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Quella spinta da Francoforte

Quella spinta da Francoforte

Donato Masciandaro – Il Sole 24 Ore

Riforme strutturali per avere mercati più competitivi e Stati più efficienti: è l’unica spinta possibile per ritornare a crescere e dare un senso alla politica monetaria espansiva che la Banca centrale europea ha deciso di proseguire, ma non di accentuare. Perché le condizioni monetarie per tornare alla normalità ci sono. Peccato che manchino tutte le altre politiche economiche. L’assenza di efficienza nei mercati e di efficacia nell’azione pubblica sono i due nodi scorsoi che stanno soffocando l’Unione. È questo il messaggio di Mario Draghi che vale in generale per Bruxelles, ma in particolare per Roma. La Bce fotografa una situazione dell’Unione monetaria Europea in cui la ripresa economica è ancora timida ed instabile. Il termometro è rappresentato da un andamento stagnante sia delle variabili reali – la crescita – che da quelle nominali – l’inflazione. Quale è la diagnosi della nostra banca centrale? È facile. Tutto dipende dallo stato delle aspettative di famiglie, imprese e mercati.

In una situazione normale, una stagnazione con rischio deflattivo può essere attribuito ad un deficit di domanda aggregata. Il deficit di domanda può influenzare le aspettative, attraverso un circolo vizioso che si autoalimenta: il deficit di domanda di oggi implica prezzi calanti per domani, quindi gli operatori hanno incentivo a posticipare le scelte di consumo e di investimento, alimentando il deficit di domanda. In questi frangenti la politica monetaria deve essere normalmente espansiva, per incentivare le decisioni di spesa ed al contempo alimentare le aspettative di inflazione. Purtroppo ancora oggi la situazione in Europa non è normale: il deficit di domanda si intreccia con un eccesso di avversione al rischio, incubatosi prima della Grande Crisi, scoppiato dal 2008 con la crisi finanziaria e consolidatosi negli anni successivi con la recessione economica. L’Europa è in una trappola della liquidità: le iniezioni di liquidità e la crescita dei prezzi azionari non provocano effetti rilevanti e stabili sulle grandezze reali, a partire dalla crescita economica.

L’avversione al rischio spinge a risparmiare – quindi a non consumare – ma non ad investire. La liquidità, sia essa detenuta dalle famiglie, dalle imprese o dalle banche tende ad essere tesaurizzata. Occorrono gli investimenti reali, pubblici e privati, che possono far ripartire la domanda aggregata. È qui il primo nodo scorsoio che l’analisi della Bce mette in luce. Esistono investimenti privati sono lo Stato è in grado di offrire in modo efficace e sistematico i beni pubblici essenziali: dalle istituzioni efficienti – a partire dalla giustizia civile e penale – alle infrastrutture della comunicazione, reale e virtuale. Inoltre occorre riprendere la politica della concorrenza, in tutti i mercati e settori, incluso quello del lavoro, per scogliere completamente il secondo nodo scorsoio, ed essere efficaci anche dal lato dell’offerta aggregata.

L’Italia è un destinatario naturale del messaggio della Bce: il governo Renzi è partito dalla architettura politica, che è la madre delle politiche pubbliche inefficienti, ma non può che essere solo un punto di inizio, se si vuole essere coerenti con il modello sposato dall’analisi Bce. Allo stesso modo la capacità di offrire investimenti pubblici dipende dallo stato delle finanze pubbliche di un Paese. Il presidente Draghi ha fatto notare come i Paesi che avrebbero più bisogno di investimenti pubblici sono proprio quelli che hanno le finanze pubbliche peggiori: alta tassazione unita a pessima qualità della spesa pubblica.

Anche qui la missiva di Francoforte trova un naturale approdo a Roma. L’Italia è un Paese indebitato, con un grosso vantaggio: essere membro dell’Unione monetaria. Grazie a tale appartenenza, può pagare sul proprio debito tassi di interesse, nominali e reali, più bassi. Un vantaggio che purtroppo finora la nostra classe politica ha dissipato. Per un Paese indebitato gli obiettivi del pareggio dei conti, della riqualificazione della spesa e della lotta all’evasione sono indipendenti dall’essere parte dell’Unione, che invece può essere uno strumento per rendere tali obiettivi più credibili, e nel contempo più flessibili in termini di profilo temporale. Purtroppo le voci più miopi nei dibattiti nazionali ribaltano spesso il nesso tra disciplina fiscale e appartenenza all’Unione, ricordato dalla Bce.

La convergenza delle politiche strutturali e fiscali diviene condizione necessaria per far riassorbire stabilmente l’eccesso di avversione al rischio, e tornare ad un sistema economico normale e dinamico. La normalizzazione delle condizioni monetarie, bancarie e finanziarie ha fatto passi in avanti. Mario Draghi ha elencato tutta una serie di segnali incoraggianti, che riguardano la domanda come l’offerta di credito, nonché l’auspicato effetto stabilizzante dell’inizio dell’Unione bancaria. Inoltre aiuta il fatto che la politica della Bce abbia oramai un orientamento opposto a quello intrapreso dalla Fed e dalla Banca d’Inghilterra. Ma i segnali positivi sono tutti reversibili, anche alla luce delle incognite geopolitiche che toccano da vicino l’Unione Europea; purtroppo di nuovo i dibattiti nazionali sembrano orientati dal binocoli alla rovescia. La Bce ha confermato per il secondo mese consecutivo l’orientamento più espansivo della politica monetaria europea dalla sua nascita, nonché una decisione unanime di continuare nel tentativo di normalizzazione. E Bruxelles – nonché Roma – come rispondono?

Carissimo Matteo, mi ricordi Schettino

Carissimo Matteo, mi ricordi Schettino

Maurizio Belpietro – Libero

Non so se avete presente quei bambini che, presi in flagranza di marachella, insistono a dire di non aver messo le mani nella marmellata. Ecco, il governo mi pare si stia comportando esattamente come i ragazzini che negano l’evidenza. Ieri ad esempio il pur bravo e serio Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, in un’intervista al Corriere della Sera si ostinava a dire che, nonostante i dati del Pil diffusi dall’Istat, alla fine dell’anno il Prodotto interno lordo sarà vicino all’uno per cento in più. Per l’ex sindaco di Reggio Emilia gli analisti dell’istituto di statistica cui compete di rilevare gli andamenti economici sottostimerebbero la lotta all’evasione e gli impegni di spending review. Insomma,sbaglierebbero tutti, tranne Delrio e Matteo Renzi.

Stesso atteggiamento – almeno in apparenza – delle parti del ministero dell’Economia. Al pari del sottosegretario, Pier Carlo Padoan ripete che non ‘è da preoccuparsi se l’economia arretra invece di avanzare. Per risolvere la situazione e ripartire bisognerebbe spendere, far tornare a crescere i consumi. «Spendete», ha ripetuto il gran capo dei conti anche di fronte al flop degli 80 euro, respingendo le perplessità degli analisti e dell’opposizione. Non di meno le parole di uno dei consiglieri più ascoltati del presidente del Consiglio, l’economista israelo-americano Yoran Gutgeld, ora deputato del Pd. Per lui non ci sarebbe nulla da temere. Nonostante il calo del Pil bisognerebbe insistere nella direzione tracciata. Per il super consulente ci vorrà del tempo, magari tre anni, ma alla fine la ricetta miracolosa del governo funzionerà.

La verità è che, come i bambini presi con le mani nella marmellata, né Delrio né Padoan sono molto credibili. Le loro giustificazioni per il brusco calo dell’economia appaiono di rito, quasi come quelle del comandante Francesco Schettino già si preparava a salire su una scialuppa e a raggiungere l’isola del Giglio. Ora l’ex capitano della Concordia insegna impunemente come gestire il panico all’Università e le sue vittime – tranne una – riposano in un cimitero.

Certo, tra la nave della Costa Crociere e l’Italia ci sono diversità. Il nostro Paese a differenza del condominio viaggiante affondato per incoscienza mentre si inchinava davanti a un’isola non è adagiato sul fondale del Tirreno, ma rischia di finirci. I pericoli della situazione italiana sono evidenti. L’economia è ferma ma la disoccupazione aumenta. Il Prodotto interno lordo cala e le entrate potrebbero presto diminuire. Il debito pubblico cresce e in capo a poche settimane potrebbe aumentare anche lo spread. Come si fa a ripetere agli italiani di stare tranquilli? Come si fa a invitare tutti a tornare nelle proprie cabine quando la nave rischia di affondare? Come si può essere così irresponsabili da respingere l’offerta dell’opposizione per un governo di unità nazionale? In condizioni simili, dopo il fallimento di tre governi straordinari – uno tecnico (il peggiore) e due politici (ma non scelti dagli elettori) – c’è poco da scherzare, come ha fatto capire ieri la sferzata di Mario Draghi. Soprattutto, c’è poco da rassicurare e fare i bulli. Di comandanti Schettino non abbiamo bisogno. Semmai abbiamo la necessità di un governo che abbia il coraggio di decidere e varare in fretta le riforme di cui questo Paese ha necessità. Che non sono quelle elettorali o la finta abolizione del Senato. Come ho scritto ieri, con quelle non si mangia. C’è bisogno d’altro. Di quel che ha detto ieri il governatore della Bce: nuove regole per il mercato del lavoro, meno tasse, un drastico taglio della burocrazia, una giustizia che funzioni. Ma per fare questo non serve continuare a ripetere di stare tranquilli. Né ci si può illudere che prima o poi l’Europa ci consentirà di allentare i vincoli di bilancio che ci costringono a una politica di rigore. Ancora Draghi è stato chiarissimo sulla necessità di darci una mossa, pena il commissariamento: non ci sarà alcuna concessione della Merkel o di Hollande e sperare che la nomina di Moscovici all’Economia ci favorisca è una pia illusione.

Renzi-Schettino la smetta dunque di ballare sul ponte di comando con Dominika. Blandire gli elettori, stordirli di parole e promesse non servirà a portare in salvo la nave con il suo equipaggio e i suoi viaggiatori. L’inchino per ottenere più consenso e più applausi finirà come è finita la Concordia: in fondo al mare. Se non vuole questo finale, se non vuole un default o un’uscita dell’euro, cosa di cui molti ormai parlano, il premier si svegli. Una manovra che non ci faccia affondare è ancora possibile.

Gufi e Pil

Gufi e Pil

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Anch’io, come l’ottimo Giovanni Orsina, mi domando se Renzi mi abbia inserito nella lista dei “gufi” che da mesi evoca come i suoi veri oppositori (già, gli altri o fanno parte della maggioranza parallela o si sono liquefatti). E temo – pur contando sulla sua amicizia – che l’Elefantino mi voglia schiaffare d’autorità in quella che lui chiama, non senza ragione, «carognesca èlite» perché ho il vizio di badare alla fastidiosa variabile che si chiama andamento (congiunturale e strutturale) dell’economia. Sì, quel viziaccio che mi aveva procurato guai con il facondo Berlusconi (quello dei «ristoranti pieni»), con l’iracondo Tremonti (quello dell’Italia che «sta messa meglio degli altri»), con l’algido Monti (quello del «cresci Italia») e con il cocciuto Letta (quello della «luce in fondo al tunnel»). Tuttavia accetto il rischio e scanso ogni esitazione: l’avevo detto.

Sì, l’avevo detto che delle ripresa non c’era neppure l’ombra, anzi che saremmo tornati in recessione. L’avevo detto che gli 80 euro non si sarebbero tramutati in consumi e che quella non era la misura giusta (se non ai fini elettorali) per far riprendere la nostra economia. L’avevo detto che l’export non sarebbe bastato, intestato com’è a solo 12-15mila imprese, e che la crescita si fa solo con gli investimenti, a loro volta figli di una politica economica e industriale da piano Marshall. Così come avvertito di non dare la colpa a Bruxelles e Berlino – che pure ne hanno – perché sono un alibi a non fare. Come ora è un alibi dire che siamo in recessione perché si è fermata la Germania: il crollo dell’export è stato con i paesi extra Ue. Già, avevo visto meglio del Def (ci vuole poco). Ma non me ne vanto. E non traggo (ancora) conclusioni su Renzi e il suo governo. Insomma, io (come altri) guardavo la realtà, non facevo né il pessimista piagnone né tantomeno tifavo per la conservazione, né quella ideologica né quella in nome di interessi. Ho avuto ragione, ma me ne dolgo.

Non godo affatto nel sentire tornare la parola recessione nel lessico quotidiano. Non mi piace dover mettere in fila ben 17 trimestri con il Pil in rosso sui 28 trascorsi da inizio 2008. Anzi, soffro a vedere che ben 12 degli ultimi 13 trimestri hanno il segno medio davanti (unica eccezione il quarto trimestre 2013). E mi cospargo il capo di cenere. Sinceramente. Chiedo, però, solo una cosa: vorrei che chi ha sbagliato previsioni e scenari almeno avesse la franchezza di ammetterlo. E, soprattutto, che non diventasse recidivo. Eh sì, perché tra Renzi e Padoan non solo autocritica saltami addosso – abbiamo fatto tutto bene, la ripresa è lenta (veramente è la recessione ad essere svelta) ma se perseveriamo arriverà – ma pure giurano che «non c’è bisogno di fare alcuna manovra correttiva». Sicuri? Mi pare improbabile che, con il Pil che scende al denominatore (tre decimi di punto nel primo semestre), il deficit programmato nel Def al 2,6 per cento non sia da ricalcolare. Starà comunque entro il 3 per cento? Forse, ma sappiamo che l’Ue non farà sconti e visto che non ci ha concesso di far slittare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016 potrebbe chiederci di cominciare a limare fin d’ora. Inoltre molti dei provvedimenti del governo, a cominciare dagli 8 euro, sono assolutamente privi di reale copertura – se non si vuole usare la solita presa in giro dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review – e da qualche parte dovranno pur saltar fuori, e i margini di manovra sono stretti, come ha palesato la vicenda dei “quota 96” in cui la maggioranza ha dovuto rimangiarsi quanto promesso. Se infine aggiungiamo che, per effetto della deflazione, gli interessi sul debito ci costeranno altri 17 miliardi, solo parzialmente compensati dai bassi tassi pagati sui titoli di Stato, si capisce come l’intervento correttivo dei conti pubblici – per almeno una ventina di miliardi – sia una necessità e non l’ennesima invenzione dei menagramo. Anzi, rimandare a domani quello che andrebbe fatto oggi provocherà solamente l’acutizzarsi dei problemi e la necessità di intervenire ancor più pesantemente in futuro. No, purtroppo non c’è alcun iperbolico avanzo primario che tenga. La manovra andrà fatta. A meno che…

Ecco, c’è un solo modo per evitare i soliti tagli lineari e le solite tasse più o meno occulte: cambiare completamente registro. Sì, dotarsi di coraggio e dare la scossa che serve al paese attraverso una tripla azione di governo. Da un lato, un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico finalizzata sia all’abbattimento dello stock di debito che a rilanciare gli investimenti pubblici e favorire quelli privati, abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro come ha suggerito il viceministro Calenda, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto. Infine, avviare riforme strutturali – vere – che siano in grado di tagliare di 7-8 punti sul Pil quella spesa pubblica che, ultimi calcoli, nel 2014 arriverà a superare gli 825 miliardi., 16 in più di quanto programmato e il 7,8 per cento in più del 2013. Lo so, si tratta di politiche impegnative, faticose. Ma, senza, l’esito è già scritto. E ora, se credete, imbalsamatemi e mettetemi pure nella stanza dei gufi. Sic.  

Quei burocrati che vogliono costare come gioielli

Quei burocrati che vogliono costare come gioielli

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Una Porsche! Com’è venuto in mente a una delegata dei dipendenti di Montecitorio, per spiegare i mugugni contro i tagli, di paragonare la «macchina» burocratica della Camera a un’auto di lusso che «come tutte le cose pregiate» è giustamente costosissima? Quel tetto di 240 mila euro di stipendio massimo che dovrebbe essere imposto è di 9 mila superiore alla busta paga di Angela Merkel: la cancelliera tedesca ha forse una «professionalità» più bassa dei nostri funzionari? Di più: quel tetto, dopo anni di crisi, consumi in calo, disoccupazione crescente, equivale al Pil pro capite di 9 friulani, 14 sardi, 16 pugliesi o 17 calabresi… Chi lo spiegherà, ai cittadini, che si tratta di «diritti acquisiti» e intoccabili? La signora Anna Danzi, che si riconosce in una delle undici (undici!) sigle sindacali di Montecitorio, non poteva scegliere giorno peggiore per schiaffeggiare gli italiani. Proprio nelle ore in cui l’Istat comunicava che siamo ancora in recessione e che l’uscita dalla crisi si allontana di nuovo, ha spiegato a Tommaso Ciriaco di Repubblica : «Il nostro lavoro richiede una elevata professionalità. Come tutte le cose pregiate, come una Porsche, ha un costo. Nessuno si stupisce se costa di più un diamante di una pietra di scarso pregio».

Ma come: abbiamo una squadra di fuoriclasse nel cuore dello Stato eppure siamo l’unico paese dell’Europa e dell’Ocse ad avere avuto negli ultimi anni un crollo del reddito pro capite? Le cose vanno male solo per colpa dei governi, dei premier, dei ministri, dei deputati e senatori che non approfittano della fortuna di avere in tasca quei purissimi «diamanti»?

Al di là delle ironie, che la progressiva decadenza di una classe politica sempre più mediocre abbia spalancato spazi enormi agli apparati di supporto è indiscutibile. Che questi apparati siano spesso chiamati a rimediare alle carenze di questo o quell’altro eletto del popolo è altrettanto vero. E gli italiani devono essere grati a tanti funzionari e dirigenti perbene e preparatissimi che in questi anni hanno accudito uomini di governo talora incapaci, arginandone gli errori. Chapeau. E grazie.

Detto questo, va ricordato anche che in troppi si sono impossessati di un potere immenso dando ragione a Max Weber: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Al punto che mesi fa Pietro Ichino si levò in Senato sventolando una legge in votazione: «Questo è un testo letteralmente illeggibile. Non è solo incomprensibile per i milioni e milioni di cittadini chiamati ad applicarlo, ma illeggibile anche per gli addetti ai lavori, per gli esperti di diritto del lavoro e di diritto amministrativo. È illeggibile per noi stessi legislatori che lo stiamo discutendo (…) Credo che in Aula, in questo momento, non ci sia una sola persona in grado di dirci cosa voglia dire». Risultato: il burocrate estensore di quella legge è l’unico in grado di interpretarla. Di quella legge è dunque il padrone. Non va così, in una democrazia sana.

Ha spiegato mesi fa il commissario alla spending review Carlo Cottarelli che i dirigenti pubblici di prima fascia sono pagati mediamente il 4,27% più del reddito pro capite dei propri concittadini in Germania, il 5,21% in Francia, il 5,59% in Gran Bretagna, il 10,17% in Italia. I cittadini sono o no autorizzati a chiedere perché mai i nostri dovrebbero essere pagati più del doppio dei tedeschi nonostante il loro Stato, il loro sistema sociale, la loro economia vadano molto meglio? È accettabile che, come spiegano i dati messi online dalla Camera per una scelta di trasparenza, un consigliere parlamentare possa arrivare a prendere 421.219 euro lordi e cioè quasi duecentomila più di Ban Ki-moon, che come segretario dell’Onu di euro ne guadagna 222 mila?

Di più, mentre altri sindacalisti di Montecitorio come Claudio Capone della Cgil sostenevano il rifiuto del tetto perché «dà l’idea che un datore di lavoro può decidere che un dipendente guadagni troppo e togliergli parte dello stipendio», la signora Danzi ha aggiunto che per carità, nessun tabù nelle trattative, «ma da dieci anni sigliamo accordi a perdere. Siamo stanchi di vedere peggiorare il nostro status giuridico ed economico senza una riforma organica».

Sicura? Stando ai bilanci della Camera è vero che, dopo tante polemiche sui costi, il monte-stipendi e le retribuzioni medie hanno preso a calare. Soprattutto grazie agli esodi di chi si è affrettato ad andare in pensione appena possibile, s’intende, col risultato che i trattamenti di quiescenza pesano sempre di più. Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Laura Boldrini quel che è di Laura Boldrini, dei grillini e degli altri deputati che hanno appoggiato i primi tagli: nel 2012 un dipendente della Camera costava in media 152.531 euro, l’anno dopo 150.403 e oggi, con i dipendenti ridotti a 1.417, «solo» 149.047 euro. Bene.

Da qui a dire che da anni i «mon-tecitorini», scusate il neologismo, prendono di meno, però, ce ne corre. Il costo medio di un dipendente nel 2006, prima della crisi, era di 112.071 euro. Da allora, se le retribuzioni fossero state semplicemente aggiornate con l’inflazione (cosa che gli altri dipendenti, comunque, se la sognano dopo l’abolizione della scala mobile), il costo unitario sarebbe salito nel 2013 secondo i parametri Istat a 128.881. Invece, come dicevamo, è stato di 21.522 euro superiore: più 34% (nominale) in otto anni. Un incremento stratosferico, offensivo in anni di vacche magrissime. Nel frattempo, secondo l’Ocse, il reddito medio italiano perdeva dal 2007 al 2012 (e poi è calato ancora…) il 12,9% subendo «una diminuzione di circa 2.400 euro rispetto al 2007, arrivando a un livello di 16.200». Tutti italiani che la Porsche o i diamanti non possono permetterseli di sicuro…

L’ultimo avvertimento

L’ultimo avvertimento

Danilo Taino – Corriere della Sera

La sera del 25 maggio scorso, l’Italia era la beniamina dell’Europa: la netta vittoria di Renzi alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo apriva una fase di possibile stabilità politica nella quale realizzare le sempre attese riforme strutturali. La terza economia dell’Eurozona sollevava nei governi e nei mercati aspettative del tutto nuove. Ieri, quella fase era già finita: da Francoforte, Mario Draghi ha separato il caso italiano da quello degli altri Paesi dell’area euro, i quali, mentre Roma rinviava, hanno, chi di più chi di meno, riformato le loro economie. L’Italia sembra tornata a essere il primo problema dell’Europa.

Anche con esempi per un governatore «non convenzionali» – il racconto di imprenditori e di giovani che in Italia non riescono a investire a causa della troppa burocrazia – il presidente della Banca centrale ha dedicato buona parte della sua conferenza stampa mensile a spiegare il perché nell’Eurozona siamo in presenza di una ripresa «non allineata»: i Paesi che hanno fatto le riforme strutturali – «mercato del lavoro, dei prodotti, concorrenza, giudiziario e così via» – crescono, gli altri no, come si è visto dagli ultimi dati del Prodotto interno lordo. Si possono avere tassi d’interesse ai minimi, la Bce può inondare i mercati di denaro, si possono tagliare le tasse (doveroso), ma tutto è inutile se le rigidità del sistema economico impediscono di aprire business, di assumere, di espandere la propria attività, di contare su mercati trasparenti e su norme certe e applicabili. La mancanza di riforme strutturali crea incertezza, «un fattore molto potente che scoraggia gli investimenti».

Poco più di due mesi dopo quel 25 maggio, nelle istituzioni, nei governi ma anche sui mercati, c’è insomma un cambiamento di clima nei confronti della capacità dell’Italia di rendere efficiente l’economia, quasi un contrordine. E questa è una delle ragioni per le quali Draghi insiste sulla necessità di cedere sovranità a Bruxelles anche per quel che riguarda le riforme strutturali: se un Paese non è in grado di farle, glielo si imponga, come già avviene con i bilanci pubblici e con la gestione delle banche. L’Italia è troppo importante e grande per essere lasciata andare a fondo.

Niente di cui essere soddisfatto, per il governo italiano. Il ritorno della recessione e l’analisi del presidente della Bce, non sono però una condanna senza appello per Renzi. Anzi, potrebbero essere un’opportunità per ridefinire priorità e urgenze e per assumere un approccio più solido alla Ue. Se la scelta di iniziare il cammino riformista con l’abolizione del Senato e non con interventi strutturali sull’economia ha probabilmente determinato una tempistica avventata, ora si tratta di mettere sul tavolo impegni precisi e tempi certi per realizzare riforme come quelle indicate da Draghi. Dall’altra parte, va messa in disparte la retorica polemica nei confronti dell’Europa che non darebbe abbastanza flessibilità ai bilanci pubblici, cioè alla spesa: è un argomentare fragile che, tra l’altro, ai partner che hanno fatto «i compiti a casa» appare come la scusa di chi non ha l’energia per impostare una svolta riformista. La Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, persino la Grecia indicano che quando si fanno programmi seri di riforma e li si rispettano l’economia riprende fiducia e riparte prima di quanto ci si aspetti. E che, una volta sollevate, le aspettative non vanno poi lasciate cadere: il 25 maggio non è per sempre.

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Alan Friedman – Corriere della Sera

Ora che l’Italia è ufficialmente di nuovo in recessione, per la terza volta in soli sei anni, sarebbe utile capire perché il nostro Paese sia il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda la crescita.

A mio avviso la causa di questa situazione non è la moneta unica, e nemmeno il ciclo della congiuntura dell’economia europea. Non è neppure soltanto il fatto che la Germania cresca meno e acquisti in maniera meno massiccia le nostre merci, anche se questo è certamente vero.

Il motivo principale per cui l’economia italiana continua a essere così anemica è la mancanza di modernizzazione attraverso le riforme – del mercato del lavoro, del fisco, della burocrazia e del welfare. In altre parole, l’Italia non crescerà finché non avrà fatto le stesse riforme che altri Paesi hanno fatto dieci o venti anni fa.

Finché non saremo competitivi nei confronti dei nostri partner principali in Europa – in termini di una giustizia con delle regole chiare, di un costo del lavoro ragionevole, di una vera flessibilità del mercato dell’occupazione e di una migliorata produttività, equiparabile ad altri Paesi – l’Italia non potrà progredire. Le riforme non sono un optional. Sono necessarie. Servono a farci uscire dalla crisi. Sono una base per la crescita, non la soluzione magica.

Per un politico è difficile ammettere che l’impatto forte, salutare e visibile delle riforme non si otterrà in sei o dodici mesi, ma piuttosto in un periodo di almeno due o tre anni. Ma è così. Fare le riforme economiche in modo che il mercato italiano sia paragonabile a quelli tedesco, inglese o olandese significa intraprendere un percorso molto – ma molto! – ambizioso, e tutto questo in un Parlamento non proprio di leoni. Eppure il gioco varrebbe la candela, perché renderebbe l’Italia più forte.

La realtà è che viviamo da tempo in un Paese a crescita più o meno zero. Siamo da tempo in una fase di stagnazione nazionale, in cui l’economia non genera posti di lavoro, mancano investimenti pubblici e privati, manca una politica industriale, il tasso di disoccupazione aumenta, la burocrazia ci strangola, il denaro non gira, e la classe dirigente (compresa la politica) non sembra in grado di esercitare una leadership o una visione adeguata a portarci fuori dalla crisi. Ora c’è Renzi, che prova a spingere l’acceleratore sulle riforme ma inciampa ogni tanto a causa dei gattopardi della sinistra del suo partito, o delle resistenze da parte di Sel o dei cinquestelle. Renzi ha un consenso elettorale che non deve sprecare: deve spenderlo per fare una riforma coraggiosa dell’economia italiana. Deve, se necessario, «battere la testa contro il muro» per insistere su questo punto, e proporre anche qualche cambiamento strutturale che non farà piacere a Susanna Camusso.

La mia preoccupazione, in sintesi, è questa: se si facessero davvero tutte le riforme necessarie per rimettere l’Italia sul binario della crescita e dell’occupazione, i franchi tiratori sarebbero sempre lì, pronti ad affossare ogni singola proposta? La guerra potrebbe essere lunga. Ora Renzi ha bisogno di Berlusconi per portare a termine alcune modifiche istituzionali e la nuova legge elettorale. Bene. Ma si può fare in Italia una riforma radicale del mercato del lavoro, come hanno fatto i governi di centrosinistra in America durante l’Amministrazione Clinton, in Germania negli anni di Schröder o in Gran Bretagna con Blair? Laddove quelle modifiche sono state fatte, laddove c’è più flessibilità nel mercato, il tasso di disoccupazione è la metà di quello italiano.

È inutile girare intorno al problema. L’Italia non avrà nessun futuro di crescita ragionevole nel medio e lungo periodo se non fa subito le riforme strutturali che altri Paesi hanno già portato a termine. È ovvio. Questi cambiamenti devono rappresentare un vero e autentico ammodernamento di una macchina che non funziona più, di un sistema sclerotico e vecchio. Se l’Italia riesce a fare ora, nei prossimi mesi, quelle riforme che altri Paesi hanno già fatto dieci anni fa, ci potrebbe essere la speranza di una ripresa ragionevole verso la fine del 2015. Se invece vengono bloccate nel sottobosco romano, in Parlamento e dintorni, saremo qui a scrivere di un’economia senza crescita.

E’ ora che lo stato torni a investire

E’ ora che lo stato torni a investire

Alessandro Zeli – Il Sole 24 Ore

Gli squilibri generati sui mercati esteri e quindi i disavanzi del settore privato si scaricano infatti, con l’acuirsi della crisi, sul bilancio pubblico. I canali attraverso i quali si innesca la crisi del debito sono da una parte la diminuzione delle entrate dovuta al calo delle attività e dall’altra l’aumento per la spesa per il sostegno alla disoccupazione e alle perdite bancarie. Il debito raggiunge via via traguardi sempre maggiori accelerando negli ultimi anni anche a causa della politica pro-ciclica dei tagli alla spesa e di aumento delle entrate raggiungendo e superando la soglia dei 2000 miliardi di euro. La crescita del debito deriva, naturalmente, dall’aumento dell’indebitamento (grafico 1) che nonostante le politiche deflattive del governo Monti tende a crescere anche negli ultimi anni a causa soprattutto della componente legata alla spesa per interessi.

Se si analizzano più in dettaglio le varie componenti delle uscite, escludendo dall’indebitamento le spese per interessi, le tendenze possono sottolineare aspetti diversi (grafico 2). Come si può notare dal grafico ormai il bilancio dello Stato si trova stabilmente in una situazione di avanzo primario con l’eccezione del 2009 dovuta all’approfondirsi della prima fase della crisi. Le politiche di contenimento della spesa sono, pertanto, sempre più finalizzate al servizio del debito creando un circuito redistributivo che va dal contribuente (o dal beneficiario dei trasferimenti statali) verso i creditori (nazionali ed esteri) dello Stato, ossia il sistema finanziario. È interessante notare come il governo Monti abbia garantito i creditori esteri facendo scendere la percentuale di titoli del debito in loro possesso da circa la metà a circa un terzo del totale.

Le dinamiche comparate della spesa primaria e della spesa per interessi mettono ancor più in evidenza il divaricamento in favore di queste ultime. La spesa primaria e, quindi, tutte le spese dello Stato per la sua organizzazione e le spese per i trasferimenti alle famiglie (pensioni, sanità, welfare) per la prima volta, negli ultimi tre anni diminuiscono. Questo testimonia, ulteriormente, che la crescita del debito primario è stata messa sotto controllo. Gli interessi passivi registrano, invece, una dinamica accelerata rispetto al resto della spesa con una tendenza ad un’ulteriore crescita proprio negli anni del rigore montiano per effetto della manovre di tagli pro-ciclici che hanno diminuito la spesa e quindi anche il gettito creando una situazione di “sovraggiustamento”.

Il peso del servizio del debito tende ad aumentare per via della diminuita credibilità del Paese a restituirlo, tuttavia la credibilità è una medaglia che presenta due facce in sé contradditorie. Da un lato, in un’ottica di breve che si può definire finanziaria-speculativa, si esigono sempre maggiori tagli alla spesa primaria per poter avere maggiori disponibilità per il pagamento degli interessi con effetti depressivi sulla domanda interna, dall’altra, con un’ottica di lungo che si può definire di economia reale, lo spread, e quindi il livello tendenziale dei tassi sul debito, tende ad aumentare in assenza di prospettive di crescita, quest’ultima depressa, appunto, dal calo di domanda.

Il Paese si trova, pertanto, stretto tra le due braccia di una tenaglia: la prima data dalla perdita di capacità produttiva e quindi in prospettiva di piena ripresa e pieno utilizzo dei fattori produttivi dovuta alla perdita di competitività all’interno dell’area Euro e, l’altra, dal drenaggio di risorse sempre più cospicue verso i finanziatori del debito: interni ed esteri.

In conclusione manca un mix di politica economica a livello europeo tale da poter risolvere i reali problemi di competitività della nostra economia. La politica monetaria guidata dalla Bce ha svolto il compito di fermare la crescita dello spread (almeno per il momento) e di tenere i tassi a livelli molto bassi. La politica fiscale, da parte sua, non può avere come scopo solo i tagli di spesa (cui peraltro il nostro Paese ha ottemperato meglio e prima di altri, in possesso di ranking e credibilità anche superiore al nostro). È arrivato il momento di ricostituire un programma di investimenti pubblici per indirizzarli sia verso un reale recupero della competitività, sia verso un sostegno della domanda interna e della capacità di spesa di imprese e famiglie.

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La riforma del Senato – la riforma Renzi – che supera, sia pure con affanno, il primo passaggio parlamentare. Mario Draghi che indica i ritardi nelle riforme strutturali dell’economia e accenna a “cessioni di sovranità”. I dipendenti Alitalia che si astengono in massa dal lavoro recapitando certificati medici di comodo. L’Italia di oggi è racchiusa drammaticamente in queste tre foto.

Nonostante le apparenze, c’è un filo che lega questi tre momenti diversi fra loro. La riforma del Senato, a cui Renzi ha legato fin troppo la sua immagine, simboleggia lo sforzo generoso di puntare sul riassetto istituzionale (insieme al Titolo V e alla giustizia) come biglietto da visita della nuova Italia giovane e dinamica. Ottimo proposito, magari anche vincente nel lungo periodo, ma dagli esiti pratici per adesso poco significativi. Anche perché il cammino di queste riforme non sarà breve.

Il premier ritiene giustamente che nel progetto innovatore ci sia un dividendo psicologico da incassare subito, trasmettendo agli italiani l’idea di una marcia inarrestabile. È vero, quasi sempre il messaggio efficace è quello che incrocia la psicologia di massa e Renzi nei suoi primi mesi si è rivelato un maestro nel suscitare speranza. Adesso però il quadro si è ribaltato e la stessa riforma del Senato arriva con qualche giorno di ritardo. Si è detto che i dati sulla recessione segnano la rivincita dei realisti sui sognatori. Se è così, Renzi non ha altra strada se non diventare ancora più sognatore e mostrarsi altrettanto determinato a procedere sulla via delle riforme. Ogni altra scelta apparirebbe una resa.

Il problema è che l’immagine del riformatore adesso è scalfita da un senso di impotenza, anche per la debolezza del disegno complessivo. Prendersela con il giovane premier sta diventando uno sport nazionale, secondo un costume molto italiano. Peraltro i fatti dicono che forse era sbagliata la scala delle priorità. E qui si inserisce l’intervento di Draghi, giudicato come uno spietato richiamo alla realtà, cioè alle vere riforme che dovrebbero essere al centro dell’azione di governo. Ieri sera alla “Sette” il premier è stato lesto a dichiararsi d’accordo con il presidente della Bce: è la mia linea, ha detto, anch’io voglio più riforme e più incisive. Reazione politica ovvia, ma dietro la quale s’intravede il secondo livello della crisi. Se l’Italia non riesce a sollevarsi da sola, l’Europa non permetterà che vada alla deriva e gli interventi potrebbero essere molto decisi. Certo, come osserva Renzi, Draghi non ha citato l’Italia quando ha evocato la «cessione di sovranità». Ma tutti quelli che dovevano capire hanno capito.

Infine c’è la terza istantanea: la più inquietante, se non la più tragica. Quei certificati di malattia presentati in massa dai dipendenti dell’Alitalia, grazie alla complicità di medici meritevoli di una rapida inchiesta, sono anch’essi un simbolo, al pari delle valigie abbandonate di chi non riesce a partire o arrivare. È il simbolo di un’Italia ottusa che si è già estraniata dal mondo.

Contro questa Italia chiusa nel suo micro-corporativismo non c’è argomento che tenga. Né il riformismo solitario e magari un po’ velleitario di Renzi, né il richiamo severo di Draghi alla dimensione europea. Non vale la politica-spettacolo che si attira tante critiche, ma almeno prova a comunicare con i cittadini, sia pure attraverso un codice populista. Tanto meno vale l’analisi delle cifre o l’appello alla verità austera dei numeri. Ai sanfedisti dell’Alitalia è inutile proporre la distinzione fra sognatori e realisti. Il loro disprezzo per le regole della vita civile è palese e coincide con il disprezzo verso i viaggiatori. È un segmento d’Italia che crede di essere più forte, come pensavano di esserlo i controllori di volo messi alla porta da Reagan.

I rimedi che servono all’Europa

I rimedi che servono all’Europa

Stefano Lepri – La Stampa

Si può obiettare a Draghi un po’ di schematismo, quando afferma che la ripresa economica c’è nei Paesi che hanno fatto riforme di struttura e manca in quelli che esitano. Al momento, nell’area euro a gonfie vele non ci va nessuno. Ma il presidente della Bce fa bene a insistere su quel punto, perché lì l’Europa è bloccata. Finché Italia e Francia non avranno preso di petto i rispettivi problemi non sarà possibile avviare quelle azioni collettive che pure al nostro continente servono. È ovviamente nel nostro interesse avere un Paese che funzioni meglio. In più, un governo che mostri impegno a renderlo tale ridurrà la diffidenza che spinge i Paesi nordici dell’euro a chiudersi nei rispettivi egoismi nazionali. A breve termine, solo più incisive azioni di politica economica a Parigi e a Roma possono rendere facile alla Bce la misura anticrisi aggiuntiva che molti le sollecitano, ovvero una massiccia espansione monetaria («quantitative easing») come attuato dalla Federal Reserve Usa o dalla Banca d’Inghilterra.

Forse sarebbe un po’ tardi. Forse i rischi sono cresciuti, come avvertiva ieri il governatore della Banca dell’India Raghuram Rajan, economista di grande fama: si sono spinte troppo in alto le Borse senza dare impulsi sufficienti alla produzione. Però all’Europa occorrono rimedi fuori dall’ordinario. Il rallentamento che pare estendersi (vedremo nei prossimi giorni altri dati sui Pil del secondo trimestre) non può essere attribuito tutto alla cattiva influenza dei Paesi malati come il nostro.

Può darsi che la ricetta tedesca di puntare tutto sull’export non funzioni più tanto bene nemmeno per la Germania stessa. Mostra aspetti di fragilità la ripresa della Spagna, indicata come esempio perché alcune importanti riforme le ha fatte.

La scarsa fiducia delle imprese nel futuro, che fa mancare gli investimenti, non è un fenomeno solo italiano; stupisce anzi di più nel Nord Europa. In una prospettiva più ampia, occorrono progetti comuni: Draghi indica in quella direzione parlando di sovranità condivisa sulle riforme. Non è molto il tempo per reagire: né in Italia né in Europa. Un avvio rapido delle riforme da noi – inutile discettare se sia più urgente la parte politico-costituzionale o quella economica – può essere utile a tutti gli altri Paesi.

Il rischio, ben presente ai politici, è che gli interventi siano impopolari nell’immediato, fruttuosi molto più tardi. Ma esitando la situazione non potrà che peggiorare. Il nuovo soccorso della Bce, se arriverà, arriverà soltanto verso la fine dell’anno. Se l’Italia si muove, in altre capitali diverrà meno facile negare che esistano nell’area euro problemi comuni per i quali le ricette fin qui sperimentate non bastano. Non nascondiamoci tuttavia che la Francia rappresenta oggi una incognita forse maggiore. Certo non è facile muoversi se autorevoli intellettuali sostengono, contro la riforma del Senato, che la più solida garanzia di libertà è un governo debole o se la sinistra Pd e Sel si uniscono ai Fratelli d’Italia nel firmare il referendum contro il Fiscal Compact europeo. La grande crisi ha posto l’Europa, l’Europa in particolare, davanti a problemi del tutto nuovi. Dunque fa invecchiare rapidamente le idee. Anche di questo occorre tenere conto.

E’ sempre l’Italia dei maxi stipendi: Giannini, guadagnerai un botto

E’ sempre l’Italia dei maxi stipendi: Giannini, guadagnerai un botto

Maurizio Grosso – La Notizia

La regola è stata messa, ma è ancora troppo elastica. Ne sanno qualcosa alla Rai, dove la polemica degli stipendi pazzi non è certo dell’ultima ora. Il fatto è che a Viale Mazzini, così come in altri centri istituzionali, ci sono ancora troppe zone che sfuggono al nuovo tetto dei 240 mila euro l’anno imposto dal governo di Matteo Renzi ai dipendenti pubblici. Il tema è ritornato prepotentemente in auge in queste settimane di campagna acquisti tra emittenti tv. Si pensi, su tutti, al caso di Massimo Giannini, il vicedirettore di Repubblica che si appresta a condurre Ballarò sui Rai3 al posto di Giovanni Floris (nel frattempo passato a La7). Ebbene, secondo i rumors più insistenti Giannini dovrebbe portarsi a casa uno stipendio lordo annuo che oscillerebbe tra i 400 e i 450 mila euro. Ben più, quindi, del famoso tetto dei 240 mila euro (che poi altro non è se non l’emolumento del presidente della Repubblica).

Per carità, corrispondere 400-450 mila euro l’anno a Giannini è del tutto legittimo, però il suo caso è tra quelli che esulano dall’applicazione del fatidico limite. Il fatto è che all’interno dell’apparato statale sono ancora troppe le isole “felici” dove si può continuare a prendere tranquillamente uno stipendio più elevato del tetto. Tra le situazioni che più danno nell’occhio c’è quella del governatore e del direttorio della Banca d’Italia. Ancora oggi Ignazio Visco intasca 495 mila euro l’anno, il direttore generale di palazzo Koch, Salvatore Rossi, ne prende 450 mila e i membri del direttorio 315 mila. Certo, c’è la questione dell’autonomia di palazzo Koch che non può essere incisa da provvedimenti parlamentari. Ma è uno dei tanti casi in cui gli stipendi risultano legittimamente fuori soglia.

Stesso andazzo per la Corte costituzionale. In questo caso fa premio il fatto che parliamo di un organo costituzionale, rispetto al quale governo e parlamento hanno al massimo un potere di moral suasion. Il presidente della Consulta, da pochi giorni Giuseppe Tesauro, è accreditato di un emolumento annuo lordo di 550 mila euro. Gli altri giudici della Consulta, tra cui oggi figurano vecchie volpi della politica come Sergio Mattarella e Giuliano Amato, si “fermano” a 467 mila. Per non parlare del caso degli alti funzionari di Camera e Senato. Si prenda l’inamovibile Ugo Zampetti, eterno segretario generale di Montecitorio, forte di un lordo annuo di 406 mila euro (che si rivaluta del 2,5% ogni biennio). Qui va detto che la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha imposto anche ai suoi dipendenti il tetto di 240mila. Se così fosse, Zampini dovrebbe dimezzare il “tesoretto”.