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L’altro Nazareno

L’altro Nazareno

Davide Giacalone – Libero

Silvio Berlusconi e Matteo Renzi hanno contemporaneamente riunito i propri parlamentari e simultaneamente chiesto loro di essere leali e avere fiducia nelle capacità dei loro capi. Ovvero di loro due. Hanno stretto un patto, denominato “del Nazareno”, da quel patto è nato il governo Renzi, da quello s’è avviato il cambiamento della Costituzione, come la riforma del sistema elettorale. Ciascuno dei due ha pagato un prezzo, ciascuno ha avuto la propria convenienza, entrambe si mostrano fermi nel mantenere la parola data. Sarebbe tutto assai bello, se non fosse che il patto verte su ciò che forse è necessario, ma non su quello che certamente è urgente.
La sera del 25 febbraio 2013, quando si contarono le schede elettorali, fui tra quelli che ebbero modo di dirlo subito: questa legislatura si governa ed ha un senso solo se si stringe un accordo fra la destra e la sinistra. L’accordo deve reggersi su due punti: la messa in sicurezza dei conti e il cambiamento del sistema elettorale. Il Partito democratico, allora nelle mani di Bersani, rifiutò questa impostazione e si massacrò. Mi sento, quindi, un nazareniano ante Nazareno. Così come, del resto, fui tra quanti guardarono con interesse e simpatia al giovane sindaco di Firenze e ai suoi primi tentativi di dire la sua sulla scena nazionale. Il fatto è, però, che sia dall’accordo che dall’azione di governo è stato cancellato il primo, più urgente e più importante punto: i conti. Anzi, leggo (incredulo) che si sostiene la possibilità di animare l’intesa sulla Costituzione e lasciare dilagare la rissa sull’economia. Questo significa che i due ritengono prioritario controllare le frizioni e i conflitti all’interno dei gruppi parlamentari, piuttosto che provare a governare gli inevitabili conflitti sociali connessi a riforme economiche che, se vere, non sono indolori. È una davvero curiosa inversione delle priorità. Che risponde ad una logica culturale e politica: governare veramente non è possibile, ma è necessario controllare le Aule parlamentari, possibilmente riducendole al singolare, perché da quelle dipende non la continuità di governo, ma la stabilità dei governanti. Rassegnarsi a questo è suicida.
Tanto più che senza un Nazareno economico la sfida continuerà a svilupparsi in senso dannoso. Come Berlusconi volle alzare le pensioni minime così Renzi ha voluto alzare alcuni redditi, entrambe convinti che da quello dipenda il consenso e ambedue speranzosi che la spinta della domanda interna regga il prodotto interno lordo. Il tandem, purtroppo, pedala in senso opposto: crescendo i redditi (di poco per ciascuno, ma abbastanza nell’insieme) senza che cresca il lavoro diminuisce la produttività e la competitività, azzoppando la sola parte d’Italia che ancora prova a correre. E siccome senza sviluppo e con più spesa non si può far crescere il debito (che cresce per i fatti suoi), né sfondare il deficit (che è il preludio di nuovo debito), ne discende che, oggi come ieri, quel che si da con una mano si toglie con quella fiscale. Magari non esattamente agli stessi, ma in un forsennato gioco a non cambiare nulla. Questa logica non solo non cura il male, ma è il male.
Siccome tutto questo è evidente, e siccome è altrettanto chiaro che dominare i conflitti sociali, in un Paese che s’impoverisce, è difficile se altri si mettono a soffiare sul fuoco o bassamente speculano sulle difficoltà oggettive, ecco che aveva ed ha un senso che su quel terreno si stringa un accordo: mettiamo in equilibrio i conti, tagliamo la spesa pubblica da tagliare (tanta), dismettiamo patrimonio e abbattiamo il debito, nel frattempo riformiamo il sistema elettorale e lasciamo che sia il tempo a dimostrare quanto siamo stati ragionevoli, rimandando a subito dopo la ripresa della normale e sana dialettica fra diversi. E se qualche parlamentare scalpita, provando a farsi famoso intralciando questo importante lavoro, che si usi pure la frusta. Invece ci si è incaponiti su una cosa, la riforma costituzionale, che se la guardi da lontano ti sembra utile, ma non certo risolutiva, e se la guardi da vicino preferisci sperare che sia inutile. Il metodo giusto per la cosa sbagliata. Una maledizione.

L’impeto senza metodo non realizza il cambiamento

L’impeto senza metodo non realizza il cambiamento

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Uno Sturm und Drang che ancora non conosce la sistemazione teorica dell’idealismo: il riformismo renziano acquista sempre più la fisionomia di un impeto senza organicità. Il Sole ha provato a darne una razionalizzazione, e ne sono nate le pagine 2 e 3 di questo giornale, ma anche con una certa esperienza di norme si fa fatica a seguire le linee e i contorni del disegno complessivo.

Lo slancio, appunto, c’è. Così come lo sforzo evidente e meritevole di produrre il cambiamento necessario, a partire proprio dall’economia. Va incoraggiato il premier nel tentativo di superare le resistenze di un’Italia che, nel suo immobilismo, si è messa ai margini delle trasformazioni che hanno cambiato il mondo negli ultimi 25 anni. Ma l’impeto, pur necessario in questa fase, non basta. Produce antitesi, quasi mai sintesi.

Lo dimostra, una su tutte, la vicenda del Jobs Act. Renzi ne presentò con grande urgenza le linee guida nei primissimi giorni dell’anno, quando non era ancora premier. Letta ragionava sul programma 2014, Renzi in poche ore tirò fuori la sua “rivoluzione” del lavoro. Sono passati sei mesi e l’approdo in Aula al Senato del Ddl 1428, la delega sul lavoro appunto, è slittato a fine mese, in attesa che la maggioranza trovi l’intesa sul contratto a tutele crescenti. Poi toccherà alla Camera e, quindi, ai decreti delegati. La rivoluzione, insomma, può attendere.

Anche perché le norme sul lavoro si devono far largo nel vero e proprio ingorgo parlamentare di questi giorni. Tra decreto competitività, Dl e Ddl pubblica amministrazione, riforme istituzionali, sono centinaia gli articoli da discutere e approvare, con il termine dei due mesi che incombe pericolosamente per la conversione dei decreti. Il tutto complicato ulteriormente dalla mole delle norme attuative che continuano a moltiplicarsi mentre si fa fatica a smaltire quelle ereditate dai precedenti governi.
La «nostra novità è il metodo» annunciava Renzi all’esordio del suo governo. Oggi quello che manca è proprio il metodo e l’organizzazione. Il solista c’è, così come la visione e il coraggio, ma lo schema di gioco non ancora. E così la palla, banalmente, non va in porta.

Un premio ai comuni “virtuosi”

Un premio ai comuni “virtuosi”

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

C’è un filo rosso che unisce il “vecchio” federalismo fiscale con la “nuova ” spending review. È quello dei fabbisogni standard degli enti locali. Pensati nel 2009 per mandare in soffitta la spesa storica i nuovi indicatori sulle uscite di Comuni e Province si materializzano sotto forma di banca dati unica e accessibile da subito per le amministrazioni pubbliche e, da ottobre, per tutti i cittadini. Con una precisa mission: identificare in tempo reale le aree di spreco nelle uscite locali. E con un doppio ambizioso obiettivo: riformare a partire dal 2015 il sistema di perequazione portando dal 10% attuale (rimasto però sulla carta) al 40% la quota del fondo di solidarietà ripartito sulla base dei fabbisogni standard e delle capacità fiscali dei diversi territori; superare nel giro di due-tre anni il patto di stabilità interno dopo un anno di sperimentazione nel 2015 mantenendo fermo il pareggio di bilancio obbligatorio dal 2016. Un’operazione che dovrebbe essere avviata con la prossima legge di stabilità. E che, come evidenzia il sottosegretario alla presidenza, Graziano Delrio, dovrebbe anche consentire di abbandonare l’antica prassi dei tagli lineari.

Il punto di partenza è rappresentato dalla nuova banca dati OpenCivitas presentata al ministero dell’Economia, che è stata elaborata dalla società Sose in collaborazione con il dipartimento delle Finanze, guidato da Fabrizia Lapecorella. Banca dati che contiene le spese relative al 2010 dei Comuni delle Regioni a statuto ordinario e che viene proposta dal Mef come uno strumento tecnico a disposizione delle amministrazioni comunali e provinciali per confrontare le performance di tutti gli enti locali e gli scostamenti rispetto ai fabbisogni standard. Ma il presidente dell’Anci, Piero Fassino, fa subito notare che i dati non sono freschissimi e non tengono conto della stretta patita dai Comuni per le manovre dell’ultimo triennio.
Dalla fotografia, seppure un po’ datata, di OpenCivitas emergono dati inaspettati anche per la mancata comparazione del diversi impegno di risorse da parte dei Comuni per i singoli servizi (dall’istruzione al trasporto pubblico locale). Andrebbe ad esempio a Perugia la “palma” del Comune con il più ampio scostamento negativo nel 2010 tra i fabbisogni standard per abitante e la spesa storica (-31%), seguita da Brindisi (-29%), Taranto e Potenza. Il Comune più virtuoso sarebbe Lamezia Terme (+41%) mentre tra i capoluoghi di Provincia è Torino a guidare la classifica degli scostamenti positivi (7%) preceduta da Campobasso (+15%) ma seguita da Milano (+1%). Segno negativo per Roma (-7%), Firenze (-10%), Bologna (-5%) e Napoli (-4%).
A far capire che il Governo intende accelerare il più possibile sui fabbisogni standard, attivando entro l’autunno l’ingranaggio ancora mancante del meccanismo, ovvero quello della capacità fiscale standard, è il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta: «L’operazione che abbiamo in mente è quella di superare il patto di stabilità interno». Con l’entrata in vigore del pareggio di bilancio obbligatorio per tutti gli enti «dobbiamo studiare sanzioni per chi non lo rispetta ma – aggiunge Baretta – mantenere anche il patto di stabilità interno sarebbe una cappa inutile». Per Delrio con la banca dati parte «un’operazione di grande trasparenza che concretizza un pezzo importante di federalismo amministrativo». Il commissario alla spending, Carlo Cottarelli, definisce OpenCivitas «un esempio di best practice che molti Paesi ci invidieranno» e sottolinea che i fabbisogni standard «servono per un’operazione di efficientamento della spesa». Cottarelli conferma gli obiettivi minimi di risparmio delle sue proposte (5-800 milioni nel 2015 e 2 miliardi nel 2016) ma aggiunge che i dati possono essere aggiornati sulla base di nuove informazioni. Per Fassino il calcolo dei fabbisogni standard «è un esercizio prezioso, ma solo uno strumento tecnico che deve fare i conti necessariamente con la volontà politica».

Deficit, tasse e spending review: Padoan risponda a 10 domande

Deficit, tasse e spending review: Padoan risponda a 10 domande

Renato Brunetta – Il Giornale

Le riforme costituzionali – Senato, Legge elettorale, Titolo V della Costituzione – sono indubbiamente un momento centrale della legislatura. Ma non è su questo terreno che si misureranno i successi o gli insuccessi governativi. Sarà l’economia il vero banco di prova. Nella risposta ad una crisi profonda, come mai lo è stata, si gioca sia il futuro di Matteo Renzi sia quello del suo ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan. Ma soprattutto quello dell’Italia. La nostra opposizione alle misure finora annunciate e, per la verità scarsamente attuate, si basa su queste considerazioni. Forza Italia non può essere travolta in un eventuale fallimento, per la semplice ragione di non avervi contribuito. Abbiamo cercato in tutti i modi di lanciare responsabili appelli ai naviganti. Conoscendo le difficoltà oggettive che frenano ogni slancio lungo il sentiero della ripresa, avevamo invitato alla prudenza. E suggerito vie alternative. A partire da un maggiore impegno programmatico per il decreto Poletti del mercato del lavoro e sul cosiddetto Jobs Act.

C’era una logica nel nostro modo di operare. All’appuntamento europeo, dopo le tante critiche subite e l’onta di essere considerati «vigilati speciali» al pari della Croazia e della Slovenia, dovevamo presentarci con risultati concreti. Nessun compito a casa, per carità. Ma riforme imprescindibili se si vuol ritrovare il senso di una possibile prospettiva. Che poi coincidano in parte con le raccomandazioni della Commissione europea è solo un dato di realtà. Operando nel senso indicato, saremmo stati più liberi di poter esprimere tutte le nostre critiche alla politica economica tedesca. E reclamare il rispetto dei Trattati, che non possono valere solo per taluni, ma devono essere impegnativi per tutti. Compresi quei Paesi il cui eccesso di surplus nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti equivale a violazione. Si poteva reclamare una politica reflazionistica, basata sull’aumento della domanda interna di quel Paese, per ridurre il surplus commerciale e quindi contenere la rivalutazione dell’euro. Oppure creare nuove strutture finanziarie – si pensi agli eurobond – per il rilancio degli investimenti o la messa in comune almeno di una parte del debito sovrano.
Dicevamo: c’era una logica in questo nostro modo d’operare. Nasceva dall’osservazione attenta dei dati drammatici della situazione italiana: una produzione industriale che continua a regredire, un tasso di crescita complessivo ben al di sotto delle rosee e comunque minimaliste previsioni governative, una disoccupazione che ricorda la grande crisi del 1929; un debito pubblico che continua a crescere a ritmi forsennati; una finanza pubblica fuori linea; una povertà sempre maggiore. E potremmo continuare. Oggi il governo si trova di fronte la drammatica prospettiva di un’indispensabile manovra correttiva. E che rischia di complicare una situazione già estremamente difficile. Se questo avverrà, sarà l’intero castello di carte a venir giù. Rimarrà solo la testimonianza di un’opposizione – la nostra – che non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani indicando vie alternative, proposte concrete per evitare ritardi ed errori, dimostrando la più totale e completa disponibilità al confronto. Un’occasione che il governo ha clamorosamente mancato, ma che consentirà ad una forza politica come la nostra di ripartire. Nell’interesse profondo dell’Italia.
Per questo ancora oggi poniamo al ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, 10 domande alle quali dovrà rispondere in Parlamento.

1. Quanto peserà in termini di deficit la crescita italiana più vicina allo zero che non allo 0,8% delle previsioni?

2. Con ogni probabilità l’Ue non accetterà la proposta dell’Italia di posporre al 2016 il pareggio di bilancio. Come verranno corretti i conti pubblici?

3. Come e quando il governo intende far fronte alle raccomandazioni della Commissione europea?

4. Il governo intende render strutturale il bonus di 80 euro ed estenderlo ai pensionati, ai lavoratori autonomi e ai cosiddetti “incapienti”. Costo: almeno 15 miliardi. Con quali coperture?

5. Nel tendenziale di finanza pubblica sono incorporati tagli da realizzare attraverso la spending review. Come si recupereranno le risorse che mancano all’appello?

6. Debiti della Pa. Per Banca d’Italia ci sono ancora 75 miliardi da pagare. Come farà il governo a saldare tutto?

7. Il debito pubblico italiano già a maggio è superiore di 25 miliardi rispetto alle previsioni del Def. Come si intende rimediare?

8. Nei primi quattro mesi del 2014 le entrate fiscali sono aumentate dell’1,4% contro un’ipotesi di crescita del 3,1%. Il buco virtuale è d circa 8 miliardi. Come colmarlo?

9. Nel tendenziale di finanza pubblica sono previste privatizzazioni per 10 miliardi l’anno per il prossimo triennio. I tentativi finora portati avanti si sono dimostrati un flop. Come recuperare il tempo perduto?

10. Il presidente del Consiglio ha più volte escluso l’ipotesi di una manovra correttiva. Alla luce dei dati forniti, ci può indicare come avverrà il miracolo?

L’ultimo bluff europeo del governo Renzi

L’ultimo bluff europeo del governo Renzi

Daniele Capezzone – Panorama

Purtroppo, a dispetto delle parole di autoincoraggiamento e autoconsolazione di Matteo Renzi, in Europa le cosa non cambiano affatto per l’Italia. Dopo la sequenza di incontri e vertici, conclusi dall’Ecofin dell’8 luglio, il quadro delle regole di austerità (parole e cortine fumogene a parte) è assolutamente invariato, così come permane la richiesta per l’Italia di «sforzi aggiuntivi» già per l’anno in corso: il che, tradotto in prosa, vuol dire rischio concreto di una manovra correttiva da 9-10 miliardi. Ma, perfino al di là del rischio-manovra, quel che conta in negativo è il permanere di tutto ciò che ha fatto male a noi e all’Europa: resta il Patto si stabilità, resta il 3 per cento, resta il Fiscal compact, restano tutti i vincoli esistenti che hanno prodotto la drammatica gabbia di austerità che ha contribuito ad affossare l’economia del Continente. Poi ci si può aggrappare a qualche parolina, a qualche espediente verbale nei documenti finali dei vertici, come il riferimento al cosiddetto «miglior uso della flessibilità esistente»: ma una parola buona in un documento non si nega a nessuno, da che mondo è mondo. Al massimo, alla fine della fiera, l’Italia potrà per esempio ottenere lo scorporo dai calcoli di qualche «zero virgola» di investimenti, ma stiamo parlando di aspetti marginali che non cambiano il quadro di fondo. Se infatti si resta nel quadro delle regole esistenti, il rischio di asfissia e di mancanza di ossigeno è assolutamente concreto, e non sarà una miniconcessione (ammesso che arrivi) a scongiurarlo. Quel che conta, politicamente, è che anche il governo Renzi accetta di sottomettersi politicamente alla volontà di Berlino e Bruxelles. E infatti Renzi e Pier Carlo Padoan devono ammettere che tutto sarà affidato a come la nuova commissione Ue (e in particolare il successore di Olli Rehn) interpreterà le cose.

Servirebbe, invece, una strategia del tutto alternativa. Se non saremo capaci, come nel mio piccolo suggerisco da tempo (si veda il mio saggio “Per la rivincita: software liberale per tornare in partita), di sfondare autonomamente il limite del 3 per cento per un piano di consistenti tagli fiscali, per un vero e proprio choc fiscale positivo, ovviamente accompagnato da riforme e corrispondenti tagli di spesa, allora vorrà dire che l’Italia avrà deciso di autoconsegnarsi a un destino di non-crescita e di subalternità. E questo è a maggior ragione vero se vogliamo tornare alla crescita, tema su cui il governo Renzi andrà incontro a cocenti delusioni. Al suo arrivo, il governo Renzi previde per il 2014 una crescita dello 0,8 per cento. L’Istat ha fatto scendere la previsione allo 0,6, l’Ocse allo 0,5, la Confindustria addirittura allo 0,2. Nel frattempo sono arrivati i dati reali, relativi al primo trimestre 2013, che ci hanno portato addirittura sottozero, cioè a meno 0,1 per cento. Se questa è l’aria che tira, se poi Renzi conferma le sue scelte fiscali (sulla casa, sul risparmio…), e se poi restano anche i vincoli europei, come pensiamo di poter tornare a una crescita decente?

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Marco Cobianchi – Panorama

Secondo gli esperti un eccesso di informazioni può provocare ipertensione, vertigini, ansia, inappetenza. Le stesse sindromi dalle quali è affetto Carlo Cottarelli, commissario straordinario alla spending review, l’uomo chiamato a contribuire con un taglio alla spesa di almeno 14 miliardi di euro nella prossima imminente stesura della legge di stabilità 2015. Ebbene Cottarelli, si diceva, passa diverse ore al giorno sul sito del Siope, un software inventato e gestito dalla Banca d’Italia che raccoglie tutte le spese di tutti gli enti pubblici giorno per giorno. Bum! Il sogno di ogni italiano si è avverato: controllare quotidianamente come le amministrazioni pubbliche spendono i soldi delle sue tasse. L’ipertensione è garantita, ma la soddisfazione raggiunge il climax. Basta cliccare a caso e il web scodella tutte le uscite di quel giorno. Proviamo.

Il 12 marzo 2014 il premier annuncia la vendita su eBay delle auto blu, peraltro un flop con poco più di 20 vetture passate ai privati. Il giorno dopo lo Stato ha speso 5.170 euro in carburanti saliti a 6.200 il giorno dopo. Poco? A marzo in benzina se ne sono andati 4,2 milioni di euro. Sempre il 14 marzo lavanderia e pulizia sono costati 536mila euro, le armi leggere 65mila euro, i mobili per ufficio 180mila, la cancelleria 163mila e (tenersi forte) il vestiario addirittura 12,2 milioni.

Continuiamo, anche se l’ipertensione sale. Uno dei pezzi forti della spesa pubblica sono le consulenze. Secondo la Uil i professionisti dei quali si avvale lo Stato sono 545mila. Lo ha detto il 16 dicembre 2013 e, proprio quel giorno, se ne vanno 9.700 euro in consulenze giuridiche, 125mila per consulenze tecnico-scientifiche, 1,1 milioni in consulenze informatiche e 767mila in «altre consulenze». Il giorno dopo per consulenze giuridiche sono stati pagati 130mila euro, 228mila per quelle tecniche, 4 milioni per quelle informatiche e 1,1 milioni per «altre consulenze». Sempre quel 16 marzo 2013 Matteo Renzi dà del «buffone» a Beppe Grillo perché il leader del Movimento 5 Stelle non vuole votare le riforme istituzionali e intanto dalle casse dello Stato escono 9,2 miliardi tra cui: 40,8 milioni per aerei da guerra, 22 milioni per navi da guerra, 1,6 milioni per mezzi terrestri da guerra, 562mila per armi pesanti e 877mila per armi leggere. Sembrerebbe che l’Italia si stesse preparando a un’invasione e invece tutti i giorni lo Stato spende queste cifre in armi. Per esempio: il 2 maggio 2013, mentre Berlusconi e Renzi litigano sull’Imu, lo Stato paga 5,1 milioni per la manutenzione delle caserme oltre a 3 milioni per contenziosi verso i fornitori e perfino 103 euro per «Iscrizione ordine professionale», che dovrebbe pagare chi si iscrive, non lo Stato.

Ma il bello deve ancora venire. Vogliamo parlare dei sussidi alle imprese? Il 16 agosto 2013 debutta il redditometro che permette di incrociare le spese di ogni italiano e scovare gli evasori, ed esattamente quel giorno lo Stato versa alle imprese 5 milioni in sussidi, altri 2,4 due giorni dopo, 1,8 arrivano il 22 agosto e così via per tutti i giorni dell’anno, di tutti gli anni. Il totale è impressionante: nel 2013 i sussidi andati alle imprese sono stati 15,7 miliardi, e per fortuna che non c’erano i 25 milioni versati l’anno prima alla società Grandi stazioni che è controllata al 60 per cento dalle Fs ma il 40 è di soci privati (Benetton, Pirelli e Caltagirone).

Basta aggirarsi per qualche minuto per scoprire spese incredibili. Il 23 agosto l’allora ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni avverte che non ci sono i soldi per abolire l’Imu e proprio quel giorno lo Stato non solo spende 1 milione per i fabbricati militari ma soprattutto 128mila euro per «animali» che ci sono costati più di 1 milione in tutto il 2013 e sempre l’anno scorso un altro milione se n’è andato in «strumenti musicali»; 104 milioni in «vestiario»; 1,6 in assistenza «psicologica, sociale e religiosa»; 197 milioni in affitti; 51 milioni in bollette dei cellulari; 409 in pulizia e lavanderia; 127 milioni in traslochi e, soprattutto, 418 milioni sono serviti a pagare i premi del gioco del Lotto. Poi ci sono le bollette: uno si aspetta che la più alta sia quella per la fornitura di elettricità e invece è quella per l’acqua: 3,4 miliardi di euro nel 2013.

Tagli? Quali tagli? Risparmi? Quali risparmi? Stando al Siope, il Quirinale è costato esattamente la stessa cifra – 228,2 milioni l’anno – dal 2009 al 2013. E tale rimarrà fino al 2016 perché il presidente Napolitano ha rifiutato un adeguamento all’inflazione da 10 milioni di euro. Come dire, un risparmio percepito.

Meglio scendere dal Colle. Il 14 aprile di quest’anno il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio annuncia che quando sarà il momento di nominare i dirigenti delle aziende pubbliche il governo punterà alla parità tra uomini e donne e, proprio quel giorno, lo Stato stacca un assegno da 422mila euro per affitti di immobili. L’8 aprile Matteo Renzi presenta il Def (che prevede una crescita dello 0,8 per cento nel 2014: pura fiction) e quel giorno lo Stato paga 347mila euro in benzina, trasferisce 33 milioni alla presidenza del Consiglio (cioè a Renzi stesso) e compra 3,6 milioni in francobolli. Il 17 febbraio del 2012 l’Istat rivela che in 9 mesi si sono persi 90mila posti di lavoro e quel giorno lo Stato spende 44mila euro in «accessori per uffici». Il primo giugno 2012 il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, dice che in Italia le tasse sono troppo alte e mente lo dice lo Stato versa 316 milioni alle imprese pubbliche. Il 29 marzo del 2013 si scopre che le fatture non pagate dallo Stato alle imprese private valgono 90 miliardi e intanto 2,5 milioni se ne vanno in traslochi dei dipendenti statali, 900mila in affitti e 27 milioni alle «unioni di Comuni».

Ma più dei carri armati, del vestiario e delle bollette, ciò che pesa sul bilancio pubblico è l’Europa, i cui versamenti seguono un crescendo rossiniano: 15,4 miliardi nel 2008, 15,8 nel 2009, 15,5 miliardi nel 2010, 16,7 miliardi nel 2011, 16,4 miliardi nel 2012 e (record) 17,6 miliardi nel 2013. Per avere un’idea di cosa si sta parlando basta dire che sempre nel 2013 i trasferimenti alle famiglie sono stati appena 2,5 miliardi. E il 2012? Anno da incorniciare: oltre alle spese (diciamo) normali, abbiamo pagato 5,7 miliardi per garantire la «stabilità finanziaria dell’area euro» e 1,1 miliardi per salvare la Grecia ma abbiamo anche speso 93 milioni a favore dei «soggetti danneggiati da complicanze dovute a vaccinazioni obbligatorie ed emotrasfusioni» e 66 milioni per lo smantellamento di sommergibili nucleari, mentre per altri 82 milioni «non si dispone di sufficienti informazioni». Tradotto: nessuno sa dove siano finiti.

Poi ci sono le spese dei Comuni e qui c’è da perdersi, anzi, da svenire, soprattutto se si pensa che nell’era di Internet il Comune che si autopromuove il più moderno d’Italia, Milano, è riuscito in sei anni a raddoppiare le spese postali, passate da 14 milioni nel 2008 a 31 nel 2013. Certo, le spese per convegni sono passate da 22,2 a 3 milioni ma la spesa pro capite per i consumi intermedi (quelli che servono a far funzionare la macchina pubblica) sono, a Milano, non solo più alti della media delle grandi città italiane, 1.300 euro rispetto a 955, ma anche di Roma (1.089), Napoli (1.088) e Palermo (587). Poi c’è il capitolo tasse. Chi vive nei grandi Comuni paga mediamente 750 euro ma i milanesi versano 785 euro, i torinesi 766, i romani 729, i catanesi 655 e i fiorentini 847. A proposito: tra il 2009 e il 2013 Firenze è stata una delle pochissime città che ha aumentato il proprio budget, passato da 746 a 840 milioni. Il premier che ora vorrebbe tagliare la spesa pubblica è quello che a Firenze ha aumentato le spese correnti da 485 a 593 milioni riuscendo anche nell’impresa di triplicare le uscite per liti giudiziarie, che sono passate 493mila del 2009 a 1,4 milioni nel 2013 mente le sentenze avverse al Comune sono costate 866mila euro dagli 8.600 del 2009: sono centuplicate. Nel 2013 Renzi ha anche speso 3mila euro per animali, 165mila euro per vestiario e oltre 4 milioni in francobolli (oltre 5,5 milioni di lettere ai 350mila fiorentini?). Stando alle fatture pagate, i dipendenti pubblici di Bologna sono i più eleganti d’Italia: 430mila euro, anche se il budget è calato da 641 a 590 milioni. Un bilancio ridicolo di fronte a uscite per l’incredibile cifra di 6,3 miliardi di Roma, che nel 2013 ha speso 98 milioni in consulenze; 11 milioni in convegni, 56 milioni di francobolli (erano 11 nel 2012) e 115 milioni in affitti (107 nel 2012).

Probabilmente Cottarelli sarà iperteso, ansioso e inappetente e soffrirà di vertigini. Perché si è reso che per tagliare la spesa pubblica non bastano le forbici. Ci vuole una motosega.

Meno vincoli ai Comuni, “Patto di Stabilità da cancellare il 3 anni”

Meno vincoli ai Comuni, “Patto di Stabilità da cancellare il 3 anni”

Il Messaggero

È lo spauracchio di molti amministratori locali, ed anche un bersaglio polemico nelle controversie con lo Stato centrale. Ora il governo annuncia che tra due-tre anni il Patto di stabilità interno potrebbe essere solo un ricordo. È toccato al sottosegretario Pierpaolo Baretta dare questa indicazione, proprio mentre al ministero dell’Economia veniva presentata la nuova banca dati sui fabbisogni standard dei Comuni. Come ha spiegato Baretta, una volta in vigore le nuove e più stringenti regole di bilancio, che a partire dal 2016 impongono anche agli enti locali l’obbligo del pareggio (sia pure con alcune parziali eccezioni) non avrebbe più senso lasciare in vigore un’ulteriore strettoia, appunto il Patto di stabilità interno.

Questo strumento è stato utilizzato dalla fine degli anni Novanta, quando è apparso chiaro come a fronte degli obblighi assunti dall’Italia a livello europeo fosse necessario tenere sotto controllo anche i bilanci di Regioni, Comuni e province. In realtà la formulazione tecnica è cambiata più volte nel corso degli anni: sono stati applicati vincoli sia sulla spesa che sui saldi, e il Patto è stato lo strumento con cui di fatto lo Stato ha chiesto alle amministrazioni territoriali di partecipare alle varie manovre di risanamento dei conti impostate nel corso degli anni. Ma molti amministratori, in particolare sindaci, hanno lamentato le conseguenze paradossali di questa “gabbia”: in particolare il fatto che ne risultino penalizzati proprio gli enti locali virtuosi. Quelli cioè che avrebbero in bilancio risorse da spendere, ottenute con il contenimento dei costi oppure con proprie entrate, ma non lo possono fare per il vincolo generale imposto a tutti, in particolare sulle uscite. In questo modo sono stati bloccati anche cantieri che avrebbero potuto essere mandati avanti, non per mancanza di soldi ma per un obbligo di legge. Nel tempo sono state quindi proposte – e in piccola parte concesse – deroghe per interventi di particolare urgenza.

Questa logica ora dovrebbe essere superata: saranno previste sanzioni per Regioni e Comuni che non si adeguano al principio del pareggio, impegnandosi a rientrare in caso di disavanzo, ma gli amministratori virtuosi dovrebbero avere la possibilità di spendere le risorse disponibili a beneficio dei cittadini.

Settembre sarà subito da brivido

Settembre sarà subito da brivido

Gustavo Piga – Panorama

Godiamoci questo agosto non pensiamo al rientro, perché a settembre saremo immersi in un dibattito dagli esiti imprevedibili sul come consolidare i conti pubblici di circa 30 miliardi nel 2015, via aumento di tasse e tagli di spesa, chiesto dall’Europa. In attesa che Renzi riesca a ottenere una moratoria sull’ottuso Fiscal compact, appoggiato anche dal referendum contro l’austerità per il quale stiamo raccogliendo le firme in tutta Italia, è d’obbligo chiedersi cosa si sta facendo per ridurre il tremendo impatto che potrebbe avere la manovra di cui sopra. Saprà il governo identificare in pochi mesi gli sprechi dentro la spesa ed evitare tagli di appalti a casaccio che uccidono imprese e occupazione? Filtrano poche informazioni. Alcune inducono a sperare, altre preoccupano. Tra le prime è la crescente collaborazione tra le istituzioni rilevanti per la spending review. Ne è prova la fusione tra Autorità Anticorruzione e Autorità per la vigilanza su contratti pubblici per migliorare le sinergie ispettive su una materia, gli appalti pubblici, che genera il 15 per cento del pil. Ma anche la lettera congiunta di Cantone e Cottarelli a 200 stazioni appaltanti che parrebbero non aver osservato l’obbligo di acquistare presso la Consip. Tra le seconde, spicca la decisione di dare rilievo decisionale al massimo a 35 stazioni appaltanti. Se è un bene ridurne il numero (sono decine di migliaia), preoccupa una scelta che rischia di far crescere la dimensione media delle gare escludendo il tessuto delle piccole imprese. Significherebbe non solo perdere i risparmi derivanti dal minor numero di stazioni appaltanti a causa della minore concorrenza, ma aggiungervi una minore competitività come Sistema Paese.

Il vero costo degli 80 euro

Il vero costo degli 80 euro

Giancarlo Mazzuca – Il Giorno

La priorità del neopresidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker? L’economia, quindi crescita e lavoro grazie a 300 miliardi da spalmare in 3 anni. Sembrano molti, in realtà sono cento miliardi all’anno, pari a poco meno dello 0,6% del prodotto lordo che è di 16.700 miliardi. Le priorità del “piè veloce” Renzi? Riforme del Senato e della legge elettorale che sicuramente non creano Pil. Anzi, emerge ora che, grazie al decreto degli 80 euro nelle buste paga, nei prossimi tre anni saranno tagliati trasferimenti dallo Stato alle amministrazioni comunali per oltre due miliardi, in aggiunta quindi ai 15 degli ultimi sette anni. Questo significa per il Comune di Milano 15-20 milioni in meno di trasferimenti statali. Per i milanesi invece o più tasse o meno servizi. Il lenzuolo, insomma, da noi è sempre più corto. Il ministro Padoan sostiene che «non ci sono scorciatoie per la crescita» ma questo non vuol dire che si debba continuare a bastonare i tartassati contribuenti italiani. Già uno su tre non va più a votare, un italiano su dieci è considerato dall’Istat indigente, uno su tre ha avuto nel 2013 sofferenze sul lavoro, in sei anni la disoccupazione è quintuplicata mentre quella giovanile è raddoppiata. Ma il debito pubblico continua a stabilire record, produzione industriale ed export sono altalenanti, dismissioni e privatizzazioni sono di fatto ferme, i tagli della spesa pubblica sono irrisori per timore di scatenare rivolte, paghiamo interessi per 80 miliardi pur avendo un debito simile a quello della Germania che paga invece solo 50 miliardi di interessi. Questi sono temi che a Renzi non piace affrontare, possiamo solo consolarci con il “servizio civile” per 40mila giovani promesso dal ministro Poletti.

L’impressione è che ci si muova a vuoto. Junker dà qualche pacca sulle spalle, Draghi dice che di flessibilità non se ne parla, il Fmi avverte che e medio termine «ci sono grossi rischi per l’eurozona di finire in stagnazione». Ma non eravamo fuori dal tunnel? Evidentemente non è così: il Pil americano è in forte calo; la produzione industriale nell’eurozona è ancora giù del 12% rispetto a sei anni fa; lo scivolone del portoghese Banco Esperito Santo ha colpito non solo il settore bancario ma anche gli spread sovrani di Italia, Spagna e Grecia. Ora i Brics – ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – hanno dato vita a una banca di sviluppo alternativa al Fmi e alla Banca mondiale con riserve valutarie di cento miliardi di dollari. Noi invece assistiamo, contenti del nostro passo. Cioè fermi.

L’inutile addio al Registro imprese

L’inutile addio al Registro imprese

Sergio Luciano – Panorama

La Madia lo fa, la Guidi non lo sa. Ma Renzi sì. Si parla del Registro imprese, che un disegno di legge delega allo studio della presidenza del Consiglio su proposta del ministero per la Semplificazione e per la Pubblica amministrazione (gestione Marianna Madia) intende sottrarre alle Camere di Commercio, cui è oggi attribuito da una legge del ’93, e trasferirlo al Mise, il ministero per lo Sviluppo economico (gestione Federica Guidi). Al Mise spetta già la vigilanza del sistema camerale ma per ora nessuno sa nulla di ufficiale su questo trasloco del registro. Surreale, ma c’è di più. Il cosiddetto “Decreto P.A.” si è già occupato del Registro imprese per disporre il dimezzamento, da subito, della tassa annuale che oggi le imprese pagano alla Camera di Commercio. E così il presidente dell’Unioncamere Ferruccio Dardanello si è presentato l’8 luglio alla commissione Affari costituzionali della Camera per chiedere una gradualizzazione del taglio al diritto annuale. Già: ma nel frattempo Palazzo Chigi lavora per sottrarre del tutto il Registro alle Camere, altro che dimezzare la tassa. Un po’ di caos tra Palazzi, insomma. E a favore di chi? Chi, cioè, si avvantaggerebbe del trasferimento del Registro? Al Mise non sarebbero attrezzati per sbrigarsela da soli: non hanno strutture informatiche né reti sul territorio idonee. Un appaltatore esterno scelto a gara? Ovvio. Ma una prospettiva del genere scatena le dietrologie. E c’è chi parla di una cordata confindustriale desiderosa di spolpare l’osso delle Camere di Commercio, scippandogli i flussi di cassa del Registro. Un complotto alla Spectre, ma con una sceneggiatura alla Brancaleone: per ora, soprattutto, uno dei sintomi dello iato che c’è tra l’attivismo del governo e la capacità realizzativa dei suoi esponenti…