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Come fare la Spending Review?

Come fare la Spending Review?

di Gabriele Rosana – Formiche.net

«Una spesa pubblica fatta bene, e per evitare una condanna a vent’anni, si può fare». Stavolta, però, le patrie galere e la legislazione anticorruzione a tamburo battente – anche se si tratta di denaro pubblico – c’entrano poco. «La condanna a vent’anni» di cui parla Giorgio La Malfa è la sentenza emessa nei giorni scorsi dal Fondo monetario internazionale sullo stato di salute dell’economia italiana, secondo cui il nostro Paese, al ritmo di crescita previsto dal governo, tornerebbe ai livelli di produttività pre-crisi del 2007 «solo a metà degli anni Venti». In mezzo, due decenni andati in fumo.

L’ex ministro tira in ballo la profezia dalle tinte fosche degli osservatori dell’Fmi nell’introdurre giovedì scorso al pubblico romano – nella sala della Fondazione Ugo La Malfa, a due passi da Torre Argentina – il volume di fresca pubblicazione degli economisti Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La buona spesa: dalle opere pubbliche alla spending review”, primo libro edito dal centro studi ImpresaLavoro in cartaceo e in formato ebook. Una guida operativa dal sapore liberale e pro-mercato che ha come destinatari privilegiati coloro che gestiscono la spesa pubblica dello Stato ma – e forse soprattutto – delle Regioni e degli enti decentrati, perché, come insiste Pennisi – una vita fra Banca mondiale, ministeri e docenze italiane – è indispensabile ricorrere a metodi e tecniche per valutare investimenti e opere pubbliche, senza lasciare nulla al caso e all’improvvisazione. Ma non solo. Perché il testo «non è un libro di teoria economica ma una guida» rivolta a un pubblico anche di non addetti ai lavori, scritta con linguaggio accessibile e non tecnico su come valutare correttamente e tagliare efficacemente la spesa pubblica, riconvertendola a virtù ad essa oggi estranee, indicando – continua Pennisi – «i metodi migliori per scremare lì dove si annidano sprechi e costi della politica. Per quale motivo non si riesce a ridurre la spesa pubblica e tutti i commissari del governo dediti alla spending review falliscono?». Una dopo l’altra son rotolate le teste di Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio e Carlo Cottarelli. «I fautori della spending review altrove nel mondo operano all’interno dell’autorità statale: dovrebbe cioè essere un impiego della Ragioneria dello Stato, non di un commissario ad hoc» annota Pennisi.

Stefano Maiolo, coautore del testo e componente del nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio, rileva che l’allergia alle pagelle è ben radicata nel corredo genetico del Belpaese: «Il timore della valutazione è diffuso sin dalla tenera età, come dimostra la vicenda del boicottaggio dei test Invalsi promossi dall’Ocse fra i banchi di scuola». Ma per tornare alle colpe “dei grandi” – quegli stessi “grandi” che scansano i compromessi intergenerazionali e privilegiano gli interessi correnti – Salvatore Zecchini, docente a Tor Vergata e alla testa del gruppo di lavoro Ocse sulle Pmi, punta il dito contro «i ministri che non vogliono valutare, perché temono che con la valutazione si giunga a un giudizio nel merito delle loro scelte di spesa».

Una vecchia illusione, quella di comprimere la spesa pubblica, benché vi sia almeno un 20% di margine di manovra – secondo l’ottimistica visione di Giarda, il primo incaricato dell’ufficio chirurgico – insiste La Malfa: «Può mai un governo alienarsi corpose categorie sociali che vanno alle urne?». I repubblicani, in fondo, non erano un partito di massa e «qualche scelta coraggiosa potevano pure prenderla…» «Tagli alla spesa pubblica, meno imposte e reimpiego in investimenti» è la risposta tranchant di Zecchini a chi invoca la cura Giavazzi di abolizione degli incentivi alle imprese. E, insieme, porre le basi per una cultura della valutazione «che prenda le mosse dai dati e dalla formazione di chi è addetto a gestire le politiche pubbliche: occorre colmare i vuoti di conoscenza quanto ai metodi, ma anche pretendere che i beneficiari di investimenti forniscano le informazioni indispensabili per valutare il finanziamento». E certo queste linee guida, per molte Regioni e enti locali, imporrebbero come prerequisito anche solo una semplice programmazione.

Ma il faro perpetuo a cui guardano gli autori de “La buona spesa” è l’intramontabile Ronald Reagan: fu lui a volere negli Stati Uniti una delle poche leggi mai più cambiate nell’ordinamento a stelle e strisce, sottolinea Pennisi, e cioè quella che obbliga «tutti i settori del governo e le agenzie pubbliche a corredare i propri interventi di spesa con analisi costi/benefici», sino a giungere alla valutazione degli impatti, all’analisi del rischio e alla valutazione come condizione essenziale per ogni decisione ponderata. «Revisione della spesa pubblica, del resto, vuol dire puntare a una spesa di qualità: non tagli indiscriminati ma cosa fare, come e perché».

Debiti PA – Interrogazione di Antonio Tajani (Ppe) alla Commissione UE

Debiti PA – Interrogazione di Antonio Tajani (Ppe) alla Commissione UE

Ritardi di pagamento da parte delle pubbliche amministrazioni italiane

Secondo un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro, basata sull’ultima indagine annuale di Intrum Justitia sui rischi del credito commerciale in Europa, lo scorso 31 dicembre 2015 il totale dei debiti pregressi contratti dalla Pubblica Amministrazione (PA) italiana nei confronti di imprese fornitrici ammontava a 61,1 miliardi di euro. Anche i tempi di pagamento delle PA italiane risultano essere allarmanti. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega, infatti, in media 131 giorni: 16 giorni più della Grecia, 33 giorni più della Spagna e 55 giorni più del Portogallo.

Alla luce di quanto esposto, si chiede alla Commissione:

1. In che modo e con quali iniziative intende agire per contrastare i ritardati pagamenti da parte delle PA italiane, che hanno conseguenze negative sull’intera economia del Paese, in particolare su artigiani, piccole e medie imprese e start-up;

2. Se il dialogo avviato con le autorità italiane, nell’ambito della procedura d’infrazione in corso, ha prodotto effettivi miglioramenti per quanto concerne la riduzione del debito pregresso contratto dalla PA e il rispetto della nuova direttiva Ue contro il ritardo dei pagamenti, che impone alle PA di saldare di saldare le fatture di acquisto entro 30 giorni, pena l’applicazione automatica di interessi di mora nell’ordine di 8 punti addizionali all’Euribor.

Un voto da esaminare? Quello svizzero

Un voto da esaminare? Quello svizzero

Vittorio Pezzuto – Metro

Il voto più importante di questi giorni resta a mio giudizio quello svizzero. Gli elettori dei 26 Cantoni hanno infatti bocciato con uno straripante 77% il referendum che proponeva di elargire un reddito minimo garantito a tutti i cittadini elvetici. Questi valligiani son gente concreta, che bada giustamente ai propri interessi. Sanno bene come un reddito non possa prescindere dal lavoro e infatti si industriano ogni giorno per guadagnare sempre di più, orgogliosi del loro successo personale. Tant’è vero che agli autori di questa strampalata proposta hanno così replicato: «Ma siete matti?! I soldi mica nascono sotto le pietre. Come disse Margaret Thatcher, non esiste il denaro pubblico: esiste solo il denaro dei contribuenti. E noi non abbiamo nessuna intenzione di pagare nuove tasse per far fronte al costo di una mancia assistenziale mensile (fino alla tomba) di 2.250 euro per ciascun adulto e addirittura di 560 euro per ciascun minorenne.

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Il debito dell’Eurozona

Il debito dell’Eurozona

Il 31 maggio, all’assemblea della Banca d’Italia, il problema del debito dell’eurozona è stato appena sfiorato nelle “considerazioni finali” del Governatore Ignazio Visco. In questi giorni, tuttavia, è stato al centro e della sessione del Consiglio della Banca centrale europea (Bce) tenuta a Vienna il primo giugno e di un convegno internazionale organizzato dall’Università La Sapienza di Roma dal 30 maggio al primo giugno. Le discussioni del Consiglio Bce sono naturalmente coperte da riserbo. I “paper” presentati al convegno alla Università La Sapienza verranno finalizzati nelle prossime settimane e pubblicati negli atti dell’iniziativa.

Tuttavia, alcuni lavori apparsi di recente consentono di avere un’idea dell’aria che tira. Nella vasta letteratura scientifica di queste settimane è di particolare rilievo il lavoro di Paul De Grauwe, Yuemei Ji e Armin Steinbach (rispettivamente della London School of Economics, dell’University College di Londra e del Nuffield College della Università di Oxford) The EU Debt Crisis: Testing and Revisiting Conventional Legal Doctrine (La crisi del debito dell’eurozona: testare e rivisitare la dottrina legale convenzionale) pubblicato come LEQS Paper N0. 108. A differenza di gran parte della letteratura che è principalmente economica ed econometrica, si tratta di un lavoro giuridico in cui si sottolinea come, sotto il profilo della dottrina, non dovrebbero essere consentiti né salvataggi (bail out) né infusioni di liquidità (per tenere a galla il debitore) poiché sarebbe lo spread ad imporre la disciplina per rimborsare il debito. Tuttavia, una serie di analisi econometriche condotte dagli autori dimostrano che i movimenti dello spread in Italia, Portogallo e Francia dipendono più dalla percezione dei mercati della politica economica che dalla situazione del debito pubblico. Quindi il divieto di salvataggi e di infusione di liquidità dovrebbe essere esteso a questi elementi (ossia alla percezione dei mercati della politica economica del Paese debitore) Quindi, una politica più restrittiva di quella sinora applicata.

Di tutt’altro tono, le proposte presentate al convegno a Roma. Tra le più convincenti, la proposta di ristrutturazione presentata da Ernesto Longobardi ed Antonio Pedone. Sottolineato “l’alto costo sociale” (il servizio del debito impedisce di soddisfare esigenze pressanti in vati settori)) e l’impossibile di ridurre il debito utilizzando l’avanzo primario (che in Italia dovrebbe essere tra il 4% ed il 7% del Pil per vent’anni a seconda delle ipotesi, comunque tale da costringersi ad una severa austerità, e possibile deflazione di lungo periodo), la proposta parte dalla distinzione tra debiti esistenti ereditati dal passato (in gergo legacy debit) e la definizione di un meccanismo che regoli a regime la ristrutturazione del debito tra Stati sovrani nell’ambito dell’eurozona.

Dei due aspetti il primo è di interesse più immediato, a ragione dell’escalation degli ultimi anni non necessariamente destinata a fare marcia indietro nel prossimo futuro. Analizzati i principali schemi sul tappeto ( da quello del Comitato dei Consiglieri Economici della Germania a quello del Centro europeo di ricerca di politica economica, se ne mettono in risalto i punti comuni: a) una consistente ristrutturazione dei debiti pubblici nell’eurozona è condizione ineludibile per fare ripartire la crescita e uscire dalla trappola austerità-debito; b) la ristrutturazione dovrebbe essere disegnata nel rispetto di due vincoli di natura prevalentemente politica. escludere i trasferimenti tra Stati; non non infliggere perdite ai creditori privati (no bail-in), ossia porre il costo della ristrutturazione posto a carico dei contribuenti presenti e futuri, accentuando così le responsabilità di Stati e di Governi. La proposta è corredata da uno schema di misure tecniche in via di affinamento.

Lo Stato paga dopo quattro mesi, s’impenna il debito con le imprese

Lo Stato paga dopo quattro mesi, s’impenna il debito con le imprese

di Matteo Palo – Quotidiano Nazionale

Emergenza irrisolta. Il dramma dei ritardati pagamenti della pubblica amministrazione torna a galla: non sono serviti gli stanziamenti dei Governi Monti, Letta e Renzi (pari a circa 56 miliardi) e l’introduzione delle fatture elettroniche per tenere sotto controllo i rapporti tra privati e Pa. Chi lavora con lo Stato o con una delle sue molte declinazioni continua a incassare le sue fatture con ritardo. I tempi medi di pagamento viaggiano, infatti, molto oltre i 60 giorni prescritti dall’Europa. E la massa totale di arretrati, nonostante gli sforzi, resta gigantesca: le stime parlano di una cifra compresa tra i 61 e i 65 miliardi. Negli ultimi giorni due diverse analisi sono tornate sul problema. Il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre, Paolo Zabeo, ricorda che «con l’introduzione della fatturazione elettronica, obbligatoria dal 31 marzo 2015 per tutte le aziende che hanno rapporti commerciali con la Pa, il Governo si era posto l’obiettivo di rendere trasparente e immediato il rapporto tra le parti».

A oltre un anno da quella data, invece, siamo fermi allo stesso punto: nessuno conosce l’ammontare del debito della Pa. La Banca d’Italia, tramite un’indagine campionaria, stima 65 miliardi di euro, 35 dei quali relativi a fatture emesse da tempo. Il Centro studi ImpresaLavoro, invece, parla di 61,1 miliardi. Numeri a parte, la sostanza del problema è chiara. Per la Cgia «i dati emersi dall’indagine campionaria della Banca d’Italia sottolineano che l’anno scorso i tempi medi di pagamento della nostra Pa sono stati pari a 115 giorni». Per ImpresaLavoro la media dei pagamenti è addirittura più alta: 131 giorni. Insomma, non riusciamo a rispettare quello che sarebbe il termine ottimale per l’Europa, compreso tra 30 e 60 giorni. E il risultato è che la procedura di infrazione di Bruxelles nei nostri confronti, scattata a giugno del 2014 per questi ritardi, resta aperta. Anche perché nessun paese europeo ha una situazione paragonabile alla nostra: la Germania, ad esempio, liquida le sue fatture in un paio di settimane.

Il tempo, poi, non è nemmeno l’unica questione. Per ImpresaLavoro, infatti, «i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo». In pratica, non finisci di pagare i fornitori che già hai contratto nuovi debiti. Il ritardo nel pagamento dei debiti è costato alle nostre imprese nel solo 2015 la cifra record di 5,4 miliardi.

Come fare sul serio la revisione della spesa pubblica

Come fare sul serio la revisione della spesa pubblica

Vincenzo Russo* – Publius

Il prof. Vincenzo Russo recensisce il libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo, La buona spesa. Dalle opere pubbliche alla spending review. Guida operativa, Edizioni Biblioteca Impresalavoro, Roma, 2016.

Il lavoro è ben costruito e scritto in maniera brillante. Evita le complicazioni analitiche. Non è testo destinato agli specialisti o agli accademici; può o dovrebbe essere letto e studiato da dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni e/o da cittadini senza una formazione specialistica in materie economiche e finanziarie ma interessati a capire come dovrebbero essere fatte le scelte pubbliche da politici che abbiano a cuore il bene comune.

Come sostengono a ragione gli stessi autori, il libro, da un lato, «è il risultato di oltre 30 anni di ricerche e di applicazioni nelle materie specifiche della valutazione. Da un altro, è il frutto di dieci anni di corsi in questi campi tenuti presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa, ora Sna scuola nazionale di amministrazione), Istituti di formazione regionale, Università italiane e straniere, nonché della direzione o partecipazione a Nuclei di valutazione ed ad attività di valutatori indipendenti per conto di enti quali la Banca Mondiale, la Banca interamericana di sviluppo, la Commissione europea. Da un altro lato ancora, è l’esito di ricerche recenti sulla comunicazione della valutazione». Gli autori dimostrano una forte capacità di sintesi dal momento che in sole 180 paginette hanno saputo riassumere analisi empiriche e teoriche da migliaia di pagine senza trascurare i passaggi teorici più difficili.

Nel lavoro, gli autori comprendono un breve excursus storico sulle esperienze a partire dalle prime maturate in Mesopotamia e nell’antico Egitto. Più recentemente citano l’esperienza italiana di lunga data quanto meno in termini di prime sperimentazioni e di affinamento delle metodologie che la dice lunga sui più recenti fallimenti e sulla cultura della classe politica che preferisce scegliere spese e progetti innanzitutto per favorire le proprie clientele politiche. Negli anni passati quando si valutavano i diversi modi di finanziare le spese pubbliche si ricorreva sempre al tesoretto dell’evasione fiscale da recuperare, oggi si ricorre al tesoretto della spesa pubblica “tagliata”. Si tratta di un miglioramento? Dipende dal punto di vista dell’osservatore e/o analista. Intanto bisogna dire che i tagli di spesa sono maggiormente fattibili dei recuperi di evasione fiscale. In secondo luogo, bisogna capire che una nuova spesa finanziata con una vecchia spesa non cambia l’incidenza della spesa pubblica sul PIL, a parità di reddito nazionale; non aumenta la pressione tributaria come avviene invece se c’è recupero di evasione fiscale.

Perché ho detto che dipende dal punto di vista? Perché fin qui tagli di spesa e nuove spese sono operate per lo più alla cieca, ossia, senza un’analisi ex post della vecchia spesa né ex ante della nuova che si propone. In fatto, negli ultimi anni in Italia si è scelto il metodo degli tagli lineari (orizzontali, cross section) proprio perché non c’è alcuna Acb o di altro tipo per le nuove spese di trasformazione né per i trasferimenti erano disponibili valutazioni e perché i politici italiani non accolgono l’idea che le valutazioni degli effetti delle politiche pubbliche dovrebbero essere attività di routine e preferiscono intervenire in situazioni di emergenza. Perché nell’emergenza si mettono in seconda linea le responsabilità del passato salvo poi a lamentarsi della magistratura quando poi le accerta. Se tagli solo gli sprechi in senso tecnico si utilizzano meglio le risorse scarse e residuano risorse per produrre altri servizi o fare altri trasferimenti. Ma se insieme agli “sprechi” tagli quantità e qualità dei servizi prodotti come sta succedendo nella sanità – da quanto raccontano i giornali ogni giorno – allora aumenta l’insoddisfazione dei cittadini.
A questo riguardo vale un’ altra considerazione di metodo. Quando si parla di tagliare questa o quella spesa nessuno presenta preliminarmente una indagine campionaria sulla soddisfazione dei cittadini su questo o su quel servizio. Si producono statistiche comparate tra diversi Paesi membri o non membri della UE o dell’OCSE per concludere che questo o quel paese spende di più di un altro paese. Ma le preferenze dei consumatori contribuenti dove stanno? In pratica si assume il modello del programmatore onnisciente che conosce perfettamente le preferenze dei cittadini. Il che significa che, a monte della valutazione dei singoli progetti e delle singole spese, l’analisi sia inserita in un contesto di programmazione come cultura e metodo di governo. In contesti di area vasta come l’UE fortemente centralizzati ma caratterizzati da forti squilibri economici e sociali certi metodi di valutazione possono portare a decisioni dispotiche e/o arroganti come sottolineano gli autori a p. 30. Allo stesso tempo, in contesti decentralizzati o di governi multilivello, si pongono complessi problemi di ricondurre a logica unitaria valutazioni per progetti assunte senza un quadro programmatico generale. En passant, il metodo degli effetti presuppone un quadro programmatorio ben definito di tutta l’economia mentre l’Acb nelle diverse forme è più flessibili e lascia al mercato il ruolo fondamentale dell’allocazione delle risorse.

Come noto, da 40 anni a questa parte, la programmazione dell’economia da parte dell’operatore pubblico è stata sostanzialmente messa da parte e allora le organizzazioni internazionali preferiscono sviluppare le Acb e parlare di best practises. Ma chi lo ha detto che quelle della Svezia vanno bene anche per l’Italia o per la Spagna? Ma c’è di peggio. FMI, Banca Mondiale, OCSE, Unido che certamente hanno contribuito ad elaborare le migliori metodologie di analisi costi e benefici, di analisi finanziarie e quanto altro, in fatto, negli ultimi 40 anni, perseguono dichiaratamente la riduzione della spesa pubblica nell’assunto che i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato, ossia perseguono con pervicacia la riduzione del perimetro dell’intervento dello Stato strumentalizzando la questione della pressione delle tasse. Il loro lavoro è facilitato dal fatto che, non di rado, i cittadini contribuenti non percepiscono correttamente il legame necessario tra disponibilità di beni e servizi pubblici e finanziamento degli stessi attraverso imposte e tasse e pensano che loro hanno diritto a godere dei servizi pubblici ma che a pagarli devono essere solo gli altri. Tutti dicono di volere la riduzione delle imposte ma senza ridurre la spesa pubblica. Per altro verso, a causa della scarsa cultura economica e finanziaria, è illusorio pensare che l’efficienza e l’efficacia dei servizi e dei trasferimenti siano sempre gratis o che addirittura possano essere conseguite solo con i tagli. Certo ridurre le risorse disponibili per l’operatore pubblico può migliorare il loro utilizzo ma oltre all’efficienza bisogna guardare anche all’efficacia.

Il grado di soddisfazione dei bisogni pubblici è ragionevole e confrontabile con quello che altre giurisdizioni assicurano ai loro residenti? C’è una questione fondamentale di democrazia, come avvertono gli autori del saggio. Sono i cittadini liberi e consapevoli che devono scegliere la composizione più appropriata tra beni pubblici e privati e non le organizzazioni internazionali specializzate che sono per lo più autoreferenziali. Emblematica l’analisi sulla base dello schema call and put che gli autori fanno delle 6-7 riforme pensionistiche che i governi italiani hanno fatto negli ultimi 24 anni. Ora ci stiamo avvicinando all’ottava ma pochi sanno veramente di che cosa si sta parlando. Le riforme pensionistiche implicano sempre complessi problemi redistributivi e di equilibrio e/o equità intergenerazionale. Emblematica, per altro verso, la decisione del governo Renzi sul c.d. bonus cultura, ossia 500 euro ai giovani che compiono 18 anni nel 2016. Esempio di mecenatismo, di materiale captatio benevolentiae o addirittura di corruzione? Visto che tanti parlano di merito, perché non utilizzare gli stessi fondi per aumentare le borse di studio agli studenti capaci, meritevoli e bisognosi a tutti i livelli secondo le prescrizioni dell’art. 34 Cost.? A mio parere sarebbe stata una decisione sicuramente più efficiente e più equa.

Di certo le tecniche di valutazione come l’Acb nelle sue varie forme estesa, con valutazione delle opzione reali, con la individuazione degli stakeholders o il metodo degli effetti (o impatti) non risolvono tutti i problemi dell’allocazione più efficiente delle risorse scarse in contesti caratterizzati da forte incertezza come sono quelli che discendono dall’interagire di variabili esogene e endogene in continuo cambiamento per via dell’accelerazione della globalizzazione e dello sviluppo delle tecnologie Ict; non risolvono tutte le difficoltà della massimizzazione della funzione del benessere sociale in termini di first best in un contesto di economia aperta, globalizzata e preferenze eterogenee. Resta il fatto che le migliori tecniche di valutazione adattate alle diverse situazioni economiche e sociali sono comunque necessarie per perseguire soluzioni di second best ma condivise. Non a caso, gli Autori citano Albert Hirschman e la sua «proposta di costruire una coalizione di riformatori sulla base di una ‘valutazione economica condivisa’». Come detto sopra, le alternative peggiori sono certamente decisioni alla cieca e/o quelle che favoriscono le clientele dei politici che massimizzano il loro potere in un’ottica di breve termine.

*professore ordinario di Scienza delle Finanze all’Università La Sapienza di Roma

L’Italia è il peggior pagatore Ue

L’Italia è il peggior pagatore Ue

Antonio Signorini – Il Giornale

Lo Stato italiano è ancora un pessimo pagatore. Sui debiti della Pubblica amministrazione verso i privati, l’Italia resta in cima a tutte le classifiche internazionali e i tempi in cui enti ed uffici saldano le fatture restano i più lunghi d’Europa. Il tema dei debiti della Pa è un po’ uscito dall’attualità rispetto a due anni fa, quando il premier Matteo Renzi promise di andare a piedi a monte Senario se non li avesse estinti, ma il problema è lì. A ricordarlo è Bankitalia nella Relazione annuale, in un capitolo dedicato ai «debiti commerciali» delle amministrazioni pubbliche. Stime fatte direttamente da Palazzo Koch, visto che mancano dati ufficiali.

In media nel 2015 la Pa ha chiuso i suoi pagamenti verso i privati che hanno fornito beni e servizi in 115 giorni. Erano 120 nel 2014. Un miglioramento quindi c’è stato, ma l’Italia resta fuorilegge, visto che una direttiva europea (fortemente voluta dall’allora vicepresidente della Commissione Antonio Tajani oggi vicepresidente dell’Europarlamento) prevede che i pagamenti avvengano entro 30 giorni, al massimo 60 in casi particolari. Lo stock del vecchio debito è a 65 miliardi. Nel 2014, ai tempi della promessa di Renzi, erano 70. Problema non risolto, quindi. Il livello, osserva Bankitalia, «resta notevolmente superiore a quello che sarebbe fisiologico». Lontano dai tempi di pagamento fissati dalle parti, ma anche rispetto alla direttiva europea che è stata recepita dall’Italia.

Sul tema ieri è intervenuto anche il centro studi ImpresaLavoro, che ieri ha stimato il totale dei debiti dello Stato verso imprese, professionisti e privati in genere a 61,1 miliardi. Dato del dicembre scorso, in calo rispetto ai 67,1 miliardi dello stesso mese 2014. I vecchi debiti della Pa sono stati sostituiti da nuovi, «si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Liquidare (e solo in parte) i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione» rileva Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro e imprenditore. Il centro studi fornisce anche un dato inedito. Nel solo 2015 il ritardo nei pagamenti da parte degli enti pubblici è costato alle imprese 5,4 miliardi di euro, in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014. A pesare sulle imprese sono infatti anche i costi del credito concesso dalle banche. «Le nostre imprese continuano a essere taglieggiate dallo Stato, caricate di tasse e balzelli, e al tempo stesso ignorate quando questo deve far fronte ai suoi obblighi contrattuali. In queste condizioni, quale ripresa economica possiamo attenderci?», commenta Blasoni.

I leggeri miglioramenti da quando il problema è entrato nell’agenda della politica, ormai cinque anni fa, non sottraggono l’Italia dalle prime posizioni nella lista degli stati con debiti commerciali più alti. Bankitalia nella relazione annuale ricorda che lo stock di debito rispetto al Pil in Italia è più alto di tutti i Paesi europei. Sui tempi, Impresa Lavoro cita le stime dell’European payment report, secondo le quali i ritardi medi nei pagamenti del pubblico al privato, in Italia si attestano a 131 giorni. I Greci devono aspettare 16 giorni meno di noi. I tedeschi 116 giorni. Questo significa che in Germania i pagamenti arrivano in soli 15 giorni. Il vantaggio competitivo di avere uno stato efficiente.

Se le nostre imprese sono taglieggiate

Se le nostre imprese sono taglieggiate

Massimo Blasoni – Metro

Nonostante i plateali e reiterati annunci del premier Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione si è ben guardata dal ridurre i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Sulla base delle ultime stime elaborate dal nostro Centro studi, lo scorso 31 dicembre questo ammontava ancora a 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014). Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che i debiti commerciali si rigenerano continuamente.

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Debiti Pa, Brunetta (FI): Renzi inaffidabile, deve ancora pagare 61,1 mld

Debiti Pa, Brunetta (FI): Renzi inaffidabile, deve ancora pagare 61,1 mld

“Nonostante i reiterati annunci del premier Matteo Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione non ha ridotto i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Secondo la stima di ImpresaLavoro, su dati Intrum Justitia, lo scorso 31 dicembre questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014). Questo assurdo ritardo del governo nel pagamento di questi debiti nel 2015 è costato alle imprese italiane la cifra di 5,4 miliardi (in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014). Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale (pari all’8,84% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti”. Lo afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. “Renzi aveva promesso – prosegue – ormai più di due anni fa, che i debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese sarebbero stati azzerati in pochi mesi, promettendo a Bruno Vespa, durante una puntata di ‘Porta a Porta’, che se non avesse mantenuto l’impegno entro il 21 settembre (2014) sarebbe andato in pellegrinaggio al santuario di Monte Senario. Come da copione: impegno non mantenuto, soldi non restituiti alle imprese, debito non pagato. I numeri di ImpresaLavoro confermano che il premier è stato ancora una volta sbugiardato dai fatti. Altra balla da inserire nello speciale palmares di un presidente del Consiglio inaffidabile”.