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Prima o poi ci arrivano

Prima o poi ci arrivano

Raffaele Marmo – La Nazione

«Prima o poi ci arrivano, magari ma ci arrivano. Il problema è che non si guardano mai indietro e non contano mai i danni fatti nel frattempo». La chiosa è di un vecchio sindacalista che ne ha viste tante, quando parla della Cgil e dell’attuale sinistra Pd. È stato così proprio con lo Statuto dei lavoratori, non votato dall’allora Pci e mal visto dalla stessa Cgil e oggi difeso come fosse il frutto migliore della loro storica azione. Ma è stato cosi anche con il decreto di San Valentino sul taglio della scala mobile, contrastato sempre da Pci e Cgil-tendenza Botteghe Oscure fino a giungere al referendum dell’85 (clamorosamente perso, per inciso): salvo poi sostenere che la politica dei redditi, con annessa concertazione, aveva salvato l’Italia dalla bancarotta. Manca ancora un po’ e analoga sorte toccherà alla Legge Biagi, quando magari verrà messa pragmaticamente in discussione perché superata o superabile.

Ma fermiamoci qui. Sarebbe lungo l’elenco degli appuntamenti con la storia rispetto ai quali la sinistra-sinistra politico-sindacale, è arrivata con decenni di ritardo. E, dunque, non poteva che essere così anche nel passaggio cruciale di questi giorni nei quali vengono poste le premesse per il superamento dell’articolo 18. Senonché, a fare oggi la differenza, è che il presunto «attacco» ai diritti dei lavoratori non viene dalla «destra» sostanziale o formale (Craxi, Berlusconi) o dai «padroni», ma da colui che, fino a prova contraria, è il leader del loro partito. Da qui il disorientamento, la complicazione del quadro di riferimento, anche l’incapacità del «che fare» che attanaglia la sinistra di estrazione Ds-Cgil.

È saltato, insomma, il vecchio modello, all’interno del quale era agevole distinguere «buoni» e «cattivi», salvo accorgersi poi, a distanza, che i «cattivi» magari avevano avuto ragione. Questo è sicuramente un merito – il più importante a oggi – di Matteo Renzi: aver fatto saltare il comodo e confortevole schema di gioco che ha permesso alla sinistra poco riformista e tanto massimalista di non dover fare i conti con i propri errori. Non a caso è il primo vero atto blairiano del suo governo, all’insegna di quel passaggio – la rottura con la sinistra interna – che segnò la nascita del New Labour, perché, come avvisò Tony Blair nel 1995, «values don ‘t change, but times do», i valori non cambiano, ma i tempi sì.

L’asta può attendere

L’asta può attendere

Giuseppe Turani – La Nazione

Il cavallo non beve? Ci sono i soldi ma le imprese li lasciano nelle banche? Probabilmente sì. La Bce ha messo a disposizione delle banche una prima tranche dei 400 miliardi stanziati da qui a dicembre. Ci si aspettava che in questa prima asta le richieste fossero almeno di 100 miliardi. Invece ci si è fermati poco sotto quota 83 miliardi. Mario Draghi, cioè ha messo sul tavolo 100 miliardi, ma non sono stati ritirati nemmeno tutti dalle banche (che avrebbero dovuto rigirarli alle imprese). Ma non c’era l’intera Europa affamata di soldi da investire? La vicenda è un po’ più complessa.

Intanto, questa prima assegnazione di fondi è caduta proprio nel giorno del referendum scozzese. Le banche, non sapendo quale sarà la situazione dell’euro il giorno dopo, hanno preferito muoversi con i piedi di piombo. Inutile rischiare quando si potrà partecipare alle altre aste. La seconda ragione della prudenza è molto tecnica. A ottobre scattano per le banche europee gli stress-test. Si faranno prove per vedere come i bilanci degli istituti reagiscono di fronte a una serie di difficoltà. Le banche lo sanno e si sono preparate (come hanno potuto). In pratica dovrebbero avere tutte i bilanci a posto, in grado di superare gli stress-test. In queste condizioni hanno preferito non complicarsi troppo la vita imbastendo operazioni finanziarie nuove a pochi giorni dall’avvio dei test.

Anche perché i soldi della Bce si potevano ritirare solo a fronte di reali prestiti alle aziende o alle famiglie. In sostanza, bisognava impostare delle operazioni di credito che invece si è ritenuto più prudente rinviare al fine di non “sporcare bilanci che, almeno in teoria, così come sono dovrebbero essere in grado di superare le prove previste. Ma quasi certamente c’è anche il fatto che le banche europee non hanno davanti ai loro sportelli la fila di aziende che chiedono soldi per nuovi e vantaggiosi investimenti. E la cosa è abbastanza comprensibile.

L’economia europea è quasi ferma (quella italiana va addirittura indietro). In queste condizioni anche l’imprenditore più avventuroso si guarda bene dall’investire visto che poi non saprebbe a chi vendere i suoi prodotti. Sembra di capire (ma bisognerà attendere le prossime aste) che mettere soldi sul tavolo non basta: bisogna anche che esista un mercato, cioè gente che abbia la voglia di fare acquisti e di spendere soldi. Oggi non è così.

Le banche rifiutano il denaro di Draghi: l’economia è ferma

Le banche rifiutano il denaro di Draghi: l’economia è ferma

Ugo Bertone – Libero

«Una batosta per Draghi». Non ha usato mezzi termini il sito del Financial Times per giudicare a caldo l’esito della prima asta Tltro, cioè i prestiti della Bce alle banche perché finanzino l’economia reale dell’Eurozona a secco di capitali. I numeri sono impietosi: a fronte di una previsione di 133 miliardi, ne sono stati richiesti 82,6. Su 382 istituti europei che avevano diritto a partecipare alla distribuzione dei fondi, ben 127 sono rimasti alla finestra. Le banche italiane, per la verità, sono state le più attive, avanzando richieste per 23 miliardi. In particolare Unicredit ha avanzato richieste per 7,7 miliardi, seguita da Intesa (4 miliardi), Mps (3 miliardi) e da Iccrea (2,24 miliardi per conto di 190 banche cooperative). Si sono fatti avanti anche Bper (2 miliardi), Banco Popolare e Credito Valtellinese (1 miliardo a testa), Credem e Carige (attorno a 750 milioni), più Mediobanca (570 milioni). Un elenco che potrebbe salire e non di poco con la prossima offerta di dicembre. Ma anche così il risultato è inferiore alle attese. Alla vigilia il ministro Pier Carlo Padoan aveva, infatti, definito credibile una richiesta di 37 miliardi.

Di questo passo, se il flop si ripeterà a dicembre e nelle successive sei operazioni previste da Francoforte, andranno deluse le speranze del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che da questi prestiti si aspetta, di qui al 2016, 200 miliardi da mettere a disposizione delle imprese con un contributo al Pil di almeno un punto percentuale, ovvero una preziosa boccata d’ossigeno anti-recessione. Ancora una volta, come capita ormai troppo spesso, le previsioni e le speranze dei tecnici si sono rivelate troppo ottimistiche. Senza dimenticare poi che una fetta molto consistente dei nuovi prestiti servirà a ripagare nel prossimo febbraio i debiti con Francoforte legati al primo Ltro.

Ma perché? Per quale motivo le banche sono così restie ad attingere a prestiti allo 0,05% per la durata di quattro anni? La risposta più convincente arriva da Paolo Guida, vicepresidente dell’Aiaf, l’associazione degli analisti finanziari: «Il problema – dice – sta, soprattutto in Italia, più nella domanda che nell’offerta di credito. Le condizioni dell’economia, infatti, non giustificano investimenti da parte delle imprese o l’ulteriore indebitamento delle famiglie». Insomma, il sistema sembra ormai precipitato nella trappola della liquidità descritta da Keynes: non si prendono a prestito quattrini oggi perché, di fronte al crollo dei prezzi, le cose costeranno di meno domani. Ovvero, come recita il proverbio, si può portare il cavallo in riva al fiume ma non lo può costringere a bere. E i cavalli, ovvero le aziende tricolori, sono davvero stremati. Inoltre, a frenare il credito non è tanto la mancanza di liquidità bensì la combinazione tra i vincoli patrimoniali imposti dall’Aqr e il rischio legato agli impieghi.

In questa situazione la Bce paga il prezzo per essersi mossa con eccessivo ritardo. I prestiti Tltro avrebbero avuto ben altro effetto se messi in pratica prima che la situazione si deteriorasse in maniera così tragica. Ma Draghi ha dovuto (e deve) affrontare l’opposizione irriducibile dei falchi tedeschi che si ostinano ad invocare nuova austerità, con il pretesto che ogni allentamento della stretta sia usato come pretesto per non fare le riforme. In questa cornice, però, la relativa sconfitta subìta ieri dalla strategia di Draghi può tradursi in un’occasione di riscossa. Il flop dimostra soprattutto che i mali dell’Europa sono così gravi che non si possono curare con l’aspirina dei Tltro. Ci vuole una terapia più forte: senz’altro è necessario che la Bce possa procedere presto all’acquisto degli Abs (Asset backed securities), ovvero prodotti in cui le banche potranno impacchettare prestiti poco redditizi o comunque “scomodi” come ha potuto fare la Federal Reserve, rivitalizzando il mercato del credito per l’acquisto dell’auto. Ma, soprattutto, super Mario dovrà lanciare il “quantitative easing” europeo, ovvero l’acquisto di titoli di Stato ed azioni in quantità sufficiente per smuovere l’economia. Quanto ci vorrà? Forse non saranno sufficienti nemmeno i mille miliardi di cui ha già parlato Draghi. Ma non è il caso di esitare. Come ha detto lo stesso banchiere romano, di questi tempi «il rischio di non fare è molto più alto di quello di fare».

La liquidità da sola non basta

La liquidità da sola non basta

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Ci sono limiti a quello che la politica monetaria può fare, oltre i quali spetterebbe alla politica fiscale dei governi intervenire, sostenere direttamente l’economia e la domanda aggregata. Il modesto esito della prima operazione di credito mirato e a lungo termine (Tltro) è probabilmente una testimonianza dei limiti della Bce. Quella di ieri non rappresenta una lezione conclusiva, vi sono infatti anche ragioni tecniche dietro al collocamento di solo metà dell’ammontare di crediti che era stato stimato.

Tuttavia la bassa domanda per prestiti quasi senza costo, di durata lunga e da destinare alle imprese, inevitabilmente accentua i dubbi sullo stato dell’economia reale e sulla possibilità che sia la politica monetaria a scioglierli. Nella media dell’area euro il credito alle piccole e medie imprese non è più limitato dalla disponibilità di fondi quanto in passato, ma pesa un’incertezza ancora grave sul futuro.

Il rischio di deflazione, per esempio, renderebbe il livello dei tassi reali non così favorevole come sembra. Inoltre è ancora in corso un processo di riduzione dei debiti, e questo comprime l’effetto di ogni politica monetaria espansiva. Alla fine la maggiore offerta di credito finisce per essere poco utile alla crescita, o secondo la nota metafora, finisce per spingere invano una corda.

Nelle statistiche europee spicca la coincidenza tra debolezza del credito bancario e degli investimenti. Nei paesi europei più vulnerabili d’altronde le condizioni incerte dei debitori pesano sia sull’offerta sia sulla domanda di credito e la caduta degli investimenti è stata particolarmente forte. Ma chi si aspettava più adesioni all’offerta della Bce, osserva che nell’operazione di ieri si sono fatte sentire soprattutto le defezioni delle banche di paesi non della periferia. Alcune di esse hanno voluto evitare di apparire bisognose di fondi proprio alla vigilia della valutazione dei bilanci. Ma in realtà sono mesi che, nonostante la disponibilità di denaro a buon mercato, il credito non sta crescendo nemmeno nei paesi più solidi dell’area euro.

La scarsa domanda di credito delle banche dei paesi più saldi si aggiunge alla diagnosi di chi ritiene che l’area dell’euro sia scivolata in una trappola della liquidità; che i problemi dell’economia siano soprattutto nel vuoto di investimenti; o si nascondano in un’incertezza più insidiosa sul futuro dell’Europa che affonda le sue radici sotto l’intero territorio economico dell’euro-area. Se è così, è possibile che anche altre iniziative della Bce – l’acquisto di titoli da cartolarizzazione (Abs) o perfino quello di titoli sovrani – abbiano un impatto insufficiente su un’economia reale che non vuole investire e non può consumare.
Prima di trarre conclusioni bisognerà attendere che si chiarisca tra poche settimane lo stato delle banche europee, con l’esito dell’analisi dei bilanci e la revisione degli attivi. A quel punto sarà chiaro quali istituti avranno bisogno di ricapitalizzarsi. Per banche più solide sarà possibile assumersi il rischio tipico delle fasi di transizione dell’economia, l’asimmetria informativa che durante le crisi rende più difficile al creditore valutare le reali prospettive del debitore. Ma a patto che si riesca a ricostruire un po’ di fiducia nel futuro. E per farlo non è indispensabile fare davvero tutte le cose inutili prima di fare quella necessaria: senza rilanciare la fiducia, le aspettative non possono cambiare.

Non è un compito che si può lasciare solo alla Bce. L’operazione di ieri getta anzi un’ombra sull’obiettivo della Bce di aumentare rapidamente il proprio bilancio. La quantità di credito che la Bce intende immettere nei prossimi mesi è davvero grande, poco meno di mille miliardi di euro. Ma nelle complesse circostanze attuali, l’effetto dell’offerta di credito non sembra dipendere dal volume, quanto dall’effettivo beneficio per il debitore: può essere il trasferimento di rischi a carico del creditore oppure un costo del denaro eccezionalmente conveniente. In entrambi i casi, la politica monetaria tenderebbe però ad assumere caratteri fiscali, che spetterebbero invece ai governi. Quando la Bce ha chiesto ai governi di farsi carico dei rischi dei titoli cartolarizzati, la risposta di Germania e Francia è stata negativa, come se si fosse ormai accettato che la politica fiscale comune finisca nascosta dentro al bilancio della Banca centrale. Non è un buon modo per convincere i cittadini, i risparmiatori e gli investitori, ad avere fiducia nella volontà politica europea.

Il credito riparte quando c’è crescita

Il credito riparte quando c’è crescita

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

Il primo colpo di bazooka contro la crisi è andato a vuoto: l’asta Bce dei prestiti agevolati per riattivare l’erogazione del credito in Europa è andata ben al di sotto delle aspettative, creando così seri interrogativi sull’efficacia della manovra per favorire la ripresa manifatturiera e sulla necessità di interventi monetari più radicali. Se le banche hanno chiesto infatti meno del previsto – 82,6 miliardi a fronte di aspettative per quasi 150 miliardi di euro – significa che le tensioni e le incertezze che si vedono ancora all’orizzonte, soprattutto sul fronte economico, rendono del tutto superflua un’ulteriore provvista di liquidità da riservare all’attività di lending per le piccole e medie imprese: senza la domanda, la maggiore offerta ha poco senso.

L’asta Tltro ha messo a disposizione delle banche quasi 400 miliardi di qui al 2016, da rimborsare in quattro anni. E l’ha agganciata a una condizione ben precisa: se la banca non utilizza il prestito per aumentare le erogazioni alle piccole e medie imprese non finanziarie, dovrà restituire l’intero ammontare entro due anni. Una condizione “tagliola”, questa, voluta espressamente dallo stesso Mario Draghi per scoraggiare il ricorso ai prestiti di Francoforte solo per poi acquistare titoli di Stato: «I prestiti – ha detto a chiare lettere Draghi – devono essere contratti solo per finanziare l’economia reale». Se l’intenzione e gli obiettivi dell’operazione erano (e sono) dunque buoni – in Inghilterra la ripresa del credito si deve proprio a una manovra analoga lanciata dalla Bank of England (loan for lending) – resta da capire perchè le banche dell’Eurozona non si siano presentate in massa allo sportello.

Anche se conclusioni più certe e definitive sulla partecipazione delle banche al programma per le pmi si avranno non prima di dicembre, quando scatterà la seconda delle 6 aste Tltro programmate dalla Bce per un totale di 400 miliardi, l’esito dell’assegnazione di ieri non è stata del tutto una sorpresa nemmeno a Francoforte: non solo perchè l’asta è caduta proprio alla vigilia della pubblicazione degli stress test sui bilanci bancari – un esame che mette in tensione le banche e le spinge alla prudenza – ma soprattutto perchè è ormai da tempo che la stessa Banca centrale europea va ripetendo che le manovre sulla liquidità servono a stabilizzare il mercato finanziario, ma possono fare poco o nulla per rilanciare l’economia europea e soprattutto quella dei paesi periferici dell’Eurozona la cui ripresa (anche in termini di investimenti esteri e di fiducia dei mercati) molto dipende dalle riforme strutturali, dal varo di efficaci politiche industriali e soprattutto dalla capacità della classe politica europea di rispondere con nuove politiche di bilancio più flessibili alle sfide di una crisi che non si può più nemmeno definire a macchia di leopardo.

Il non aver affrontato per tempo la crisi industriale e occupazionale in Paesi chiave dell’Unione Europea – come per esempio l’Italia – ha generato infatti una sorta di effetto-domino sulle economie circostanti, fino a ostacolare la ripresa in paesi-guida come la Germania o a peggiorare situazioni già in bilico come quella francese. Ora che lo stallo dell’economia europea è chiaro a tutti – come confermano i recenti allarmi di tutte le organizzazioni economiche e finanziarie internazionali, dall’Fmi all’Ocse fino all’Eurotower di Mario Draghi – il vero nodo della questione è che cosa farà Bruxelles sul fronte politico per dare peso, sostanza e prospettive alla manovra di stimolo monetario appena avviata da Francoforte. Qui non si tratta più solo di discutere i margini di flessibilità fiscale che ogni Paese ha il diritto di avere per fronteggiare una crisi economica, ma di fare almeno tre passi in più: dare un ruolo alla Commissione nel decidere piani di intervento di sostegno straordinario per i casi di crisi industriale più acuta a livello nazionale o regionale, aumentare il bilancio della Ue per dotarlo di risorse ad hoc da utilizzare nel sostegno dell’occupazione laddove le crisi industriali hanno superato il livello di guardia. Non ultimo, rivedere il sistema di regole sulla stabilità del mercato finanziario e dell’industria bancaria per ridurre, se non temperare, quelle norme chiaramente pro-cicliche che hanno costretto le banche di ogni tipo e dimensione a stringere il credito per sostenere (o evitare) drastici interventi di ricapitalizzazione e pulizia dei bilanci.

Oggi per una banca è estremamente oneroso non solo detenere partecipazioni azionarie nelle aziende – fenomeno tipico dei mercati come il nostro in cui il ruolo del mercato dei capitali è stato tradizionalmente svolto dal settore bancario – ma anche erogare credito alle piccole e medie imprese, che sono non a caso le più colpite dal credit crunch. Secondo i parametri di Basilea 3, la banca che presta soldi a una piccola azienda la cui solidità o patrimonializzazione non è eccellente (e quale Pmi non si trova oggi in questa situazione?) è costretta a effettuare accontamenti che si avvicinano ormai alla stessa entità del prestito: a che serve allora dotarsi di liquidità aggiuntiva? In conclusione, il flop dell’asta Tltro è in realtà un messaggio molto chiaro lanciato dalle banche ai governi e alle istituzioni europee: la liquidità è utile per sostenere il mercato finanziario, per uscire dallo spettro della deflazione e per rafforzare il patrimonio del settore creditizio attraverso gli acquisti di titoli di Stato. Ma se l’obiettivo è quello di rilanciare l’economia, serve molto di più del denaro facile: servono politiche industriali per indirizzare gli investimenti delle imprese, serve un’Europa più consapevole dell’interdipendenza che lega i destini – e le economie – dei suoi stati membri.

Il colpo (quasi) a vuoto della Bce

Il colpo (quasi) a vuoto della Bce

Francesco Manacorda – La Stampa

Il bazooka anticrisi di Mario Draghi ha sparato, ma il primo colpo è meno forte di quel che ci si aspettasse: le banche dell’Eurozona hanno chiesto alla Bce 83 miliardi di crediti a tasso agevolato contro una previsione di circa il doppio. E soprattutto il bersaglio al quale il bazooka mira – fuor di metafora i finanziamenti che dovrebbero arrivare specie alle piccole e medie imprese – rischia, almeno in Italia, di non essere colpito. In una situazione in cui l’offerta di credito da parte delle banche si concentra su aziende in salute che hanno già abbondante liquidità, la domanda di finanziamenti arriva invece da chi spesso è fuori dai parametri per ottenerli e i nuovi investimenti latitano, non sarà facile per il nostro sistema cambiare marcia. Anche con l’aiuto del piano Tltro – così si chiama in gergo – di Francoforte.

Se oggi si guarda l’Italia con gli occhi di un banchiere il panorama è questo: un’impresa su quattro è in una situazione debitoria che le banche chiamano «deteriorata» ed è difficile, se non impossibile, farle credito aggiuntivo. Un’altra impresa su quattro è in ottime condizioni: esporta su mercati meno depressi del nostro, incassa e guadagna. È in grado di finanziare da sola il suo sviluppo e spesso rimanda a casa quei banchieri che si affollano davanti alla sua porta per farle credito. Restano altre due imprese, che rappresentano la media del sistema: magari per un periodo vanno bene e poi rallentano, magari ottengono una commessa importante che le aiuta a crescere, magari invece vedono il loro mercato di riferimento prosciugarsi. È con loro che i banchieri devono esercitare al massimo grado la loro arte, distinguendo chi merita credito e chi no, rispettando allo stesso tempo regole severe.

Se si guarda la stessa Italia con gli occhi di un imprenditore si vede un Paese dove è difficile prosperare e ancora più difficile investire. Non solo per i mali che ormai conosciamo a memoria – dall’incertezza del diritto al peso della burocrazia – ma anche perché è un Paese ripiegato su se stesso. Se si pensa di aprire un negozio dove saranno i clienti? Se si vuole costruire un palazzo chi comprerà gli appartamenti? Il 2014 è un altro anno non solo perso in termini di crescita, ma addirittura in retromarcia. Per il 2015 le prospettive di ripresa sono tiepide. L’effetto sui consumi degli 80 euro in busta paga per ora non si vede e le incertezze sul fronte fiscale non incoraggiano certo a spendere. Sarà scorretto dirlo, ma anche il divieto di pagamenti in contanti sopra i mille euro sta probabilmente dando un colpo ai consumi.

In queste condizioni è difficile che agli imprenditori basti avere denaro meno caro per decidere di investire. Ed è impossibile che le banche usino i finanziamenti della Bce – seppur praticamente gratuiti – per concedere crediti a chi non abbia un piano di sviluppo credibile. Federico Ghizzoni, il capo dell’Unicredit che è stata la banca italiana a chiedere la somma più alta di fondi del Tltro, sta girando da settimane a spiegare ai suoi uomini e ai suoi clienti le opportunità di fare e avere credito a basso costo. Ma anche lui ha dovuto rilevare che in Italia «gli investimenti industriali sono pochi». Altri banchieri, più cinici o più rassegnati, sono convinti che se non cambierà il clima la cosa più facile sarà prendere i fondi della Bce e investirli in titoli di Stato. Del resto, nonostante il piano di Francoforte sia mirato al finanziamento delle imprese non ci sono sanzioni per quelle banche che si tirano indietro: semplicemente dovranno restituire due anni prima, cioè entro settembre 2016, i soldi presi dalla Bce.

Per ripartire i soldi facili da soli non sono sufficienti. Serve anche una ripartenza dei consumi interni; serve una fiducia che si costruisce con fatica e si disperde con facilità; servono ovviamente le riforme che agevolino investimenti, anche se gli effetti di queste riforme non possono essere immediati. Draghi l’ha chiarito anche questa estate, annunciando passi aggiuntivi e non convenzionali di politica monetaria, quando ha chiesto ai governi di prendersi le proprie responsabilità sulle riforme. È lui, insomma, il primo a sapere che il bazooka da solo non basta.

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Reintegra o risarcimento? L’Italia prova a superare la tutela reale dell’art. 18 nei contratti a tempo indeterminato per i nuovi assunti. In Europa cosa succede? Che l’obbligo del reintegro, come si evince dalla schede qui sotto, è già un’opzione marginale: in pratica per tutti i licenziamenti senza giusta causa (anche economici) le tutele sono essenzialmente monetarie. «La reintegra è facoltativa in Spagna, dopo la riforma Rajoy – ha spiegato il giuslavorista Massimo Lupi dello studio «Lupi&Associati» di Milano – e anche in Germania la tutela reale non è automatica per tutti i casi di licenziamento». Qui, in particolare, c’è un giudizio soggettivo dei giudici. Ma la scelta della tutela reale non è affatto a maglie larghe: «È legata alla possibilità di un ritorno in azienda del lavoratore», ha spiegato il professore di diritto del lavoro a Modena e Reggio Emilia, Michele Tiraboschi. Del resto «in tutti i paesi europei dove è lasciata al giudice la possibilità di prevedere la reintegra – ha aggiunto il professore di diritto del lavoro alla Luiss, Roberto Pessi – l’ipotesi è circoscritta ai casi di nullità dell’atto risolutivo secondo le regole del diritto comune dei contratti».

FRANCIA
Tetto delle sei mensilità
In Francia, per un licenziamento «sans cause réelle et sêerieuse» (cioè, senza una causa reale e seria), il datore di lavoro può opporsi alla reintegra e quindi il giudice può disporre a favore del lavoratore solo un indennizzo non inferiore alle 6 mensilità. La sanzione della reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato non è quindi obbligatoria ed è prevista solo per il licenziamento discriminatorio. Vale a dire quando il licenziamento è nullo per motivazioni attinenti alla sfera privata del lavoratore o intimato a seguito di molestie. In questi casi la reintegra è di diritto per i dipendenti. In tutti gli altri casi scatta invece un risarcimento monetario, un indennizzo, cioè, che aumenta a seconda dall’anzianità di servizio del lavoratore.

GERMANIA
Reintegro non obbligatorio
Qui le tutele si applicano nelle aziende con più di 10 dipendenti, e per i licenziamenti è necessaria una consultazione con il comitato di impresa che, se lo ritiene illegittimo, ricorre al giudice. Che può scegliere tra reintegro e risarcimento. Quindi il reintegro è possibile (ma non obbligatorio) ma è applicato in pochi casi. Questo perché la giurisprudenza tedesca opta per la tutela piena e reale solo se c’è una proficua ripresa della collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore. Quando cioè è possibile un effettivo ritorno in azienda. Un licenziamento è considerato illegittimo quando è basato su fattori inerenti la capacità o le qualità o la condotta del lavoratore. Inoltre per i licenziamenti non economici non è prevista una indennità di licenziamento salvo diversa previsione dei contratti collettivi.

REGNO UNITO
Discrezionalità del giudice
Nel Regno Unito la reintegra del dipendente (in un medesimo posto, «reinstatement», o in un posto diverso e comparabile a parità di retribuzione, «reengagement») è prevista dalla legge ma applicata molto raramente. C’è una forte discrezionalità del giudice (nell’ordine di reintegra). Ma se il giudice ritiene non praticabile il reintegro opterà per una sanzione economica di tipo risarcitoria. La prassi evidenzia come molto spesso i giudici preferiscano condannare al pagamento di una somma di denaro piuttosto alta e che viene ulteriormente incrementata qualora il datore non abbia rispettato la procedura prescritta per il recesso. Il riconoscimento economico (per i licenziamenti ingiustificati) ha dei limiti e comunque varia a seconda dell’anzianità di servizio.

SPAGNA
Dopo la riforma Rajoy
La reintegra è divenuta facoltativa in quanto l’imprenditore può optare per il solo risarcimento del danno in favore del lavoratore corrispondendo una somma che al massimo non può superare i 33 giorni per anno di lavoro invece dei 45 precedenti. La riforma Rajoy in Spagna è intervenuta cercando di rendere meno rigido il mercato del lavoro, in primis innalzando da 6 mesi a un anno il periodo massimo di prova durante il quale è consentito alle parti il libero recesso. Il dipendente a tempo pieno, poi, può essere licenziato anche senza giusta causa. L’azienda è tenuta solo a versargli un risarcimento. Il giudice può emettere sentenza di reintegra in caso di licenziamento illegittimo ma l’impresa può non reintegrare il dipendente pagando un indennizzo

ITALIA
Con la legge Fornero
Nel 2012 è stato modificato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’obiettivo era quello di marginalizzare la reintegra. Ma l’intervento è stato troppo complesso, e soprattutto troppo interpretabile da parte dei giudici. La norma oggi prevede tante conseguenze diverse a seconda del licenziamento. Per i discriminatori c’è la reintegra più un risarcimento; per i disciplinari, di base, solo indennità tra 12 e i 24 mesi, ma se il disciplinare è fondato su fatti falsi scatta la reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se il licenziamento è fondato su motivi fisici: reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se economico: solo indennità (ma se manifestamente insussistente, reintegra più indennità). Per i collettivi: reintegra se si violano i criteri di scelta; per gli altri casi, indennità.

Stangata sulla tassa di successione

Stangata sulla tassa di successione

Filippo Caleri – Il Tempo

Era il 2001 e l’Italia apprendeva dalle parole dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che una delle tasse più odiate dagli italiani, quella sulla trasmissione dei beni di famiglia per morte o volontà dei proprietari, scompariva dal codice tributario. «Sono state approvate le norme per l’abolizione dell’imposta di successione e donazione» disse allora il Cavaliere aggiungendo anche una frase che forse Renzi dovrebbe ripassare: «Pensiamo che con questo provvedimento si possa contare sul ritorno in Italia di investimenti ingenti».

Sono passati quasi 13 anni da quel momento e dopo un parziale dietrofront sul balzello con l’arrivo al governo del vorace ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, si sta per tornare alla situazione di partenza. Non c’è scampo. La ricerca spasmodica di nuove fonti di finanziamento per il bilancio pubblico spingono i tecnici a raschiare il barile e a verificare tutte le possibili opzioni per reperire soldi. Così, visto che i capitoli di entrata sono però sempre gli stessi, era inevitabile che si andasse a toccare l’imposta sulle successioni. Anche in questo caso la motivazione del rialzo è sempre la stessa: la possibilità di aumentarla è legata al fatto che nel resto d’Europa l’aliquota applicata ai passaggi ereditari è molto più alta che in Italia. Senza tenere conto però che molti capitali italiani sono già andati all’estero a causa del dumping fiscale, ovvero di condizioni favorevoli di trattamento dei redditi, praticati oltreconfine. E che ogni aumento di tasse scoraggia non solo quelli che vogliono investire da fuori ma anche quelli che i soldi li vorrebbero tenere nel Paese.

Eppure quando si tratta di far cassa le motivazioni macroeconomiche passano in secondo piano, salvo poi scoprire tra qualche anno che le misure restrittive hanno provocato più danni del beneficio. Comunque secondo quanto ha riportato il Sole 24 Ore ieri lo scopo che si prefigge il governo è di recuperare almeno un miliardo di euro alzando le aliquote applicate al valore dei beni e abbassando la soglia della franchigia ovvero il tetto esente da contributo allo Stato. La decisione potrebbe essere presentata con la legge di stabilità entro il 15 ottobre.

Una norma che modificherà il quadro esistente che prevede oggi, nel caso di trasferimenti di beni avvenuti dopo la morte del proprietario o ad una sua donazione spontanea, una franchigia di un milione di euro, al di sotto della quale non viene effettuato alcun prelievo. Sopra questa soglia bisogna distinguere diverse aliquote a seconda del grado di parentela: 4%, per i beni devoluti a favore del coniuge e dei parenti in linea diretta, (sopra 1 milione di euro); il 6%, per i beni devoluti a favore di fratelli e sorelle, degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea diretta, (sopra i 100mila euro); 8%, per i beni devoluti a favore di altri soggetti.

Secondo le indiscrezioni del quotidiano economico l’ipotesi a cui il governo lavora è quella dell’aumento delle aliquote e l’abbassamento della franchigia sopra a cui scattano i prelievi. La soglia di 1 milione di euro per gli eredi in linea retta potrebbe essere ridotta tra 200 e 300mila euro. E contestualmente, innalzate le aliquote dal 4 al 5% per gli eredi in linea retta, dal 6 all’8% per gli altri parenti e dall’8 al 10% per gli estranei.

Il falso mito delle garanzie sul lavoro e i veri numeri

Il falso mito delle garanzie sul lavoro e i veri numeri

Oscar Giannino – Il Messaggero

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 è un mito, e per questo da decenni è diventato un tabù da non toccare. Perché i miti hanno forza evocativa, sono bandiere di valori, stendardi di visioni ideologiche. Per questo è così difficile mutarli. Non si piegano alla logica dei numeri. Rimbalzano sulla realtà dei fatti. Perché si misurano con il metro delle utopie, non della realtà che per definizione non soddisfa l’idealista. Ecco perché da una parte è buona cosa che Matteo Renzi abbia dato un forte impulso alla possibilità di modificarlo, usando a sua volta termini «valoriali», e proclamando «basta con l’apartheid dei diritti». Dall’altra parte però bisogna saperlo: ora per una parte non trascurabile della sinistra e per i sindacati si ripropone lo stesso campo di battaglia sul quale hanno vinto e rivinto da 50 anni a questa parte, respingendo ogni volta chi voleva scalfire il mito.

Se guardiamo alla realtà, i termini della questione dovrebbero essere del tutto diversi. Per evitare l’ennesima riforma al margine delle regole sul lavoro – ogni governo italiano pasticcia con incentivi e disincentivi per questo o quel contratto, credendo di far bene e complicando solo la distorsione generale che su domanda e offerta di lavoro esercitano migliaia di pagine di norme – pochi numeri dovrebbero essere posti al centro. Se guardiamo alla popolazione tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era fermo al 49,9%, mentre quello tedesco era al 72,3 percento. Se depuriamo i dati dai cassintegrati e disoccupati “ufficiali” che risultano come lavoratori, “attivi” che cercano lavoro, e assumiamo come base l’intera popolazione nazionale, da noi lavora un italiano su tre, in Germania due tedeschi su tre. Questo è il problema numero uno: abbiamo un’enorme gap di occupabilità rispetto al quale rimuovere ostacoli. a cominciare da giovani, donne e over-55. Secondo problema, altrettanto grave: la produttività. Da noi i salari registrano da molti anni un andamento totalmente scollegato rispetto alla produttività: se guardiamo alla manifattura e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita solo verso quota 110 e i salari orari sono arrivati oltre quota 155, mentre nell’eurozona la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dunque deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità sia quelli alla produttività.

Naturalmente, per gli idealisti dell’utopia questi numeri sono invece da respingere. Descrivono un mondo sbagliato perché vuole remunerare anche il capitale per produrre, mentre bisogna che le norme affermino un mondo dove non contano gli interessi, ma solo i valori. Se fate loro osservare che l’articolo 18 si applica oggi a una minoranza netta rispetto ai 22,4 milioni di lavoratori italiani ufficiali – visto che i dipendenti a tempo pieno e parziale sopra la soglia dei 15 per azienda sono circa 9,4 milioni, e dunque ha ragione Renzi a dire «basta apartheid» visto che ne sono esclusi i contratti a termine, i cocopro, gli autonomi, le partite Iva – ti rispondono che al contrario è un buon motivo per estendere l’articolo 18 a tutti i lavoratori: perché è questione di principio. E poco importa se l’estensione delle forme di lavoro meno tutelate per intere generazioni di più giovani è stata dovuta all’effetto-disincentivo rappresentato dall’elevato costo-fisso del rapporto di lavoro acceso «per sempre», in aziende che oggi devono rispondere a una domanda che varia a settimana. Ti diranno che è colpa della globalizzazione, e a quel punto non c’è più confronto possibile, visto che è proprio sull’export verso il mondo che l’Italia deve puntare a breve per tornare alla crescita, mentre per rianimare la domanda interna serviranno tempi più lunghi. Di conseguenza. la battaglia sarà dura. E il rischio è che ancora una volta si perda di vista l’obiettivo più importante.

Con la delega emendata dal governo – e che in Parlamento susciterà un duro contrasto anche nel Pd – si mira a un codice semplificato del lavoro che prevede un contratto d’inserimento triennale incentivato fiscalmentee a tutele crescenti, che prevede per i nuovi assunti in caso di licenziamento il superamento della reintegra giudiziale, che nella riforma Fornero convive ancora con la possibilità dell’indennizzo per i licenziamenti economici. Resterebbe solo l’indennizzo, proporzionato alla durata dell’impiego sinora svolto. Ma senza più distinzione di soglia dei 15 dipendenti, ed esteso anche agli ambiti di lavoro e contrattuali oggi esclusi.

Non è ancora chiaro se l’indennizzo resterebbe per i licenziamenti economici anche dopo i tre anni. Se si limita l’indennizzo per i licenziamenti economici a soli 30 mesi, come sembra di capire, in realtà si segmenterebbe ulteriormente l’apartheid italiana del lavoro. Ma il governo intende questo come “uno” dei pilastri, non “il” pilastro: perché si affianca a un nuovo strumento universale di sostegno al reddito per chi perde il lavoro, volto alla formazione e alla rioccupabilità tramite il nuovo “contratto di ricollocazione”, superando cioè in toto il sistema Cig e la sua illusione di difendere il lavoro “com’era e dov’era”; e alla rivisitazione profonda – speriamo coraggiosa – dei vecchi uffici provinciali del lavoro, creando un sistema di incrocio tra domanda e offerta aperto agli intermediari privati accreditati, e incentrato anch’esso su crediti di formazione per il reimpiego.
Da questo schema resta ancora fuori la produttività: occorre una svolta vera a favore dei contratti decentrati, dando loro la possibilità di prevalere sul contratto nazionale di categoria anche per la parte salariale, lasciando alla contrattazione nazionale solo le tutele e i minimi salariali, cioè i “diritti”, ma scegliendo di trattare turni, orari e salari nelle aziende, compartecipando ai lavoratori premi retributivi sostanziosi quando le cose vanno bene, e decrementi a tutela dell’occupazione quando le cose vanno male.

E c’è anche un’altra insidia. Perché il nuovo contratto d’inserimento sarà interpretato dagli utopisti come una forma che deve sfociare comunque nell’assunzione a tempo indeterminato per tutti. Sbagliando due volte. Primo perché le imprese hanno bisogno anche dei contratti a tempo determinato. E secondo perché la strada maestra per l’inserimento al lavoro dovrebbe essere quella dell’apprendistato professionalizzante, affiancando scuole e università alle imprese sin dall’istruzione superiore, come avviene con enorme successo in Germania.

Siamo reduci dal fallimento degli incentivi al tempo indeterminato voluti da Letta e Giovannini, ed è in corso una colossale presa per i fondelli a 200 mila giovani che avevano creduto a Garanzia Giovani, e che in nove casi su dieci non hanno ottenuto sinora neanche un colloquio di orientamento. Ecco i nuovi frutti dell’utopismo calato dall’alto su troppe regole disincentivanti. Poiché è molto difficile aspettarsi dal governo un energico taglio delle imposte su imprese e lavoro, almeno ci si risparmino scioperi generali sull’articolo 18. Perché, con rispetto parlando, davvero non è il problema centrale dell’Italia, ma solo un mito che i numeri respingono.

Ma nessuno tocchi le tasse sull’eredità

Ma nessuno tocchi le tasse sull’eredità

Francesco Forte – Il Giornale

Matteo Renzi sembra stia pensando a una nuova nefandezza fiscale, cioè l’aumento dell’imposta di successione. Si ridurrebbe la attuale franchigia di un milione di euro, portandola a 300mila euro. L’aliquota fra parenti in linea retta del 4% salirebbe al 6%, quella del 6% sui parenti meno stretti andrebbe all’8% e l’aliquota ordinaria attuale, dello 8%, passerebbe al 10%. Il gettito, attualmente di mezzo miliardo, cosi raddoppierebbe.

Dato lo schema della proposta, il gravame andrebbe soprattutto sui ceti medi e modesti, sui parenti del defunto e sulle piccole aziende non strutturate. La tesi che viene avanzata per questa nuova vessazione tributaria è che si tratta di spostare le imposte dai redditi ai patrimoni. Tesi, comunque, priva di senso in un Paese con un debito pubblico che supera il 130% del Pil, in cui una buona ricchezza privata è garanzia del debito collettivo. Occorrerebbe un maggiore investimento, per accrescere la nostra produttività e competitività onde aumentare il Pil e rafforzare la bilancia con l’estero.

Silvio Berlusconi, sulla base di queste considerazioni, rilevanti anche allora, seppure un po’ meno pressanti aveva abolito l’imposta di successione. Io avevo fatto notare che essa aveva un gettito miserevole, incoerente con il valore annuo dei lasciti ereditari, che si può calcolare dividendo il presunto patrimonio annuo nazionale per 33 che è l’intervallo medio fra le generazioni. Quel calcolo vale anche ora. Se il patrimonio nazionale privato è 9.000 miliardi (evidente sottostima), il 33% è 300 miliardi. Se l’aliquota effettiva è il 4% (media prudenziale fra le aliquote del 4/6/8% attuali e gli esoneri vigenti), il gettito annuo dovrebbe essere 12 miliardi, non mezzo.

Chiaramente i ricchi e i furbi non pagano il tributo di successione anche ora che è al massimo dello 8%, cifra comunque consistente. Ricchi e furbi in parte hanno il controllo dei loro beni all’estero, tramite holding a catena e altre «scatole cinesi» con varie intestazioni e in parte detengono titoli e gioielli in cassette di sicurezza e casseforti. E inoltre con la partecipazione di figli e altri eredi alle varie società e alle scatole cinesi, sono in grado di generare passaggi di proprietà non tassabili. Il tributo successorio lo pagano i familiari del colonnello in pensione che oltre alla prima casa lascia due alloggi: uno che affittava e l’altro che usava come seconda casa. Lo pagano gli eredi del professionista che lascia l’ufficio, dell’artigiano e del negoziante che lasciano i loro piccoli capitali produttivi e l’avviamento.

L’esonero faceva perdere un gettito minimo, liberava gli uffici fiscali da pratiche complicate. Ma ciò che fa Berlusconi è considerato dal Pd, a priori, iniquo, anche se in realtà è ragionevole e liberale. Così Prodi, con un coro di sì dei giustizialisti, aveva reintrodotto il tributo successorio. Qualcuno ha voluto persino sostenere che l’imposta di successione era propugnata da Einaudi, dimenticando che questi, però, sosteneva l’esonero del reddito mandato a risparmio dall’imposta sul reddito, che egli voleva molto moderata. Einaudi non voleva l’imposta di registro. E non voleva che si tassassero i redditi distribuiti dalle società ove già tassati. Invece ora il tributo personale sul reddito arriva al 45% e non esonera il risparmio, salvo quando è tassato con l’elevata cedolare sulle rendite finanziarie. Le società sopportano un carico fiscale che può arrivare al 65%, mentre gli utili distribuiti sono tassati. Sugli immobili gravano sia l’Imu che l’imposta di registro del 9% per i trasferimenti a titolo oneroso. Per le successioni essa è comunque del 3% (però si chiama imposta ipotecaria e catastale) e si aggiunge al tributo di successione.