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Italia, il peggior fisco d’Europa

Italia, il peggior fisco d’Europa

Cristina Bartelli – Italia Oggi

Italiani schiavi del fisco. Nell’indice della libertà fiscale 2016, redatto dal centro studi Impresalavoro, l’Italia risulta essere all’ultimo posto nella classifica finale dei 29 paesi analizzati nella loro libertà impositiva. Davanti a tutti i paesi dell’area Euro, più la Svizzera, incoronata regina della libertà fiscale.

L’indice, scrive il centro studi fondato dall’imprenditore Massimo Blasoni, è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali «analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale». Sono presi in esame il numero di procedure necessarie per pagare le tasse, il numero di ore necessarie per pagare le tasse, il total tax rate sulle imprese, i costi per pagare le tasse, la pressione fiscale sul Pil, la variazione della pressione fiscale dal 2000 al 2014 e il tax rate delle famiglie. Le banche dati a cui il centro studi ha attinto, rielaborando le informazioni, sono quelle di Eurostat e Doing business (Banca mondiale). L’Italia con 14 procedure per pagare le tasse, 11 giorni dedicati agli adempimenti e 7.600 euro di costi per la burocrazia fiscale occupa se non gli ultimi, tutti i posti di coda di ciascuna delle tabelle dei singoli indicatori.

Le procedure necessarie per pagare le tasse. È la Svezia a essere sul podio come paese con il più alto livello di semplificazione: sono sei gli appuntamenti con la cassa fiscale dei contribuenti svedesi. L’Italia ne ha 14 come la Romania, ma fanno peggio la Croazia (19), la Svizzera (19), il Lussemburgo (23) e Cipro (27).

Il numero di ore necessarie per pagare le tasse. I consulenti e i contribuenti lussemburghesi dedicano «solo» 55 ore, poco più di due giorni, allo smaltimento degli adempimenti tributari. L’Italia è in fondo alla classifica: richiede ai suoi professionisti e volenterosi dell’adempimento 269 ore annue, pari a 11 giorni e 2 ore. Peggio fanno la Polonia con 271 ore, il Portogallo con 275 ore, l’Ungheria con 277 ore, la Repubblica Ceca, 405 ore e la Bulgaria con 423 ore (17 giorni dedicati allo smaltimento delle scartoffie fiscali).

Total tax rate sulle imprese. Con questo indicatore nello studio si identifica la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo Stato sotto forma di tasse e contributi sociali. La Croazia, a pari merito con il Lussemburgo, sono i due Stati che impattano di meno nei conti delle azienda. Il peso è del 20%. L’Italia, in questa categoria arriva ultima con un peso pari al 64,8%. Non sono messe meglio comunque la Francia coni il 62,7% e il Belgio con il 58,4%.

Costo per pagare le tasse. Altra maglia nera per l’Italia in questa categoria. Il nostro paese fa pagare il prezzo più elevato in procedure burocratiche per essere in regola con il fisco. Una sorta, la definisce lo studio, di tassa sulle tasse. Si parla cioè di 7.559 euro annui che si perdono nei rivoli della burocrazia. In questo caso, in compagnia dell’Italia, agli ultimi posti c’è la Germania con 7.020 euro, seguita dal Belgio con 6.295 euro. In Romania, invece, l’esborso si ferma a 795 euro.

Pressione fiscale sul pil. Per il calcolo dell’indice è l’indicatore di maggior rilievo, quello che misura le dimensioni della tassazione complessiva sulla ricchezza prodotta da un paese. In questa classifica l’Italia si ferma al 43,6%. Il paese con la pressione fiscale più alta è la Danimarca, al 50,7%. Al primo posto la Svizzera con il 27,1%.

Variazione pressione fiscale dal 2000 al 2014. In questo caso peggio dell’Italia fanno solo Grecia, Malta e Cipro,

Tax rate sulle famiglie. Anche sulla pressione fiscale delle famiglie l’Italia è nelle ultime posizioni con un’incidenza del 28,28%. Peggio fanno l’Austria, la Grecia, la Germania, la Danimarca e il Belgio, che risulta essere il paese più «ostile» con una incidenza del 36,88%.

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Le dimensioni del perimetro pubblico e la crescita

Le dimensioni del perimetro pubblico e la crescita

di Giuseppe Pennisi*

È solo un’ipotesi di liberali incalliti come noi quella secondo cui le dimensioni del perimetro pubblico incidono sulla crescita dell’economia italiana? Un’autorevole rivista scientifica internazione (The European Scientific Journal Vol. 12 No.7, pp. 149-169) pubblica un saggio di Cosimo Magazzino (Università di Roma, Royal Economic Society, Italian Economic Association) e di Francesco Forte (professore emerito all’Università di Roma La Sapienza) in cui si sostiene la medesima tesi.

Cosimo Magazzino è un trentaseienne professore di econometria con vaste esperienze internazionali. Francesco Forte Forte (classe 1929) è stato chiamato nel 1961 alla cattedra tenuta da Einaudi all’Università di Torino. È stato più volte componente di Governi, nonché editorialista di numerose testate. È un liberale “delle regole” al pari di Einaudi, nonché un europeista convinto – è stato anche ministro per il Coordinamento delle politiche comunitarie. Nel suo ultimo libro, Einaudi versus Keynes (IBLibri, Torino pp.342 , € 20), un saggio che gli ha comportato  sei anni di lavoro, tratta, tra l’altro, de “la terza via di Einaudi per l’Unione Europea, fra la politica fiscale e monetaria keynesiana e quella anti-keynesiana“. Quindi, i due autori sono liberisti moderati.

Il saggio ‘Dimensioni della sfera pubblica e crescita in Italia’ (Government Size and Growth in Italy) contiene una verifica econometrica del nesso tra il perimetro della settore pubblico e la crescita, utilizzando serie storiche dal 1861 al 2008, quindi dall’unità d’Italia all’inizio della crisi da cui, forse, stiamo uscendo. L’analisi viene applicata non solo ai principali indicatori macro-economici ma anche agli effetti delle spese pubbliche, all’occupazione (e di converso alla disoccupazione ed alla riforme tributarie e di politica di bilancio nel lungo periodo. I risultati dell’analisi econometrica mostrano che non c’è una relazione lineare tra le dimensioni del settore pubblico (misurate in termini di rapporto tra spesa pubblica e Pil).

Negli ultimi vent’anni in particolare, emerge una relazione a U che suggerisce che tagli alla spesa pubblica accentuato la dinamica del Pil. Questo risultato – concludono i due autori – è in linea con gran parte della letteratura recente. Curiosamente, l’analisi indica che negli anni della Monarchia il vincolo del bilancio in pareggio ha leggermente rallentato la crescita. Quindi, diminuire la sfera del settore pubblico, ma se necessario, utilizzare, con giudizio e perizia, anche leggeri disavanzi di bilancio.

Questa analisi è valida dopo la crisi? Essenzialmente sì anche se gli effetti della recessione sono stati eterogenei. Lo documentano Andrea Locatelli, Libero Monteforte e Giordano Zevi- tutti e tre del servizio studi della Banca d’Italia- nel lavvoro Heterogeneous Fall in Productive Capacity in Italian Industry During the 2008-13 Double-Dip Recession – Bank of Italy Occasional Paper No 313. Lo studio analizza micro-dati per identificare quali settori hanno perduto più capacità produttiva a ragione della crisi (suddivisa in quattro periodi: 2001-07 (i prolegomeni della crisi); 2008-09 (la fase iniziale), 2010-11 (la leggera ripresa), 20112-13 (la seconda recessione). I risultati principali sono i seguenti: a) la perdita di capacità produttiva varie in modo significativo da settore a settore; b) la grandi imprese sono quelle che hanno avuto maggior successo nell’evitare perdite; c) la vendite nei mercati stranieri hanno sofferto nella prima fase ma si sono riprese nell’ultima; d) il Centritalia è l’area che ha ‘tenuto’ meglio.

I due lavori, anche se hanno obiettivi differenti, hanno un nesso: le imprese prosperano o reggono bene le crisi se sfera pubblica non è invadente.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Meloni (Pd): “Ridurre le tasse sul lavoro per uscire dalla crisi”

Meloni (Pd): “Ridurre le tasse sul lavoro per uscire dalla crisi”

Marco Meloni*

I dati INPS sono chiari: la logica degli incentivi temporanei non funziona. È necessario aprire una riflessione pubblica fondata sui dati effettivi. C’è una sola via per aumentare produttività e lavoro: ridurre drasticamente le tasse sul lavoro a tempo indeterminato.

A febbraio c’è stato un forte rallentamento di assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato, pur nella versione delle “tutele crescenti” introdotta dal Jobs Act. Siamo tornati ai livelli di inizio 2014 (anzi, leggermente sotto), nonostante una congiuntura decisamente migliore: allora si stava appena uscendo dalla crisi e non c’erano incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato così generosi (al momento intorno a circa 3000 euro ad assunzione, seppur dimezzati rispetto al 2015).

Quello di gennaio, quindi, non sembra essere un rallentamento “tecnico”, dovuto ad assunzioni anticipate a dicembre, ma un possibile effetto “strutturale” del dimezzamento degli incentivi. È necessario essere prudenti, è ovvio, ma pare assodato che i dati positivi del 2015 siano stati dovuti quasi interamente agli incentivi.

A questo punto, credo sia il caso di aprire una riflessione pubblica ampia, trasparente, fondata sui dati effettivi, e aggiustare il tiro. Le misure una tantum – dalle varie mance di 80 o 500 euro agli incentivi temporanei – hanno il respiro corto, e non affrontano il nodo strutturale per rilanciare produttività e occupazione: la riduzione drastica e stabile della tassazione sul lavoro a tempo indeterminato, al momento tra le più alte tra i Paesi industrializzati (e addirittura in crescita, secondo gli ultimi dati OCSE).

Al finanziamento di una riduzione fiscale così rilevante è necessario destinare tutte le risorse possibili, abolendo altre misure costosissime e dalla utilità quasi nulla, e adottando le troppo attese misure di riduzione della spesa pubblica. Mi auguro che, come Partito democratico e maggioranza parlamentare, con l’impulso decisivo del governo, si sia capaci di affrontare la questione con il necessario pragmatismo. Per creare lavoro stabile e migliorare la competitività del nostro sistema sistema produttivo occorre cambiare decisamente rotta.

*Deputato del Partito democratico, membro della Commissione Affari costituzionali

Sangalli (Confcommercio): “Tagliare le tasse strada obbligata, serve coraggio”

Sangalli (Confcommercio): “Tagliare le tasse strada obbligata, serve coraggio”

Carlo Sangalli*

“Bisogna certamente tagliare le tasse, è la condicio sine qua non: la strada è obbligata ed è quella di ridurre con più coraggio e determinazione la spesa pubblica improduttiva, di recuperare evasione ed elusione per avere così delle risorse importanti per arrivare ad una riduzione generalizzata delle aliquote Irpef”.

“Mettere più soldi in tasca alle famiglie significa rilanciare i consumi e con questo si esce definitamente da questa situazione di incertezza che ancora ci preoccupa”.

* Presidente di Confcommercio

Indice della Libertà Fiscale 2016

Indice della Libertà Fiscale 2016

indicebIntroduzione

Nel 2015 ImpresaLavoro, avvalendosi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, ha elaborato il primo Indice della Libertà Fiscale. Un lavoro, questo, che si proponeva di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente è difficilmente comprensibile senza una riflessione seria sul peso che lo Stato ha assunto nella vita dei cittadini e su quanto il prelievo pubblico sulla ricchezza prodotta rischi di essere il vero tratto che distingue la Vecchia Europa da blocchi di paesi decisamente più dinamici e competitivi del nostro.

Nella versione 2016 dell’Indice della Libertà Fiscale, si è scelto di allargare il numero dei paesi esaminati, passando dai dieci ritenuti rappresentativi del 2015 ai 29 di quest’anno. L’analisi di un numero così ampio di economie permette, rispetto a quanto fatto nel 2015, di allargare lo sguardo e di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i paesi che compongono il continente geografico europeo. Non solo: emergono in questo modo anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i paesi che hanno adottato l’Euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

Metodologia

L’Indice della Libertà Fiscale è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore. Alle altre economie viene attribuito un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal migliore, meno punti riceve. Si tratta di una scelta che punta a privilegiare le buone esperienze, anzi: le migliori esperienze, presenti in Europa. Questo perché disegnare a tavolino valori di riferimento e su questi analizzare gli scostamenti da un teorico “sistema fiscale perfetto” portava con sé il rischio di traguardarsi costantemente ad un mondo che non c’è. Si è preferito, invece, partire dai livelli di libertà fiscale già raggiunti e definire quelli come benchmark: se in sette economie europee è possibile contenere la tassazione sulle imprese sotto il 30% degli utili prodotti, allora significa che si può ragionevolmente fare anche negli altri paesi.

La somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100) , più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide i paesi in quattro macro aree: paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti), paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

Gli indicatori

I primi due indicatori, numero di procedure e numero di ore necessarie a pagare le tasse, si riferiscono al carico burocratico che le imprese devono sostenere per essere in regola con il Fisco del loro paese. Questi indicatori attribuiscono al paese migliore 10 punti.

Il terzo indicatore analizza il Total Tax Rate cui sono sottoposte le imprese dei paesi esaminati. Con questo indicatore si identifica la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo stato sotto forma di tasse e contributi sociali. Al paese con il Tax Rate più basso sono attribuiti 20 punti.

Il quarto indicatore, Costo per pagare le tasse, stima quanto una media impresa debba spendere in procedure burocratiche per essere in regola con il Fisco. Il tempo che le aziende occupano per sbrigare pratiche burocratiche si traduce in un costo diretto, in questo caso di personale, che incide negativamente sulla competitività di un sistema. Si tratta di una sorta di tassa sulle tasse: il peso dello Stato nelle attività imprenditoriali, infatti, va ben oltre il solo valore nominale del prelievo fiscale. Anche il tempo perso è monetizzabile e rende il sistema fiscale di riferimento più o meno libero. Al paese migliore in questo indicatore sono attribuiti 10 punti.

Il quinto indicatore, la Pressione Fiscale in percentuale del Prodotto Interno Lordo, assegna al miglior paese ben 30 punti. Si tratta dell’indicatore più importante, sia in termini di punteggio che sostanziale, perché misura le dimensioni della tassazione complessiva sulla ricchezza prodotta da un paese.

Il sesto indicatore è sempre riferito alla Pressione Fiscale in percentuale al Pil, vista qui in termini dinamici e non statici, e misura quanto il prelievo complessivo è cresciuto dal 2000 ad oggi. E’ un indicatore particolarmente rilevante perché traccia gli sforzi che un paese sta compiendo (o non sta compiendo) per ridurre il peso dell’oppressione tributaria sui propri cittadini. Per capire l’importanza di questo tipo di indicatore basti riflettere sul fatto che un paese come la Svezia, considerato da tutti come la patria di tasse elevate in cambio di migliori servizi, dal 2000 ad oggi ha tagliato la sua pressione fiscale di quasi 6 punti percentuali di Pil. Al miglior paese in questo indicatore vengono attribuiti 10 punti.

Settimo e ultimo indicatore è quello relativo alla pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo (due genitori che lavorano con due figli a carico). Al paese più “family friendly” sono attribuiti 10 punti.

Per realizzare questo indice sono stati utilizzati i database Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale).

classifica

Indice delle Libertà Fiscali 2016. Numero di procedure necessarie per pagare le tasseIndice02

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Pensioni, c’è un effetto livella

Pensioni, c’è un effetto livella

Paolo Ermano – Italia Oggi*

Sembra quasi un risultato inaspettato, ma il sistema pensionistico disegnato dalle recenti riforme, in particolare quelle dell’ultimo governo Berlusconi e della Legge Fornero, hanno di fatto reso le pensioni, più o meno volutamente, uno strumento di riduzione delle diseguaglianze. Contrariamente a quanto altri hanno evidenziato, e un po’ al senso comune, le recenti modifiche normative hanno infatti reso la popolazione dei pensionati più omogenea dal punto di vista del reddito. Sia ben chiaro: una popolazione che si trova in una situazione di maggior equità non è necessariamente una popolazione che vede il proprio benessere aumentare. Di fatto, però, il recente aumento dell’assegno medio per le pensioni di anzianità e vecchiaia, unito alla diminuzione dell’Indice di Gini, descrive una situazione di maggior benessere sia per il singolo pensionato, sia per la popolazione dei pensionati.

Il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato il database della Banca d’Italia sulle indagini sui bilanci delle famiglie italiane dal 1977 al 2014. Grazie a questa serie di dati, è possibile indagare per ogni anno il confronto fra l’Indice di Gini relativo al reddito disponibile netto e il reddito da pensione (vecchiaia, anzianità e reversibilità), dividendo il campione anche per sesso e ripartizione geografica. Il valore dell’Indice di Gini misurato sul reddito delle due popolazioni, lavoratori e pensionati, evidenzia un percorso che dal 1977 al 2014 vede la popolazione dei pensionati ridurre il grado di diseguaglianza interna, passando da un valore di 0,40 a 0,30, contrariamente a quanto accade all’altra popolazione, quella dei lavoratori, per i quali l’indice cresce lievemente da 0,34 a 0,37. Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziato con la riforma Dini del 1995, non sembra aver modificato sigificativamente la distribuzione dei redditi dei pensionati: dal 1995 a oggi l’Indice di Gini non segnala particolari movimenti, se non dopo 2010. Stando ai dati sulla spesa pensionistica forniti dall’Istat, dal 2010 l’importo medio annuo degli assegni di vecchiaia è cresciuto (2011-2013: +3%) per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, riducendo così le differenze fra le pensioni più modeste e quelle più elevate. 

Questa progressione dell’importo versato ai pensionati può essere un indizio per giustificare una riduzione dell’ineguaglianza in questa popolazione. Se questo andamento continuerà, l’effetto redistributivo del passaggio dall’essere lavoratore all’essere pensionato sarà maggiore. Inoltre, da questo punto di vista, il passaggio dal contributivo al retributivo non sembra aver influenzato particolarmente la distribuzione del reddito fra i pensionati. Nel dettaglio dell’indice suddiviso per sesso troviamo una sostanziale parità di genere. L’Indice di Gini, invariante per trasformazioni omogenee, non permette di evidenziare la differenza di importo fra uomo e donna: per quanto l’indice di diseguaglianza abbia valori molto simili fra i due sessi è il caso di ricordare che nel 2013 l’assegno di vecchiaia per le donne era pari in media al 60% dell’assegno per gli uomini, segnalando un’evidente disparità nei redditi percepiti.

Per valutare eventuali differenze territoriali è stato possibile computare l’Indice di Gini per tre specifiche aree, seguendo la divisione usuale per l`Italia come previsto nel database originale: Nord, Centro e Sud+Isole. Per quanto l’evoluzione dell’indice nelle tre aree sia simile, come ci si aspetterebbe da un sistema pubblico che cerca di smorzare le differenze fra diverse aree economiche, appare chiaro che delle differenze esistono. Stranamente, il Sud e il Nord sembrano muoversi in parallelo fino a metà anni ’90, quando il Nord ottiene un grado di equità fra i pensionati più elevato, come confermano anche diversi studi che analizzano l’intera popolazione nazionale.

Molto più erratico sembra il comportamento dei pensionati residenti in centro Italia, che sembra muoversi in senso opposto rispetto alle altre aree del Paese. Entrando nel dettaglio degli ultimi 20 anni, osserviamo come fosse il Nord l’area con il minor grado di diseguaglianza. Non sembra esserci alcun congruenza fra l’andamento dell’Indice di Gini per aree geografiche fino al 2010, quando tutte e tre le aree vedono sia una discesa dell’indice, segno di maggior eguaglianza, sia una convergenza verso un medesimo valore, 0,30. E sembra proprio questo, dal punto di vista dell’equità, la cifra più importante delle riforme del sistema pensionistico nell’ultimo anno.

*Docente di Economia internazionale al’Università di Udine e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

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Pensioni, Furlan (Cisl): “Dopo 41 anni di lavoro si deve poter andare in pensione”

Pensioni, Furlan (Cisl): “Dopo 41 anni di lavoro si deve poter andare in pensione”

Annamaria Furlan*

“Dopo 41 anni di lavoro si deve poter scegliere di andare in pensione. Bisogna creare queste condizioni. Questa è la nostra proposta. Quella del sottosegretario Nannicini è stata l’ennesima proposta autorevole che abbiamo letto sui giornali: ce ne sono state anche altre in questi mesi. Ma quello che manca è una proposta ufficiale del Governo che tenga conto di un aspetto importante: non si può lavorare in alcuni settori oltre i 65-67 anni. Il tema della flessibilità in uscita è un tema delicato e molto sensibile per le persone. Proprio oggi si celebra la giornata mondiale sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Bisogna tenere conto che la mortalità e gli infortuni avvengono spesso nei settori come l’edilizia dove lavorare a 65-67 anni è davvero rischioso”.

“In Italia aumenta purtroppo l’area della povertà e questo ha prodotto il fenomeno grave che le persone si curano di meno. Ecco perché bisogna affrontare anche il tema della sanità con grande determinazione. In Italia abbiamo indubbiamente un sistema sanitario di alta qualità ma la nostra è una sanità a due velocità. Nel Sud c’è una mortalità infantile più alta che arriva secondo alcuni dati al 39% rispetto al Nord. Un dato allarmante che deve farci riflettere. Il compito delle istituzioni deve essere quello di garantire il diritto alla salute per tutti. Purtroppo nella sanità ci sono troppi sprechi e anche corruzione. Le risorse per fare la flessibilità in uscita sulle pensioni le potremo trovare nel combattere fino in fondo tutto questo, investendo in una migliore qualità del lavoro e soprattutto dei servizi”.

 

*Segretario generale della Cisl