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Quelle riforme che non riusciamo mai a fare

Quelle riforme che non riusciamo mai a fare

Stefano Lepri – La Stampa

Le riforme sono ciò che l’Italia deve fare per sottrarsi al declino. Sono quelle necessarie a un Paese che aveva già cominciato a impoverirsi all’inizio dello scorso decennio, prima della grande crisi e molto prima delle regole di bilancio europee ancora ieri difese da Angela Merkel. In più, solo cominciare a farle darà forza alla battaglia per il futuro dell’Europa da condurre nei prossimi mesi.

La nuova Commissione europea, la cui squadra è stata completata ieri, mostra una prevalenza di conservatori (soprattutto nel senso della continuità delle politiche attuali). Allo stesso tempo, la svolta di Mario Draghi il 22 agosto ha aperto una fase nuova. Occorre ascoltarlo sia quando dice che senza riforme nessun altro rimedio funzionerà, sia quando aggiunge che la politica di bilancio europea è nell’insieme troppo austera. In Italia conta più il primo punto. Ad esempio l’incapacità di usare appieno i fondi strutturali europei, ricordataci nell’intervista dal presidente uscente della Commissione José Barroso, non può essere scaricata su capri espiatori di comodo: dipende solo dall’inettitudine dei nostri politici locali a formulare progetti capaci di essere approvati da Bruxelles. Non interessa quel denaro perché non rientra negli schemi nazionali di che cosa occorre fare per conquistarsi il consenso degli elettori. E si badi bene che a risolvere il problema hanno provato in tanti, a cominciare dal governo Ciampi 21 anni fa, maggioranze di ogni colore, ministri anche di grande competenza; metodi assai differenti sono stati sperimentati via via.

In altri casi misure che i governi riescono a prendere vengono bloccate dal pulviscolo dei piccoli poteri interessati a che nulla cambi. La struttura del nostro Stato rende facile a troppe entità il non fare, nel calcolo di ricevere prima qualcosa in cambio. Così la burocrazia intralcia le norme attuative, le amministrazioni locali stentano a conformarvisi. Tagliare il nodo con procedure accelerate è spesso peggiore del male: l’arbitrio crea spazio per maxi-tangenti, come emerge dagli scandali della Protezione Civile o del Mose a Venezia.

Ancora più spesso, corporazioni compatte pretendono influenza sul potere politico a danno dell’insieme degli elettori. L’esempio dei 45 giorni di ferie difesi dai magistrati sembra fatto apposta. Non possiamo fare a meno di riformare la giustizia civile quando esistono di fatto una franchigia per i reati (sotto una certa cifra non vale la pena di affrontare costi e tempi di una causa) e una ampia incertezza del diritto (su troppe minuzie si rischia di essere portati in causa). E se si andrà avanti, più ancora dei giudici protesteranno gli avvocati. L’insieme di corruzione politica, inefficienza burocratica e arroganza delle lobbies accresce a valanga la sfiducia nell’azione collettiva. Dilaga la paura di ogni novità; molta propaganda grillina si fonda sul principio del «meglio non fare perché facendo qualcuno ruba»; si finisce a diffidare della stessa parola «riforme».

O si incide su tutto questo, o l’Italia continuerà a deperire; la nostra economia non sarebbe in grado di rispondere agli stimoli forse nemmeno se i vincoli di bilancio sparissero da un giorno all’altro. Nello stesso tempo, il ristagno collettivo dell’area euro va curato con strumenti nuovi; e questo lo deve capire la Germania. Il rischio non è più di un crack da instabilità finanziaria, come nel 2011. Se si continua cosi, senza ripresa e senza lavoro, l’unione monetaria può invece andare incontro a una crisi tutta politica: basti pensare ai correnti sondaggi di opinione in Francia. Eppure a Berlino per fermare l’ascesa degli anti-euro basterebbe calare le tasse, dato che lì le risorse ci sono.

Un uomo al comando

Un uomo al comando

Bruno Vespa – La Nazione

Anche se ha rallentato il ritmo delle scadenze (da “una riforma al mese” al passo dopo passo dei mille giorni), come comunicatore il Matteo Renzi visto l’altra sera a ‘Porta a porta’ resta un ciclone, La ‘concertazione’ fa parte ormai dell’archeologia industriale e sociale. La Cgil proclama uno sciopero? Faccia pure, anzi, visto che non ne ha chiarito la ragione, farò in modo di offrirgliela. L’Associazione magistrati è furibonda? Brrr, che paura! Gli 80 euro non fanno salire i consumi? Vedremo, ma intanto sono un elemento di giustizia sociale. Ci sono grandi resistenze ai tagli? Attenti, raggiungeremo i venti miliardi anche se me ne servirebbero soltanto sette. Lasciare la segreteria del partito per fare meglio il capo del governo? Non ci penso nemmeno per un nanosecondo. Non ci credete, fate i gufi? Non credevate nemmeno agli 80 euro, né alla Mogherini ministro degli Esteri europeo e nemmeno al rimborso dei 50 miliardi di debiti della pubblica amministrazione alle imprese.. (qui il governo è un po’ in ritardo e la trattativa sulla passeggiata al santuario di Monte Senario è aperta). E ancora: 149mila precari della scuola saranno assunti (ieri i primi 15mila), si troveranno i soldi per pagare una parte degli scatti maturati dai militari ma si eviteranno duplicazioni, le conferenze di servizi saranno monocratiche e dovranno decidere in un mese (se davvero sarà così, porterò in braccio Renzi a Monte Senario, visto che questo istituto è il frigorifero di ogni progetto).

Le difficoltà del governo sono oggettive. Mettersi contro le lobby è rischioso, tagliare con ‘testa politica’ è complicato. Cottarelli da tecnico usa l’ascia, Renzi deve usare il bisturi. Eppure questi scogli vengono sommersi dalla straordinaria capacità comunicativa del premier che gioca a fare il Davide contro tutti i Golia che hanno paralizzato il paese. I sondaggi dicono che la popolarità del presidente del Consiglio resta alta, superiore a quella del governo e ai voti (tanti) presi dal Pd alle ultime elezioni. «Lo zoccolo duro del mio partito è del 25 per cento – dice Renzi – Il resto è fatto da persone che abitualmente non votano per noi». Quanto durerà questa luna di miele? È già finita, come insinuano i grandi giornali anglosassoni o ha ancora lunghe prospettive? Lo capiremo da qui alla fine dell’anno. Lo capiremo in parte a Natale, quando vedremo se gli 80 euro e un clima generale di maggiore fiducia porterà la gente alla ripresa dei consumi che per ora restano fermi. E capiremo l’effettivo rilievo delle riforme annunciate. Vedremo se davvero la riforma della giustizia sarà incisiva come lascia intendere Renzi o molto compromissoria come temono altri. Vedremo soprattutto come andrà quella del lavoro. I sondaggi trasmessi l’altra sera a ‘Porta a porta’ coincidevano in modo impressionante su un punto: due terzi degli italiani sono favorevoli alla flessibilità che consenta di licenziare con maggiore facilità in cambio di assunzioni più semplici. Metà del campione si irrigidisce sulla modifica dell ‘articolo 18, ma se la domanda si pone in modo diverso c’è un radicale ammorbidimento. Anche sui ‘mini jobs’ alla tedesca (part time di 15 ore alla settimana con stipendi che partano da 450 euro) c’e un interesse maggioritario. Questo dimostra due cose: i sindacati, in particolare la Cgil, combattono una guerra ideologica di retroguardia; la gente chiede provvedimenti radicali e immediati.

Il governo Monti cominciò il suo declino quando non riuscì a fare per decreto la riforma del lavoro, dopo aver fatto per decreto quella delle pensioni. Il decreto Poletti è soltanto un antipasto. Se il grosso del provvedimento andrà in una legge delega che impiega 18 mesi per andare in porto, la medicina sarà recapitata al malato dopo il suo funerale. Mario Draghi ha sconvolto il sonnolento mondo dei banchieri con provvedimenti choc, mai visti nei 24 anni di vita della Banca centrale europea. Renzi, il migliore interprete della ‘fretta’ nell’agire, prenda esempio da lui.

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Alla fine di settembre scade il mandato di Vittorio Conti, commissario dell’Inps a termine nominato da un già defunto governo Letta. Sei mesi di surplace sono però troppi per il più grande ente previdenziale dell’Unione europea che annualmente movimenta, tra entrate e uscite, flussi finanziari per 763 miliardi. L’Inps merita una strategia e una visione alta in un paese che ha perso il 10% del suo Pil e che registra mensilmente record negativi in serie nella sua disoccupazione. L’Inps non può permettersi di galleggiare o di avere poca ambizione. L’istituto ha il dovere di essere un motore dello sviluppo e della politica economica italiana gestendo e mobilitando al meglio le sue cospicue risorse. Non può permettersi di investire male e neppure di investire solo in Btp.

Archiviata la stagione della parole in libertà della gestione Mastrapasqua, quando si vagheggiava dell’Inps come nuova casa del welfare, adesso il governo Renzi è chiamato a cambiare passo. Non tanto e, soprattutto, non solo in materia di governance dell’ente. Fatto sicuramente importante, ma l’Inps non può più permettersi di essere solo oggetto di dibattito sui ruoli e sulle deleghe di chi lo gestisce. Un paese contestualmente in deflazione e in recessione è obbligato a chiedere molto di più alla strategia del suo più importante intermediario finanziario. Come? Innanzitutto il Premier deve affrontare il capitolo Inps con la stessa determinazione con la quale ha rifiutato di partecipare al congresso della Cgil e alla passerella di Cernobbio. Renzi, nel fare le nuove nomine all’Inps, deve prendere tutti in contropiede puntando a disboscare la foresta pietrificata sindacale che da sempre, di fatto, governa l’istituto. L’Inps deve rendere conto ai sindacati di come opera, ma non essere gestito dai delegati dei sindacati in ogni articolazione della sua organizzazione. Poi, Renzi deve scegliere per l’Inps un profilo tecnico effettivamente qualificato in materia previdenziale e pensionistica anche integrative. Non un ex ministro o un politico trombato ma una figura stimata nella materia in campo internazionale e a livello comunitario. In Italia qualche profilo appropriato ancora c’è, anche se, magari, non ha frequentato la Leopolda. Infine, serve qualcuno in grado di lavorare a stretto contatto con il ministro Padoan, che ne parli lo stesso linguaggio, visto che l’Inps rappresenta la componente più importante del bilancio pubblico.

La nomina del prossimo presidente dell’Inps è uno snodo chiave della strategia di politica economica di Renzi. Scegliendo la persona giusta può dare, contestualmente, tanti positivi segnali nella direzione giusta della rottamazione creativa e aiutare il Pil made in Italy a rimettersi in marcia.

Il sadismo fiscale di Mario Monti

Il sadismo fiscale di Mario Monti

Cesare Maffi – Italia Oggi

La storia della Tasi si misura in mesi, ma ammaestra come se fosse una vicenda secolare, tra assurdità, frenesie tassatorie e velleità burocratiche. Partiamo dall’Isi, che non è l’acronimo di uno Stato islamico, bensì cela l’imposta straordinaria sugli immobili, nata sotto il governo Amato I, nel ’92. Secondo l’italico costume di rendere permanente tutto quello che dovrebbe essere transitorio, l’Isi divenne presto Ici. Una patrimoniale, certo; però l’intendimento originario era diverso. Si voleva istituire un tributo sui servizi comunali: chi gode sicurezza e strade, giardini e illuminazione pubblica, deve pagare per i vantaggi che riceve. Avrebbe dovuto essere soggetto passivo chiunque ne traesse giovamento, indipendentemente dal titolo di proprietà o di possesso o di essere conduttore di un’unità immobiliare. Ovviamente non fu così, perché è molto più semplice, per far cassa, mazzolare un bene immobile piuttosto che mettersi a cercare un’altra base imponibile. Anche l’ipotesi di creare un’Imposta sui servizi comunali, che avrebbe dimezzato l’Ici, finì in cavalleria.

L’esigenza di lucrare somme sempre crescenti portò ad aumenti delle aliquote (il tetto del sette per mille da eccezionale divenne ordinario), addirittura sfondando in qualche caso il massimo per salire al nove, perfino sopprimendo il tetto, e rivalutando le rendite catastali del 5% ai fini dell’Ici. Non paghi, i legislatori crearono l’Imu, falsamente definita imposta municipale unica. Da sperimentale l’Imu è divenuta definitiva mentre le rivalutazioni delle rendite catastali hanno assunto, sotto Mario Monti, livelli di sadismo fiscale (+60% per gli immobili residenziali).

A un certo momento, nelle discussioni sul federalismo fiscale, venne fuori l’ipotesi d’introdurre una tassa sui servizi comunali. Avrebbe dovuto sostituire l’imposta patrimoniale. Si tornava alle origini, in certo modo. Ecco motivata la Tasi. La nuova imposta, però, non si misura sui servizi goduti, bensì sulla rendita catastale. È una patrimoniale. Non sostituisce l’Isi-Ici-Imu, ma si assomma. Le complicazioni dell’Ici (il ministro Vincenzo Visco, un signore che se ne intende, denunciò «l’inestricabile giungla dell’Ici») si sono moltiplicate con Imu e Tasi. I contribuenti continuano a pagare somme crescenti e incontrano difficoltà sempre maggiori. Non hanno nemmeno contezza di quanto sia la pretesa del proprio comune nei loro confronti. Non hanno alcuna certezza su modi e tempi e rate di pagamento.

Anche la Tasi deriva la propria esistenza alla volontà erariale di far cassa: sempre, dovunque, comunque. Ogni sistema è buono. Quindi, è più facile ricorrere a un’imposta patrimoniale che non a una reddituale. È più semplice colpire un bene immobile che non un bene mobile. È più facile far salire un’aliquota o una rendita catastale che non prevedere meccanismi più razionali e meno brutali. È più facile aggiungere una nuova forma impositiva a quelle esistenti, invece di sopprimerne qualcuna. È più semplice rendere stabile quel che era provvisorio, piuttosto che studiare un diverso provvedimento. A tutti questi ammaestramenti si aggiunge la beffa di qualche politico. Il bocconiano col loden, assurto a palazzo Chigi a furor di urla («fate presto!» gridava il Sole-24 ore), si è vantato: «In pochi giorni ho messo in campo la riforma della tassazione, introducendo di fatto una patrimoniale». Disse Maffeo Pantaleoni: «Qualunque imbecille può inventare e imporre tasse».

Pil: è diventato un guazzabuglio

Pil: è diventato un guazzabuglio

Mario Lettieri e Paolo Raimondi – Italia Oggi

Nel 2014 gli Stati membri dell’Unione Europea apporteranno cambiamenti importanti nei metodi di contabilità nazionale per la definizione del Prodotto interno lordo (Pil) e del Reddito nazionale lordo. Non si tratta di un’opzione ma dell’attuazione di una direttiva dell’Onu. Gli Usa l’hanno adottata nel 2013. Adesso tocca all’Europa. Di conseguenza i parametri di Maastricht saranno profondamente modificati, anzitutto i rapporti decifit/Pil e debito/Pil utilizzati, come è noto, per definire la situazione della finanza pubblica dei singoli Paesi. I mercati ovviamente ne tengono conto per decidere i loro comportamenti finanziari. Ad esempio, lo spread, naturalmente, riflette anche il livello di tali rapporti. Le organizzazioni internazionali e sovranazionali di controllo oggi li valutano per imporre politiche restrittive o commisurare sanzioni nei confronti di chi li viola.

In Europa il Reddito nazionale lordo è utilizzato per determinare il contributo di ciascun Paese al bilancio dell’Unione. È da decenni che si parla della necessità di migliorare il sistema di contabilità nazionale in quanto i metodi utilizzati sono notoriamente insoddisfacenti.

Il parametro del Pil infatti fu «inventato» nel lontano 1934 e è stato un utile riferimento anche se ritenuto altamente impreciso finanche dai suoi promotori. Il problema della riforma oggi è l’introduzione di proposte intelligenti e necessarie e di altre purtroppo davvero improponibili anche sul piano etico. Ad esempio, le spese in Ricerca e Sviluppo, fino ad oggi considerate come costi intermedi, verranno conteggiate come spese di investimento perché contribuiscono, come capitale intangibile, alla crescita della capacità produttiva. Ciò comporterà un impatto positivo sulla domanda aggregata e quindi sul Pil. Però anche le spese per gli armamenti saranno contabilizzate come spese di investimento. E qui incomincia la «perversione» del nuovo metodo contabile. Con il Pil si misura non solo la forza economica di un Paese ma anche la sua serietà e la sua affidabilità. Ne consegue che le dittature militari, che preparano una guerra di aggressione, diventano, con i numeri delle loro economie, degli esempi virtuosi da imitare.

La nuova riforma perciò supera tutti i limiti della decenza laddove introduce nel nuovo calcolo del Prodotto interno lordo anche le attività illegali. Di fatto la nuova direttiva indica esplicitamente che «le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: il traffico di sostanze stupefacenti, la prostituzione ed il contrabbando». Sarà addirittura l’Eurostat a stabilire le linee guida della metodologia di stima. Tutto ciò è giustificato «in ottemperanza al principio secondo il quale le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico». È proprio l’avverbio, «indipendentemente», che contiene il virus più distruttivo per la società ed il benessere dei suoi cittadini. Allora anche la rapina diventa un’attività economica, «indipendentemente» dal fatto che distrugge l’ordine sociale e uccide. Anche una guerra di aggressione diventa un evento economico di grande profitto, «indipendentemente» dal fatto che comporta distruzioni, genocidi e fame. È una vera e propria aberrazione. Anche se vi fosse l’esigenza di conoscere l’ammontare delle singole e di tutte le transazioni finanziarie, non sarebbe comunque giustificato il vulnus allo status giuridico. Ma che le attività illegali entrino di diritto a far parte del Pil che poi determina alcuni parametri che influiscono sulla vita dei Paesi e di intere popolazioni è inaccettabile.

È in atto una enorme campagna mediatica per dimostrare la bontà delle nuove regole. Si sottolinea in particolare che tutti i governi europei ne beneficeranno in quanto i parametri di Maastricht verrebbero ridefiniti a loro favore. Se il Pil aumenta allora si guadagnano dei margini sul famoso 3% relativo al rapporto deficit/Pil. Anche il rapporto Pil/debito pubblico migliorerebbe. Pazzesco! Il Trattato di Maastricht diventa così il verbo intoccabile. Invece di cambiarlo si pensa di produrre dei dati «falsi» per aggirarne gli effetti più negativi. Eppure è noto che anche il magico 3% non ha alcuna base scientifica. Fu definito arbitrariamente da un giovane impiegato del governo francese nel 1981 su richiesta del presidente François Mitterand che, sembra, necessitasse di mettere freno alle astronomiche promesse di spesa pubblica fatte durante la campagna elettorale.

Se le spese di R&S fossero giustamente conteggiate il Pil aumenterebbe del 5% in Svezia, del 3% in Germania e Francia e di poco più dell’1% in Italia. Ma che fare con le attività illegali notoriamente difficili da quantificare? Se si prendessero i dati della Banca d’Italia sull’economia illegale, allora il nostro Pil dovrebbe aumentare dell’11%. E secondo l’Istat, nel 2010 l’intera economia sommersa «valeva» circa il 17% del Pil.

Noi crediamo che tale riforma contabile sia figlia dell’ultima, forse la più pericolosa, ideologia sopravvissuta del ventesimo secolo, quella del liberismo economico «selvaggio». Si sente forte l’influenza di Milton Friedman, il caposcuola dell’ economia monetarista, che nel 1994, parlando di economia e dell’Italia, diceva: «Il vostro mercato nero è un modello di efficienza. Il vostro governo è modello di inefficienza. In certe situazioni l’evasore è un patriota. L’Italia si regge solo grazie al mercato nero e all’evasione fiscale che sono in grado di sottrarre ricchezze alla macchina parassitaria ed improduttiva dello Stato per indirizzarle verso attività produttive.» Riteniamo che la crisi economica che investe i Paesi dell’Ue non si risolva così: il rimedio ci sembra peggiore del male. Ogni ripresa economica non può prescindere dalla legalità a tutti i livelli e ha bisogno di ben altro rispetto al «trucco contabile» proposto.

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Il Global Competitiveness Report, pubblicato al World Economic Forum, mette a confronto 144 paesi nel mondo e mostra che quanto a efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 136° posto, ultima degli Stati europei e un gradino sopra lo Zimbabwe. Se poi guardiamo alla facilità d’ingresso e di uscita dal mercato stesso, ci spetta addirittura la posizione 141. Sempre meglio del solito Zimbabwe, del Sudafrica e del Venezuela. È questa l’area di confronti che oggi ci tocca: nei due dati c’è una inappellabile condanna del nostro Paese e della sua classe dirigente, vecchia e nuova.

Con perfetta sincronia, il premier ha appena dichiarato che la riforma del lavoro si farà (ma il job act è di gennaio), ma che non si toccherà l’art. 18. Rivediamolo questo articolo che si intitola «Reintegrazione nel posto di lavoro». Ecco il testo: «Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti (…)». Poiché il fulcro del problema, quindi, è proprio l’art. 18 che dà a un’autorità giudiziaria fortemente ideologizzata (portatrice di una visione che considera il capitalismo, la libertà economica e gli imprenditori nemici del popolo) il potere di rimettere in azienda i lavoratori che ne sono stati estromessi, l’annuncio di Renzi significa che non ci sarà alcuna cambiamento significativo nel situazione mercato del lavoro. Comunque la si rigiri, questo è il senso delle ultime esternazioni.

Volgiamo leggermente il capo e constatiamo (una banale constatazione) che in Italia gli strumenti della produzione sono tassati. Sono tassati i capannoni industriali, i terreni agricoli, tutti i beni che servono a mettere insieme un qualsiasi processo produttivo. Non basta: è tassato pure il lavoro. Infatti, l’impostaregionale sulle attività produttive, Irap, è stata istituita con il decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e colpisce il valore della produzione netto delle imprese, cioè il reddito prodotto al lordo dei costi per il personale e degli oneri e dei proventi di natura finanziaria. Ciò significa che lo Stato, da un lato ti impedisce di licenziare (i licenziamenti avvengono per due motivi: problemi aziendali; mancanze del lavoratore. Non c’è un imprenditore al mondo che voglia privarsi di un bravo lavoratore) e dall’altro ti tassa per la tua forza lavoro. Autori di questa bella pensata sono stati Romano Prodi e Vincenzo Visco (era Prodi il primo ministro della legge di delega) : basterebbe questa innovazione per iscriverli nel libro nero della Repubblica italiana, se mai sarà prodotto.

Nell’Irap, un’imposta demenziale, c’è il livore di un bel pezzo di mondo cattolico e di mondo comunista, non a caso andati a nozze nel compromesso storico. Sarebbe bastato che l’innovatore Renzi, invece di trastullarsi con gli 80 euro in busta paga a un’ampia platea di non indigenti, avesse abolito l’Irap e abrogato l’art. 18 perché l’Italia cambiasse verso e si rilanciasse l’economia. Invece, prigioniero e secondino di un sistema che viene da lontano, gestore di un’area che, marginalmente, coltiva ancora l’illusione della propria superiorità morale (vedi Monte Paschi e, ora, Regione Emilia-Romagna) e culturale, e la speranza di una rivoluzione proletar-clericale, Matteo Renzi si è cimentato su questioni che costituiscono un vero e proprio «cambiar discorso», una elusione quotidiana dei problemi del Paese, mediante l’accensione di dossier di secondaria importanza, rispetto ai due nodisostanziali.

Idee pasticciate come la riforma del Senato che nelle prossime settimane sarà riscritta dalla Camera dei deputati (annullando il lavoro fatto, giacché la quattro letture debbono essere celebrate su un medesimo testo) portate al voto nonostante le osservazioni fondate di esperti costituzionalisti e di politici di lungo corso. Lo pseudogiovanilismo dell’allegra brigata di gitanti a Roma non ha ammesso riflessioni e consulti, esaurendo la discussione all’interno di un «giglio magico» dalle competenze insondate e insondabili. L’altra tecnica usata è quella di rilegiferare sul legiferato, vendendo agli italiani (e soprattutto ai media completamente privi di vis critica; o di conoscenza dei fatti?) per innovazioni, decisioni come quelle sulle autocertificazioni e sulle divisioni interne degli immobili che risalgono ad anni passati. Anche se il consenso sembra crescere, Giorgio Napolitano non si illuda. Quest’ultima sua creatura ha il respiro corto e, difficilmente, potrà sopravvivere con le parole. I numeri non sono più falsificabili. Li sanno leggere tutti, soprattutto a Francoforte, a Berlino e a Bruxelles.

La finta spending review: i tagli scendono già al 2%

La finta spending review: i tagli scendono già al 2%

Antonio Signorini – Il Giornale

L’asticella dei risparmi è ufficialmente fissata al 3%, ma potrebbe scendere al 2%. I ministri dovranno indicare a Palazzo Chigi quali capitoli di spesa tagliare e se non lo faranno, scatteranno riduzioni automatiche alle dotazioni finanziarie. Nessuno sarà escluso, nemmeno il ministero della Sanità per il quale si prospetta un taglio, come minimo di tre miliardi. Il premier Matteo Renzi ieri ha cercato di fare passare il messaggio che la spending review nuova versione sarà «soft». Ma quelli che si prospettano in vista della prossima legge di Stabilità sono dei tagli lineari classici, con un margine di decisione in più per i dicasteri.

Ieri Renzi, subito dopo il consiglio dei ministri che ha deciso tra le altre cose l’assunzione di 34 mila insegnanti precari – ha illustrato tutti i colleghi il piano, invitandoli a «scrivere» i rispettivi programmi di risparmi. L’obiettivo di Palazzo Chigi resta quello dei 20 miliardi, anche se dal ministero dell’Economia e anche dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli, sono arrivate stime molto inferiori sulle riduzioni di spesa immediatamente attuabili.

Il tre per cento sì, ma solo di circa 200 milioni di spesa aggredibile. Secondo questa versione ci sarebbe una stretta praticamente solo sugli acquisti intermedi, ma Renzi vuole di più. Tra i fronti aperti, quello tra il premier e il ministro Beatrice Lorenzin, che vorrebbe limitare i tagli alle spese di funzionamento del ministero, senza toccare il servizio sanitario. «Metteremo in sicurezza i cittadini», aveva assicurato nei giorni scorsi il ministro. Ma non è detto che basti. Il budget del ministero è di 1,2 miliardi e un risparmio di 30 milioni da uno dei dicasteri più importanti non basta. Inevitabile che si cerchi di pescare dai 337 miliardi, la dotazione del fondo sanitario nazionale per i prossimi tre anni, che però sono stati concordati con il patto regioni-governo. Se venisse applicata la regola del 3%, dalla sanità potrebbero arrivare più di 10 miliardi di euro in tre anni, 3 miliardi per il solo 2015. Risorse che le regioni dovrebbero a loro volta trovare tagliando le proprie spese. Se succederà, «dovremo rivedere gli accordi. Ma a parte tutto non dimenticarci come il nostro servizio sanitario è quello che costa di meno in Europa e ha performance di alto livello», ha spiegato il coordinatore della commissione Salute delle Regioni e assessore alla Sanità del Veneto Luca Coletto.

Dalle regioni ai comuni, ieri il presidente dell’Anci Piero Fassino ha respinto al mittente uno dei capitoli del piano Cottarelli, cioè l’operazione cieli bui che punta a spegnere parte dell’illuminazione pubblica. Renzi ha assicurato ancora una volta che non ci saranno le pensioni nel piano di risparmi. Ma tra le ipotesi tecniche di risparmi portate da Cottarelli a Palazzo Chigi, c’è anche il contributo sulle pensioni più alte. Tutti argomenti tabù, che dovranno essere affrontati nei prossimi giorni, visto che il governo intende confermare il bonus degli 80 euro e agire in modo più deciso sulla tassazione che grava sul lavoro. Senza contare gli impegni sulla scuola, che ieri sono stati in parte attuati. Il consiglio dei ministri ha dato il via libera a oltre 30 mila assunzioni dei precari della scuola. Partiranno subito le assunzioni a tempo indeterminato, su posti vacanti e disponibili, di 15.439 insegnanti e 4.599 ausiliari, tecnici e amministrativi. Autorizzata anche l’assunzione di 13.342 docenti da destinare al sostegno di alunni con disabilità e 620 dirigenti scolastici. Si tratta del primo pacchetto di assunzioni, che era già avviato. Secondo gli impegni presi da Renzi nel 2015 le stabilizzazioni dovranno essere 150 mila.

Debiti PA tutti pagati entro il 21 settembre? Una promessa a metà

Debiti PA tutti pagati entro il 21 settembre? Una promessa a metà

Eugenio Fatigante – Avvenire

I crediti “certificati” delle imprese con le amministrazioni dello Stato «possono essere saldati subito». L’ha detto a più riprese Matteo Renzi l’altra sera in tv, a Porta a porta, nel minuetto inscenato con Bruno Vespa sull’escursione a piedi sul monte Senario, sopra Firenze, oggetto della “scommessa di San Matteo”: entro il 21 settembre, aveva promesso a marzo il capo del governo sempre in tv, il governo avrebbe sbloccato tutti i debiti maturati entro line 2013, pena appunto l’insolita passeggiata del premier (in caso di promessa non mantenuta) o del conduttore.

Renzi l’ha “messa facile”, insistendo molto sulla procedura, capace – a suo dire – di consentire agli imprenditori interessati di presentarsi l’indomani in una banca per ottenere (finalmente) il dovuto, attraverso la “cessione del credito” che comporta però un costo pari all’1,6% fino a 50mila euro e all’1.9% al di sopra. Le cose sono davvero così semplici? Il premier ha dato a intendere che la promessa sarà onorata. A oggi, tuttavia, il “contatore” presente sul sito del Tesoro è malinconicamente fermo a 26,1 miliardi rimborsati ai creditori, alla data del 21 luglio (cifra aggiornata in tv l’altra sera a 31 miliardi a fine agosto); in ogni caso, stiamo ben al di sotto di quell’importo quantificato come minimo (una stima definitiva su quanti siano questi crediti non c’è mai stata) in 45-50 miliardi dall’ex ministro (nel governo Letta) Saccomanni, contro la cifra-monstre di 90 miliardi ipotizzata in un primo tempo da Bankitalia.

Una premessa è doverosa, e viene riconosciuta anche da un po’ tutte le associazioni d`impresa: la normativa messa in campo da Renzi è sicuramente un passo in avanti rispetto a quelle, più “balbettanti”, dei governi Monti (il primo a muoversi per affrontare questo problema, col decreto 35 d’inizio 2013) e Letta. Quest’ultimo, per dire, aveva disposto che entro settembre 2013 tutte le amministrazioni dovessero fornire l’elenco dei propri debiti. Nessuno l’ha fatto. Per questo Renzi «ha invertito il processo, e questo è il suo pregio», ricorda Mario Pagani, capo del dipartimento politiche industriali della Cna: «Ora sono le imprese che dichiarano quanto spetta loro». Quel che Renzi ha omesso di dire è che c’è un passaggio-chiave, fra l’autocertificazione sull’apposito sito e il pagamento: bisogna comunque aspettare 30 giorni perché l’amministrazione coinvolta ha questo margine di tempo per rispondere, attestando che quel credito esiste e, pertanto, è “esigibile”. Se lo fa, in effetti l’imprenditore può – subito dopo aver ricevuto questo attestato – andare in banca per farsi anticipare da questa i soldi spettanti, con la garanzia pubblica della Cdp. Ma – attenzione – non vale il “silenzio-assenso”: se non arriva nessuna risposta, l’impresa ha 10 giomi per segnalare l’inconveniente sulla piattaforma on-line, dopodiché viene nominato un commissario ad acta che ha altri 50 giorni per accertare la “verità” su questo credito. Insomma, in aggiunta ai 30 giorni iniziali, rischiano di passare altri 2 mesi. Peraltro, stando al report sul sito del Tesoro, ai primi di agosto c`è stata una “fiammata” nella consegna delle istanze di certificazione; e in questi giomi, quindi, che stanno arrivando le risposte.

A oggi, le imprese registrate sono 15.613, per un numero di istanze di 56.189 e un controvalore di oltre 6 miliardi (non è chiaro se aggiuntivi o no rispetto ai 31 detti in tv), ma la scadenza è stata da poco prorogata al 31 ottobre. Resta un «mistero», sottolinea ancora Pagani, capire perché il governo abbia escluso la via della compensazione fra crediti e debiti fiscali, «singolarmente concessa invece a chi ha ricevuto una cartella esattoriale», insomma alle imprese “meno oneste” nei rapporti col Fisco. Fra 10 giorni, al di là di Renzi o Vespa ”marciatore”, si farà il punto finale.

La strada obbligata per ritrovare la crescita

La strada obbligata per ritrovare la crescita

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il Governo Italiano è impegnato su molti, difficili fronti, in Europa e in Italia. Sappiamo anche che il presidente del Consiglio Renzi, la cui energia è davvero tanta, vuole gestire in prima persona tutto. Sono quindi legittime le preoccupazioni che questo impegno sia eccessivo e che si impongano scelte e deleghe più chiare. Sulle riforme economiche necessarie, per evitare confusione, partiamo dalle raccomandazioni delle istituzioni europee all’Italia per passare poi ad una conclusione. E cioè che la spinta (sia pure limitata, senza quella europea) alla nostra crescita ed occupazione passa dal rilancio degli investimenti con le risorse recuperate dalla spending review e dall’evasione, con la riduzione del carico fiscale ed in particolare dell’Irap (solo simbolicamente ridotta in primavera), con un efficace partenariato pubblico-privato, con l’occupazione promossa da politiche attive e retributive nuove anche nel pubblico impiego.

Le raccomandazioni europee. Sono quelle espresse nel giugno scorso dal Consiglio della Ue e dalla Commissione europea, sul Programma nazionale di riforma e su quello di stabilità presentati dal governo. Purtroppo sono raccomandazioni che si ripetono da anni e sul cui adempimento l’Italia ha fatto poco. Eppure le stesse sono difficilmente contestabili anche se possono apparire semplificanti ed eccessive. Esse si riferiscono 1) alle politiche di bilancio; 2) all’alleggerimento del carico fiscale sui fattori produttivi; 3) all’efficienza della pubblica amministrazione; 4) al rafforzamento del settore bancario; 5) alle riforme del mercato del lavoro; 6) alle riforme del sistema di istruzione; 7) alla semplificazione normativa; 8) alla politica dei trasporti e delle infrastrutture. Il governo ha risposto a queste raccomandazioni evidenziando che le riforme richieste sono in cantiere anche se la realtà è (molto) più contenuta.Anche perché non sono chiare le nostre priorità e questo preoccupa perché l’economia reale italiana continua a peggiorare, pur con tutta l’ Eurozona.

Le valutazioni sul 2014. Infatti le previsioni (ci riferiremo a quelle di Prometeia sia pure con nostre valutazioni) danno troppi segni negativi: il Pil scende dello 0,2%; gli investimenti (macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto) scendono dello 0,4%; gli investimenti in costruzioni del 2,3%; la domanda totale interna dello 0,2%; la disoccupazione ormai si avvia al 13%. Non compensano questi dati negativi l’aumento della spesa delle famiglia dello 0,2% e un saldo dell’interscambio merci sull’estero al 2,8% del Pil. Due altri fatti (uno negativo e l’altro positivo) sono noti ma è bene ricordarli. L’inflazione (al netto di energia e alimentari, che sono componenti più volatili) è scesa in agosto allo 0,5%, che è il nostro minimo storico anche perché mai prima eravamo andati sotto quelle di Francia e Germania. In positivo vi è il calo dei tassi sui titoli di Stato con il conseguente risparmio di interessi passivi che contribuirà a tenere il deficit sul Pil sotto il 3%. In sintesi: i segnali moderatamente fiduciosi di una ripresa sono stati archiviati dai dati del secondo trimestre.

Priorità e risorse. Bisogna allora individuare tra le Raccomandazioni europee le più urgenti, proseguendo nel frattempo con le riforme ad effetto strutturale sul medio termine dei 1.000 giorni prefigurati dal governo. La priorità è quella di rilanciare gli investimenti, l’innovazione e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Perché da questa dipende la fiducia nel futuro che a sua volta contribuisce ad un aumento (vero) nella spesa delle famiglie. Per fare questa operazione vanno trovate le risorse e selezionati gli impieghi. Il reperimento delle risorse deve imperniarsi (ma non esaurirsi) sulla spending review (compresa la ristrutturazione delle aziende partecipate dagli enti locali). Poiché i quasi 60 miliardi di risparmi (al lordo delle minori entrate) del triennio 2014-2016 sono ben documentati dal Programma Cottarelli (che tra l’altro indica prudentemente entità minori di quelle prefigurate da altri nel 2012), bisogna dare esecuzione alla stesso senza esitazione. Inoltre va riequilibrato il carico fiscale recuperando l’evasione. Perché la nostra pressione fiscale apparente è al 44% ma quella effettiva (sui contribuenti leali) è al 54%.

Investimenti e lavoro. Con le risorse che si liberano bisogna spingere gli investimenti, l’innovazione, la tecnoscienza, l’industria, le infrastrutture che, oltre ai noti effetti moltiplicativi, devono anche sostenere la competitività del sistema Paese. Queste misure passano sia attraverso una riduzione del carico fiscale sulle imprese, e in particolare sugli investimenti, sia attraverso iniziative di partenariato pubblico-privato dove nuovi strumenti di finanza per le infrastrutture e l’industria servono molto. Non meno importante è l’intervento sul lavoro e l’occupazione dove il ministro Poletti sta operando bene. Bisogna arrivare alla semplificazione dei contratti, a migliori politiche attive, a contratti a tempo indeterminato ma a protezioni crescenti, a rivalutare l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro, a rivedere i sussidi di disoccupazione e la cassa integrazione anche per prevenire forme che disincentivano il lavoro stesso. Poi ci vuole una radicale riduzione e ristrutturazione del pubblico impiego premiando solo il merito. Sappiamo che il Governo ha già adottato vari provvedimenti in queste direzioni. Siamo anche convinti che solo un successo pieno al proposito darà una (prima) spinta alla competitività italiana e aumenterà la nostra forza in Europa.

Una conclusione. Tutto ciò è per noi necessario ma non sarà sufficiente se le istituzioni europee non spingeranno gli investimenti infrastrutturali (materiali e immateriali) e una forte reindustrializzazione sostenibile anche con strumenti finanziari nuovi, come gli EuroUnionBond. Perché la politica monetaria della Bce per quanto espansiva (e non priva di rischi per bolle speculative) non può supplire una politica per l’economia reale.

Per estendere il bonus e ridurre l’Irap servirebbero oltre 6 miliardi di fondi

Per estendere il bonus e ridurre l’Irap servirebbero oltre 6 miliardi di fondi

Enrico Marro – Corriere della Sera

Allargare la platea dei beneficiari del bonus da 80 euro al mese agli «incapienti» costerebbe quasi 4 miliardi. Gli incapienti, cioè coloro che hanno un reddito annuo inferiore a 8 mila euro e che ora sono esclusi dal bonus, sono infatti 4 milioni. Dare a tutti costoro (dipendenti, autonomi, pensionati) 960 euro l’anno significherebbe sborsare, appunto, 3 miliardi e 840 milioni. Aumentare il taglio dell’Irap a favore delle imprese, già ridotta quest’anno del 10%, costerebbe circa 2 miliardi e mezzo per ogni ulteriori 10 punti di riduzione del prelievo. Numeri importanti che giustificano la cautela del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha spiegato ieri in tv, a Porta a Porta, che spera di allargare la platea, ma ancora non è in grado di garantirlo. Del resto, il primo impegno, ribadito anche ieri sera, è quello di confermare il bonus per chi già ce l’ha, cioè i lavoratori dipendenti con un reddito tra 8 mila e 26 mila euro l’anno, circa 10 milioni di contribuenti. E solo per questo ci vogliono 10 miliardi di euro.

Ma vediamo perché costerebbe così tanto allargare la platea e perché, probabilmente, non ci sarà un’estensione meccanica degli 80 euro, bensì quel «segnale di attenzione» di cui aveva già parlato il governo in occasione del decreto sul bonus, lo scorso aprile. Allora, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, spiegò al Corriere che intervenire anche a favore degli incapienti sarebbe costato «almeno un miliardo in più». Ma l’ipotesi sulla quale si era ragionato prevedeva di dare qualcosa, ma non certo 80 euro, considerando, per esempio, che una parte di coloro che non arrivano a 8mila euro di redditi sono i poveri assistiti con la social card. Per questi ora il governo sta lavorando a un potenziamento del sussidio utilizzando i fondi europei. Delrio, che ha la delega in materia, insieme con Poletti sta studiando la messa a regime e il rafforzamento del Sia, il sostegno all’inclusione attiva avviato dal predecessore di Poletti, Enrico Giovannini, che prevede percorsi personalizzati di inserimento sociale e lavorativo su misura per le famiglie povere e un assegno che può arrivare fino a 400 euro. Sui poveri quindi il governo potrebbe intervenire potenziando questi strumenti.

Non a caso, parlando di un’eventuale estensione del bonus, Renzi si è riferito piuttosto ai pensionati e alle partite Iva. Ma anche qui i numeri sono importanti. I pensionati con un reddito previdenziale tra mille e duemila euro al mese, cioè che grossomodo potrebbero rientrare in una ipotetica estensione del bonus, sono circa 6 milioni e mezzo. Le partite Iva individuali sono 3 milioni e mezzo, con un reddito medio di circa 15 mila euro lordi, secondo una ricerca della Cgil. Anche in questo caso dare 80 euro al mese costerebbe troppo. Ecco perché l’ipotesi di allargamento del bonus che finora è sembrata più realistica è quella, allo studio dei tecnici del governo, che prevede un aumento delle soglie di reddito per le famiglie numerose con un solo stipendio. La soglia per ottenere gli 80 euro potrebbe salire da 26 mila a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. Una mini-estensione del bonus che costerebbe alle casse pubbliche non più di 200-300 milioni di euro l’anno. Fattibile. Così come appare possibile un nuovo sconto sull’Irap o comunque un taglio del carico fiscale per le imprese rimaste deluse dal mini taglio Irap di aprile.

Andare oltre diventa molto più difficile perché, come ha ammesso Renzi, quest’anno il prodotto interno lordo resterà intorno a zero. E per rispettare il tetto del deficit del 3% bisognerà fare i salti mortali, nonostante la rivalutazione dello stesso Pil che l’Istat ha in corso. Senza contare che il premier, ieri sera, ha aperto alla possibilità di rimuovere il blocco degli stipendi pubblici. Anche qui, però, più che a un rinnovo pieno dei contratti per 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici, che costerebbe 2,1 miliardi solo nel 2015, bisogna pensare a misure limitate (sblocco dei premi, incentivi alla produttività).