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I conti non tornano

I conti non tornano

Giuseppe Turani – La Nazione

Se io prendo cento euro e li sposto dalla tasca sinistra a quella destra, non per questo divento più ricco. L’idea di mettere mezzo Tfr in busta paga subito, mese per mese, è un po’ la stessa cosa. Da una parte si dice che è urgente diminuire il costo del lavoro per le imprese, dall’altra lo si aumenta. La logica sarebbe quella di dare subito più soldi ai lavoratori, così i consumi ripartono. Il Tfr è un accantonamento che l’azienda deve fare. Di solito, come dice il nome, quando il lavoratore esce dall’azienda, gli viene consegnata una somma equivalente appunto a un mese di stipendio per ogni anno lavorato. L’idea, degna del mago Houdini, è questa: poiché quei soldi sono già del dipendente e poiché abbiamo bisogno di rilanciare l’economia, diamoglieli subito, così si compra un paio di scarpe nuove e l’economia riparte.

È un ragionamento che farebbe bocciare all’esame di economia in qualsiasi università (ma forse anche a ragioneria). Si tratta infatti di un aumento «artificiale» delle paghe, ottenuto non grazie a un miglior andamento dell’economia, ma grazie a una distribuzione immediata di quelli che sono i risparmi del lavoratore, custoditi dall’azienda. I soldi del Tfr, infatti, non sono depositati dall’imprenditore in un salvadanaio a forma di porcellino che viene rotto quando il dipendente se ne va (magari fra vent’anni). Anzi, quei soldi non esistono proprio.

L’imprenditore li segna in bilancio perché così va fatto, ma in realtà usa quei soldi per le necessità correnti dell’azienda. Poiché sa quando i suoi lavoratori lasceranno l’azienda, si organizza in modo da avere nel momento dell’uscita il Tfr per 10, 20, 30 lavoratori. L’anno dopo se ne andranno altri 10, e l’imprenditore verserà l’equivalente di 10 Tfr. Se ha 200 dipendenti e se ne vanno 20 all’anno, dovrà avere in contanti i soldi per questi 20 Tfr. Il resto rimane nell’azienda. Se si decide che invece almeno metà del Tfr va versato mese per mese si ottiene certo di aumentare la paga dei dipendenti (a carico dell’azienda), ma in compenso si aggrava il costo del lavoro (subito) di una mezza mensilità, che a quel punto va tirata fuori per tutti i dipendenti e non solo per quelli che se ne vanno. Abbiamo passato mesi a dire che era centrale far scendere i costi per le aziende, e adesso andiamo a aumentarli?

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Bonifacio Borruso – Italia Oggi

Come Matteo Renzi ha annunciato di voler davvero riformare lo Statuto dei lavoratori, «per smettere di discriminare i non garanti», è scattata la corsa a usare le attività dei genitori per dimostrare l’incoerenza pratica del premier: nelle piccole aziende «renziane» non c’è tutta questa voglia di tutelare i giovani. Non c’entra qui l’inchiesta della procura di Genova che, a sei mesi dalla relazione di un perito del tribunale fallimentare, si è ricordata di indagare Tiziano Renzi, padre del segretario Pd, con l’ipotesi di bancarotta fraudolenta per un’azienda operante nel genovese: coincidenza singolare ma comunque coincidenza.
L’attacco s’è concentrato sulla tipologia dell’attività in questione nella società, la Chil, di cui peraltro Renzi è un dirigente in aspettativa, regolarizzato, si osserva, poco prima di diventare presidente della Provincia, così da trasferire l’onere dei contributi previdenziali all’ente pubblico.

Il Fatto quotidiano, domenica scorsa, ha titolato prontamente: «Tiziano Renzi, nella sua azienda tutti precari. Tranne il figlio Matteo». Davide Vecchi, l’autore dell’articolo, parla di un marchio di fabbrica, in quanto anche le due sorelle del premier, che lavorano in un’altra azienda di famiglia, la Eventi 6, sarebbero inquadrate come co.co.co., cioè come collaboratrici coordinate e continuative. Il giornalista del foglio padellarian-travaglian-gomeziano definisce ironicamente questa tipicità contrattuale come «Tiziano Act», che si contrappone, nei fatti e nel privato familiare di Renzi, al Jobs Act del premier. Un modo per dire che Renzi predica bene dal pulpito di Palazzo Chigi e razzola male negli uffici paterni di Rignano sull’Arno (Fi).

Eppure il pezzo di Vecchi cita, correttamente e nel dettaglio, che attività svolgessero e svolgano le società di Renzi senior, della mamma e delle sorelle: la diffusione di giornali, di volantini e di prodotti editoriali. Un’attività che, per definizione, deve svolgersi con contratti a termine. E infatti, come racconta il giornalista, a impegnarvisi erano soprattutto studenti universitari che arrivavano a mettere insieme 400 euro al mese. «Era faticoso perché ci svegliavamo all’alba», racconta al Fatto un ex-lavoratore Chil, dietro richiesta dell’anonimato (sic), «ma per il resto era il classico lavoro da studenti e ci ripagavamo sigarette e qualche uscita di sera». Il contratto «era atipico», insisteva l’intervistatore cercando l’indignazione postuma, e l’altro, di rimando: «Ma era regolare, cioè potevano farlo e fra l’altro devo dire che era onesto perché, oltre al fisso, ci riconosceva una percentuale, seppur minima, su ogni copia che riuscivamo a vendere».

In pratica, secondo il Fatto, babbo Renzi avrebbe dovuto assumere a tempo indeterminato torme di studenti universitari nelle città in cui lavorava. Un nuovo profilo professionale: gli strilloni-impiegati di concetto In questo, però, anche l’Editoriale Il Fatto Spa, di cui è presidente il direttore Antonio Padellaro, e nel cui consiglio di amministrazione siedono Marco Travaglio e Peter Gomez, potrebbe aprire una strada: assumendo a tempo indeterminato, ovunque siano e ovunque scrivano, carta o web, i collaboratori del giornale.

La politica Ue non ha funzionato

La politica Ue non ha funzionato

Stefano Cingolani – Italia Oggi

La Draghinomics è arrivata anche al Parlamento europeo, nutrita di accenti pessimistici sulla congiuntura economica. Del resto, i Paesi dell’euro stanno cadendo nella terza recessione dopo quella del 2008-2009 e quella del 2012. Il presidente della Bce ha ripetuto per ben sei volte la parola riforme strutturali, ma attenzione a non fare il solito giochetto di chi strattona la giacca sartoriale per coprire le proprie magagne. Perché la dottrina Draghi è basata su tre pilastri: una politica monetaria espansiva; una politica fiscale fatta di aggiustamento dei conti pubblici per chi li ha in disordine e di sostegno alla domanda per chi invece ha raggiunto il pareggio; più le riforme a cominciare dal mercato del lavoro, ma non solo. Si può anche dire che il trittico non funziona, ma non si può smontarlo a piacimento. Dunque, per prendere sul serio la Draghinomics bisogna sfatare alcuni luoghi comuni:

1) La ripresa passa per le riforme strutturali. Se vogliamo dire che «passa», ebbene è certamente vero, ma è altrettanto certo che non «parte» da lì. Le riforme sono essenziali per rendere lo sviluppo solido e sostenibile, ma producono effetti benefici dopo almeno tre anni secondo gli studi del Fondo monetario internazionale.

2) Mercato del lavoro, sistema giudiziario, Stato efficiente, leggi favorevoli al business sono le leve della crescita. Può darsi, ma allora come la mettiamo con il Giappone dove si verificano tutte queste condizioni eppure il Paese ristagna da vent’anni?

3) I Paesi che hanno compiuto aggiustamenti più radicali e dolorosi oggi vanno meglio degli altri, soprattutto la Spagna (l’Irlanda non è comparabile perché troppo piccola e diversa come struttura economica). Qui occorre mettere a confronto alcune cifre a costo di essere noiosi. La Spagna cresce dell’1 per cento quest’anno, mentre l’Italia è in recessione. I due Paesi hanno perso nell’ultimo anno ciascuno il 5% di prodotto potenziale (cioè la differenza tra il pil effettivo e quello possibile con il pieno impiego dei fattori) e nessuno dei due ha recuperato il livello esistente prima della crisi. Il bilancio pubblico spagnolo era in pareggio nel periodo 2004-2008, è crollato a -11% nel 2009, ora fa registrare un deficit del 5,6% mentre l’anno prossimo salirà a oltre il 6. L’Italia, lo ricordiamo, era a -3 e oggi è a -2,6 dopo un picco di -5,5% nel 2009; dal 2012 è tornata nei ranghi. Anche dal lato del debito le cose sono andate molto peggio in Spagna. Infatti, prima della crisi aveva un debito pari al 41% del pil, mentre oggi è a 100 e l’anno prossimo arriva a 103, con un peggioramento di oltre 60 punti percentuali. L’Italia parte da 105 e arriva a 133, dunque «appena» 28 punti. In sostanza, Roma ha seguito una politica fiscale tendenzialmente restrittiva, Madrid una fortemente espansiva. La Spagna ora sta rimbalzando mentre l’Italia è piatta, incollata al pavimento. Ciò è conseguenza della svalutazione salariale, perché le retribuzioni in Spagna si sono ridotte e così il costo unitario del lavoro (sempre segno meno dal 2010 con una punta di -4 nel 2012) mentre in Italia no. La disoccupazione spagnola è al 25%, aumentata di sedici punti rispetto al periodo pre-crisi (prima del 2008) mentre quella italiana è al 12,8 (+5,7%). Questo esercito industriale di riserva ha contribuito a schiacciare salari e stipendi. Nella distribuzione del valore aggiunto, ciò ha fatto salire la quota del profitto e ha rimesso in moto gli investimenti, insomma ha dato un giro di manovella alla macchina del capitale. Ma quanto ha inciso il deficit spending? La spesa sociale ha certamente ammortizzato il peso della crisi. La Ue ha consentito l’eccezione spagnola per intercessione di Berlino, il secolare alleato, e perché Madrid ha chiesto aiuto per salvare le proprie banche (37 miliardi di euro dal fondo salva-stati del quale l’Italia è terzo contribuente). La Commissione ha agito bene? No, se si ha il culto delle regole. Sì, per quel senso di compassione umana che supera sempre la ragione economica; del resto Bruxelles non può certo diventare l’unione degli affamatori dei popoli. Ma questo non c’entra nulla con i vizi e le virtù della politica economica. Sarebbe onesto riconoscerlo.

4) I conti in ordine, dunque, favoriscono la crescita, ma non la generano. Sono semmai la condizione per usare il bilancio dello Stato come stimolo alla congiuntura e come strumento di distribuzione dei redditi.

5) Per ridurre il debito, davvero l’unica via è un avanzo nel bilancio primario (al netto degli interessi), come recita il Fiscal compact? Solo se è accompagnato da una crescita del prodotto lordo costante e sufficientemente elevata. Inoltre, una riduzione generalizzata dei prezzi (la deflazione) è in grado di annullare gli effetti «risanatori» di una politica fiscale rigorosa.

6) La Banca centrale europea ha stampato troppa moneta? Il bilancio della Bce ha toccato il picco di duemila miliardi di euro nel 2012, poi è sceso del 50%; quello della Federal Reserve è arrivato a 4.400 miliardi di dollari e continua a crescere. C’è un limite alla politica monetaria e lo ha dimostrato il fallimento della prima tranche di Tltro. Tuttavia il passo falso dipende dal fatto che i prestiti sono ritagliati sulle esigenze del mondo bancario; l’Eurotower resta la banca delle banche, mentre dovrebbe diventare la banca dell’intero sistema, acquistando sul mercato titoli privati e pubblici.

Conclusione: le politiche della Ue non hanno funzionato. Ripeterle con una sorta di reazione pavloviana sarebbe colpevole, gli americani hanno ragione da vendere. Oggi ci vuole un intervento coordinato di politica economica muovendo in modo sincronizzato le tre leve indicate da Draghi (moneta, fisco e riforme). Berlino non ci sta e va per conto suo? A questo punto è la Germania che va sanzionata. Se questa è una Unione e se alla guida ci sono uomini, non solo pupazzi.

Non è un Paese per giovani

Non è un Paese per giovani

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia non riesce a fare cose per i giovani. È un paese vecchio, fatto per i vecchi, e si compiace di esserlo. Il surreale dibattito sull’articolo 18 che si presenta puntuale ad ogni cambio di governo ne è l’ennesima dimostrazione. Sì certo, l’articolo 18 è già stato modificato due anni fa, e non saranno né la sua conservazione né il suo superamento (da soli) a spingere magicamente verso l’alto il tasso di occupazione italiano. Ma se la sua rimodulazione avviene dentro a una più ampia ipotesi di riforma che aumenti le probabilità di nuove assunzioni e ampli le tutele per la galassia da anni in espansione dei lavoratori precari, in gran parte giovani, non ci si può limitare a dire che i problemi sono «ben altri» o storcere il naso. Non si capisce perché dovremmo appassionarci vedendo erigere le solite barricate, da parte di chi protegge i già protetti.

Le riforme si fanno spesso grazie a compromessi tra le parti interessate. Il contratto a tutele crescenti che prevede maggiore flessibilità all’inizio della vita lavorativa (la sospensione dell’art. 18, esattamente come in Danimarca) in cambio di tutele che crescono nel tempo è una buona mediazione tra esigenze dei lavoratori e dell’impresa. Dovrebbe sostituire la lotteria delle controversie davanti ai giudici con vincoli stringenti ad assumere con contratti a tempo indeterminato, disincentivi economici a licenziare per gli imprenditori, risorse a vantaggio del lavoratore per l’eventuale ricerca di una nuova occupazione. Se questo compromesso serve a dimostrare all’Europa e agli investitori che le riforme si fanno, che il paese non è bloccato, che non è in mano ai conservatorismi, se serve a dare qualche garanzia in più a chi veleggia angosciato tra contratti intermittenti che ammazzano qualsiasi prospettiva di futuro, è bene andare avanti. Come ha peraltro suggerito – unico «giovane» tra vecchi e giovani-vecchi – il Capo dello Stato.

Non c’è dubbio che i giovani abbiano pagato più di tutti per la crisi degli ultimi 10 anni. Tra loro il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato (dal 17% nel 2004 al 45% del 2014). I giovani e le molte donne senza un’occupazione stabile non sanno nemmeno cosa sia l’articolo 18, né gli passa per la mente di iscriversi al sindacato. Presumo assistano comprensibilmente disillusi all’arzigogolata discussione tra legulei sulle conseguenze e le virtù di uno «Statuto» pensato alla fine degli Anni Sessanta con l’intenzione di trasferire nel settore privato il modello (di allora) del «posto fisso» nel settore pubblico. Per loro sono discorsi che arrivano da un’altra epoca, scritti in caratteri sconosciuti. Indecifrabili. Insomma, di cosa stiamo parlando? Della nostalgia per un mondo che non c’è più?

Una riforma per i nuovi assunti può essere una risposta se tuttavia si verificano due condizioni. Primo se si vuole andare fino in fondo il contratto a tutele crescenti dovrebbe assorbire un bel po’ di contratti atipici, in modo da vincolare gli imprenditori ad assumere con il nuovo contratto a tempo indeterminato abbandonando via via tutte le forme di maggiore precarizzazione (false collaborazioni e partite Iva, lavoro accessorio, etc.). La sfida più grossa infatti nel nostro paese è quella di stabilizzare le carriere lavorative, essendo ampiamente dimostrato che chi entra nel mercato del lavoro con il piede sbagliato, e cioè con contratti non standard, ha davanti a sé un percorso di lavoro decisamente accidentato, da cui è difficile divincolarsi. Secondo, occorre giocare a carte scoperte sul tema delle risorse. A quali categorie verranno estesi gli ammortizzatori, al posto di quali indennità e con quali costi? Questo va chiarito prima e non dopo la riforma. L’erogazione universale dei sussidi non sembra verosimile in un contesto di risorse scarse. Non si può sentir dire dentro allo stesso partito che la riforma costa 2 miliardi, poi 10 e poi 20. La vaghezza con cui si parla della sostenibilità tecnica della riforma è sconcertante. E soprattutto da dove verranno le risorse? Chi se ne occupa e ce lo spiega?

Aspettiamo risposte robuste. Gli slogan, le stilettate e gli attacchi alle tartine hanno francamente stufato. E se poi si riesce a rendere l’ambiente del mercato del lavoro meno ingessato e a offrire qualche brandello di protezione in più a chi non ne ha, è già molto. Per evitare che l’Italia continui a essere un bellissimo paese. Ma solo per i vecchi.

Una sfida ancora lunga

Una sfida ancora lunga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La bandiera dell’art. 18 e della riforma del lavoro sventola anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Il premier Renzi l’ha mostrata al Council on Foreign Relations e il messaggio politico è stato chiaro per tutti. Per gli americani la determinazione dell’ospite italiano e il suo inedito dinamismo sono di certo una piacevole sorpresa. Per chi invece vede le cose dalla vecchia Europa la bandiera renziana non ha segreti da tempo. È un metodo con una logica precisa. L’articolo 18 da abolire è un simbolo che ovviamente il presidente del Consiglio non può né vuole ammainare. E la connessa riforma del lavoro è anche una grande operazione di “marketing” volta a imporre all’estero l’immagine della “nuova Italia”.

In Italia infuria il dibattito sulla reale consistenza del personaggio Renzi, sulla sua capacità di trasformare le declamazioni in fatti concreti, e l’editoriale del direttore del “Corriere della Sera” ha fatto clamore. Ma intanto lui, il diretto interessato, gioca un’altra partita e in America usa il linguaggio ed evoca gli scenari che i suoi interlocutori d’oltreoceano apprezzano di più. È un altro aspetto dell’arabesco che egli sta ricamando con l’opinione pubblica interna e internazionale. Di conseguenza i suoi oppositori nel Pd, quelli che frenano sull’articolo 18, sembrano muoversi in un universo parallelo. E un po’ è vero. A Roma c’è chi ragiona ancora di vecchi partiti e di sindacati, di emendamenti e mediazioni. Ma dagli Stati Uniti la risposta è perentoria: sul piano formale non vengono evocati scenari elettorali, tuttavia le minacce politiche sono implicite e provengono da un uomo che quando è sotto pressione rilancia con spavalderia.

Ora è chiaro che il «gruppo Bersani» non ha interesse a spezzare il ramo su cui tutti sono seduti. In altri termini, i “conservatori” non puntano oggi alla crisi di governo. Però anch’essi, come Renzi, hanno un obiettivo politico: dimostrare che il premier si è spostato a destra ed è prigioniero di Berlusconi. Quei sette emendamenti che la minoranza ha presentato e che il premier respingerà per non apparire sconfitto servono a dimostrare che in un segmento del Pd sopravvive una diversa identità e un’altra idea della sinistra. È possibile che sia solo un’operazione di palazzo e che nel paese non esista sufficiente consenso per queste posizioni. Ma gli anti-Renzi lavorano su tempi medi senza pensare a scissioni.

Intanto lasciano a Renzi la responsabilità di spaccare lui il Pd. Nemmeno questo avverrà: forse, lontano dalle telecamere, si troverà persino un compromesso su qualche aspetto non centrale della legge. Ma il prossimo passaggio della contesa riguarderà la riforma elettorale. Se Renzi otterrà l'”Italicum” in tempi brevi, avrà vinto la sua partita. Se non lo otterrà, dovrà continuare a governare, a meno di non rischiare le urne con la legge proporzionale scaturita dalla Consulta. Facile capire che la minoranza del Pd aspetta il premier al varco quando si tratterà di eleggere il nuovo capo dello Stato, forse nella prossima primavera. Se sarà questo Parlamento a caricarsi della delicata incombenza, le armi di Renzi potrebbero rivelarsi spuntate. I casi di Violante e Bruno sono lì a dimostrare come le attuali assemblee siano difficilmente gestibili e non c’è patto del Nazareno che tenga.

Se si voterà il successore di Napolitano con queste Camere, e non con le prossime, la minoranza Pd, quella che si mantiene prudente, è in grado di impedire il successo del candidato di Renzi, chiunque egli sia. Ed è qui la vera partita. A meno che il premier non riesca a rivolgersi prima al corpo elettorale, il che oggi non sembra probabile.

Sempre più vitale rianimare la domanda interna

Sempre più vitale rianimare la domanda interna

Luca Orlando – Il Sole 24 Ore

La benzina è finita. Per anni la corsa a doppia cifra delle vendite sui mercati più remoti ha tamponato le difficoltà incontrate dalle nostre imprese sul mercato domestico e in Europa. Illudendoci forse che la travolgente crescita dei paesi emergenti e l’ampliamento della “borghesia” mondiale potessero sostenere all’infinito e in modo automatico l’economia italiana. Il racconto di questi mesi è però diverso e indica una realtà ben più complessa, fatta di squilibri macroeconomici, di monete che sbandano pericolosamente, di smottamenti politici che in più di un paese diventano guerre. La Russia è forse il caso più evidente, anche per il peso relativo non marginale sul nostro export, ma va detto che di questi tempi Mosca è in buona compagnia. Rallentano gli acquisti di Made in Italy del Nordafrica, in cui certo la crisi libica non è d’aiuto; crollano quelli di Tokyo, alle prese con un rincaro dell’imposta sui consumi e con una svalutazione dello Yen; arrancano India, Brasile e Turchia; si inceppa ad agosto anche la crescita cinese, che pure era stata solida per tutto il 2014.

Un quadro per nulla rassicurante, che ha spinto ieri l’Organizzazione mondiale del commercio a rivedere drasticamente al ribasso le stime di crescita del commercio globale, ridotte dal 4,6% al 3,1% con rischi di ulteriore abbassamento a causa dell’irregolarità della crescita globale e degli aumentati rischi di tensioni geo-politiche. Osservare il trend globale delle nostre vendite extra-Ue è desolante e il balzo del 14,9% del 2011 pare preistoria: da allora, mese dopo mese, abbiamo perso ininterrottamente terreno fino al “filotto” negativo del 2014 con sei mesi consecutivi in rosso. Un aiuto, è vero, potrebbe arrivare dall’euro, ai minimi da oltre un anno sul dollaro. Per un 10% di discesa strutturale del cambio Intesa Sanpaolo stima un impatto positivo del 2,4% sull’export e di poco più di un punto sul Pil, spinta di cui in questa fase in effetti si sente un drammatico bisogno. L’alternativa all’export è infatti la domanda interna, dove però il quadro è ancora più cupo. Ovunque si guardi gli indicatori tendono al peggio ma almeno sgombrano il campo da ogni dubbio sulle priorità: senza consumi interni e senza imprese competitive da qui in avanti potremo solo fare peggio.

Per ripartire serve un mix di riforme e incentivi

Per ripartire serve un mix di riforme e incentivi

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

Un motore potente, ma anche tanta benzina. Occorrono entrambe le cose per fare una lunga, veloce corsa. La situazione di Eurolandia dimostra che ogni ricetta economica riduttiva ha poco valore: chi chiede solo benzina sbaglia come chi chiede solo di cambiare il motore. In economia l’immagine automobilistica si traduce molto rapidamente: occorre la domanda e occorrono le riforme. Il caso tedesco è esemplare: l’economia ha un ottimo motore rispetto ai concorrenti, ma sta mancando la benzina. Potrebbe correre, ma non lo fa e questo avviene – a differenza di quanto accade in una gara, perché questa non è una gara… – anche perché i “concorrenti”, come l’Italia, non vanno abbastanza veloci. La Francia può essere scelta come esempio opposto: qui la domanda e l’offerta di credito, che mancano altrove, è in crescita, l’economia potrebbe funzionare. Il motore però si è inceppato e non è facile ripararlo: coniugare la competitività con lo stato sociale non è compito facile, e le difficoltà francesi lo dimostrano.

Ricette troppo semplici, dunque, non funzionano in un’economia complessa. Le riforme strutturali senza domanda hanno poco senso, e non è un caso che Commissione Ue e Bce invochino investimenti pubblici contro il rischio di recessione, per sostenere la domanda. La risposta del Governo tedesco – di una sua parte, in realtà – al rallentamento è dunque astratta e può reggere solo perché il mercato del lavoro tedesco resiste sempre molto bene agli urti. Più adeguata sembra – nelle parole, almeno – la risposta francese, quell’«offerta che crea la domanda» invocata dal presidente François Hollande a gennaio che, al di là della retorica e della citazione colta (Jean-Baptiste Say), sottolinea la necessità delle riforme strutturali. Anche queste, però, vanno fatte bene, nella sequenza giusta e in sincronia con lo stimolo alla domanda. Il rischio, altrimenti, è quello di peggiorare le cose.

Ma per le imprese la realtà è amara

Ma per le imprese la realtà è amara

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

Mario Draghi è stato chiaro. Dagli schermi della televisione francese Europe 1, il presidente della Banca centrale europea ha precisato di non vedere «rischi di deflazione, ma rischi di un’inflazione troppo bassa per un tempo troppo lungo e per l’area dell’euro nel suo complesso», aggiungendo: «Come ho detto molte volte, la nostra ripresa è modesta, debole, diseguale e fragile, ma non è recessione». Ineccepibile. Da un punto di vista tecnico non c’è deflazione e non c’è recessione in Eurolandia. La crescita dei prezzi, e le aspettative di inflazione, restano positive. La crescita rallenta, ma sembra voler restare positiva. Ci si può però affidare alle semplici definizioni formali? Un banchiere centrale può farlo, un lavoratore, un imprenditore no. Per lui conta la situazione concreta, e da questo punto di vista tutto appare molto diverso. La recessione non c’è? Se il criterio è quello, un po’ astratto, dei due trimestri consecutivi di crescita negativa, allora sicuramente Eurolandia non è in recessione. Pochi economisti però considerano quella definizione come risolutiva.

Chi guarda alla realtà delle cose sa che ci possono essere fasi di crescita che sono di per sé recessione. Per esempio perché l’occupazione non aumenta, o aumenta troppo poco. Il National Bureau of Economic Research (Nber), il più grande istituto privato di ricerche economiche, è noto perché definisce su basi empiriche l’inizio e la fine di ogni recessione. Il criterio dei due trimestri – che si deve allo statistico Julius Shiskin – non gli appartiene: il Nber guarda insieme alla crescita del Pil, dei redditi, dell’occupazione, della produzione e delle vendite all’ingrosso.

Qual è la situazione in Eurolandia? Il Pil è a crescita zero, il reddito in relazione al Pil decresce (ma aumenta, va detto, pro-capite), l’occupazione è ai minimi dal 2006, piuttosto lontana dai livelli del 2008, ma anche da quelli del 2011, la produzione industriale, molto variabile da mese a mese, non sembra puntare verso l’alto. Cosa farebbe un Nber europeo non si può saperlo. L’indicazione della data iniziale e finale di una recessione è, oltretutto, effettuata solo quando tutto è terminato. Se però, in una situazione in cui l’orizzonte si offusca, un operatore economico che pianifica le proprie future mosse parlasse, se non proprio di recessione, di “crisi”, avrebbe diversi argomenti a suo favore. Non diverso è il discorso sulla deflazione. La questione non è se la bassa inflazione sia o no un fenomeno negativo: lo è, e Draghi lo ammette da sempre. Secondo la stessa Bce, a luglio le aspettative di mercato indicavano un ritorno a un’inflazione del 2% «non prima del 2020», e da allora le cose sono peggiorate.

Cosa può fare in una simile situazione un imprenditore che guardi ai propri margini e ai propri debiti futuri, e agli sforzi che deve fare per restare competitivo e, nello stesso tempo, solvente? Non dovrebbe tener conto di un rischio di un calo più o meno generalizzato dei prezzi? Non fecero lo stesso nel 2002-03, in una situazione decisamente migliore, tutte le maggiori banche centrali? Mario Draghi, invece, non può farlo. Rischierebbe di sganciare ulteriormente le aspettative, già in tensione. Probabilmente spera anche nell’innegabile aiuto del calo dell’euro, vicino ai minimi del 2012 (nel cambio effettivo). Resta il fatto che la Bce appare già un po’ “dietro la curva”, in ritardo; e quelle parole del presidente non possono essere il preannuncio che poco altro, lentamente, in realtà verrà fatto.

Il fisco “pulisce” l’anagrafe tributaria

Il fisco “pulisce” l’anagrafe tributaria

Marco Mobili e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Il Fisco punta a “ripulire” l’Anagrafe tributaria. Meno duplicazioni e più qualità dei dati disponibili. E allo stesso tempo si studia una sorta di raggruppamento delle informazioni attraverso un progetto di «Vista unica del contribuente» utilizzabile sia dall’amministrazione e sia in futuro dagli stessi cittadini per controllare la propria posizione. Sono le indicazioni arrivate ieri dal direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, nell’audizione davanti alla commissione bicamerale di vigilanza sull’Anagrafe tributaria.
Una ricetta che suona come una risposta ai problemi sollevati alla fine della scorsa legislatura dalla precedente commissione di vigilanza, soprattutto in relazione al proliferare delle richieste di informazioni e alla difficoltà di incrociarle perché spesso disallineate. Nel documento conclusivo dell’indagine svolta i parlamentari avevano segnalato come attualmente le banche dati disponibili da tutti gli organismi dell’amministrazione sono 128. Orlandi ha citato gli obiettivi da raggiungere per evitare duplicazioni e sovrapposizioni anche nei confronti di soggetti e categorie chiamate all’invio delle comunicazioni al Fisco. Nell’audizione, il neodirettore delle Entrate ha presentato il progetto di Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) che costituirà una sorta di base comune a tutte le pubbliche amministrazioni.

Le tappe per la precompilata
Un’operazione di “ripulitura” che viaggia in parallelo con il debutto della dichiarazione precompilata per la quale arriveranno le certificazioni dei redditi dai sostituti d’imposta e i dati su alcune spese che danno diritto a detrazioni e deduzioni. E proprio in vista del 730 a domicilio Agenzia e Sogei hanno definito un calendario serrato: entro ottobre saranno pronti i tracciati telematici che banche, assicurazioni e enti previdenziali dovranno utilizzare per trasmettere alle Entrate i dati su oneri detraibili e deducibili; entro novembre saranno definiti modello 730/2015 e modello di certificazione unica 2015 con relative istruzioni; entro i primi mesi del 2015 Sogei predisporrà i software per certificazioni dei sostituti d’imposta e dichiarazioni precompilate a dipendenti e pensionati, sostituti d’imposta e intermediari (Caf e professionisti). Orlandi ha ribadito che «eventuali interventi normativi di fine anno con effetti sul 2014 rischiano di compromettere il buon esito dell’intero progetto».

Sommerso e contanti
Oltre a questo, l’obiettivo di fondo è quello di aggredire la cifra «precoccupante» dell’economia sommersa in Italia che vale tra il 16,3% e il 17,5% del Pil, ossia tra i 255 e i 275 miliardi. Una delle strade per farlo è un maggior impulso alla tracciabilità dei pagamenti. «I tempi sono maturi – ha sottolineato il direttore – per l’utilizzo della moneta elettronica. La strumentazione a disposizione per l’estensione totale dei pagamenti elettronici a tutte le transazioni commerciali è già disponibile e in fase di grande diffusione sul mercato». Tuttavia il contante nel nostro Paese rappresenta ancora l’82% del numero e il 67% del valore totale delle transazioni. Tutto ciò ha anche un costo stimato in «4 miliardi l’anno per il settore bancario – ha detto Orlandi – e in 8 miliardi di euro per il sistema Paese».

Il ruolo dei Comuni
Un’altra leva su cui puntare nel contrasto al sommerso è l’alleanza con gli enti locali. Dal febbraio del 2009 allo scorso agosto – ha segnalato il direttore – sono state trasmesse all’agenzia delle Entrate più di 66mila segnalazioni da oltre 900 Comuni. Di queste circa 12mila sono state trasfuse in atti di contestazione con 226 milioni di maggior imposta accertata. Ogni segnalazione ha mediamente consentito di accertare più di 19mila euro di maggiori imposte. E quasi la metà delle segnalazioni ha riguardato fenomeni di evasione relativi agli immobili.

Il merito di una riforma

Il merito di una riforma

Gianluigi Pellegrino – La Repubblica

Ma di quale articolo 18 stiamo parlando? Di quello vigente o di quello ormai superato due anni or sono? Per fortuna ieri il Jobs act è entrato nel vivo del percorso parlamentare e con la presentazione degli emendamenti, comunque la si pensi, il confronto deve finalmente entrare nel merito. C’è infatti qualcosa di vagamente surreale nella tempesta di questi giorni. Stiamo discutendo della norma vigente o, come monadi impazzite, di quella che la precedeva e che quindi già oggi semplicemente non c’è più? E pure quasi si spacca il Partito del premier. L’intero paese si anima con governo e sindacati per primi che sembrano l’uno attaccare e gli altri difendere, non già l’articolo 18 come è oggi, ma come era prima della riforma approvata 24 mesi fa.

Il punto è rilevante perché le modifiche sono state sostanziali e non a caso agitarono anche allora la resistenza sindacale che infine decise di fare sforzo di buona volontà e di accettarle. E però basta un piccolo sondaggio domestico per verificare che la bufera di queste ore è percepita come se in ballo ci sia il reintegro automatico in caso di licenziamento, che invece la riforma del 2012 ha già ampiamente superato. Fermo il mostro del licenziamento discriminatorio (se vengo messo alla porta perché biondo, ebreo, donna che non è stata carina col capo) sul quale vogliamo essere certi che anche Renzi non abbia dubbi a garantire la massima tutela, negli altri casi, il ripristino del rapporto di lavoro è già oggi tutt’altro che scontato. Subordinato a mille condizioni e altrettante variabili, il reintegro è ormai da due anni ipotesi del tutto residuale e niente affatto automatica.

Peraltro al paradosso sul punto di partenza della discussione si è aggiunta sino a ieri la clamorosa distonia tra il merito, in sé niente affatto minaccioso, della proposta del governo e i toni radicali che invece l’hanno accompagnata sia da parte dell’esecutivo che da parte dei sindacati. E infatti nella norma proposta dal governo non sono affatto citati né l’articolo 18 né il sistema di reintegro. Ci si limita a richiedere che il Parlamento deleghi l’esecutivo a stabilire un sistema di “tutele crescenti secondo l’anzianità di servizio”. Tutto qui. Un concetto laconico e di per sé anche confortante. E però nelle reciproche dichiarazioni si annunciano palingenesi e si risponde con minacce di guerra.

Trattandosi di norma di legge, le parole scritte sono pietre. Quelle che ci sono e quelle che mancano. Allora delle due l’una. O la norma così come proposta non incide affatto sull’articolo 18 per come del resto già ampiamente riformato (ed allora non si capisce di cosa stiamo parlando) oppure si pretende una delega in bianco che però non è ammissibile né sul versante costituzionale né su quello politico. “Tutele crescenti” infatti vuol dire solo che non devono essere decrescenti, e ci mancherebbe altro. Per il resto ancora oggi non è chiaro quale sia la tutela minima, né quella massima che si propone. Tanto meno quale sia la relativa progressività. Anche un deciso allungamento del periodo di prova (portandolo sino a tre-cinque anni), con tutela reintegratoria solo a valle di questo, è un ragionevole sistema a “tutele crescenti” su cui sarebbe ampio il consenso (come dimostrano gli emendamenti presentati ieri) in una logica di giusto riformismo, senza calpestare diritti.

Peraltro non bisogna dimenticare che non parliamo della possibilità o meno di licenziare a buon titolo. L’articolo 18 nemmeno nella sua precedente versione lo impediva. Il tema oggi è del tutto diverso e cioè quale tutela l’ordinamento appresta in caso di abusivo licenziamento. Di questo si parla. Il che dovrebbe suggerire prudenza come sempre quando si mette in discussione il diritto di giustizia in favore di chi ha subito un torto. Se è del tutto legittima la pretesa riformatrice non si può pensare che il Parlamento la approvi in bianco e poi si vedrà. Quanto più la scelta vuole essere innovativa e persino rivoluzionaria, tanto più deve essere chiara, alla luce del sole. Clare loqui, quindi da parte di tutti. Vecchia e nuova guardia, governo e sindacati. Altrimenti sul campo restano solo vessilli, utilizzati obliquamente per rispettive pur legittime finalità che però rischiano di costare troppo al paese. Già in termine di confusione, di cui davvero non sentiamo il bisogno. Né in Italia né in Europa.