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Come riscrivere l’articolo 18 senza ideologie

Come riscrivere l’articolo 18 senza ideologie

Massimo Baldini – Il Secolo XIX

L’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 serve davvero per aumentare l’occupazione? Oppure avverrà l’esatto contrario, visto che gli imprenditori saranno liberi di licenziare? Rispondere a queste domande è difficile, anche perché la riforma che pare il governo abbia in programma non riguarda solo l’articolo 18, ma tutta la normativa su rapporti di lavoro e ammortizzatori sociali.

Nel nuovo sistema, per i nuovi assunti vi sarebbero solo due contratti di lavoro dipendente: a termine e a tempo indeterminato a tutele crescenti. Con il primo si pagherebbero contributi più alti, cosi da limitarlo ai soli casi in cui vi siano ragioni effettive per un rapporto di durata fissa. Peraltro, si prevede una prima fase di ampia flessibilità. Passato un certo numero di anni, le tutele aumentano, e il punto è proprio questo: tra le tutele deve esservi anche l’articolo 18? Oppure in caso di licenziamento c’è solo (oltre al sussidio di disoccupazione) un indennizzo monetario?

L’articolo 18 è già stato modificato due anni fa dal governo Monti: in breve, oggi non si può licenziare per motivi discriminatori (sesso, opinioni politiche o sindacali, ecc.), ma se vi sono ragioni economiche il licenziamento è ammesso pagando un indennizzo (da 1 a 2 anni di stipendio). Il lavoratore può ricorrere al giudice, il quale può imporre la reintegra al lavoro se ritiene falso il motivo economico. La riforma del 2012 ha sicuramente ampliato la possibilità di licenziare, ma si ritiene che vi siano ancora molti margini di ambiguità nella norma che rendono incerto l’esito di un contenzioso. Molti quindi suggeriscono di precisare meglio nella legge cosa si intenda per motivo economico, in modo da ridurre l’incertezza interpretativa.

Qualsiasi riforma dovrà comunque mantenere la possibilità di ricorso al giudice, come in tutti i Paesi europei, per ottenere il reintegro se davvero c’è discriminazione o puro arbitrio. Si tratta quindi di scrivere meglio una norma ancora confusa, avendo comunque in mente che quando ci sono valide ragioni (un cambiamento della domanda, la necessità di una diversa competenza) è sbagliato e miope cercare di salvare con una sentenza un posto di lavoro non più giustificato da esigenze effettive dell’azienda. Riscrivere la norma in questo senso è sicuramente difficile, e richiede anche il contributo dei sindacati, ma vi sono margini per farlo in modo da soddisfare tutte le sensibilità della maggioranza. Invece sembra si preferisca usare l’articolo 18 per l’ennesimo scontro interno al Pd.

La modifica dell’articolo 18, da sola avrà effetti modesti. È solo un ingrediente, per quanto importante, di un ben più ampio insieme di riforme per un mercato del lavoro più moderno (ed anche più equo), dalla semplificazione dei contratti all’allargamento degli ammortizzatori, alla fine degli eccessi della cassa integrazione in deroga, le quali a loro volta si inseriscono in un processo di cambiamento che deve rendere il Paese più favorevole all’attività imprenditoriale e al lavoro. Oggi solo 56 persone su 100 tra 15 e 64 anni hanno un’occupazione, quasi 10 punti in meno della media europea. Se vogliamo aumentare questa percentuale servono all’Italia sia politiche per aumentare la domanda che riforme. Quella del mercato del lavoro è una delle più importanti, e sarebbe un peccato se finisse travolta da polemiche ideologiche.

L’articolo 18 protegge anche fannulloni e ladri

L’articolo 18 protegge anche fannulloni e ladri

Massimo Tosti – Italia Oggi

Coloro i quali hanno superato i 60 probabilmente ricorderanno un film (del 1970) intitolato comma 22, tratto da un romanzo di successo. Un capitano dell’aviazione americana impegnata nel Mediterraneo durante la Seconda guerra mondiale (sconvolto dalla morte di tanti compagni d’armi, e non trovando alcun senso nella guerra) tenta di farsi esonerare dal servizio, facendosi passare per pazzo, ma viene bloccato dal Comma 22 del regolamento che recita: «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo». Ecco, capita qualcosa del genere con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che prevede il reintegro dei licenziati in Italia. Le aziende in difficoltà non possono licenziare nessuno (neppure gli assenteisti cronici), ma senza questa possibilità molte aziende oggi sono in affanno e, fra l’altro, non riescono a sostituire i fannulloni (o i ladri) con uno dei milioni di giovani condannati alla disoccupazione perenne. Il cane si morde la coda, esattamente come nella regola prevista nel film.

L’articolo 18 che affida ai giudici la decisione di reintegrare i reprobi nel posto di lavoro è oggetto di scontri viscerali dal 1970 (l’anno in cui lo Statuto dei lavoratori divenne legge dello Stato). Quel comma è un totem (e un tabù) da allora. Oggi, sull’articolo 18, si giova il futuro del Pd (e dell’Italia). L’anima (di minoranza) del Partito democratico che rivendica le proprie origini comuniste ha annunciato una possibile scissione anti-Renzi. Alle prossime elezioni il Pd nostalgico del passato potrebbe coalizzarsi con Sel e spezzoni di 5 Stelle, mentre quello renziano potrebbe rinforzare il patto con il centrodestra (inclusa Forza Italia). Il risultato (probabile) è che il vecchio Pd perda le elezioni lasciando campo libero a Renzi per realizzare le sue riforme, lo «svolta» Italia e lo «sblocca» Italia. Rosy Bindi ha lanciato l’anatema contro il premier, definendolo l’erede di Margareth Thatcher e dimenticando (di proposito) Tony Blair, il laburista che seguì il percorso avviato dalla lady di ferro. Perché altrove la sinistra ha saputo rinnovarsi, abbandonando i totem e le ideologie spazzate via dalla storia.

I soldi del diavolo

I soldi del diavolo

Marco Buticchi – La Nazione

Agli studenti di economia insegnavano che il bilancio è un artificio contabile. Vi confesso che mi suonava strano che l’incontestabile risultato a consuntivo di un’azienda potesse essere assimilato all’espediente tirato fuori dal cappello di un illusionista per raggiungere il proprio fine. Terminati gli studi, il vocabolo ‘artificio ‘passa nel dimenticatoio, estinguendosi poi come le molte nozioni con cui ci hanno riempito la gioventù. Il termine mi è tornato improvvisamente in testa poco tempo fa quando, nel bilancio della nostra augusta Nazione, ci hanno infilato il fatturato delle prostitute e ogni più turpe commercio illecito al grido di «tutto quanto fa PIL». Ancor più vibrante l’artificio si ripresenta oggi che, tirando i conti e le percentuali come la pelle di un pollo e alla luce dei fatturati non trascurabili dell’illecito, dal cappello dell’illusionista saltano fuori tre miliardi di dobloni.

Benedetto il ritornello di una vecchia canzone di Fabrizio de Andrè: «Ad ogni fine di settimana sopra la rendita di una p…». Risulta, però, troppo facile fare dell’ironia e, per evitare brutte parole, ci limiteremo a dire che tutto sta andando a… scatafascio. Per restare coi piedi per terra e scavare questa manna melmosa e illegale che, ahinoi, riabilita persino i conti della Repubblica, se tanto mi dà tanto, che succederebbe se marchette e traffici illegali venissero tassati? L ‘Italia riuscirebbe forse a rimettere a posto i suoi dissestati conti in un battibaleno? Resterebbero dei problemi di coscienza nei cittadini, ai quali si è sempre insegnato che solo il malaffare più bieco vive su certi proventi. Ma, si sa, davanti al vile dio denaro le asperità si smussano e le coscienze si rimpinzano. Sarà, forse, il primo passo per spostare l’esattore dalla malavita allo Stato?

Un’ultima cosa: i miei vecchi mi ripetevano spesso che i soldi del diavolo – ovvero quelli non guadagnati col sudore della fronte – vanno bruciati in fretta, senno il diavolo se li riprende. Prima che il diavolo si riprenda il suo tesoretto, esperti degli artifici contabili e dei proventi illeciti, spendetelo in fretta e spendetelo bene.

Domani ricomincia la guerra dell’art. 18, la priorità è il lavoro

Domani ricomincia la guerra dell’art. 18, la priorità è il lavoro

Walter Passerini – La Stampa

E così domani ricomincia in aula al Senato la battaglia dell’articolo 18. Sembrava impossibile, invece si ritorna a guerreggiare. Chissà se si arriverà a una sana mediazione, il buon senso e il Paese la reclamano. Uno scontro produrrebbe solo vincitori e vinti. Strano destino quello del simbolo di un’epoca che è radicalmente mutata. Tra l’altro ogni anno sulle 8 mila cause a favore dei lavoratori dedicate al tema due terzi si concludono con il risarcimento e solo tremila con il reintegro. Il pasticcio poi sarebbe quello di avere nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, senza o con l’articolo 18 alla fine dei 36 mesi, e la massa dei lavoratori che sono tutelati dalle vecchie regole, quindi con l’articolo 18 (un’abolizione tout court sarebbe impossibile). I lavoratori protetti dalla formula oggi sono 6,5 milioni (aziende con oltre 15 dipendenti), meno di un terzo delle forze di lavoro.

Le priorità
Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 ha incendiato la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro. C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così, abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne.

Troppe formule
Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una pièce da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio. La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime come abbiamo visto le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che i decreti attuativi lasceranno spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che le ambiguità della norma producessero lavoro solo per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi e dai suoi ministri Poletti e Boschi), l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Creare lavoro
Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un “matrimonio indissolubile”. Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. E’ questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un sadico né una vendetta sociale, ma può essere una tappa, insieme al rilancio della domanda, per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Paolo Baroni – La Stampa

Certo, c’è l’articolo 18 ed uno dei sistemi del lavoro più complicati del mondo. Ma poi ci sono gli eccessi della burocrazia, i tempi eterni della giustizia e le tasse troppo alte, ovvero tutti quei fattori, o meglio «mali storici», che da anni ci condannano alla parte bassa di tutte le classifiche mondiali sulla competitività. Epperò negli ultimi tempi, dopo i crolli del 2008 e del 2012, una certa attenzione nei confronti dell’Italia è tornata. Nei primi sei mesi dell’anno oltre metà delle operazioni di acquisizione e fusione porta la firma di investitori esteri, dai russi che entrano in Pirelli alla People bank of China che investe in Fiat, Generali e Telecom, sino a Electrolux che rileva Merloni. Si tratta di 5,7 miliardi di euro su un totale di 10, +81% sul 2013.

E gli investimenti industriali? Invitalia su 36 «Contratti di sviluppo» ne ha siglati 15 con società straniere, per un controvalore di circa 750 milioni. Si va da Bridgestone a Denso, da Stm a Whirlpool e Sanofi. Progetti anche importanti, ma si tratta sempre e solo di ampliamenti di impianti già esistenti, soprattutto al Sud. Investimenti che invece partono da zero, i cosiddetti «greenfield» (a prato verde) come li chiamano gli esperti? Se ci eccettua quello annunciato a gennaio da Philip Morris, che a Bologna investirà 500 milioni di euro creando 600 nuovi posti, non c’è nulla. Nessuna impresa o gruppo straniero nell’ultimo anno e anche di più, ha avuto il coraggio di investire in un nuovo impianto industriale di dimensioni significative sul suolo italiano. «Siamo a zero», conferma a malincuore Guido Rosa, presidente dell’Aibe, l’associazione delle banche estere che operano in Italia e interlocutore naturale di molti potenziali investitori esteri.

«Il problema fondamentale, come emerge anche dal nostro osservatorio sull’attrattività del Paese, è che il sistema Italia in una scala da zero a cento si colloca appena a quota 33,2. Un livello davvero troppo basso». E oggi, ovviamente, sorprende una forbice così ampia tra investimenti finanziari in forte ripresa e investimenti industriali al palo. «Questo è certamente il dato più rilevante», spiega Nicola Rossi, economista, ex senatore Pd. «Dopo un forte calo è tornato ad esserci un certo movimento sul fronte delle acquisizioni, ma di “greenfield” non si fa nulla. Da molto tempo. E questo la dice lunga sui problemi dell’economia italiana». Che anche in questo campo continua a perdere terreno: in 10 anni, tra il 1994 ed il 2013, l’Italia ha attratto investimenti diretti esteri (finanziari e industriali), i cosiddetti Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari, contro i 567 della Spagna, gli 800 e più di Francia e Germania. Quanto basta per far calcolare al ministro dello Sviluppo Guidi un margine netto di crescita, a regime, di almeno 20 miliardi all’anno. Con quello che significa anche in termini di nuova occupazione.

Inutili fino ad oggi le tante iniziative messe in campo negli ultimi tempi, dal decreto «Destinazione Italia» varato da Letta al più recente «Sblocca Italia»? «È il caso di dire troppo tardi, troppo poco – sostiene Nicola Rossi -. Non sono iniziative sbagliate, ma è poca roba rispetto a quello che sarebbe necessario fare. E poi serve tempo per farle assimilare agli investitori esteri». Quantomeno gli ultimissimi interventi sono serviti a fare un po’ d’ordine, chiarire che la promozione e le trattative coi partner esteri spettano all’Ice, che a Invitalia va la gestione degli insediamenti sul territorio e che «Desk Italia», che fino a ieri fungeva da struttura di raccordo, non serve più e va soppresso. Ma l’ultimo decreto in materia sta ancora in Parlamento in attesa di conversione e la nuova struttura non è ancora partita. Per non parlare dei fondi per la promozione ancora insufficienti: appena 400mila euro contro i 15 milioni dei francesi.

Il cahier de doléances è infinito. Rosa: «C’è tutto un sistema che non funziona: dalla burocrazia alla giustizia, al fisco. Ma la cosa peggiore è l’incertezza totale che avvolge il tutto: è la cosa che gli stranieri non possono sopportare. Chiedono trasparenza, chiarezza e norme stabili nel tempo, non regole che continuano a cambiare e che alcune volte diventano pure retroattive. Un malvezzo pazzesco questo, che i nostri governanti non si rendono conto di quanti danni produca!». Di fatto, spiega a sua volta Nicola Rossi, in questo modo «addossiamo all’impresa molti rischi che vanno oltre il normale legittimo e doveroso rischio di mercato: il rischio fiscale, perché non si sa quante imposte dovranno pagare e come; quello amministrativo, perché non si ha certezze sulle autorizzazioni e sulle date entro cui arrivano; e ancora gli addossiamo rischi sul personale, perché con l’attuale configurazione dell’art. 18 c’è sempre un terzo, il giudice, che si può incuneare nel rapporto a due imprenditore-dipendente. È chiaro che in queste condizioni nessuno viene in Italia a investire davvero. Già il rischio di mercato basta e avanza…».

Come dice Licia Mattioli, presidente del Comitato tecnico per l’internazionalizzazione e gli investitori esteri di Confindustria, «fare impresa in Italia non è facile». «Ma ora ci sono tutte le condizioni perché gli investimenti “a prato verde” siano il prossimo step del ritrovato interesse verso l’Italia degli investitori esteri. Perché da noi ci sono sia competenze estremamente interessanti, sia tecnologie e servizi molto sviluppati. Per questo ora occorre avviare una fase di grandissima attenzione verso l’industria, a cominciare dalle regole sul lavoro». «Tutti guardano come molto interesse e molta attesa al programma di riforme di Renzi, dipende però da quanta strada riuscirà a percorrere. Ed è questo che ora preoccupa», aggiunge Rosa. Che di suo è abbastanza pessimista: «L’Italia ormai da anni è un Paese incapace di modificare alcunché, una paese incredibilmente conservatore».

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Molti storcono il naso per il ‘ricalcolo’ del prodotto interno lordo comprensivo dei proventi illeciti (prostituzione, droga, malavita), sia pure calcolati in modo presunto. Effettivamente, anche se non è quella l’intenzione, l’effetto è di oggettivo sdoganamento di attività non solo fuori legge, ma spesso violente e umilianti. Ma specie in un paese come il nostro, qualcosa ci dice che il concetto di “ricchezza nazionale” non può essere misurato solo compulsando scartoffie: e in questo senso anche il precedente Pil “pulito” non era meno discutibile di quello nuovo e “sporco.

La vita delle persone, il loro benessere, la loro salute fisica e mentale, la loro sopravvivenza alla penuria e alla crisi non sono una somma di numeri. Sono un intreccio di quantità e di qualità poco percepibili con la mera misura economica. Eppure la misura economica, così arbitraria, è ciò che regola da molto tempo, con ferrea determinazione, le scelte politiche dei governi nazionali e dell’Europa. Nessun altro criterio sembra poter fare breccia, tanto che la crisi della politica è riassumibile soprattutto nella sua totale impotenza di fronte all’economia. E dunque non è una cattiva notizia che criteri considerati aurei e intoccabili, come quelli utilizzati per calcolare il Pil, siano soggetti a possibili variazioni. È una morsa che si allenta. Un Verbo che diventa un po’ meno dogmatico.

Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Federico Fubini – La Repubblica

Seguaci di Margaret Thatcher contro fedeli della bocciofila. Rottamatori contro custodi di una visione che in Germania fu superata nel 1959, a Bad Godesberg, quando la socialdemocrazia accettò l’Occidente. E via con gli scambi di accuse. Non appena si tocca il tema del lavoro in Italia, i decibel salgono al punto da coprire qualunque altro segnale. Le proposte assumono un significato che, sul momento, sembra superare il loro impatto concreto. In questo l’idea di introdurre un contratto permanente a tutele progressive, ma senza diritto di reintegro per via giudiziaria, non fa eccezione.

I semplici numeri alla base di questa ipotesi però raccontano una situazione diversa. Questa riforma non ha l’aria di segnare una svolta radicale, ma un’evoluzione (quasi) cauta rispetto all’aggressività con cui avanza il male italiano. Il tutto, sullo sfondo di sistema di welfare ormai talmente ingiusto verso i più deboli che, visto nei dati reali, grida al cambiamento. Le statistiche su cui il ministero del Lavoro sta misurando gli effetti reali della riforma sono quelle sui nuovi contratti di lavoro. E quanto a questo, i dati segnalano un fenomeno crescente: ai ritmi attuali, le nuovi assunzioni a tempo indeterminato rischiano di diventare una specie in via di estinzione. Nel 2011 sono state 1,8 milioni, nel 2012 sono scese a 1,7 milioni e l’anno scorso si sono ridotte a 1,5 milioni. Non c’entra solo la poca disponibilità di posti di lavoro, perché i contratti coperti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, un tempo la norma, calano molto più in fretta degli altri. Negli ultimi tre anni sono passati dal 20% al 16% di tutti i nuovi contratti. È una tendenza al declino che continua e trova la sua contropartita nella crescita dei contratti a tempo: erano il 63% del totale nel 2011 e sono saliti al 68%. Malgrado un crollo dell’economia del 5% intervenuto nel frattempo, ne sono stati firmati ben 6,5 milioni sia quattro anni fa che l’anno scorso.

Se questi sembrano numeri elevati per un Paese così affamato di lavoro, è perché gli stessi precari firmano più contratti brevi in un solo anno. Ma le statistiche del ministero del Lavoro rivelano anche un’altra conseguenza della riforma voluta da Matteo Renzi: molto probabilmente, al premier serviranno non meno di sette o anche dieci anni per cambiare a fondo il rapporto fra le imprese e i loro dipendenti permanenti. Più che una rivoluzione, sembra una trasformazione progressiva.

Possibile? L’idea del premier sulle tutele crescenti ricorda un aspetto del modello iberico, da Renzi spesso deprecato. In Spagna le tutele crescenti valgono per tutti, perché l’indennizzo in caso di licenziamento per motivi economici vale per qualunque dipendente a tempo indeterminato. Per i giovani il governo di Mariano Rajoy propone qualcosa di simile a ciò che ora vuole fare Renzi: incentivi fiscali o contributivi sui primi due anni per le imprese che li assumono con contratti permanenti. In questo l’Italia cerca di applicare una versione di ciò che la Spagna fa già.

L’impatto però sarebbe graduale, perché la riforma non si applica ai contratti esistenti ma solo alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Queste ultime in Italia sono state due milioni nel 2011 e 1,5 milioni nel 2013, risulta al ministero del Lavoro. Ma poiché l’Istat registra circa 14,5 milioni di dipendenti assunti in modo permanente, l’attrito dei nuovi contratti fa sì che la scomparsa dell’attuale tutela dell’articolo 18 prenderebbe gran parte del prossimo decennio. Un effetto collaterale può verificarsi subito: certi lavoratori potrebbero diventare riluttanti a cambiare azienda, perché non avrebbero più la protezione di cui godono oggi in caso di licenziamento. Con il vecchio contratto potrebbero contare su un giudice del lavoro che li rimette al loro posto, se l’azienda vuole cacciarli; con il nuovo avrebbero diritto solo a un indennizzo. Dunque la coesistenza dei due regimi può bloccare gli ingranaggi di un normale mercato del lavoro, perché pochi avranno ancora voglia di muoversi.

L’altro punto critico riguarda il sostegno ai disoccupati. Chi resta senza cassa integrazione o mobilità, perché era precario o perché è a casa da troppo tempo, oggi può contare solo sull’assistenza sociale dei comuni. Di qui la povertà estrema che si sta diffondendo in molte parti d’Italia, specie fra chi vive in comuni rimasti senza soldi. Finisce così che il welfare è più ricco dove serve di meno, ma miserabile dove sarebbe più drammaticamente necessario. A dati Istat, nel 2011 la spesa per abitante in interventi sociali ha superato i 250 euro in Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, ma è stata di 25 euro in Calabria e di 45 in Campania. Non è un caso: grazie al loro statuto speciale, Trentino e Valle d’Aosta ricevono dallo Stato oltre il doppio dei trasferimenti, sempre per abitante, rispetto alle regioni del Sud. Questo non è un welfare possibile nel terremoto prolungato che il Paese sta vivendo. Renzi ha trovato una parola per definirlo, e i numeri gli danno ragione. Apartheid.

Gelata a luglio su fatturato e ordini

Gelata a luglio su fatturato e ordini

Carlo Andrea Finotto – Il Sole 24 Ore

Se si ferma anche l’estero sono guai. Il rischio, per il manifatturiero, traspare dalla rilevazione di fatturato e ordinativi realizzata dall’Istat relativa al mese di luglio. A prevalere sono mestamente i segni negativi: il fatturato dell’industria perde un punto percentuale rispetto a giugno e 1,3 punti rispetto a dodici mesi prima (il dato peggiore da ottobre 2013); gli ordinativi perdono 1,5 punti rispetto a giugno e lo 0,7% sul luglio 2013.

Campanelli d’allarme
A preoccupare, al di là del calo generale, sono anche altri due aspetti: il primo è che la flessione dei due indicatori dipende molto dalla frenata dei mercati esteri. A livello congiunturale l’effetto salta agli occhi (-1,4% per il fatturato oltreconfine e addirittura -2,1% per gli ordini); ma anche a livello tendenziale le performance complessive risentono di un rallentamento estero evidente: a luglio i ricavi hanno messo a segno un +0,5% che è poca cosa rispetto al +2,6% di giugno 2014 su giugno 2013. E per gli ordini l’evoluzione è ancora più netta: -0,5% a luglio (nei confronti di luglio 2013) contro +5,2% a giugno. Il secondo aspetto preoccupante è che tra i settori più colpiti da questa gelata estiva ci sono anche quelli che nei mesi scorsi hanno trainato il made in Italy: macchinari (-1,3% il fatturato e -6,2% gli ordini per la meccanica strumentale) e chimica (rispettivamente -5,6% e -6%). Corrono, invece, i mezzi di trasporto (+5,9% il fatturato, +12,8 gli ordini) e l’elettronica (+7,8% e +7,7). A due facce il tessile-abbigliamento (+4,5% e -1,5%).

Recessione mai interrotta
Numeri che accendono un campanello d’allarme anche per Sergio De Nardis, capoeconomista di Nomisma: «Il dato Istat sul fatturato di luglio è in linea con quello, già noto, della produzione industriale. In più, emerge che non è solo il mercato interno a flettere: anche quello estero si è indebolito durante l’estate. Più preoccupante è la rilevazione sugli ordinativi che prefigurano la tendenza futura. Il calo rilevato in luglio segnala la prosecuzione della fase negativa: questi indicatori sembrano puntare a un terzo trimestre peggiore del secondo e dicono che la recessione iniziata a metà 2011 non si è mai interrotta. È solo meno virulenta». Puntuale, è arrivato ieri anche il pessimismo diffuso delle imprese piemontesi, che per il terzo trimestre dell’anno vedono grigio per quanto riguarda produzione e ordinativi.

Macchine utensili in tenuta
I macchinari frenano, secondo l’Istat, ma il comparto è sfaccettato e il segno meno, per fortuna, non è di tutti. Lo dimostrano le performance delle imprese associate a Ucimu (sistemi per produrre e robot): «Nel primo semestre 2014 – dice il direttore Alfredo Mariotti – abbiamo rilevato ordini in crescita del 59,5% sul mercato interno (ma va detto che lo stesso periodo 2013 è stato disastroso), e del 7,8% su quello estero, con una media complessiva di +14,9% rispetto ai primi due trimestri dello scorso anno». Dati più che confortanti, anche se rimane un gap da colmare sul periodo pre-crisi: «Nel primo trimestre 2014 – sottolinea Mariotti – eravamo ancora oltre 8 punti sotto rispetto al 2010».

Vantaggio tecnologico
Tra le pieghe dei numeri dell’Istat e delle performance, pur positive delle macchine utensili si nasconde tuttavia un’insidia a medio termine: la perdita del confronto tecnologico con i paesi competitor. A evidenziarlo è ancora Alfredo Mariotti: «L’età media del parco-macchinari esistente in Italia è di oltre 22 anni. È strategico e indispensabile favorirne lo svecchiamento, anche perché nel frattempo proprio i numeri dell’export dei macchinari indicano che all’estero le aziende si stanno progressivamente evolvendo». Servono, per il direttore di Ucimu e di Federmacchine «misure concrete che affianchino la nuova Sabatini (che peraltro funziona bene) e spingano la sostituzione dei macchinari a valle del nostro sistema; sia per rendere più sicuri e competitivi i luoghi di lavoro, sia per evitare che il nostro manifatturiero perda il vantaggio competitivo che si è costruito».

L’agroalimentare
L’industria alimentare ha limitato i danni rispetto ad altri settori (-1,7% il fatturato), ma secondo Coldiretti hanno pesato «il fatto che gli italiani abbiano tagliato il budget di spesa e l’effetto maltempo su alcuni prodottitipicamente stagionali (gelato, birra, bibite, frutta)». A cambiare, per Coldiretti «è anche il livello qualitativo degli alimenti acquistati con una preferenza per i cibi a basso prezzo».

Lo stato deve ancora pagare 73,5 miliardi alle imprese

Lo stato deve ancora pagare 73,5 miliardi alle imprese

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Alla fine il premier Matteo Renzi ha ceduto: l’impegno sul pagamento dei debiti al 31 dicembre 2013 delle pubbliche amministrazioni non è rispettato e, come anticipato da Bruno Vespa (ispiratore della scommessa), si è detto disponibile a percorrere la ventina di chilometri che separa Firenze dal santuario del Monte Senario. Il presidente del Consiglio ha chiesto di essere accompagnato non solo dal giornalista, ma anche dal ministro dell’economia Padoan, dal presidente della Cassa depositi e prestiti Bassanini e da quelli di Confindustria e Rete Imprese, Squinzi e Merletti.
Al di là delle trovate estemporanee, la confusione sul tema è tale che, a tutt’oggi, non si ha ancora la misura esatta di quanto lo Stato debba corrispondere alle aziende creditrici e, pertanto, a quanto ammonti il saldo finale. Una situazione che ha irritato non poco il vicepresidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, artefice della direttiva che impone agli Stati Ue di onorare in tempi certi i propri debiti estrapolando l’80% del pregresso dal computo del Patto di Stabilità.
Ieri, durante la conferenza stampa di presentazione del convegno «L’Europa e l’Italia che vogliamo» (il 26 e il 27 settembre a Perugia), ha anticipato i contenuti di tre interrogazioni presentate all’esecutivo di Bruxelles. Nella prima si chiede di stilare un primo bilancio dell’applicazione della direttiva comunitario sui tempi di pagamento e le ricadute sulle pmi. Nella seconda si interpella la Commissione sulle risposte fornite dall’Italia in merito alla propria esposizione nei confronti dei fornitori della pa. L’ultima, invece, si domanda se Bruxelles intenda comminare sanzioni all’Italia visto che lo Stato continua a non rispettare la direttiva, sforando sistematicamente il termine fissato di 60 giorni.
Nell’occasione Tajani ha riproposto il proprio atto d’accusa. «Oltre ai 60 miliardi che l’amministrazione pubblica deve ancora pagare, si sono accumulati altri debiti per gli interessi di mora per 8-10 miliardi», ha sottolineato. Secondo l’esponente di Forza Italia, però, occorrerebbe riformare il patto di stabilità interno (quello che impone anche alle amministrazioni locali il tetto del 3%) perché in contrasto con la normativa Ue sul pagamento dei debiti.
E mentre il ministro Graziano Delrio continua a sostenere le tesi del premier sostenendo che restano da pagare una trentina di miliardi visto che dei 60 complessivi lo Stato ha già onorato la metà, ieri è stato il centro studi ImpresaLavoro a sbugiardare Palazzo Chigi. «Nonostante le promesse, lo stock complessivo del debito rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 73,5 miliardi di euro», sostiene il presidente Massimo Blasoni ricordando che «i debiti commerciali si rigenerano con frequenza». Per quanto riguarda il 2014, «stimiamo che siano già stati consegnati beni e servizi per circa 113,5 miliardi di euro e di questi ne sarebbero stati pagati soltanto 40». Senza contare il saldo delle spese in conto capitale legate al settore edilizia, bloccato dal Patto di Stabilità e del quale l’Ance lamenta la mancata corresponsione. Secondo ImpresaLavoro, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese circa 6 miliardi l’anno di oneri di finanziamento con cui sopperire alle entrate mancanti. Nel periodo 2009-2013, oltre a pagare tasse sempre più esose, le aziende sono state «costrette» a devolvere alle banche circa 30 miliardi.
Non bisogna lamentarsi, poi, se molti imprenditori hanno deciso di trasferirsi in Svizzera. Da ieri avranno un motivo in più: la Confederazione ha deciso di anticipare la riforma fiscale applicando il trattamento vantaggioso degli utili conseguiti in Svizzera a quelli ricavati all’estero. Perché restare in Italia, allora?

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Filippo Caleri – Il Tempo

Alla fine la verità sta nel mezzo. Anche nel caso dei debiti della pubblica amministrazione che negli ultimi giorni sono stati al centro di un’autentica lotteria. Gli artigiani della Cgia di Mestre hanno sostenuto che Renzi non ha mantenuto la promessa di saldarli tutti entro il 21 settembre, il premier sceso in campo per precisare che era già tutto in pagamento. Così ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha confermato che in realtà i soldi a disposizione delle imprese sono 55-60 miliardi, ma quelli effettivamente pagati sono 31-32 a causa di ritardi prevalentemente dovuti alla comprensione da parte delle aziende del nuovo sistema per liquidare i loro crediti verso la pubblica amministrazione. «Posso garantire che il meccanismo che abbiamo messo in piedi è assolutamente certo ed esigibile» ha detto Delrio a margine di un’audizione al Parlamento Ue, sottolineando che «sul fatto che ogni imprenditore può andare a riscuotere quello che gli è dovuto non c’è alcun dubbio». Quindi Delrio ha spiegato che «il fatto che da 60 o 55 (miliardi), come presumibilmente saranno alla fine quelli reali, si sia arrivati a 31-32, dipende dai meccanismi di velocizzazione che le imprese hanno avuto nel rendersi conto del nuovo sistema». Delrio ha aggiunto al riguardo che «a volte alcuni enti locali non hanno pagato le loro partecipate», precisando che in questi casi «c’è anche qualche ritardo un po’ colpevole, tra virgolette». Dunque alla fine se i soldi ci sono ma non sono stati erogati è come se non ci fossero. Secondo questa tesi Renzi dovrebbe pagare la penitenza di andare a piedi al santuario del Monte Senario come annunciato nella puntata di Porta a Porta nel caso non avesse assolto l’impegno. A rincarare la dose è stato ieri il vicepresidente vicario dell’Europarlamento Antonio Tajani: «Mancano ancora all’appello circa 60 miliardi dallo Stato per i pagamenti dei debiti della pa». Dati alla mano, «la Banca d’Italia ha stimato i debiti della Pa al 31 dicembre 2012 a circa 90 miliardi», ha spiegato Tajani. «Da parte sua il governo ha stanziato 56,8 miliardi di questi sono stati erogati alle pubbliche amministrazioni 30, ma la Pa ne ha pagati 26,1. Dunque in totale mancano intorno ai 60 miliardi: 30 miliardi di quelli che sono stati stanziati e altri 30 circa ancora da stanziare». Infine Massimo Blasoni, presidente del centro studi “ImpresaLavoro” ha detto che «liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione».