri enti locali e di ogni fondo alimentato con risorse nazionali o comunitarie, enti previdenziali compresi: tutto insomma. Nella classifica dei più spendaccioni, dopo i già citati Valle d’Aosta e Lazio, seguono Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Sardegna. Tra le più parche, a far compagnia alla Lombardia ci sono il Veneto ma anche regioni del sud come Campania e Puglia che non superano i 10mila euro annui a persona. Verrebbe da dire che è meglio nascere in Trentino Alto Adige che nelle Marche, visto che le risorse pro capite disponibili sono del 50% superiori.

L’evoluzione della spesa fa riflettere. Da un lato se ne ricava che l’enorme differenza della quantità di spesa tra regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica, insomma si spende sia al nord che al sud. Dall’altro, oltre alla quantità, occorre considerare la qualità della spesa.

Prendiamo ad esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese anche se il costo pro capite è di poco superiore; per l’Istat di soli 130 euro annuali a cittadino: un’inezia. È solo un esempio che riafferma però un concetto ineludibile. Si tratta di spendere di meno ma anche e soprattutto di spendere meglio. Dal trasporto pubblico ai servizi postali troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Anche i costi della politica non sono uguali per tutti. Agli oltre 42 euro pro capite per il funzionamento degli organi istituzionali della Sardegna o ai quasi 32 euro della Sicilia fanno da contraltare Piemonte ed Emilia Romagna che si attestano attorno ai 5 euro annui. Resta infine l’annosa querelle sui residui fiscali.

Insomma, ci sono regioni che ricevono dalla mano pubblica più di quello che versano in tasse e imposte e viceversa: un tema spinoso. Su un punto però siamo tutti d’accordo. Al di là di tutti i propositi di razionalizzazione della spesa degli ultimi governi ben poco si è ottenuto: la spesa corrente in valore assoluto non accenna a diminuire e restiamo tra i più spendaccioni d’Europa.

Non salveremo il welfare (solo) con gli immigrati

Non salveremo il welfare (solo) con gli immigrati

di Gianni Zorzi, docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

Nel presentare alla Camera la Relazione Annuale dell’Inps, il presidente Tito Boeri ha sostenuto che chiudere le frontiere agli stranieri comporterebbe uno sbilancio dei conti del nostro welfare tale da richiedere «una manovrina ogni anno per ventidue anni», con un totale di 38 miliardi di euro di buco da coprire da qui al 2040. Il numero eclatante, frutto di una simulazione a cui l’Inps ha dedicato un’intera sezione del suo rapporto, rischia di creare però più confusione che altro nel più ampio dibattito in corso su accoglienza e integrazione degli immigrati.

In primo luogo, non va confuso il tema con quello degli sbarchi dal Mediterraneo e dei relativi costi dell’accoglienza, che secondo le ultime stime di ImpresaLavoro potrebbero avvicinarsi nel corso del 2017 alla quota dei 5 miliardi di euro, a tutto carico della fiscalità generale. Anzi, la relazione dell’Inps sottolinea in più punti i benefici ottenuti dalla regolarizzazione dei rapporti di lavoro, promossa anche con gli interventi normativi del 2002 e del 2012: il punto allora non sarebbe l’apertura o chiusura delle frontiere, ma la possibilità di incanalare concretamente il flusso di migranti sui binari della regolarità lavorativa in luogo della clandestinità e del sommerso. La stima dei 38 miliardi si fonda infatti esclusivamente sul rapporto tra i contributi che i lavoratori regolari versano all’ente negli anni di attività e le prestazioni che dallo stesso riscuotono in un secondo momento, ovvero negli anni di quiescenza, con particolare riferimento agli assegni pensionistici.

Proprio per le dinamiche previdenziali del nostro sistema, a ripartizione e orientato al contributivo, bisogna sempre tenere a mente che i versamenti dei lavoratori rivestono una duplice funzione: nel breve periodo quella di garantire, mese per mese, il pagamento degli assegni agli attuali pensionati, e nel lungo quella di costituire il montante che fungerà da base di calcolo per la pensione propria.

Se ci riferissimo al ciclo di vita intero dei contribuenti stranieri, persino il 2040 risulterebbe un orizzonte troppo ravvicinato: è la stessa Inps che ammette che al di là di quella data i numeri andrebbero aggiustati per considerare il progressivo incremento delle prestazioni, ovvero del sempre maggior numero di pensioni che verrebbero liquidate agli stranieri. A meno che non si ipotizzi che il flusso di giovani lavoratori stranieri continui a ritmo incessante e che la speranza di vita di quelli residenti risulti inferiore a quella media degli italiani su cui si calcolano le pensioni. È pur vero che la popolazione straniera residente in Italia, secondo gli ultimi dati Istat (2016), è arrivata all’8,3 per cento e dunque è cresciuta di oltre quattro volte rispetto a ciò che risultava a inizio millennio.

Tra le principali economie dell’Europa, l’Italia è quella che ha visto crescere il dato in misura maggiore, superando nel contempo la Francia (poco più del 6 per cento) e arrivando a un passo dal 10 per cento della Germania e della Spagna. Risulta ancora più evidente, dunque, che ancora per molti lustri il numero di pensionati stranieri dovrebbe essere di gran lunga inferiore a quello dei rispettivi contribuenti. Secondo i numeri ufficiali, da noi ci sono oltre due milioni di lavoratori migranti, in larga parte dipendenti (82 per cento), con un trend stabilizzatosi negli ultimi dieci anni; in costante aumento figurano invece gli autonomi (che hanno quasi raggiunto la quota di 400mila unità), mentre in lieve riduzione da tre anni, dopo un primo boom, risultano i lavoratori domestici. Prevalgono comunque in ogni categoria gli extracomunitari, per una quota di circa 1,6 milioni di lavoratori ovvero il 70 per cento del totale.

Il reddito medio pro-capite dichiarato è considerevolmente inferiore a quello degli italiani (circa un terzo in meno) ed è condizionato inizialmente anche da un numero minore di ore lavorate. Le entrate che garantiscono ogni anno alle casse dell’Erario corrispondono tuttavia a quasi 11 miliardi di contributi previdenziali e a 7 miliardi di Irpef, secondo quanto risulta nell’ultimo Rapporto sull’immigrazione della Fondazione Moressa. Molto più incerte sono invece le stime sulle uscite di spesa pubblica al netto delle pensioni che, come ribadito, al momento sono limitate.

Approfondendo le dinamiche degli iscritti all’Inps, si scopre che ogni anno una quota vicina al 6 per cento dei lavoratori stranieri (oltre 100mila l’anno) abbandona il posto di lavoro in Italia ed è rimpiazzata da nuovi “entranti”, a un ritmo che negli ultimi anni si è però ridotto, complice con ogni probabilità la crisi e la conseguente ridotta appetibilità della nostra economia rispetto ad altre dell’Unione Europea.

L’età invece risulta sempre più bassa tra i nuovi entranti (con un aumento sensibile degli under 25), ma complessivamente in aumento tra i residenti, ed è legata – si legge nel rapporto – alle normali dinamiche di invecchiamento della popolazione. In altre parole, continuiamo a importare forza lavoro in prevalenza giovane, mentre nel contempo gli stranieri residenti iniziano (lentamente) a maturare una propria anzianità contributiva. Tutti quanti però ancora per un bel pezzo contribuiranno a pagare gli assegni agli italiani prima di incassare quelli di propria competenza.

A quel punto, però, il pericolo dei mancati incassi contributivi dagli stranieri dovrebbe corrispondere a una riflessione di stampo più puramente demografico nonché occupazionale. Il problema infatti si porrebbe nel solo caso in cui gli italiani non riuscissero a sopperire al “gap” di forza lavoro mancante nelle ipotesi di mancato afflusso di stranieri, che l’Inps ha quantificato in 140mila nuove unità all’anno: una cifra non spaventosa se rapportata, ad esempio, ai livelli attuali di disoccupazione del nostro paese.

Sotto questo punto di vista, dunque, appaiono ben più pertinenti le riflessioni sulle tematiche che coinvolgono il potenziamento delle politiche per la famiglia e per la natalità, la crescita e l’occupazione, possibilmente senza dimenticare il fattore di equità intergenerazionale che dovrebbe guidare l’ampio settore della previdenza pubblica: tematiche peraltro trasversali rispetto alla nazionalità del contribuente.

LO “SBILANCIO” PREVIDENZIALE

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

L’affermazione di Boeri che a salvare i conti in perdita dell’Inps con i loro versamenti contributivi siano gli stranieri è fuorviante. Il tema centrale​ è semmai quello dei contributi silenti, che colpisce in egual misura lavoratori italiani e non. Si tratta infatti di versamenti che non sono sufficienti a maturare alcun trattamento previdenziale se versati per un periodo inferiore ai 20 anni di lavoro e che l’Istituto si guarda bene dal restituire. Se Boeri ne rendesse noto l’ammontare emergerebbe un paradosso intollerabile. Quello per cui ad alcuni capita di versare “a vuoto” i contributi senza maturare alcun diritto alla pensione mentre moltissimi altri, come è noto, incassano ogni mese un assegno previdenziale largamente superiore ai contributi versati nel corso della propria attività lavorativa: un frutto avvelenato lasciatoci in eredità da chi ha applicato in maniera generosa e irresponsabile il sistema retributivo, mettendo a rischio la tenuta del sistema previdenziale.

Gentiloni ripensa alla giustizia civile. Fa bene, ci costa 14 miliardi

Gentiloni ripensa alla giustizia civile. Fa bene, ci costa 14 miliardi

di Sarina Biraghi – La Verità

Non solo inasprimento delle pene e intercettazioni. Al momento dell’insediamento, lo scorso dicembre, il presidente del consiglio Paolo Gentiloni aveva chiesto ai ministri una lista con le cose da fare, confermando di fatto gli impegni già assunti dal governo. A cominciare dalla riforma della giustizia, «prioritaria», apparsa fin da subito come il passaggio più delicato per la tenuta della maggioranza. Basti ricordare che l’Associazione nazionale dei magistrati in segno di protesta per il «mancato adempimento degli impegni politici assunti da parte del governo» su pensioni e trasferimenti dei magistrati aveva disertato la tradizionale inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. Alla voce giustizia, oltre alla riforma del processo penale, tanto atteso, c’erano provvedimenti molto importanti come il diritto fallimentare, il codice civile, la riforma del sistema penitenziario e quella del processo civile in funzione di una maggiore efficienza.

Questo provvedimento contiene deleghe, come quella per la riforma del tribunale delle imprese, l’istituzione del tribunale della famiglia, oltre a tante norme per razionalizzare la procedura dal primo grado (introducendo di regola il rito semplificato di cognizione nelle cause di competenza del giudice monocratico) a quello di Cassazione. Del disegno complessivo di riforma faceva parte il riordino organico del sistema di istituti di risoluzione alternativa delle controversie ma anche il portale unico per le vendite immobiliari, dopo la sperimentazione finita a giugno. Un pacchetto non indifferente ma che Gentiloni vorrebbe portare completamente a buon fine, considerando tramontata la fine anticipata del suo governo e confermato il supporto del ministro della Giustizia Andrea Orlando che pure, come primo provvedimento, ha pensato alle unioni civili. Eppure è proprio la «non giustizia» italiana ad avere un costo oltre che un mancato guadagno che frena la nostra economia e ci rende “diversi” dal resto d’Europa.

Una ricerca del centro studi ImpresaLavoro ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività per gli investimenti esteri, la nascita o lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario. Ridurre le cause pendenti per numero di abitanti e portarle al livello della media europea potrebbe generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil, cioè tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale.

Un altro contributo alla crescita potrebbe arrivare riducendo di un quarto i tempi dei Tribunali perché di per sé potrebbe aumentare il tasso di natalità delle imprese, cioè far crescere il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143.000 unità all’anno: una volta e mezza il tasso attuale. Il dato positivo sarebbe ancora più evidente se i tempi si dimezzassero, portandosi dunque alla media europea: la stima in questo caso varia tra le 192.000 e le 240.000 nuove imprese all’anno in più rispetto ai ritmi correnti. Se si potesse raddoppiare la velocità dei Tribunali ci potrebbe essere una crescita della dimensione delle nostre imprese per circa l’8,5% in media, come stimato anche da Banca d’Italia.

Benché riferiti al 2014, i dati della Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa mettono in luce come l’Italia sia in una posizione piuttosto arretrata nelle varie classifiche internazionali. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, all’ultima rilevazione rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti.

In termini comparati, i 532 giorni medi necessari per le sentenze di primo grado sono sostanzialmente il doppio rispetto alla media europea e, andando avanti, da noi servono quasi 3 anni in media per gli appelli e altri 3,5 per i giudizi in Cassazione. Lungaggini e inefficienze che penalizzano anche i movimenti di denaro: con la rapidità dei giudizi e la riduzione degli arretrati si sveltirebbero i tempi di pagamento tra imprese, con tutti i relativi effetti in termini di maggiore liquidità in circolazione, minor numero di insolvenza e minore disoccupazione.

Anche i tempi e i costi di recupero dei crediti sono direttamente collegati all’efficacia della giustizia e ciò dovrebbe far riflettere sul problema della valorizzazione e dello smaltimento della montagna di crediti deteriorati accumulati dalle banche. Diversi studi hanno esaminato il legame tra tempi della giustizia, costo dei finanziamenti e loro disponibilità presso il canale bancario: secondo le relazioni più significative, raggiungere il livello medio Ue nei Tribunali potrebbe aprire l’opportunità di nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,7% rispetto all’attuale, con innegabili benefici per il mercato del lavoro e quindi l’occupazione.

Invece di invocare quelli stranieri Boeri restituisca i contributi nostri

Invece di invocare quelli stranieri Boeri restituisca i contributi nostri

di Massimo Blasoni – La Verità

L’affermazione che a salvare i conti dell’Inps (il cui disavanzo economico è salito nel 2016 a 11,2 miliardi) con i loro versamenti contributivi siano gli stranieri e non gli italiani è fuorviante, tanto quanto lo sarebbe sostenere la tesi contraria. Se non ci fossero gli stranieri avremmo al loro posto più italiani al lavoro e un più basso tasso di disoccupazione? Nessuno può dirlo né è possibile affermare con certezza che spesso si tratta di lavori che gli italiani “choosy” non farebbero.

Il tema centrale piuttosto​ è quello dei contributi silenti, che colpisce in egual misura lavoratori italiani e non. Si tratta infatti di versamenti che non sono sufficienti a maturare alcun trattamento previdenziale se versati per un periodo inferiore ai 20 anni di lavoro e che l’Istituto si guarda bene dal restituire ai loro legittimi proprietari. Il presidente dell’Inps sostiene la necessità di “un’operazione verità nel Paese dell’ipocrisia”? Si decida allora a un gesto che tutti i suoi predecessori si sono sempre rifiutati di fare, anche a fronte di reiterate interrogazioni parlamentari: rendere noto l’ammontare esatto dei contributi silenti che il suo Istituto ha incassato negli ultimi anni da lavoratori italiani e stranieri. Emergerebbe così un paradosso intollerabile: quello per cui ad alcuni capita di versare “a vuoto” i contributi senza maturare alcun diritto alla pensione mentre moltissimi altri incassano ogni mese un assegno previdenziale largamente superiore ai contributi versati nel corso della propria attività lavorativa (un frutto avvelenato lasciatoci in eredità da chi ha applicato in maniera generosa e irresponsabile il sistema retributivo).

E per restare al tema dell'”operazione verità” cara a Boeri, perché non ricordare ad esempio la gestione non certo assennata del patrimonio immobiliare dell’Inps? Si tratta di qualcosa come 25mila immobili valutati più di tre miliardi che non però producono alcun provento ma anzi un rilevante deficit annuale.

Più in generale, va osservato come la sostenibilità del nostro sistema previdenziale (garantita ogni anno attingendo alla fiscalità generale) richieda sia una crescita del Pil di almeno un punto e mezzo percentuale annuo, sia un indice di occupazione – cioè di partecipazione al mercato del lavoro – nettamente più alto di quello attuale. Risultati per il momento non conseguiti né sul piano della crescita né relativamente all’incremento dell’occupazione: lavora solo il 57% degli italiani, contro una media europea dieci punti più alta. A questo si aggiunga lo spazio esiguo ricavato nel nostro Paese dalla previdenza complementare: fra coloro che versano contributi il tasso di adesione non supera il 25% del totale degli occupati. Un dato che non sorprende, visto che i netti in busta paga (gravati dall’altissimo cuneo fiscale e previdenziale) consentono solo a poche famiglie di ritagliare risorse per assegni aggiuntivi.

Gravano pertanto sui giovani le maggiori incertezze per il futuro. Lavori discontinui, vuoti contributivi e una previdenza in genere penalizzante rispetto al passato rischiano di condurre ad assegni pensionistici miseri e a un lavoro che si dovrà protrarre ben oltre i 70 anni, anche a causa dei coefficienti di trasformazione che adeguano l’età di pensionamento alla costante crescita della vita media. Ecco perché il dibattito andrebbe indirizzato semmai in un’altra direzione: non è affatto necessario che sia lo Stato a gestire i nostri contributi obbligatori. Sarebbe preferibile che ci fosse data la possibilità di decidere liberamente dove investirli, optando tra soggetti pubblici e privati in concorrenza tra loro. Un passaggio complesso ma a ben vedere non impossibile, se non vogliamo che i giovani un domani siano costretti a sentirsi stranieri in Patria.

 

Lavoro: in Italia i cittadini extracomunitari trovano lavoro più facilmente dei nostri connazionali

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. E l’Italia è uno tra questi. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat 2016, il tasso di occupazione dei cittadini italiani tra i 15 e i 64 anni residenti nel nostro Paese è del 57,0%, un dato che ci accomuna alla Croazia e che risulta nettamente inferiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (67,1%) sia dell’area Euro (66,1%). In tutta Europa soltanto la Grecia (52,0%) ha un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. In questa particolare classifica siamo quindi nettamente superati da tutti i nostri principali competitor: Svizzera (82,5%), Germania (76,5%), Olanda (75,6%), Regno Unito (73,8%), Portogallo (65,3%), Francia (65,2%), Irlanda (64,7%) e Spagna (59,9%).

Se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola invece verso l’alto, dal penultimo al sedicesimo posto: il nostro 57,8% risulta infatti largamente superiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (53,7%) sia dell’area Euro (52,5%).

Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Oltre all’Italia, solo altri tre Paesi europei hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-3,8 punti percentuali), Slovenia (-0,9) e Grecia (-0,3). Un dato che stride con la media sia dell’Unione a 28 membri (+13,4 punti percentuali) sia dell’area Euro (+13,6). In tutto il resto d’Europa la differenza, espressa sempre in punti percentuali, risulta infatti a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame: Portogallo (+1,0), Spagna (+6,2), Irlanda (+7,2), Regno Unito (+12,5), Svizzera (+17,8), Francia (+20,9), Germania (+24,8) e Olanda (+26,3).

«La cosa che veramente stupisce è il basso tasso d’occupazione dei nostri lavoratori» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Non è immaginabile una grande potenza industriale con numeri di questo livello. Ma in quadro economico così fragile e con una ripresa tanto debole, è anche sorprendente riscontrare che il tasso d’occupazione dei residenti extracomunitari sia addirittura superiore a quello dei nostri connazionali. Un’anomalia che, almeno in parte, dipende dalla disponibilità di questi lavoratori ad accettare occupazioni che ormai gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione. Ma questo non spiega tutto. Il nostro mercato del lavoro sconta un disallineamento strutturale tra offerta formativa e fabbisogni occupazionali delle aziende. E i nostri giovani sono costretti a percorsi di studio che li portano ad entrare tardi e male nel mercato del lavoro, rimanendo inoccupati per lunghi periodi di tempo».

Perseguitato (anche) da una tassazione feroce

Perseguitato (anche) da una tassazione feroce

Nel giugno 2015 il nostro Centro studi pubblicava, in allegato a Il Giornale, il volume “E IO PAGO – Manifesto Antitasse” che proponeva tra l’altro gli interventi di prestigiosi economisti e giornalisti a commento del nostro studio sull’Indice Fiscale dei Paesi europei. Tra questi anche quello dell’attore Paolo Villaggio, che riproponiamo nel giorno della sua scomparsa.

di Paolo Villaggio, alias Fantozzi rag. Ugo

Sono il ragionier Ugo Fantozzi, che gli amici più cari chiamano Fantocci e quelli cattivi Pupazzi. Il presidente galattico di questo Centro studi m’ha chiesto un intervento per esprimere un giudizio su una curiosa abitudine tipicamente nostrana: l’evasione fiscale. La cosa m’ha fatto molto piacere ma, essendo un uomo di cultura medio bassa, cercherò di improvvisare usando il mio italiano burocratico.

Comincio col descrivermi: sono coniugato da 30 anni con mia moglie signora Pina, alla quale ci voglio molto bene anche se col tempo m’è venuta a mancare l’attrazione sessuale perché lei, e non lo dite in giro, c’ha l’alito fognato. lo non sono bello, sono grasso e per anni sono stato eletto “il più brutto del condominio” e poi di tutto il quartiere. Se vado in ferie, anche nelle giornate di sole, esclusivo privilegio dei potenti, sono perseguitato da una nuvoletta da impiegato. E come se non bastasse sono spesso raggiunto da frane, alluvioni, da bombole di gas e piccoli incendi dolosi. Ma accetto tutto con rassegnazione come se fossero eventi meteorologici.

Dei giornali leggo solo le pagine sportive e la cronaca nera, gli articoli di fondo non li leggo perché li trovo scritti in sanscrito. Sono un uomo all’antica, temo le rivoluzioni culturali, i cortei degli studenti con gli striscioni che chiedono il rinnovo di tutto, ma io so che per loro quella è un’occasione per ballare e cantare come in un carnevale improvvisato, temo le femministe da battaglia perché penso che le femmine devono stare ai fornelli, a pulire la casa, allevare i figli e subire i programmi televisivi che io preferisco.

Ho uno stipendio fisso, fingo di lavorare perché ho messo a punto un’arte speciale: non apro una pratica per mesi e poi la accartoccio e la butto furtivamente nel cestino di un collega. Non sono felice ma quasi tranquillo. però sono perseguitato da una tassazione feroce. A me mi fa schifo pagare per un’assistenza che uno Stato quasi inesistente mi promette e non mantiene. Vi faccio una confidenza: io al bar sotto casa fingo indignazione per gli evasori fiscali e invoco per loro la fucilazione o la tortura. Ma fingo di essere onesto, dico di essere un brav’uomo rispettoso delle leggi ma sarei un evasore magistrale, un tangentista feroce, e alle volte sono costretto, per fare invidia a quelli dei bar, ad ammettere di essere un evasore totale. Insomma fingo perché la loro invidia mi rende quasi felice.

Lo so. dicono che sono noioso… Al bar del caffè della mattina parlo del tempo, sempre troppo caldo o troppo freddo, del traffico, delle buche naturali delle strade di Roma, delle partite di calcio che son tutte truccate, e qui c’è una pausa poi attacco: però-di-come-si-mangia-bene-in-Italia, che il nostro è il paese più bello dei mondo con un clima magnifico, per questo lo chiamano il Belpaese e gli stranieri ci vengono a frotte mentre in Germania fa freddo e si mangia di schifo e che in Inghilterra c’è la nebbia, che le coste della Norvegia e del Cile non si possono paragonare a quelle della Calabria perché noi siamo il paese col mare più pulito e che non andrei a vivere in Cile. Un cameriere cileno interviene con entusiasmo: «Allora voi siete stato in Cile?» «No mai» rispondo schifato, «e non c’andrei neppure se mi pagano». A questo punto faccio entrare trionfalmente in campo le lasagne di mia mamma, che come le fa mia madre non le fa nessuno e che gli arancini dei bar “da Nando” sono gli unici ai mondo.

Ho una qualità: sono abilissimo nel parlar male degli amici più cari ma li abbraccio affettuosamente tutte le volte che li incontro. Rubo nei supermarket bottigliette di tabasco ma mi piacerebbe rubare una manciata di Rolex nelle vetrine di via Condotti. Il mio sogno sarebbe non pagare le tasse ma me le trattengono dallo stipendio, per questo negli ultimi tempi son diventato quasi povero. Voi non lo sapete ma per i potenti le tasse non sono un problema perché sono degli acrobati dell’evasione. Una volta sono stato investito da un autobus, vado in ospedale con il braccio sinistro in mano a chiedere umilmente di riattaccarmelo, mi rispondono bruscamente: «C’è un po’ di attesa, ci lasci il braccio e torni fra un mese!». La sera stessa a casa accendo una tribuna politica. c’è un potentissimo che urlacchia: «Io ho perso un braccio in una rissa contro gli studenti di sinistra. Vedete però che il nostro Stato è sempre presente!» e orgogliosamente ne sventolava cucito uno nuovo. Non ci crederete, ma c’era ancora attaccato il mio vecchio orologio da polso. Però vi prego, non lo dite in giro che ho paura di passare dei guai.

C’era una volta il risparmio

C’era una volta il risparmio

di Gianni Zorzi* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Fiore all’occhiello del nostro sistema finanziario, simbolo della laboriosità e della capacità di risparmio ma anche calpestata nei mille casi di risparmio tradito e spesso trattata dallo Stato come bancomat a cui attingere per far quadrare i propri conti. È la ricchezza delle nostre famiglie, tanto grande da surclassare nei numeri l’enorme debito pubblico, tanto preziosa da spaventare non appena si affacciano i dubbi sulla tenuta del sistema bancario o rispunta qualche proposta di prelievo patrimoniali.

Un’analisi di ImpresaLavoro basata su dati Banca d’Italia, Sistema Europeo delle Banche Centrali, Ocse ed Eurostat fa il punto sulle tendenze nella ricchezza finanziaria delle famiglie, a dieci anni dall’inizio della crisi più grande della modernità, a 15 dalla fine delle banconote in lire e a 25 dal prelievo straordinario sui conti correnti realizzato in una notte. Dopo anni difficili, in termini nominali il volume di attività finanziarie è sul punto di raggiungere la soglia di 4mila miliardi che era stata registrata per l’ultima volta proprio a fine 2006. Il trend di lungo periodo della ricchezza finanziaria ha seguito in sostanza ciò che è stato per l’economia reale: come il Pil, le attività finanziarie sono tornate a crescere, ma non abbastanza per recuperare il terreno perso dall’inizio della crisi, e ancor meno se nel conto si considera l’inflazione.

In tutta Europa, solo la Grecia è più in ritardo di noi rispetto ai livelli del 2006: alcuni Paesi dell’Europa dell’Est nel frattempo hanno raddoppiato i loro volumi, mentre altri più maturi hanno visto incrementi netti considerevoli. Rispetto a dieci anni fa infatti, in Germania le famiglie sono più ricche di oltre 1.300 miliardi (+31,6 per cento), in Francia di oltre 1.200 (+31,9 per cento) e in Regno Unito di 1.900 miliardi di euro (+30 per cento). L’incremento in termini relativi è molto rilevante anche in Olanda (+55,9 per cento, pari a 800 miliardi) e in Svezia (+72,6 per cento ovvero 500 miliardi). La massa di banconote, depositi, titoli e gestioni in capo alle famiglie nel nostro Paese sta ritornando a circa due volte e mezza il Pil (242 per cento per l’esattezza), vicina ormai ai valori pre-crisi. In questo periodo abbiamo perso la leadership del risparmio privato rispetto ad alcuni dei Paesi più virtuosi: in Danimarca, Olanda, Belgio e Regno Unito le attività finanziarie delle famiglie pesano già oltre tre volte il Pil.

Per ogni euro di debito pubblico avevamo, prima della crisi, circa 2,5 euro in attività finanziarie private, scesi oggi a un livello ben inferiore (1,8), che peraltro non accenna a riprendersi da oltre sei anni. In questi termini, tuttavia, la variabile che si è mossa più rapidamente è quella del debito pubblico. Altri Paesi periferici dell’Eurozona, ad esempio, hanno subìto cali più bruschi poiché si sono nel contempo indebitati in misura maggiore e ora presentano dei coefficienti peggiori dei nostri: è il caso dell’Irlanda e del Portogallo, che assieme alla Grecia e a Paesi dell’Est come Croazia, Slovenia e Slovacchia ora arrancano in questa particolare graduatoria.

Di sicuro, il nostro dato rappresenta una brutta notizia per chi teme una patrimoniale a copertura del debito pubblico: nel malaugurato caso si dovesse ricorrere a questo strumento, l’aliquota dovrebbe essere fissata ancor più in alto di quanto non lo sarebbe stato uno o due decenni fa, per garantire una sua efficacia.

Ma non sono solo le tasse a tormentare il sonno dei risparmiatori italiani. La risoluzione delle quattro banche commissariate nel 2015 con l’azzeramento dei titoli subordinati, nonché l’entrata in vigore del bail-in l’anno dopo con la presa di coscienza sul rischio anche di quelli senior, ha spinto le famiglie a ridurre la propria quota in obbligazioni, specie di natura bancaria.

Nonostante tutto, risulterebbero ancora 440 i miliardi investiti in titoli obbligazionari, compresi quelli del debito pubblico. A fine 2016, secondo i dati Banca d’Italia, più di 136 miliardi sono ancora investiti in bond bancari, di cui oltre 27 a elevato rischio (subordinati). E nonostante i ripetuti default del mondo cooperativo, ci sono ancora più di 11 miliardi di risparmi impiegati nei prestiti sociali alle coop, utilizzati come dei semplici libretti ma senza le tutele che proteggono depositi bancari e postali. Quello delle obbligazioni è un vero e proprio primato italiano: il loro peso è dell’11 per cento sul totale delle attività in portafoglio, quasi il quadruplo rispetto alla media Ocse.

Un altro dato molto significativo riguarda il risparmio gestito: i nostri fondi pensione risultano in netto ritardo rispetto alla media internazionale (pesano appena per il 6 per cento dei portafogli: un terzo rispetto alla media Ocse), mentre al contrario fondi comuni e polizze vita hanno raccolto più del 25 per cento dei risparmi rispetto al 16 per cento della media Ocse. Gli incentivi fiscali sui Pir e la maggiore redditività del business del gestito rispetto ai depositi probabilmente accentueranno il fenomeno.

Su base regionale, è interessante un aumento della concentrazione della ricchezza nel Nord-Ovest (ora al 35 per cento), con una crescita molto rilevante degli asset finanziari tra le famiglie lombarde e una minore concentrazione tra quelle piemontesi e liguri. Si è ridotta negli ultimi anni la concentrazione di attività finanziarie nel Nord-Est, con l’importante eccezione delle famiglie venete che risultano comunque stabili. In aumento invece la ricchezza delle famiglie del Centro, a discapito di quelle del Sud. In generale le famiglie del Mezzogiorno risultano però meno indebitate che in passato, al contrario di quelle del Nord-Ovest e del Centro.

Più rilevanti ancora le variazioni nella distribuzione della ricchezza per classi d’età: rispetto a vent’anni fa si è dimezzata la quota di asset in mano agli under 44, mentre è più che raddoppiata per la classe d’età al di sopra dei 64 anni. Le fasce più anziane della nostra popolazione ora detengono quasi la metà di tutti gli asset finanziari, mentre tre quarti dell’indebitamento privato è a carico di nuclei in cui il capofamiglia ha meno di 54 anni. I dati sull’indebitamento delle nostre famiglie sono comunque in generale rassicuranti: seppur quasi triplicato in vent’anni rispetto al reddito disponibile, ha sostanzialmente tenuto negli anni di crisi fermandosi alla quota del 90 per cento. La crescita rispetto al 2006 è di soli 13 punti.

*docente di finanza dell’impresa e dei mercati

**ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

PIÙ DEBITI, MENO CONSUMI: UN PAESE BLOCCATO

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

L’impoverimento delle famiglie italiane non si evince soltanto dal loro maggiore indebitamento rispetto al passato. A spaventare è innanzitutto l’ormai sistemica crisi economica che da un decennio blocca la crescita del Paese. La mancanza di fiducia nel futuro porta così alla contrazione dei consumi, che la politica dei bonus elargiti a pioggia non ha in alcun modo saputo rilanciare. Chi può decide di mettere da parte i propri soldi, in attesa di tempi migliori, senza però riuscire a eludere la voracità del fisco: negli ultimi anni la tassazione sul risparmio è infatti più che raddoppiata. Più in generale, a impoverire le famiglie è anche la scarsa qualità (specie nel Meridione) di molti servizi pubblici che pure dovrebbero essere assicurati quale corrispettivo delle imposte versate.