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Scuola, Stato e pluralismo educativo

Scuola, Stato e pluralismo educativo

di Carlo Lottieri

Ha in sé qualcosa di grottesco la volontà del ministro francese Najat Vallaud-Belkacem di escludere da tutte le scuole della Repubblica (in quanto ritenuta “sessista”) la favola di Cappuccetto Rosso. Sempre più spesso stupidità e politicamente corretto procedono assieme, restringendo gli spazi di libertà dei singoli. Sullo sfondo di tale vicenda, però, c’è una questione più generale che riguarda il nostro paese non meno che la Francia: e si tratta dei programmi ministeriali.

In Italia come in Francia, come in molti altri Paesi occidentali e non solo, le scuole sono istituzioni che godono di una libertà molto limitata. Un po’ ovunque, insomma, la classe politica di governo pretende di definire e orientare cosa deve essere insegnato nelle aule e in che modo. D’altra parte, fin dal diciannovesimo secolo l’istruzione di Stato è un pilastro fondamentale di un progetto ben preciso che punta a controllare l’intera società, tenendo sotto controllo gli spazi in cui i giovani definiscono i loro principi, valori e ideali.

In tal modo le aula scolastiche di Stato sono destinare a essere di volta in vola fasciste, laiciste, clericali, comuniste, tecnocratiche e via dicendo. Le classi politiche proiettano le proprie logiche sull’intera società e usano il sistema d’istruzione per manipolare le giovani menti. La relazione tra il giovane e la famiglia viene progressivamente svuotata, per favorire una maggiore uniformità culturale e “costruire” buoni cittadini, contribuenti ed elettori.

L’argomento usato dai difensori dell’educazioni di Stato è ben noto. Alle istituzioni pubbliche spetterebbe il compito di “liberare” la società dai pregiudizi. Un’élite di persone illuminate avrebbe insomma il compito di far crescere una società più moderna, aperta e tollerante, anche se poi resta sempre da definire quale si il vero contenuto di tali modernità, apertura e tolleranza. Senza dubbio l’idea di un’istruzione pubblica e comune a tutti muove comunque dalla tesi che vi è chi possiede un punto di vista e, per questa ragione, ha il diritto e il dovere di controllare il sistema d’istruzione.

L’alternativa esiste e si chiama pluralismo educativo. Opponendosi alla visione tecnocratica e statalista, questa tesi valorizza la diversità dei punti di vista e la necessità di meccanismi concorrenziali, così che all’interno della medesima società si possa scegliere tra proposte educative diverse. In tal modo ogni scuola dovrebbe essere spinta a sviluppare una propria modalità d’insegnamento e a individuare i contenuti più adatti a una vera crescita umana e professionale.

In questa visione le famiglie sono centrali. In una società liberale, d’altra parte, l’argomento statalista secondo il quale taluni genitori possono usare la propria funzione per inculcare idee violente, fondamentaliste ed estreme non può essere utilizzato per spogliare padre e madre del diritto a educare i figli secondo i propri valori. In linea di massima, nessuno ama i propri figli come la madre e il padre, e per questo motivo è bene che l’educazione sia primariamente nelle loro mani.

Ovviamente un padre che manipola il figlio fino al punto da spingerlo a trasformarsi di una “bomba umana” perde il diritto a prendersene cura, ma questa situazione-limita non può essere chiamata in causa per dissolvere la centralità della famiglia e per negare un fatto cruciale: e cioè che le scuole devono sempre rispondere di fronte ai genitori dei ragazzi di ciò che insegnano e del modo in cui lo fanno. Solo se gli istituti scolastici fanno di tutto per andare incontro alle esigenze delle famiglie possono sperare di avere un buon sistema educativo.

Abbiamo insomma bisogno non già di miniatri che ci dicano cosa i bambini devono leggere, quali materie devono studiare, in quali valori devono credere, ma invece di un mercato di soluzioni educative dierse fra loro, con o senza Cappuccetto Rosso. E abbiamo necessità di dirigenti scolastici che siano animati da uno spirito imprenditoriale e comprendano la necessità di mettersi al servizio dei giovani e delle loro famiglie, sforzandosi d’individuare le soluzioni migliori. La scuola, come ogni altro ambito, può funzionare se non è fuori mercato. È bene che lo si comprenda alla svelta.

Per i servizi di collocamento si spende poco e male

Per i servizi di collocamento si spende poco e male

Massimo Blasoni – Il Tempo

In Italia si spende poco per il collocamento, ma soprattutto si spende male. Le risorse destinate ai centri per l’impiego sono infatti lo 0,03% del nostro Pil. Numeri che ci fanno impallidire davanti a una media Ue dieci volte superiore (0,3%) e che rendono ancor meglio l’idea se tradotti in valori assoluti. L’investimento italiano in collocamento è infatti di circa 500 milioni di euro mentre quello spagnolo è di circa un miliardo, quello francese di 5.047 milioni, quello tedesco addirittura di 8.872 milioni. Con un impegno così modesto, i risultati ottenuti non possono che essere sconfortanti: solo il 3% della nostra forza lavoro occupata è intermediata dai centri per l’impiego, contro il 9,4% della media Ue, il 10,5% della Germania e il 13,2% della Svezia.

Quanto ai servizi privati di collocamento che affiancano la rete pubblica, riescono a impiegare solo lo 0,6% della forza lavoro nel Paese. La somma di due debolezze non può fare una forza e infatti, scorrendo l’ultimo rapporto Isfol sul tema, si scopre che l’80% dei disoccupati mostra più fiducia nelle cosiddette “reti informali” (raccomandazioni o segnalazioni di parenti e amici) e che il 70% preferisce di gran lunga rivolgersi direttamente alle imprese.

Non è solo una questione di “tracciabilità dei percorsi” (in un sistema formale posso monitorarti e meglio adattare le politiche pubbliche) ma di efficienza: gli uffici del personale delle nostre aziende sono sommersi da curricula che molto spesso non vengono letti e, per converso, hanno una notevole difficoltà a soddisfare le proprie specifiche richieste di personale. Risultato? Il difficile matching tra domanda e offerta fa sì che soggetti capaci finiscano occupati in ruoli in cui non possono esprimere al meglio le proprie potenzialità e le aziende si accontentano di profili inferiori per qualità a quelli di cui avrebbero bisogno per crescere.

Accade così che il nostro mercato del lavoro – la cui efficienza per la Banca mondiale è ultima in Europa e al 126esimo posto (su 140) a livello internazionale – finisca stritolato tra opposte contraddizioni: eccessivamente burocratico dal punto di vista normativo, troppo costoso dal lato economico, completamente disorganizzato e spontaneistico dal punto di vista del collocamento. L’esatto contrario di quel che servirebbe.

10.20 Il Tempo

Camere di Commercio da riformare

Camere di Commercio da riformare

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Quando si comincia a dare un’occhiata al totale generale dei costi delle 105 Camere di Commercio italiane sorge qualche dubbio sulla razionalità della spesa per il loro funzionamento. Nel 2014 questi enti pubblici autonomi hanno speso 1 miliardo e 851 milioni di euro (dati SIOPE): 367 milioni per i propri dipendenti e il resto in contributi, acquisto di beni e servizi, investimenti e operazioni finanziarie che hanno generato una miriade di società partecipate.
Come si sa, le Camere svolgono diverse attività utili come la tenuta del registro delle imprese, il rilascio di firme digitali, la gestione degli sportelli unici per le attività produttive in alcuni Comuni, lo studio e la promozione delle imprese. Molte loro prestazioni sono però rese in regime di monopolio e non certo di concorrenza. Ad esempio pressoché solo la Camera di Commercio o professionisti convenzionati possono rilasciare visure, bilanci e notizie sui protesti. E a stabilire il costo di queste prestazioni non è il mercato ma chi le eroga, impiegando ben 7.500 dipendenti. Un po’ troppi, nell’era dell’informatizzazione.
È ad esempio difficile pensare che una gestione più razionale ed efficiente avrebbe portato la Camera di Commercio di Roma ad avere quasi 500 dipendenti, peraltro tutti quanti beneficiati nel 2013 da compensi extra stipendiali (dai 6 mila euro per gli impiegati agli oltre 30 mila euro per i dirigenti). E non si obietti che queste strutture sono finanziate dalle imprese e non dalla fiscalità. Le loro entrate sono infatti derivanti in parte da contributi pubblici, in parte dal pagamento annuale obbligatorio dei diritti camerali al quale sono tenute obbligatoriamente tutte le imprese in ragione del loro fatturato. Un’ennesima tassa, insomma.
Ecco perché una robusta cura dimagrante delle Camere di Commercio risponderebbe a una logica di buona amministrazione. Buona parte della loro attività potrebbe essere facilmente garantita da altri enti: dall’Università (per le attività di studio) alle Regioni (per la promozione delle aziende). Abolire le loro sedi così come le segreterie e gli eccessi di rappresentanza, ridurre il personale addetto e superare in tal modo le duplicazioni consentirebbe di dimezzare gli attuali costi a carico di imprese e cittadini.

10.7 Il Tempo (2)

Canone Tv, scempio in bolletta

Canone Tv, scempio in bolletta

di Massimo Blasoni – Metro

Lo scorso anno la Rai ha avuto ricavi per 2.556 milioni, parte derivanti da introiti pubblicitari e parte dal canone. Un bilancio sostanzialmente in pari che però evidenza enormi inefficienze compensate da quella tassa ineludibile che è il canone, obbligatorio anche per chi ­ acquistata la televisione ­ non voglia guardare i canali della tv pubblica. La Rai lo pubblicizza come fosse un abbonamento, addirittura promuove giochi a premi per incentivarlo. In realtà è una tassa di possesso che, come ha stabilito la Cassazione, va pagata anche da chi voglia limitarsi a guardare centinaia di altri canali privati. Se il televisore è un apparecchio adatto a ricevere trasmissioni di chiunque (pubblico o privato che sia) abbia titolo a metterle in onda, allora quell’imposta concettualmente dovrebbe essere divisa tra tutti soggetti abilitati. Così non è, e l’opinione diffusa che la controprestazione del canone non sia un servizio (pubblico) diverso da quello erogato dagli altri operatori privati rende questa imposta anacronistica tanto invisa quanto evasa. Il governo Renzi ha però annunciato di voler imporre il suo pagamento nella bolletta elettrica, prefigurando uno scempio fiscale: l’inserimento di una tassa nella contabilità di una tariffa.
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Gli investimenti italiani all’estero

Gli investimenti italiani all’estero

di Paolo Ermano

Una nuova invasione?
Negli ultimi anni, probabilmente a causa delle paure suscitate dalla crisi economica, gli organi d’informazione nazionali hanno più volte riportato notizie di aziende straniere che facevano “shopping”, questo è il termine comunemente utilizzato, nel nostro Paese, comprandosi imprese rilevanti del panorama economico italiano. L’effetto percepito dalla cittadinanza è stato quello di una sorta di colonizzazione economica: le imprese di paesi considerati fino all’altro giorno poveri, Cina o India, o di paesi troppo forti con cui confrontarsi, come la Germania, erano rappresentate come invasori, quasi a voler risvegliare l’atavica paura di un popolo che dalla fine dell’impero Romano ha troppe volte subito il dominio altrui.
I recenti casi, molto eclatanti, di Pirelli acquisita da China National Chemical Corporation e di ItalCementi venduta al gruppo tedesco Heidelberg Cement, hanno riacceso la polemica sul presunto colonialismo straniero verso le imprese italiane.
E’ il caso di sottolineare che l’immagine di un Paese colonizzato non solo non risulta veritiera, in quanto gli italiani sono, in questi termini, più colonizzatori che colonizzati, ma il fatto che aziende straniere investano nelle nostre imprese può anche essere un ottimo segnale per il sistema Paese.
L’Italia che compra
Se andiamo ad analizzare in prospettiva storica l’impatto degli IDE, gli investimenti diretti all’estero, scopriamo un’Italia più predatrice che preda. Gli IDE quantificano l’investimento di un’azienda con base nel Paese A verso un’azienda posta nel Paese B. Si possono identificare due tipologie di IDE: l’acquisizione di quote azionarie di un’impresa o un processo di acquisizione o fusione fra due imprese.
Come si può vedere dalla seguente figura , fin dagli anni ’90 il flusso in uscita dalle aziende italiane verso l’estero è sempre stato superiore al flusso in entrata: le imprese italiane investono le proprie risorse per acquisire il controllo, parziale o totale, di aziende straniere in misura maggiore di quanto accada per le imprese estere nel nostro paese.
Figura 1: Consistenza di IDE in entrata e in uscita in rapporto al PIL (valori %)

Figura 1: Consistenza di IDE in entrata e in uscita in rapporto al PIL (valori %). Fonte: Bankitalia

 

Dopo un allineamento nei primi anni 2000, la situazione è migliorata, dal punto di vista delle imprese italiane che fanno “shopping” all’estero, dal 2008, con l’inizio della crisi: mentre il flusso in entrata si stabilizzava rispetto al PIL (che ricordiamo è sceso dal 2008 al 2014), il flusso in uscita cresceva in termini di PIL del 10% circa. E’ interessante notare la composizione degli investimenti, sia in termini di settore, che di destinazione geografica, come emerge dalla tabella 1:
Tabella 1: stock di IDE in uscita per settore e area di destinazione (valori %). Fonte: Bankitalia

Tabella 1: stock di IDE in uscita per settore e area di destinazione (valori %). Fonte: Bankitalia

 

In termini di stock di investimento, il peso del settore manifatturiero scende, dal 30% circa al 20%, per lasciare maggior spazio agli investimenti nel settore dei servizi e costruzioni, con particolare interesse verso i servizi finanziari e assicurativi, che nel 2010 rappresentavano il 54% dell’intero stock di IDE, pari a poco meno di 200 miliardi di euro su un totale di 366 miliardi. Si pensi, ad esempio, alla diffusione di Unicredit sul territorio europeo per avere un’idea di cosa si intenda con IDE nell’ambito dei servizi finanziari. Infine, come si può osservare nella tabella 2, la forbice fra gli stock di IDE in uscita e in entrata nel nostro Paese è aumentata considerevolmente dal 2005 a oggi, passando da un valore positivo di circa 6 miliardi a 143 miliardi. A titolo di esempio, ricordiamo che l’acquisizione di Pirelli da parte di ChemChina vale 7,1 miliardi, 1/20 della suddetta forbice.
Ideconf
Per dare maggiore consistenza ai numeri riportati nella tabella 2, ricordiamo che stiamo parlando di 30.351 imprese nel mondo con un fatturato complessivo di oltre 560 miliardi di euro, che danno lavoro a oltre 1,5 milioni di dipendenti (dati 2013) e sono diffuse in oltre 160 Paesi: il 52% dislocate nei Paesi dell’UE-27, un 10% in altri Paesi europei, un altro 19% tra Nord America (11%) e Sud America (8%).
Chi investe in Italia?
L’altra questione rilevante è comprendere quali aziende investono in Italia: quali sono i settori coinvolti, quali la loro origine geografica, quali le conseguenze sul sistema Paese? Nel 2013 in Italia 9.367 imprese erano partecipate da aziende estere, occupando poco più di 915.000 dipendenti, per un fatturato complessivo poco al di sotto di 500 miliardi di euro, circa 1/3 del PIL italiano. Le imprese estere interessate al nostro mercato provengono per il 60% da Paesi dell’UE-27, per un altro 20% dal Nord America e solo per l’8% dai Paesi asiatici: in generale, è geograficamente molto più ampia la distribuzione geografica delle imprese italiane con partecipazioni all’estero che viceversa. Non dimentichiamoci che sono Paesi nostri alleati storici quelli da cui provengono la maggior parte delle imprese che investono in Italia. Un altro aspetto da rilevare è l’interesse che le imprese estere hanno per il meglio dell’imprenditoria italiana. Secondo il rapporto dell’ICE “Italia Multinazionale 2014”, il valore aggiunto medio per dipendente delle imprese a partecipazione estera nel 2012 era pari a €114.500, contro una media per le imprese italiane con più di 20 dipendenti (quindi, escludendo molte PMI) era pari a €74.300: una discrepanza «coerente con la teoria e le verifiche condotte internazionalmente circa le superiori prestazioni delle filiali delle [imprese multinazionali] rispetto alle imprese domestiche, grazie alle maggiori competenze, tecnologie, capacità manageriali e ai vantaggi di scala e di network» . In sostanza, quando l’Italia attira IDE lo fa in forza della sua capacità competitiva e non in quanto preda da cui spolpare delle risorse. Per di più, il knowhow che si può acquisire dal diretto contatto con imprese estere è un’opportunità che dovrebbe essere colta e non vista come possibile minaccia.
Criticità
Alcune considerazioni finali. La letteratura economica evidenza 4 motivi per cui un’impresa dovrebbe investire all’estero: primo, ricercare vantaggio in termini di costo di produzione, per esempio grazie a manodopera a basso costo; secondo, avvicinarsi ai clienti nei mercato, superando barriere doganali e riducendo i costi di trasporto; terzo, assicurarsi l’approvvigionamento di materie prime o risorse scarse; quarto, investimenti volti ad acquisire brevetti, tecnologie, conoscenze. Gli IDE dall’estero verso l’Italia rispondono a 2° e al 4° motivo: siamo un mercato interessante per le aziende straniere e un sistema ricco di competenze. Mantenere vivo l’interesse verso gli IDE dall’estero, il famoso “shopping”, può implica sia ravvivare il mercato italiano, sostenendo ad esempio la domanda interna, sia arricchire ancor di più il sistema di personale qualificato e di aziende competitive: non è un caso che il Paese col più alto stock di IDE in entrata rispetto al totale degli IDE sia gli Stati Uniti (17,2% nel 2012). Casomai, l’attenzione dell’opinione pubblica dovrebbe orientarsi su come favore le imprese italiane nell’acquisizione di partecipazioni all’estero. Ricorda la Banca d’Italia che le aziende che investono in partecipazioni all’estero risultano essere in termini di valore aggiunto in media 3 volte più grandi delle aziende esportatrici e 5 volte più grandi di quelle orientate al solo mercato interno . Se vogliamo continuare a essere investitori attivi e non vittime della globalizzazione, la chiave è sempre e solo una: investire in capitale umano, in conoscenza, in efficienza del sistema produttivo.
Il macigno del Fisco toglie fiato alle imprese

Il macigno del Fisco toglie fiato alle imprese

di Massimo Blasoni – Metro

Per comprendere l’andamento della nostra economia occorre alzare lo sguardo dalle notizie di giornata e dagli annunci del governo, prendendo in considerazione periodi di tempo medio-lunghi. I dati recentemente forniti dalla Commissione europea ci consentono così di scoprire che negli ultimi dieci anni l’Italia ha registrato in Europa il maggior aumento della pressione fiscale totale (comprensiva dei contributi sociali) in rapporto al proprio Pil: una crescita del 4,24%, passando dal 38,97% del 2005 al 43,21% del 2015. Subito dopo di noi, in questa particolare classifica, compaiono il Portogallo (aumento del 4,15%), la Grecia (+4,05%, anche se il primo dato disponibile risale al 2006), Malta (+3,06%) e l’Estonia (+2,87%).
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Renzi taglia le tasse ma il Fisco non cala

Renzi taglia le tasse ma il Fisco non cala

di Leonardo Ventura – Il Tempo

Mentre Renzi continua ad annunciare di avere condannato a morte l’Ires (l’imposta sui redditi d’impresa), nel 2017 e nel 2016 «qualche altra sorpresa ci sarà e sarà positiva», la pressione fiscale in Italia contnua a essere un valore che non conosce diminuzioni di sorta. In dieci anni, l’Italia ha registrato l’aumento della pressione fiscale totale (comprensiva dei contributi sociali) in rapporto al proprio Pil più aòta d’Europa: +4,24%, dal 38,97% del 2005 al 43,21% del 2015. A rivelarlo è un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati forniti dalla Commissione europea.
«Nel 2015 – ha commentato il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro Massimo Blasoni – la Commissione Europea segnala una timida inversione di tendenza, con la pressione fiscale in leggera diminuzione. È però ancora troppo poco perché lo sguardo su questi ultimi dieci anni segnala un’espansione del prelievo fiscale che non ha pari nel resto d’Europa e tra le grandi economie. In termini reali la stretta fiscale di questo decennio vale circa 70 miliardi di euro su base annua: un autentico salasso per imprese e famiglie».
Seguono l’Italia il Portogallo (+4,15%), la Grecia (+4,05%, con primo dato disponibile del 2006), Malta (+3,06%) ed Estonia (+2,87%). Aumenti inferiori sono stati registrati in altri Paesi europei, in primis Francia (+2,78%) e Germania (+1,06). Nello stesso periodo di tempo, altri Paesi Ue hanno invece imboccato una diminuzione della pressione fiscale in rapporto al proprio Pil: Regno Unito (-0,91%), Danimarca (-1,04%), Lituania (-1,16%), Irlanda (-1,17%), Slovenia (-1,97%), Spagna (-2,10%), Bulgaria (-2,27%) e Svezia (-2,64%).
Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 126esimo su 140 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si colloca infatti subito dopo quello del Marocco, di El Salvador e dell’Isola di Capo Verde e a un livello leggermente superiore a quelli di Turchia, Uruguay e Bolivia. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base degli dati contenuti nel “The Global Competitiveness Report 2015-2016” pubblicato dal World Economic Forum.

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Il Jobs Act ha avuto un impatto certamente positivo sulla complessiva performance del nostro sistema: lo stesso rapporto segnala, infatti, che proprio grazie alla riforma del mercato del lavoro la competitività complessiva dell’economia italiana migliora. L’efficienza del nostro mercato del lavoro migliora a livello mondiale di dieci posizioni in un anno, passando dalla 136esima alla 126esima posizione. Nonostante questo segnale positivo, però, il nostro continua ad essere il mercato del lavoro meno efficiente tra i 28 paesi dell’Unione Europea.
L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa.
Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 127mo posto al mondo e penultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Svezia). Siamo invece al 134esimo posto al mondo e terz’ultimi in Europa per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo (nonché 131esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa soltanto la Slovenia fa peggio di noi sia per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro sia per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo 119esimi nel mondo e ultimi in Europa per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non invece a criteri poco trasparenti (amicizia, parentela, raccomandazione) mentre recuperiamo qualche posizione con riferimento alla capacità di trattenere talenti (113esimi nel mondo e 22esimi in Europa) e di attrarre talenti (115esimi nel mondo e 20esimi in Europa).

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«Il nostro mercato del lavoro – commenta Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”- ha certamente difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Il Jobs Act ha invertito la tendenza all’irrigidimento delle regole che si era verificata con la cosiddetta Riforma Fornero e abbiamo visto come modifiche che si applicano solo ai nuovi assunti, quindi ad una platea tutto sommato ristretta, abbiamo già generato un positivo effetto sulla nostra competitività. Con più coraggio si sarebbe potuto estendere la nuova disciplina anche ai contratti in essere e al pubblico impiego, avvicinando il nostro mercato del lavoro a quello dei paesi più avanzati e dinamici. Ora – conclude Blasoni – è importante favorire un processo di innovazione anche sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza”.
Pressione fiscale: negli ultimi 10 anni record italiano in Europa per aumento rispetto al Pil

Pressione fiscale: negli ultimi 10 anni record italiano in Europa per aumento rispetto al Pil

Negli ultimi dieci anni l’Italia ha fatto registrare in Europa il maggior aumento della pressione fiscale totale (comprensiva dei contributi sociali) in rapporto al proprio Pil: una crescita del 4,24%, passando dal 38,97% del 2005 al 43,21% del 2015. Lo rivela un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati forniti dalla Commissione europea.

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Subito dopo di noi, in questa particolare classifica, compaiono il Portogallo (aumento del 4,15%), la Grecia (+4,05%, anche se il primo dato disponibile è datato 2006), Malta (+3,06%) e l’Estonia (+2,87%). Decisamente migliore la performance registrata in questo decennio anche da alcuni nostri principali competitor continentali, che hanno anch’essi aumentato la loro pressione fiscale ma in termini decisamente più contenuti: Francia (+2,78%) e Germania (+1,06).
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Nello stesso periodo di tempo diversi altri Paesi hanno invece imboccato una diminuzione della pressione fiscale in rapporto al proprio Pil: Regno Unito (-0,91%), Danimarca (-1,04%), Lituania (-1,16%), Irlanda (-1,17%), Slovenia (-1,97%), Spagna (-2,10%), Bulgaria (-2,27%) e Svezia (-2,64%).
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“Nel 2015 – ha commentato il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro Massimo Blasoni – la Commissione Europea segnala una timida inversione di tendenza, con la pressione fiscale in leggera diminuzione. E’ però ancora troppo poco perché lo sguardo su questi ultimi dieci anni segnala un’espansione del prelievo fiscale che non ha pari nel resto d’Europa e tra le grandi economie. In termini reali la stretta fiscale di questo decennio vale circa 70 miliardi di euro su base annua: un autentico salasso per imprese e famiglie”.
Affitti immobiliari? Nessuna liberalizzazione

Affitti immobiliari? Nessuna liberalizzazione

di Carlo Lottieri

Uno dei settori più bisognosi di riforme è quello delle locazioni a uso commerciale, ancora vincolato da una legge di 40 anni fa (il ben noto e famigerato “equo canone”) che per tanti aspetti è riuscita a non subire modifiche su questo punto nonostante le lenzuolate delle vere o presunte liberalizzazioni. Si tratta di una normativa che ingessa il settore e che, a dispetto delle intenzioni, finisce per danneggiare un gran numero di soggetti intenzionati ad aprire un negozio. Basti pensare che i contratti commerciali devono essere almeno di 12 o addirittura 18 anni. Il legislatore voleva tutelare l’impresa a danno della proprietà dell’immobile, ma a ben guardare ha fatto danni in entrambe le direzioni. Non potendo cedere in locazione un locale per periodi più brevi, molti proprietari tengono in effetti il proprio bene fuori dal mercato e producono così quella rarefazione che fatalmente fa alzare i prezzi. Ogni volta che si va contro il mercato, d’altra parte, ci si deve aspettare che quest’ultimo in qualche modo “reagisca”.
Per di più il proprietario non può nemmeno chiedere che i canoni aumentino, eccezion fatta per un parziale adeguamento all’inflazione. E anche questo viola quella libertà contrattuale senza la quale non abbiamo una società libera. Il ceto politico italiano non vuole proprio comprendere che ogni manipolazione dei prezzi di mercato produce un degrado della vita economica. Sembra che la società nel suo insieme, a dire la verità, non avverta l’urgenza di sottrarre il processo normativo al controllo che su di essa esercitano le corporazioni più organizzate e influenti. E in questo caso appare chiaro come una miope lettura degli interessi dei commercianti (di alcuni di loro, a dire il vero) impedisca d’immettere un po’ di libertà in questo settore.
Va anche ricordato come l’intero ambito della proprietà immobiliare, e quindi anche le unità dedicate alle attività commerciali, negli ultimi anni abbia subito un salasso fiscale senza precedenti. A questo punto siamo di fronte a una sorta di “sovietizzazione” che sta progressivamente sottraendo ai legittimi proprietari ogni forma di controllo sui loro beni: per il possesso dei quali devono destinare allo Stato somme crescenti, devono accettare tempi contrattuali e canoni imposti per legge, devono subire vincoli che rendono assai difficile e costoso modificare la destinazione ad altro impiego. Lo Stato è ormai il super-proprietario di ogni così e questo si vede dinanzi a ogni proprietà: mobiliare o di altro tipo. Ma nel caso degli immobili a uso commerciale siamo forse arrivati a una situazione estrema, che davvero non ha paragoni. Di recente ci si è orientati a permettere l’uscita da questa trappola normativa, che inibisce ogni negoziazione tra proprietario e locatario, almeno per le realtà di grandi dimensioni e cioè quando i canoni annui superano i 250 mila euro all’anno. È un passo positivo, ma riguarda solo un numero limitato di casi e non ha alcuna rilevante conseguenza sul mercato immobiliare nel suo insieme.
In Parlamento c’è stato chi, intervenendo sul decreto Sblocca Italia, ha pure provato a favorire una qualche liberalizzazione del settore, ma si è trovato di fronte a un muro. Una volta di più l’alleanza tra l’insipienza del ceto politico e il cinismo demagogico di qualche responsabile di categoria ha finito per avere la meglio.
Su questo, per ora, l’Italia sembra proprio non sbloccarsi: e questa non è per nulla una buona notizia.