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Contabilizzare le attività illecite?

Contabilizzare le attività illecite?

Mario Lettieri e Paolo Raimondi – La Gazzetta del Mezzogiorno

Nel 2014 gli Stati membri dell’Unione Europea apporteranno cambiamenti importanti nei metodi di contabilità nazionale per la definizione del Prodotto interno lordo (Pil) e del Reddito nazionale lordo. Non si tratta di un’opzione ma dell’attuazione di una direttiva dell’Onu. Gli Usa l’hanno adottata nel 2013. Adesso tocca all’Europa. Di conseguenza i parametri di Maastricht saranno profondamente modificati, anzitutto i rapporti decifit/Pil e debito/Pil utilizzati, come è noto, per definire la situazione della finanza pubblica dei singoli Paesi. I mercati ovviamente ne tengono conto per decidere i loro comportamenti finanziari. Ad esempio, lo spread naturalmente riflette anche il livello di tali rapporti. Le organizzazioni internazionali e sovranazionali di controllo oggi li valutano per imporre politiche restrittive o commisurare sanzioni nei confronti di chi li viola. In Europa il Reddito nazionale lordo è utilizzato per determinare il contributo di ciascun Paese al bilancio dell’Unione.

È da decenni che si parla della necessità di migliorare il sistema di contabilità nazionale in quanto i metodi utilizzati sono notoriamente insoddisfacenti. Il parametro del Pil infatti fu “inventato” nel lontano 1934 ed è stato un utile riferimento anche se ritenuto altamente impreciso finanche dai suoi promotori. Il problema della riforma oggi è l’introduzione di proposte intelligenti e necessarie e di altre purtroppo davvero improponibili anche sul piano etico. Ad esempio, le spese in Ricerca e Sviluppo, fino ad oggi considerate come costi intermedi, verranno conteggiate come spese di investimento perché contribuiscono, come capitale intangibile, alla crescita della capacita produttiva. Ciò comporterà un impatto positivo sulla domanda aggregata e quindi sul Pil. Però anche le spese per gli armamenti saranno contabilizzate come spese di investimento! E qui incomincia la “perversione” del nuovo metodo contabile. Con il Pil si misura non solo la forza economica di un Paese ma anche la sua serietà e la sua affidabilità. Ne consegue che le dittature militari, che preparano una guerra di aggressione, diventano, con i numeri delle loro economie, degli esempi virtuosi da imitare!

La nuova riforma perciò supera tutti i limiti della decenza laddove introduce nel nuovo calcolo del Prodotto interno lordo anche le attività illegali. Di fatto la nuova direttiva indica esplicitamente che “le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: il traffico di sostanze stupefacenti, la prostituzione ed il contrabbando”. Sarà addirittura l’Eurostat a stabilire le linee guida della metodologia di stima. Tutto ciò è giustificato “in ottemperanza al principio secondo il quale le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico”. È proprio l’avverbio “indipendentemente” che contiene il virus piu distruttivo per la società ed il benessere dei suoi cittadini. Allora anche la rapina diventa un’attività economica, “indipendentemente” dal fatto che distrugge l’ordine sociale e uccide. Anche una guerra di aggressione diventa un evento economico di grande profitto, “indipendentemente” dal fatto che comporta distruzioni, genocidi e fame. È una vera e propria aberrazione. Anche se vi fosse l’esigenza di conoscere l’ammontare delle singole e di tutte le transazioni finanziarie, non sarebbe comunque giustificato il vulnus allo status giuridico. Ma che le attività illegali entrino di diritto a far parte del Pil che poi determina alcuni parametri che influiscono sulla vita dei Paesi e di intere popolazioni è inaccettabile.

È in atto una enorme campagna mediatica per dimostrare la bontà delle nuove regole. Si sottolinea in particolare che tutti i governi europei ne beneficeranno in quanto i parametri di Maastricht verrebbero ridefiniti a loro favore. Se il Pil aumenta allora si guadagnano dei margini sul famoso 3% relativo al rapporto deficit/Pil. Anche il rapporto Pil/debito pubblico migliorerebbe. Pazzesco! Il Trattato di Maastricht diventa così il verbo intoccabile. Invece di cambiarlo si pensa di produrre dei dati “falsi” per aggirarne gli effetti più negativi. Eppure è noto che anche il magico 3% non ha alcuna base scientifica. Fu definito arbitrariamente da un giovane impiegato del governo francese nel 1981 su richiesta del presidente Francois Mitterand che, sembra, necessitasse di mettere freno alle astronomiche promesse di spesa pubblica fatte durante la campagna elettorale.

Se le spese di R&S fossero giustamente conteggiate il Pil aumenterebbe del 5 % in Svezia, del 3% in Germania e Francia e di poco più dell’1% in Italia. Ma che fare con le attività illegali notoriamente difficili da quantificare? Se si prendessero i dati della Banca d’Italia sull’economia illegale, allora il nostro Pil dovrebbe aumentare dell’11%. E secondo l’Istat, nel 2010 l’intera economia sommersa “valeva” circa il 17% del Pil. Riteniamo che la crisi economica che investe i Paesi dell’Ue non si risolva così: il rimedio ci sembra peggiore del male. Ogni ripresa economica non può prescindere dalla legalità a tutti i livelli e ha bisogno di ben altro rispetto al “trucco contabile” proposto.

Attrarre multinazionali con un fisco più competitivo

Attrarre multinazionali con un fisco più competitivo

Andrea Tavecchio – Corriere della Sera

Il 22 settembre scorso l’Internal Revenue Service (l’agenzia delle entrate statunitense) e il dipartimento del Tesoro hanno decretato una radicale, sofisticata e immediata modifica delle regole sulla tassazione per le imprese che, fondendosi, riuscivano a spostare la sede fiscale fuori dagli Usa, godendo così di vantaggi fiscali. Un esempio più recente, anche se non andato a buon fine, è quello dell’offerta da 100 miliardi di euro della società farmaceutica americana Pfizer agli azionisti della concorrente inglese AstraZeneca. La mossa del governo Obama ha reso esplicito che è considerato interesse nazionale primario mantenere i quartieri generali delle multinazionali negli Usa. La competizione fiscale internazionale diventa ogni giorno più serrata e Washingon ha battuto un colpo fortissimo: bene il mercato, la finanza e la concorrenza, ma in campo fiscale l’America viene prima di tutto.

In questa competizione, l’Italia è, non da oggi, un vaso di coccio. Non sembra avere, infatti, né una esatta strategia per attrarre capitali e lavoro qualificato né la forza anche culturale, come gli Stati Uniti, di fare guerra nei fatti al tax planning che le multinazionali, legittimamente, mettono in atto per abbassare il loro carico fiscale complessivo. Il governo Renzi, che ha un capitale politico importante, potrebbe dare una svolta se agisse in modo ordinato, non ideologico e rapido. Un primo segnale potrebbe venire già dal Jobs act se, nel merito, fosse effettivamente innovatore. Subito a seguire bisognerebbe approvare una pacchetto di norme per modernizzare la tassazione dei redditi da attività tipiche di holding (come dividendi e royalties) e rendere più veloce il sistema dei visti facilitando, anche fiscalmente, chi da straniero viene a vivere o lavorare in Italia. Sarebbero solo primi passi, ma darebbero un segnale importante. Mantenere ed attrarre quartieri generali di multinazionali in Italia è diventata – finalmente – una priorità politica. Come nel resto del mondo.

Ora il bazooka è nelle riforme

Ora il bazooka è nelle riforme

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Il programma di acquisti di titoli privati, al centro delle decisioni di ieri della Bce, dovrebbe dare un ulteriore contributo alla strategia di politica monetaria contro un quadro deflattivo sempre più preoccupante. Ma non dobbiamo attenderci effetti immediati come dopo il famoso annuncio del luglio 2012 e tanto meno credere che la battaglia contro la Grande Depressione possa essere combattuta e vinta solo dai generali di Francoforte.

Sul primo punto, quello più strettamente attinente alla politica monetaria, Draghi sottolinea da tempo la complessità del quadro macroeconomico generale, caratterizzato dalla necessità di riassorbire gli squilibri strutturali accumulati dall’Europa negli anni precedenti la crisi e che nel 2012 rischiavano di far implodere l’unione monetaria. Allora, impegnandosi a fare «tutto il necessario», Draghi ottenne effetti quasi taumaturgici perché, una volta spezzate le aspettative pessimistiche, i mercati si riportarono velocemente verso condizioni di normalità e i tassi di interesse (spread inclusi) crollarono ai livelli attuali. Ma neppure nella città di San Gennaro si può pensare che dalla crisi deflattiva si possa uscire con una manovra analoga, anche se di proporzioni ancora maggiori.

Questo non deve portare a sottostimare l’impatto delle armi che la Bce sta mettendo in campo. Fin da questo scorcio di 2014, le operazioni a lungo termine finalizzate alla concessione di prestiti (Tltro) saranno affiancate da acquisti di titoli provenienti da securitisation di prestiti alle imprese (Abs) e da covered bonds. Considerati i vincoli tecnici e gli ostacoli politici che la Bce ha dovuto superare (ancora ieri sul Financial Times la vestale dell’ortodossia teutonica, Hans-Werner Sinn, tuonava contro gli acquisti di «titoli tossici») si tratta di un risultato estremamente importante. La Bce di Mario Draghi è riuscita a interpretare un mandato fin troppo restrittivo per adattare ai problemi di oggi il concetto del credito di ultima istanza teorizzato nell’Ottocento da Walter Bagehot e che ha portato sempre le banche centrali ad assumersi rischi provenienti dal settore reale dell’economia. Le operazioni Abs di oggi equivalgono al risconto di cambiali industriali di un tempo.

Ma c’è di più. Via via che la crisi si aggrava, la diagnosi si fa sempre più dettagliata e mostra che il problema non è riconducibile solo al fatto che le banche non concedono prestiti all’economia perché hanno accumulato squilibri profondi e perché non hanno abbastanza liquidità. Se così fosse, sarebbe davvero sufficiente imbottirle di fondi a basso prezzo fino a quando si decideranno a trasmetterle al sistema produttivo. Purtroppo non è così semplice.

Pochi giorni fa, un autorevole membro del direttivo della Bce, Benoît Coeuré, ha detto che esiste un circolo vizioso fatto di bassi investimenti, crescita deludente e credit crunch, che tocca tutti i soggetti. Gli investimenti privati sono crollati dopo la crisi non solo per mancanza di fondi e tanto meno di profitti lordi (i conti finanziari dicono che in Europa da tempo le imprese sono fornitrici nette di fondi al resto dell’economia), mentre per l’Italia i dati Mediobanca confermano che le grandi imprese hanno investito più in finanza che in impianti, e hanno oggi proventi finanziari superiori (e non di poco) al costo dei debiti. E per contro ci sono imprese che hanno accumulato debiti difficilmente sostenibili e che non troveranno certo in altre dosi di debito la soluzione ai loro problemi, tanto più che le loro prospettive di reddito peggiorano di giorno in giorno. In mezzo ci sono le imprese che sono riuscite a mantenere o addirittura a migliorare i livelli di attività e di vendite all’estero: è questa la fascia che, come dimostrano anche ricerche della Banca d’Italia è stata ingiustamente colpita dal credit crunch nei giorni peggiori della crisi. Ma gli ultimi dati e un recente documento del Financial Stability Board sembrano indicare che almeno in linea generale questo problema stia rientrando e che dunque il credit crunch sia oggi da attribuire più al peggioramento del quadro macroeconomico che aggrava i rischi per le banche che ad un’indiscriminata restrizione dell’offerta.

Proprio questo rinvia al secondo grande tema della strategia che la Bce sta ponendo in essere. La manovra monetaria da sola è insufficiente se non affiancata da politiche economiche adeguate e da riforme strutturali che diano nuovamente slancio all’economia e che facciano ripartire i meccanismi bloccati dell’investimento privato e pubblico. E anche nel campo della finanza d’impresa ci sono riforme strutturali urgenti, che non a caso si ritrovano nei documenti della Bce e nel discorso di Coeuré prima citato. Le imprese in Europa ma anche (e soprattutto) in Italia hanno bisogno di più capitale, non solo di più debiti e ciò comporta grandi trasformazioni che devono essere agevolate da politiche adeguate, che vanno da quelle per favorire la crescita dimensionale di un sistema produttivo come quello italiano caratterizzato da imprese troppo piccole rispetto alla globalizzazione di oggi, a quelle per ampliare i flussi di finanziamento alle imprese intermediati dal mercato finanziario, passando per quelle che consentano la ristrutturazione finanziaria (con immissione di capitali propri) delle imprese sane ma finanziariamente fragili.

È questo l’elenco dei “compiti a casa” che l’Europa, con la Bce in testa, attende per completare l’azione della politica monetaria. E qui Draghi non solo ha ricordato che il Patto di stabilità e crescita rimane «l’àncora della fiducia sulla sostenibilità del debito pubblico» (e a qualcuno in molte capitali europee sono fischiate le orecchie) ma ha anche ammonito che in alcuni Paesi il processo di riforma sembra decelerare rispetto agli annunci. E qui il sibilo è diventato boato.

Per l’Europa il tempo di una svolta è adesso

Per l’Europa il tempo di una svolta è adesso

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Dire che l’Europa è sull’orlo del collasso è dire poco. Più realisticamente si potrebbe notare che nel collasso si è già auto-catapultata da anni, a cominciare dagli errori di gestione sul caso-Grecia. O, forse, bisognerebbe ammettere che la scommessa di partire da un’unione monetaria per arrivare a quella politica, cioè il contrario esatto di quello che storia, economia e logica suggerivano, è perdente e presenta il suo conto tremendo.

Fatto è che dopo lo “strappo” sul bilancio della seconda economia dell’eurozona, la Francia, hanno parlato la terza (cioè l’Italia) e la prima (la Germania). «Io sto con Hollande, noi rispetteremo il vincolo del 3% ma Parigi ha ragione», ha detto il premier Renzi in trasferta a Londra dove ha saldato un nuovo asse anti-austerity con la Gran Bretagna di David Cameron, paese che è fuori dall’eurozona. «Dovete fare i compiti e rispettare gli impegni», ha tagliato corto la Cancelliera tedesca Angela Merkel rivolta a Parigi e Roma. «Non ci tratti da scolari», ha risposto Renzi. Ecco, questa è oggi l’Europa. Non bastasse, da Napoli è arrivata la conferma, via Bce, che la politica monetaria, nell’eurozona dei maestri e degli studenti discoli, non può fare da supplente e risolvere problemi che non sono alla sua portata, come più volte ricordato da Mario Draghi. I mercati hanno preso atto, Milano è caduta a picco.

Delle due l’una. O l’Europa, Berlino in testa, mette in campo una nuova politica economica che a partire dagli investimenti necessari e da una riconsiderazione delle regole di governance sia capace di ribaltare le prospettive dell’economia reale o collassa definitivamente. Mercoledì 8 ottobre si terrà a Milano il vertice europeo sul lavoro. Siamo nel semestre di presidenza europea a guida italiana, cioè della coppia Renzi-Padoan, sul quale erano state costruite, sbagliando, aspettative di successo enormi. Il minimo che si possa fare ora è lavorare per una sterzata, chiara nei modi, nei tempi e nelle risorse, a favore della crescita. Il minimo, che è poi la vera enormità, per non condannarsi al crac, nell’interesse dell’Europa e anche del nostro.

Con un occhio al quadro interno

Con un occhio al quadro interno

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Può esistere oggi un’alleanza in funzione anti-austerità fra le cancellerie europee che soffrono il rigore tedesco? Fino a ieri era un’ipotesi di scuola e anche ora, nonostante le apparenze, non sembra che una tale svolta sia a portata di mano. Ma la mossa di Parigi che decide di non rispettare il parametro del deficit ha una portata politica e Renzi l’ha colta al volo. Con una sottolineatura che però fa tutta la differenza: a differenza della Francia, dice il presidente del Consiglio, l’Italia intende rispettare il vincolo del 3 per cento. Questo significa che non c’è una vera alleanza strategica fra due capitali che hanno problemi molto diversi: se ci fosse, le conseguenze sui mercati sarebbero poco piacevoli per entrambe (lo ha spiegato bene Carlo Bastasin su queste colonne).

Quella che appare una convergenza anti-tedesca è più che altro una congiuntura vissuta da ogni paese a suo modo e in base a specifiche convenienze. Il governo socialista di Parigi deve puntellare se stesso e tenere a bada l’estrema destra di Marin Le Pen. E il nostro Renzi, cui invece il consenso interno non manca, si gioca una partita fatta di rapide incursioni e di frasi memorabili. La sentenza di ieri («Non siamo scolari a cui si deve impartire una lezione») è ovviamente indirizzata ad Angela Merkel ed è resa possibile dal varco aperto da Hollande. Quindi, nel momento in cui fa capire che la questione del deficit divide Parigi da Roma e che l’Italia intende attenersi nella sostanza all’ortodossia europea, Renzi dimostra di voler sfruttare fino in fondo l’occasione mediatica offerta dalla mossa francese.

Non solo. C’è un terzo soggetto sul palcoscenico ed è l’inglese Cameron che ieri ha incontrato il collega italiano. Anche il governo di Londra, come è noto, ha bisogno di recuperare terreno nell’opinione pubblica e di tenere a bada i laburisti. Senza cedere troppo terreno ai nazionalisti di Farage, ossia – grosso modo – all’equivalente britannico di quel partito anti-euro che in Germania sta creando non pochi pensieri alla Merkel. Vale la pena ricordare che poco tempo fa la stampa inglese espresse grande delusione verso il premier italiano che aveva rinunciato a sostenere la campagna di Cameron contro la nomina di Juncker a presidente della Commissione. Il che significa che anche in questo caso, al di là delle dichiarazioni di facciata, non esiste un’ipotesi di asse strategico con la Gran Bretagna, paese che fra l’altro non aderisce all’euro.

In parole povere, Renzi si è affrettato a cavalcare anche a Londra l’onda provocata dal colpo di coda francese. La Merkel registrerà il sussulto, ma è dubbio che voglia o possa cambiare qualcosa nelle politiche europee. Vedrà quello che vedono tutti: e cioè che la polemica Francia-Italia-Gran Bretagna è la somma di tre diversi risentimenti. Tutti a vario titolo giustificati, ma insufficienti nel loro insieme a imporre una virata a Berlino. Tanto più che l’ascesa degli anti-euro potrebbe indurre la Cancelliera a indurire l’atteggiamento verso i partner, non ad addolcirlo con il rischio che gli elettori tedeschi la prendano male. Come dire che ognuno recita una parte con la mente rivolta alla politica interna. Renzi su questo terreno non è da meno degli altri. Così nel giorno in cui i mercati si mostrano assai delusi dall’intervento di Draghi, il nostro premier si prepara a un’altra pagina della sua personale battaglia combattuta con un occhio e mezzo all’elettorato. È dubbio che egli riesca a cambiare verso all’Europa, ma certo dopo il passo francese il palcoscenico è più animato.

Renzi non si accodi a Hollande

Renzi non si accodi a Hollande

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Renzi sembra quella di accodarsi alla Francia nel chiedere flessibilità per il bilancio 2015 e seguenti. Una tentazione diabolica per un cattolico praticante (sempre Renzi) che si batte il petto tutte le domeniche. È come recarsi alle corse dei cavalli e puntare sul perdente. Una follia. Quando è cominciata l’avventura presidenziale di Renzi, l’abbiamo scritto con insistenza: era necessario creare un fronte dei paesi per i quali necessitano misure speciali di sostegno, in modo che la Merkel e l’Europa fossero costretti a trattare. Invece no. A Bruxelles il nostro «boy-scout» s’è pavoneggiato di un’intesa, tutta da verificare, con la cancelliera tedesca e ha inciso come può incidere un piccolo moscerino sulla pelle di un cavallo da tiro.

Quando s’è trattato di discutere gli incarichi nella Commissione si è autolimitato designando l’inesistente Mogherini che, in quanto tale, è stata accettata dopo qualche piccolo mal di pancia. Se Moscovici, commissario francese agli affari economici, mette le mani avanti evocando le difficoltà che incontrerà sul dossier francese, figuriamoci la nostra commissaria (alta) alla politica estera e di sicurezza. Dobbiamo confessare che, leggendo i triboli della Francia, abbiamo pensato ai risolini a proposito dell’Italia (dell’Italia, non di Berlusconi) del duo Sarkozy-Merkel in una famosa conferenza stampa e non ci siamo dispiaciuti delle difficoltà transalpine.

Si tratta di «mal italiano», cioè dell’assenza delle riforme liberamente convenute in sede europea con l’approvazione del «Fiscal compact» e delle conseguenti direttive. La cura francese aggraverà la malattia, visto che si pensa di combattere la recessione con deficit ben al di fuori del 3% tabellare. Ecco, l’inesperienza e la supponenza potrebbero condurre Matteo Renzi sulla strada del disastro. Il sistema di dichiarare «fatte» le riforme approvate, anche in semplice cartellina, dal consiglio dei ministri è ormai al capolinea.

La legge di stabilità metterà una parola definitiva, almeno per il 2015, alle evoluzioni verbali del nostro «premier»: certo, nell’attuale situazione, sarà difficile che l’Unione nomini tre commissari (la Troika) per governare il risanamento delle finanze pubbliche italiane e per aggredire il debito pubblico. La soluzione che sembra consolidarsi nei corridoi di Palazzo Berlaymont (sede dell’Ue), in vista dell’insediamento della nuova commissione, consiste in un cronoprogramma vincolante di riforme (definite nei loro contenuti minimi, in modo che il teatrino dell’art. 18 non possa più ripetersi). Rispetto a esso, il governo e il Parlamento italiani hanno solo il compito di procedere con rapidità effettiva, trasformando in modo sostanziale la struttura socio-economica della Nazione. Il mercato «tout-court», cioè la concorrenza vera, le strutture pubbliche, protette e deficitarie, il welfare, la sanità, l’idrovora regioni. Insomma un’azione seria condotta a tamburo battente, pena, appunto, il ricorso ai commissari.

Saranno capaci questo governo e questo Parlamento di affrontare e vincere la sfida? C’è da dubitarne, visto il livello e, soprattutto, i condizionamenti di un passato che non ci si decide a seppellire. La verità vera è che, comunque, fra breve il passo cambierà. Resta da capire chi sarà protagonista del cambiamento, dato che le cicale politiche italiane risultano, sin qui, incapaci di trasformarsi in formiche.

I risparmi dei nonni ci salvano dalla crisi

I risparmi dei nonni ci salvano dalla crisi

Antonio Angeli – Il Tempo

Altro che welfare e compagnia bella: le famiglie italiane le salvano i nonni e le nonne. Nel giorno della loro festa un sondaggio svela che è grazie agli anziani che sopravvivono i giovani. I nonni con i loro risparmi sono di aiuto a più di una famiglia su tre (37 per cento) ma per il 17 per cento sono anche una fonte di consigli e suggerimenti che a volte si trasformano in occasioni di lavoro per i nipoti. È tutto in una indagine on line pubblicata sul sito www.coldiretti.it, effettuata in occasione del 60esimo anno dalla nascita di «Donne impresa» Coldiretti, con la prima mostra sui business delle tradizioni. Dal ritorno dei tessuti naturali su un telaio di 200 anni fa, agli «agridetersivi» ecologici che sfruttano le proprietà delle erbe aromatiche, agli abiti anallergici con tinture vegetali, ma anche la riscoperta delle conserve della nonna (sono sempre la migliori) al recupero di bevande antiche che non temono la crisi. Sono solo alcuni dei suggerimenti dei nonni che alimentano il business della tradizione, censiti dalla Coldiretti.

L’inventiva delle imprenditrici della Coldiretti, che dimostra concretamente che la tradizione può rappresentare un vero e proprio business è notevole ed è presente in tutte le regioni. Tra le idee particolari ci sono quella della manager sarda che partendo dall’allevamento del baco da seta di razza «Orgosolo» ottiene attraverso una sapiente tessitura su un telaio antico di 200 anni fa «su Lionzu», il copricapo del costume tradizionale femminile di Orgosolo, una benda di seta grezza color giallo ocra che fascia completamente il capo. Il percorso dal baco all’atelier, annuncia la Coldiretti, è lungo e faticoso, ma il risultato è eccellente, i fili vengono fatti passare attraverso una serie di paletti piantati nel terreno e controllati dalle donne più esperte che ne dirigono gli scambi. Dopo questa operazione viene preparata una treccia densa e cangiante di seta che verrà lavorata col telaio formando il tessuto finito.

Nella giornata dedicata alle nonne e ai nonni d’Italia, ieri, due ottobre, riconosciuta Festa nazionale, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha rivolto i suoi «auguri di ogni bene alle italiane, agli italiani e a quanti nel nostro Paese beneficiano del legame affettuoso con le rispettive e i rispettivi nipoti». E ancora: «Rivolgo tuttavia il mio saluto e i miei auguri anche alle donne e agli uomini di generazioni più giovani, comprese quelle giovanissime, che con le madri e i padri dei propri genitori si scambiano sentimenti positivi, conoscenza, compagnia. La festa di oggi li riguarda». «È nella trasmissione di ricordi e insegnamenti – ha aggiunto il capo dello Stato – da parte delle persone anziane e degli anziani e di preziosi stimoli da parte delle più giovani e dei più giovani una delle fonti profonde di benessere interiore per una società. Buona giornata delle nonne e dei nonni, dunque, a loro e non soltanto a loro». «Auguri anche a quanti trovano sostegno dal contributo di nonne e nonni alla crescita delle giovani generazioni, a figli e nipoti che donano attenzione, e in molti casi assistenza, ai festeggiati di oggi così favorendo la circolazione di risorse ed energie vitali per i cittadini dell’intero Paese», ha concluso il presidente Napolitano.

Lotta ai furbi con il nuovo calcolo del reddito

Lotta ai furbi con il nuovo calcolo del reddito

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Il nuovo Isee, il meccanismo con il quale viene misurata la ricchezza delle famiglie e in base al quale vengono assegnati i diritti ad accedere alle prestazioni sociali in misura ridotta o piena, partirà da gennaio 2015. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha precisato che tutto era pronto anche prima ma si è preferito aspettare per evitare problemi. «Abbiamo valutato, su richiesta degli enti locali, non opportuno anticipare», in modo che, spiega, «tutti abbiano il tempo, altrimenti si arriva all’ultimo giorno e i cittadini diventano matti». E fa sapere che nelle prossime settimane arriverà la modulistica.

Il nuovo Isee, introdotto dal governo Letta, ha come obiettivo di combattere i furbi e lo scandalo dei finti poveri stabilendo un rapporto diretto tra il reddito reale disponibile e l’accesso al welfare. Come? L’autocertificazione è stata ristretta a poche voci mentre i dati fiscali più importanti come il reddito complessivo e quelli relativi alle prestazioni ricevute dall’Inps saranno compilati direttamente dalla pubblica amministrazione. Il vecchio Isee, in vigore dal 1998, lasciava ampi margini di discrezionalità a chi lo compilava, giacché tutto era auto-dichiarato ed erano in molti ad approfittarsi della fiducia che veniva accordata. Così si verificava lo scandalo di chi arrivava all’università in Ferrari e godeva di una serie di agevolazioni fiscali. Dal documento che accompagnava il decreto di riforma dell’Isee, quando fu aprovato dal governo Letta, emergeva che l’80% dei nuclei familiari in riferimento al patrimonio mobiliare dichiara di non possedere neanche un conto corrente o un libretto di risparmio. Ora invece verranno incrociate le diverse banche dati fiscali e contributive e si darà maggiore attenzione alle famiglie numerose e alle disabilità. L’Isee terrà conto di tutte le forme di reddito, persino quelle fiscalmente esenti, e darà più peso alla componente patrimoniale.

Il nuovo indicatore della ricchezza considera anche la perdita del lavoro e l’onere dell’affitto. Qualora la perdita di lavoro o la cassa integrazione comporti una riduzione del reddito superiore al 25%, sarà possibile aggiornare il proprio Isee. È stato elevato l’importo massimo del costo dell’affitto che si può portare in detrazione del reddito ai fini del calcolo dell’indicatore della ricchezza familiare: da 5.165 euro è stato portato a 7.000 euro con un incremento di 500 euro per ogni figlio convivente successivo al secondo. Aumentano anche le franchigie per ogni figlio successivo al secondo e ci sarà la possibilità di considerare la situazione dell’anziano non autosufficiente che ha figli che possono aiutarlo e quella di chi non ha nessuno. Per gli immobili, si considera patrimonio solo il valore della casa che supera l’ammontare del mutuo ancora attivo, mentre viene riservato un trattamento particolare alla prima casa.

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

Il Giornale

Nuova batosta in arrivo. I conti non tornano. E così per il pareggio di bilancio nel 2017 il governo ha previsto la clausola di salvaguardia da introdurre nella legge di stabilità che ipotizza l’aumento dell’Iva. Che cosa significa? «Una perdita di Pil pari a 0,7 punti percentuali a fine periodo dovuta a una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3 punti percentuali e un aumento del deflatore del Pil di pari importo», recita la Nota di aggiornamento al Def trasmessa dal governo al Parlamento. La legge di stabilità, riporta il documento, «conterrà una clausola di salvaguardia automatica con la quale il governo si impegna ad assicurare la correzione necessaria a garantire il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio a partire dal 2017». In particolare, «è ipotizzata una clausola sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette per garantire il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine per un ammontare di 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi e 21,4 miliardi nel 2017 e nel 2018».

Insomma, la stangata sui consumi è assicurata. Ed è subito rivolta tra le associazioni di categoria, da Confcommercio a Confesercenti. «Un eventuale nuovo inasprimento della pressione fiscale, già a livelli da record mondiale, attraverso l’ennesimo aumento delle aliquote Iva e delle imposte indirette, acuirebbe la crisi strutturale che caratterizza il sistema Italia», ha affermato il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. «In Italia è stato commesso l’errore di aumentare la pressione fiscale in un contesto già depresso. I margini delle imprese – ha sottolineato – sono al limite della sopravvivenza, i redditi e la ricchezza delle famiglie hanno subito una riduzione di entità senza precedenti nella nostra storia economica». «Mantenere il raggiungimento del pareggio di bilancio è un obbligo – ha aggiunto Sangalli -, ma è altrettanto evidente che per raggiungere questo obiettivo la via da seguire è tagliare la spesa pubblica improduttiva, visto che ci sono circa 80-100 miliardi di spesa ritenuti aggredibili».

Il ricorso alla clausola di salvaguardia è stato bocciato senza mezzi termini anche dalla Confesercenti. «Sarebbe una mossa sbagliata, non è questa la strada», ha detto il presidente Marco Venturi, che ricorda come la categoria si sia già lamentata per i due precedenti aumenti dell’Iva al 21% e al 22%. «In una situazione di crisi, con i consumi che vanno male e il commercio in fortissima difficoltà, se l’Iva dovesse aumentare, le famiglie sarebbero indotte a stringere ancora di più i cordoni della spesa. E se non ci sono i consumi si potrebbe verificare un’ulteriore frenata della crescita». Occorre piuttosto, secondo Venturi, «creare condizioni di fiducia, altrimenti si rischiano ripercussioni anche sul mercato del lavoro e dell’occupazione». Quanto alla possibile disponibilità del Tfr in busta paga Venturi commenta «non so a cosa possa servire se non a pagare più Iva».

Fortemente critici anche gli esponenti di Forza Italia e Ncd. «La clausola sull’Iva salvaguarda la Ue, salvaguarda il governo, ma non le tasche dei cittadini», ha scritto su Twitter il deputato di Fi Luca Squeri. Sulla stessa lunghezza d’onda Raffaello Vignali, responsabile Sviluppo economico del Ncd: «L’Ue smetta di guardare solo ai bilanci pubblici. L’ipotesi di una clausola di salvaguardia da inserire nel Def resta un’eventualità preoccupante, un clamoroso autogol per il Paese».

Conti pubblici, scompare la spending review. Nel Def i tagli del 2015 si fermano a 5 miliardi

Conti pubblici, scompare la spending review. Nel Def i tagli del 2015 si fermano a 5 miliardi

Mario Sensini – Corriere della Sera

Nelle 144 pagine del documento viene citata solo un paio di volte, e sempre per inciso. E nei numeri del bilancio si vede assai poco, anzi quasi per niente. Della «spending review», a cui il governo Renzi affidava il finanziamento di buona parte dei nuovi programmi di spesa, a cominciare dal bonus degli 80 euro ai lavoratori dipendenti, si è persa la traccia. Nella Nota di Aggiornamento al Documento di economia e finanza, varata martedì, quasi non se ne parla, mentre il bilancio programmatico, che tiene conto delle misure da varare con la prossima Legge di Stabilità, prevede solo una minima riduzione della spesa pubblica. La correzione dovuta alle nuove misure di bilancio, per l’aggregato della spesa della pubblica amministrazione, è pari ad appena 0,3 punti di Pil. Una misura molto lontana dalle attese sulla spending review.

I nuovi tagli del 2015 si fermano a 5 miliardi di euro, quando solo fino a poche settimane fa si ipotizzava, con la spending review, una sforbiciata di almeno 13 miliardi, obiettivo già ridotto rispetto a quello di 15-16 da cui si era partiti. Nel 2016, addirittura, la spesa tendenziale e quella programmatica coincidono, quindi non è previsto nessun taglio. Però, per il 2016, è spuntata fuori una clausola di salvaguardia che prevede un aumento dell’Iva e delle imposte indirette per 12,4 miliardi destinata a garantire il raggiungimento del pareggio, che nel 2017 sale a 17,8 e nel 2018 a 21,4 miliardi di euro.

Non è detto che finisca così, ma allo stato c’è un aumento delle tasse al posto di quello che avrebbe dovuto essere un taglio di spesa. Sicuramente ha inciso la necessità di offrire garanzie solidissime a Bruxelles, già preoccupata per la decisione di rallentare il risanamento: uno scatto automatico dell’Iva o delle accise deciso già ora con la legge di bilancio tranquillizza molto più di un taglio di spesa scritto solo sulla carta. Può esserci anche un’altra ragione: un aumento delle tasse di quella dimensione, come dice il governo, ridurrebbe il Pil di 0,7 punti l’anno, ma un pari taglio della spesa farebbe danni quasi doppi, alla crescita. E oggi non sarebbe un buon segnale per un governo che, per avere più tempo per risanare, deve convincere Ue, partner e mercati che questa sua politica economica porterà il Paese a crescere molto di più in futuro.

Fatto sta che oggi almeno nelle carte la revisione della spesa si è sgonfiata. La manovra 2015, cioè i soldi del bonus, gli sgravi Irap, i fondi alla scuola e ai Comuni, i nuovi ammortizzatori sociali, si farà per 11,5 miliardi in deficit. Altri 3 miliardi nel 2015 verranno, spiega la Nota, dai risparmi di spesa già decisi, che quest’anno porteranno 2,1 miliardi. Poi ci sono i tagli ai ministeri. Si parlava di un 3% del budget, per almeno un paio di miliardi, ma dalle nuove carte del governo vengono fuori non più di 240 milioni. E in un biennio. Di più, sui tagli, non si dice.