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Ecco gli assegni da fame dei pensionati del futuro
Redazione », Scrivono di noi libero, massimo blasoni, pensioni
Sandro Iacometti – Libero
Già oggi, con il «ricco» sistema retributivo la quota di pensionati che alla fine del mese riceve meno di 1.000 euro lordi è del 42,5%. Si tratta di 6,6 milioni di italiani che evidentemente, anche calcolando l’assegno previdenziale sulla base delle retribuzioni degli ultimi 10 anni di lavoro, come prevede il sistema per chi nel 1996 aveva già 18 anni di contributi all’attivo, non sono riusciti ad ottenere cifre più sostanziose per la vecchiaia.
Con il metodo contributivo introdotto dalle riforme Dini e Fornero, e in questi giorni tornato alla ribalta anche per alcune ipotesi di ricalcolo delle pensioni già erogate, le cose non potranno che peggiorare. E di molto. Soprattutto per chi, e saranno molti considerata la situazione economica e l’evoluzione del mercato del lavoro, non avrà una storia contributiva lineare e monolitica.
Considerato che il 46% degli italiani si colloca nella fascia di contribuenti fino a 15mila euro, che un altro 49% ha redditi compresi tra i 15 e i 50mila euro e che le entrate medie annue emerse dalla dichiarazione dei redditi 2014 si attestano a 20.070 euro (statistiche che comprendono ovviamente anche i pensionati), abbiamo chiesto al Centro studi ImpresaLavoro di effettuare una serie di simulazioni sui futuri trattamenti previdenziali di lavoratori con redditi compresi tra i 20 e i 30mila euro l’anno.
I risultati non sono incoraggianti. Anzi, dimostrano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che senza una serie di interventi che incoraggino e rilancino la previdenza integrativa (che invece continua ad essere tartassata) tra qualche decennio l’Italia sarà popolata da un esercito di anziani che dovrà tirare avanti con pochi euro in più della pensione sociale.Le elaborazioni sono state tutte effettuate su un’ipotesi di età pensionabile di 66 anni e un’eta contributiva di base di 40 anni.
La situazione risulta sulla soglia della sostenibilità per il lavoratore dipendente nella fascia alta di stipendio tra quelle prese in considerazione. Con 30mila euro lordi all’anno la sua pensione annua con il contributivo sarà di 22.271 euro (1.713 euro lordi mensili) rispetto ad un trattamento con il retributivo di 24mila euro (1.846 euro mensili). Abbassando l’asticella le cose, ovviamente, peggiorano. Con un reddito di 25mila euro la pensione retributiva ammonterebbe a 20mila euro annui (1.538 euro mensili), ma quella contributiva scenderà a 18.559 (1427 euro mensili). Riducendo le entrate del lavoratore a 20mila euro l’assegno si avvicina alla soglia dei 1.000 euro lordi. Operando solo sul montante contributivo si avrà, infatti, una pensione di 14.847 euro lordi all’anno, ovvero 1.142 al mese.
Lo scenario si fa ben più cupo per i lavoratori autonomi che hanno un’aliquota contributiva (sarà a regime nel 2019) del 24% della retribuzione interamente a loro carico, rispetto al 33% versato dai dipendenti (il 23,8% è pagato dal datore di lavoro). Con un reddito di 30mila euro e 40 anni di contributi il lavoratore autonomo, che con il retributivo avrebbe preso 24mila euro di pensione, riceverà invece un assegno mensile di 1.245 euro lordi (16.197 euro annui). Con 25mila euro il trattamento scende a 1.038 euro (13.497) e con 20mila euro il lavoratore autonomo entra nel club dei 6,6 milioni di italiani, con 830 euro lordi al mese di pensione (10.798 euro all’anno).
Fin qui abbiamo visto lavoratori «fortunati», con una retribuzione stabile e un percorso lavorativo senza interruzioni. Cosa succederebbe in caso di periodi di disoccupazione forzata, vuoti contrattuali e salti contributivi? Il nostro lavoratore autonomo dovrà faticare molto per arrivare alla fine del mese. Con un reddito di 20mila euro abbiamo già verificato che la soglia dei 1.000 euro diventa lontana. Lo stesso, però, accadrà anche a chi guadagna cifre maggiori se la sua condizione di precario lo ha fatto inciampare in qualche anno di disoccupazione.
Prendiamo in esame un reddito di 25mila euro annui. In questo caso basterebbe un buco contributivo di 3 anni a far precipitare il lavoratore nell’ambìto club. La sua pensione sarebbe, infatti, di 12.485 euro annui (960 euro mensili lordi). E il conto peggiorerebbe assai con 5 (11.810 euro) e 7 anni (11.135) di vuoto lavorativo. L’unico che riesce a restare sopra la soglia dei 1.000 euro, seppure per poco, è il lavoratore autonomo con un reddito di 30mila euro annui. Qui il trattamento previdenziale scenderebbe a 14.982 euro (1.152 euro mensili) con 3 anni di vuoto, a 14.172 euro (1.090) con 5 anni e a 13.362 (1.027) con 7 anni.
«Quello previdenziale», ha detto l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro, «è un tema che il governo dovrebbe affrontare rapidamente. Con questi tassi di partecipazione al lavoro e con un livello di disoccupazione giovanile che non scende, il rischio che corriamo è quello di aver scaricato sulle future generazioni il peso delle nostre scelte sbagliate. Oggi il 43% delle pensioni è inferiore ai mille euro: come dimostra il nostro studio, per i nostri giovani mille euro rischiano di essere un traguardo impossibile da raggiungere».
Le pensioni dei lavoratori con versamenti discontinui
Redazione Studi autonomi, giovani, giuseppe guttadauro, massimo blasoni, paper, pensioni, versamenti
PAPER
a cura di Giuseppe Guttadauro
esperto previdenziale e fondatore del portale www.infoprevidenza.it
Il sistema di calcolo contributivo e quello retributivo
Il tema delle pensioni ritorna sempre alla ribalta dei media e del dibattito politico. Un tema “caldo” che interessa il futuro di tutti e sul quale l’informazione è sempre stata poco chiara e vaga.
Parliamo di pensioni INPS, un mondo che riguarda più di 24 milioni di lavoratori e, nello specifico, del sistema di calcolo delle pensioni per cercare di fare chiarezza su una convinzione molto diffusa: il sistema di calcolo contributivo è penalizzante rispetto a quello retributivo.
Vediamo, prima di tutto, di fare un po’ d’ordine analizzando i due sistemi: a chi sono rivolti e la loro storia.
Il sistema retributivo si applica a coloro che alla data del 31 dicembre 1995 erano già titolari di una posizione lavorativa e per un periodo che varia in funzione degli anni di contribuzione maturati:
● almeno 18 anni, la quota di pensione retributiva è calcolata sino al 31 dicembre 2011. Inizialmente questi lavoratori andavano in pensione con un calcolo esclusivamente retributivo; la riforma Fornero ha, invece, introdotto anche per loro il sistema contributivo a partire dal 1° gennaio 2012;
● meno di 18 anni, la quota di pensione retributiva è calcolata sino al 31 dicembre 1995; agli anni maturati dal 1° gennaio 1996 al momento della pensione viene applicato il sistema contributivo.
Il sistema contributivo si applica interamente, invece, a tutti coloro che non avevano maturato una posizione lavorativa al 31 dicembre 1995. È stato introdotto dalla riforma Dini e calcola l’importo dell’assegno non più sulla media delle retribuzioni bensì su quanto versato a titolo di contribuzione durante la vita lavorativa. Un sistema di calcolo sicuramente più giusto dove la pensione è determinata da quanto versato.
I due sistemi a confronto
Mettendo a confronto i due sistemi scopriamo che non è vero, poi, che tutti i vantaggi stiano nel retributivo e tutti gli svantaggi nel contributivo. Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno d’attività fino a 45 mila euro di stipendio. Per le quote di retribuzione eccedenti tale importo, invece, l’aliquota è decrescente. Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto contributivo massimo pari a 40 anni. Quelli lavorati in più subiscono il prelievo previdenziale sulla retribuzione, ma “non fanno” anzianità contributiva. Ecco il motivo per il quale la percentuale massima di pensione sull’ultima retribuzione può arrivare all’80% (40 anni per il 2%). Nel regime contributivo invece contano solo i contributi versati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore per due motivi:
1. ha accumulato un montante contributivo più elevato;
2. usufruisce di un “coefficiente di trasformazione” più alto in relazione dell’età del pensionamento.
I lavoratori con retribuzioni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un “massimale” che attualmente è di circa 100.000,00 euro l’anno (oltre tale importo non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate come retribuzione pensionabile).
Perché il sistema di calcolo contributivo non è sempre così negativo
Proviamo ad analizzare i due sistemi di calcolo con alcuni esempi numerici, prima su di un lavoratore dipendente e poi su un lavoratore autonomo.
Lavoratore dipendente
È assicurato presso il Fondo Gestione Lavoratori Dipendenti (FPLD) e ha un’aliquota contributiva pari al 33% della RAL (retribuzione annua lorda) di cui il 23,81% a carico del datore di lavoro e il 9,19% a carico del lavoratore.
Analizziamo quindi il caso di due lavoratori dipendenti che maturano il diritto alla pensione entrambi a 66 anni di età e dopo 40 di contribuzione. Ipotizziamo che il primo si trovi in un regime di calcolo esclusivamente retributivo (cosa non più possibile dopo la riforma Fornero ma nel nostro esempio serve come “estremizzazione” comparativa) e il secondo in un regime interamente contributivo e supponiamo che l’ultima retribuzione annua lorda percepita sia stata di 30.000,00 per entrambi.
Per un’analisi comparativa equa (ma anche più semplice) consideriamo che i 30.000,00 euro corrispondano, in termini di potere d’acquisto, alla retribuzione media reale annua (1) percepita nel corso dei 40 anni di lavoro.
Procediamo adesso con il calcolo delle due pensioni.
► Nel sistema retributivo l’importo della pensione è determinato dalla media delle ultime 10 retribuzioni annue (nel nostro caso pari sempre a 30.000,00 euro) a cui si applica un 2% per ciascun anno di anzianità contributiva . Abbiamo, quindi, un 2% x 40 anni x 30.000,00 corrispondente a un importo di pensione di 24.000,00 euro annui.
► Nel sistema contributivo l’importo della pensione è determinato dai contributi versati durante l’attività lavorativa a cui si deve applicare un coefficiente di conversione in funzione dell’età pensionabile. E’ necessario quindi calcolare prima il montante contributivo accumulato. Sapendo che l’aliquota contributiva del dipendente è del 33%, in 40 anni di lavoro il totale complessivo dei contributi versati sarà pari a 396.000,00 euro (33% x 30.000,00 x 40 anni). Il coefficiente di trasformazione relativo al 66° anno di età è il 5,624% e, di conseguenza, l’importo della pensione annua corrisponde a 22.271,04 euro.
Una differenza di 1.728,96 euro a favore del sistema retributivo, pari a poco meno dell’8%.
Lavoratore autonomo
È assicurato presso le Gestioni dei lavoratori autonomi (Commercianti e Artigiani) e ha un’aliquota contributiva che, a regime nel 2019, sarà del 24% interamente a proprio carico.
Procediamo al calcolo della pensione di due lavoratori autonomi, mantenendo invariati i parametri utilizzati per il caso precedente (età pensionabile a 66 anni, 40 anni di lavoro, ultimo reddito prima del pensionamento pari a 30.000,00 euro), e vediamo cosa accade alla pensione retributiva e a quella contributiva.
Nel caso di calcolo retributivo l’importo della pensione sarà sempre di 24.000,00 euro, corrispondente all’80% (40 anni x 2%) del reddito medio reale annuo (1).
Nel sistema contributivo , invece, le cose cambiano, e non di poco. Infatti, dopo 40 anni di lavoro il montante contributivo accumulato (1) sarà pari a 288.000,00 euro (2) a cui si deve applicare un coefficiente di trasformazione corrispondente al 66° anno di età (attualmente il 5,624%) che determina un importo dell’assegno pari a 16.197,12 euro.
Una differenza di quasi 8.000,00 euro l’anno, con una riduzione superiore al 30%.
Sempre riguardo al lavoratore autonomo (con 40 anni di contribuzione) e al sistema di calcolo contributivo, vediamo cosa succede in caso di reddito medio annuo reale di 25.000,00 euro e di 20.000,00 euro
► Con un reddito medio annuo di 25.000,00 euro il montante contributivo accumulato sarà pari a 240.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 40 anni) corrispondente ad una pensione di 13.497,60 euro annui (240.000,00 x 5,624%).
► Con un reddito medio annuo di 20.000,00 euro il montante contributivo si riduce a 192.000,00 euro per una pensione di 10.798,00 euro (192.000,00 x 5,624%).
IPOTESI DI LAVORO DISCONTINUO
Vediamo adesso cosa succede in caso di lavoro discontinuo con un reddito, quindi, incostante e lo vediamo ipotizzando tre fasce di reddito diverse: 30.000,00, 25.000,00 e 20.000,00 euro e con tre “vuoti contributivi” rispettivamente di 3, 5 e 7 anni.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 30.000,00 euro
1. Reddito di 30.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 266.400,00 euro (37 anni x 30.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 14.982,34 euro (266.400,00 x 5,624%).
2. Reddito di 30.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 252.000,00 euro (30.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 14.172,48 euro.
3. Reddito di 30.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 237.600,00 euro (30.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 13.362,63 euro.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 25.000,00 euro
1. Reddito di 25.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 222.000,00 euro (37 anni x 25.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 12.485,28 euro (222.000,00 x 5,624%).
2. Reddito di 25.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 210.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 11.810,40 euro.
3. Reddito di 25.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 198.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 11.135,52 euro.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 20.000,00 euro
1. Reddito di 20.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 177.600,00 euro (37 anni x 20.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 9.988,23 euro (177.600,00 x 5,624%).
2. Reddito di 20.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 168.000,00 euro (20.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 9.448,32 euro.
3. Reddito di 20.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 158.400,00 euro (25.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 8.908,42 euro.
Questo fa chiaramente intendere che il sistema di calcolo contributivo non è poi sempre penalizzante. Dato che l’età pensionabile (3) e il coefficiente di trasformazione sono uguali per tutti, il problema si pone esclusivamente in relazione ai contributi accumulati durante l’attività lavorativa. E’ evidente che la differenza di aliquota contributiva tra un lavoratore dipendente e un autonomo (33% contro il 24%) porta, a parità di retribuzione/reddito, a due montanti differenti e, di conseguenza, a due importi diversi di pensione.
Non è, quindi, il calcolo contributivo che penalizzerà le future pensioni dei giovani, bensì la loro condizione di lavoro caratterizzata da un accesso tardivo nel mercato e una permanenza instabile e saltuaria che rende precaria anche la loro posizione contributiva.
Si continua a discutere di riforma delle pensioni, di flessibilità in uscita, di ricalcolo contributivo, etc. ma forse sarebbe meglio, prima, avviare una seria politica occupazionale perché la salute del sistema previdenziale deve obbligatoriamente passare da qui: incentivazione all’occupazione per aumentare il numero dei lavoratori e delle entrate contributive ma anche, e soprattutto, per garantire una pensione decorosa ai giovani.
(1) Si considerano le retribuzioni e i redditi “reali” percepiti nel corso della vita lavorativa con ipotesi di un tasso d’inflazione pari a zero.
(2) Considerando l’aliquota contributiva del 24% già a regime.
(3) A regime dal 2019.
Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri
Redazione », Editoriali carlo lottieri, economia, Matteo Renzi, poste, privatizzazioni
di Carlo Lottieri
Da più di vent’anni in Italia è ripetutamente richiamata l’esigenza di operare programmi di privatizzazione, che sottraggano allo Stato il controllo di ampi settori economici e li affidino a soggetti privati. Molte dismissioni hanno pure avuto luogo, anche se tanto resta da fare, ma non sempre è chiaro il vero motivo che deve portare lo Stato a mollare la presa su tante aziende. Questa mancanza di chiarezza nelle idee è premessa a privatizzazioni che, in troppi casi, si rivelano deludenti. Ora potrebbe aprirsi una nuova stagione, simile a quella dei governi dei primi anni Novanta, ma le conseguenze di eventuali cessioni saranno molto diverse sulla base delle ragioni che inducono a privatizzare.
Fino ad ora, infatti, troppe volte la ragione che ha indotto questo o quell’amministratore a privatizzare è stata la semplice esigenza di reperire risorse. Il tal comune mette in vendita alcune farmacie solo allo scopo di avere soldi da destinare alla costruzione di impianti sportivi o biblioteche. A ben guardare, questa non è una privatizzazione, ma una semplice riallocazione delle risorse a disposizione: come quando si cede un immobile per averne un altro. Perfino se il senso primario della privatizzazione fosse quello di reperire capitali da destinare alla copertura del debito (cosa di cui c’è sicuramente bisogno), perfino in quel caso se ci si limitasse a ciò ancora una volta si mancherebbe il bersaglio.
È anche opinabile la tesi di chi sostiene che si deve privatizzare per rendere più efficiente il sistema nel suo complesso. È vero che le imprese private sono mediamente molto più dinamiche, innovative e capaci di soddisfare il pubblico di quanto non siano quelle in mano allo Stato. Ma anche l’argomento dell’efficienza è inadeguato o, meglio, incompleto. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre il debito pubblico e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà. In questo senso ogni privatizzazione è un’amputazione del potere detenuto dall’apparato politico e burocratico. Ed è esattamente per tale motivo che ogni dismissione va accompagnata da una liberalizzazione del settore interessato.
In questo senso sarebbe certamente riformatore quel governo che mettesse sul mercato fino all’ultima azione di Trenitalia e che destinasse gli introiti a ridurre la montagna del debito di Stato. Sarebbe poi facile, in un arco di tempo ragionevole, constatare come la nuova azienda ferroviaria si orienti presto a mutare il proprio stile ed assumere comportamenti più orientati a tagliare i costi inutili, migliorare l’offerta, soddisfare la clientela. Ma i veri risultati arriverebbero solo grazie a un’apertura di mercato che possa vedere più aziende operare in concorrenza tra loro. Il significato più liberale delle privatizzazioni sta dunque nel ridimensionamento del potere pubblico ed è anche per questa ragione che ogni dismissione non è veramente tale se il settore non è aperto alla concorrenza di mercato.
La scelta di trasferire beni e imprese dalle mani di politici e burocrati a quelle di proprietari e imprenditori produce benefici di vario tipo: e certo può aiutare a ridimensionare il debito e migliorare l’efficienza. Ma gli effetti maggiori si hanno quando il cambio di titolarità (dallo Stato ai privati) serve a creare spazi di libertà e a superare situazioni di monopolio legale e privilegio.
Gli effetti economici delle privatizzazioni sono evidenti, ma il punto cruciale è un altro. Nel suo significato più autentico le dismissioni puntano a ricostruire un ordine di diritto e quindi di libertà, anche nella persuasione che solo entro istituzioni legittime e al servizio della società un’economia può crescere in maniera durevole.
Per il credito ora serve una spinta – Editoriale di Massimo Blasoni
Redazione », Editoriali credito, editoriale, massimo blasoni, panorama
Massimo Blasoni – Panorama
Malgrado i numerosi segnali di ripresa, a leggere i dati Bankitalia, l’accesso al credito resta difficile per le nostre famiglie e imprese produttive (meno nel settore finanziario). I prestiti delle banche al settore privato hanno registrato, ad aprile, una contrazione su base annua dell’1,4%. I prestiti alle famiglie sono calati dello 0,2% e quelli alle società non finanziarie sono diminuiti del 2,2% sui 12 mesi. Certo gli effetti del quantitative easing debbono ancora dispiegarsi compiutamente, tuttavia è ancora da verificare quale sarà il loro impatto. Non hanno avuto effetti sostanziali in passato le operazioni straordinarie di rifinanziamento della BCE. Né Ltro, né la sua versione successiva, il Tltro che condizionava il finanziamento all’erogazione di parte degli importi a famiglie e imprese. Questo perché spesso le banche prediligono impieghi più sicuri di quelli verso l’economia reale. In parte è comprensibile: il rapporto ABI di giugno 2015 evidenziava sofferenze lorde, ad aprile, per 191,5 miliardi, più 15,1% in confronto a quelle di aprile 2014. Anche i tassi restano alti malgrado gli interventi della banca centrale abbiano permesso anche all’Italia di godere del privilegio di potersi indebitare a interessi zero se non addirittura negativi, con impliciti effetti anche sul sistema creditizio.
Il basso costo del denaro all’origine è però condizionato da spread bancari piuttosto rilevanti nel nostro Paese. La disponibilità del credito e il suo costo sono tuttavia alla base di una piena ripresa e del conseguente incremento dell’occupazione. Innovazione, sviluppo e acquisti si nutrono di disponibilità finanziarie la cui carenza e l’elevato costo ci pongono in condizioni di difficile competizione con gli altri Paesi dell’area euro. Basti pensare che le ultime rilevazioni Bce quantificano nel 3,31% il tasso medio complessivo per le imprese italiane contro il 2,81% per le imprese tedesche. Poiché il nostro mercato azionario è assai ridotto – Piazza Affari vale meno del 30% del Pil nazionale a chilometri dagli USA ben sopra il 100% – occorre necessariamente riflettere su strumenti che facilitino l’accesso al credito bancario. Le ipotesi sono molte, dai fondi di garanzia pubblici per le spese di investimento di imprese virtuose, al ventilato utilizzo della Cassa Depositi e Prestiti, a interventi temporanei nel capitale dei principali istituti di credito per potenziarne il cosiddetto core tier one. Il rilancio delle nostre aziende necessita oggi più di opportunità, come il credito, che di contributi pubblici.
Intanto Roma scivola sempre più verso Atene – Editoriale di Massimo Blasoni
di Massimo Blasoni – Metro
Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce a battere l’Italia sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. Analizzando le classifiche stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che questa occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni traimprese e lavoratore, la flessibilità nella determinazione dei salari, l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento, il legame tra salari e produttività, l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare, il merito nella scelta delle posizioni manageriali e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti sia nell’attrarli. Il rapporto “Doing Business 2015” della Banca Mondiale ci svela inoltre che in Grecia il Total TaxRate sulle imprese (49,9%) è nettamente inferiore al nostro (65,4%) e che la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269) per pagare le imposte. Senza contare che un’impresa greca riscuote poi il suo credito dalla Pa in appena un terzo del tempo sopportato da un’impresa creditrice italiana (49 giorni invece di 144 giorni). Non è tutto. Perdiamo il confronto anche nel comparto cruciale dell’edilizia sia per i giorni necessari a ottenere un permesso di costruzione (233 contro 124) sia per ottenere l’allacciamento dell’energia elettrica (124 contro 62). Tra l’altro, a una media impresa italiana la bolletta energetica costa il 34% in più che non a una media impresa greca: 0,1735 centesimi di euro per Kwh (chilowattora) invece di 0,1298 centesimi di euro per Kwh. Intendiamoci, l’Italia ha fondamentali economici decisamente più solidi di quelli greci. Tuttavia liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili, su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è che Roma scivoli sempre più verso Atene.
Presentazione Manifesto Anti-Tasse a Udine
Redazione Senza Categoria manifesto anti-tasse, massimo blasoni, simone bressan
Le tasse tra incubo e realtà: nasce il manifesto antitasse “E io pago”, realizzato dal Centro studi ImpresaLavoro. L’istituto, fondato a Udine da Massimo Blasoni, dopo aver elaborato l’Indice Europeo della Libertà Fiscale, ha voluto mettere nero su bianco, attraverso 15 illustri contributi, la questione tasse.
Il lavoro, introdotto dalla prefazione di Alessandro Sallusti, Direttore de Il Giornale, è stata realizzata con il contributo di imprenditori come Massimo Blasoni, Santo Versace e Florindo Rubbettino, alti dirigenti di importanti istituzioni come Giovanni Tria e Giorgio De Rita; intellettuali liberali come Carlo Lottieri e Raimondo Cubeddu; economisti come Giuseppe Pennisi e Salvatore Zecchini; giornalisti nazionali come Nicola Porro e Davide Giacalone; un rappresentante della proprietà immobiliare, tartassata per eccellenza in questi anni, come Giorgio Spaziani Testa, fino a Paolo Villaggio alias Fantozzi rag. Ugo che offre il suo parere sulle tasse con una “comica verità”. A loro si è aggiunta la creatività del vignettista Vincino che ha realizzato sette disegni esclusivi.
Il libro sarà presentato nel corso di un convegno martedì 7 luglio alle 19 a Palazzo Kechler. Interverranno Simone Bressan, Direttore del Centro studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, Presidente del Centro studi ImpresaLavoro, Salvatore Zecchini, economista e Presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria e Giorgio De Rita, Direttore generale del Censis.
L’ideologia franco-tedesca e le difficoltà del presente
di Carlo Lottieri
Le cronache di questi giorni sono dominate da due eventi diversamente inquietanti: il rilancio del terrorismo islamista e la crisi europea focalizzata sulla Grecia e sul’euro. In entrambi i casi è chiaro che vi sono responsabilità specifiche: non sono senza colpe i greci, vissuti al di sopra delle loro possibilità e ora indisposti a pagare i debiti accumulati; e devono pure saper riflettere seriamente sulla propria condizione culturale le popolazioni di quel mondo arabo-musulmano che, a ragione, vuole evitare ogni identificazione tra religione e violenza terroristica, ma che al tempo stesso non può negare l’esistenza di un nesso tra Islam e islamismo radicale.
La Grecia ha le sue responsabilità e anche la società musulmana. Non bisogna però negare come l’Occidente in generale e l’Europa in senso più specifico abbiano egualmente commesso molti, anzi moltissimi errori: in un caso come nell’altro. E c’è un’ideologia europea e più specificamente franco-tedesca che in qualche modo sta all’origine di tutto questo. La follia della Jihad, in particolare, non può essere separata dal fatto che negli ultimi due secoli – e non solo a causa del colonialismo – gli europei hanno esportato un po’ ovunque lo Stato moderno e, insieme a esso, una visione giacobina delle istituzioni. In alcune parti del mondo questo ha fatalmente causato forti reazioni con elementi basilari di società di carattere tradizionalista, provocando reazioni di rigetto. Il terrorismo che uccide in nome di Allah è anche una conseguenza dei vari “kemalismi” di matrice europea e di un’ideologia basata sul potere statuale, su un’astratta idea dei diritti umani, sul mito della burocrazia e dell’esercito. La visione del mondo di stampo europeo che ha ispirato la politica dello Scià in Persia ha poi di fatto aperto la strada a Khomeini, ma situazioni analoghe si sono viste anche in molti contesti.
La cultura europea – specialmente tra Francia e Germania – si è innamorata di ideologie costruttiviste e antiliberali. Non è allora un caso se nelle università di Parigi si sono forgiati intellettuali e uomini di governo, provenienti dall’Africa e dall’Asia, che poi hanno preteso di riaffermare nelle loro società astratte logiche di matrice illuminista. Anche in Europa si è sviluppato un processo simile, se si considera che sotto vari punti di vista il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa ha pensato di replicare lo Stato moderno a livello continentale, partendo dalla burocrazia francese (si pensi a Jean Monnet) e dal vuoto identitario di una Germania post-nazista che ha capito di dover essere europea da momento che non poteva più essere tedesca. Il programma dirigistico di istituzioni politiche europee ora mostra però la corda e questo a seguito del fatto che l’Europa non è una società coerente, non è un luogo di dibattiti e scambi quotidiani, non è un mondo davvero integrato e non è bene che sia retta da un solo governo. Da decenni s’insegue però questo sogno e si è pronti a pagare prezzi anche molto alti pur di preservare il mito di un’unità europea a venire.
La nascita dell’euro è stata il prodotto più importante di questo costruttivismo, proiettato a fissare regole buone per i danesi come per gli italiani, per i tedeschi come per i greci. Oggi è comunque chiaro a tutti che la Grecia non sarebbe dovuta entrare nel club dell’euro e doveva comunque essere messa fuori da tempo. Se questo non è avvenuto è perché – soprattutto a Parigi e Berlino – ci si è innamorati della dimensione ideologica del progetto unitarista. Le società europee possono essere orgogliose di molta parte della loro storia. Devono però comprendere i propri errori fondamentali: il proprio ideologismo, l’infatuazione per lo Stato, l’illusione di avere trovato soluzioni e principi applicabili a ogni latitudine. Non è così ed è bene esserne consapevoli al più presto. Nella nostra cultura politica – da Rousseau a Marx, da Hegel a Comte – c’è una tara illiberale che non smette di produrre frutti velenosi. Solo se sapremo capire fino in fondo tutto questo sapremo evitare nuovi errori.
Manifesto anti-tasse – l’intervento di Massimo Blasoni
Non credo che lo sceriffo di Nottingham pretendesse dai sudditi, pur per antonomasia vessati, la metà del frutto del loro lavoro come avviene nell’Italia di oggi. Certamente a tanto non ammontavano le imposte medievali ne la tassa sul tè, che pure scatenò la rivoluzione per l’indipendenza americana. Ad essere sincero non ho mai sottoscritto alcun patto. Tuttavia trovo ragionevole che vi siano dei limiti all’esercizio assoluto della personale libertà. Lo richiede la convivenza tra individui, fatti salvi ovviamente alcuni valori non negoziabili che precedono lo Stato. L’istruzione, le infrastrutture, la scuola, rappresentano un costo che non sempre può essere sopportato dal singolo beneficiario. Questi servizi dovrebbero rappresentare un’equa controprestazione per le imposte pagate. Dunque comprendo l’esigenza di contribuire con una parte delle risorse che produco e che questo concorso debba essere proporzionale al reddito e utilizzato con il criterio della solidarietà.
Il demandarne l’utilizzo ai propri rappresentanti eletti, in democrazia è la norma. Il tema si complica quando l’entità delle tasse è eccessiva e quando viene avvertita come sperequata rispetto all’efficienza di servizi. Di più, quando la leva fiscale viene utilizzata in parte rilevante per spese ritenute inutili o per nutrire l’apparato stesso delle istituzioni. Un’avversione che cresce ancor più quando le imposte servono a sanare i deficit di fallimentari avventure imprenditoriali di Stato o quando si costruiscono strade al doppio del loro costo oppure opere di scarso interesse, a inseguire la vanagloria del governante di turno, quando non più privati interessi.
Una delle ragioni cruciali della nostra crisi (e della crisi europea entro cui essa si colloca) è da individuare proprio nell’espansione del prelievo fiscale.
Se non si riuscirà a invertire il processo in atto, questo crescente spostamento di risorse dal settore privato al settore pubblico è destinato a mettere in grave crisi l’intera società occidentale. Deve farci riflettere il fatto che nel corso del ventesimo secolo, nonostante il massiccio ricorso all’indebitamente, la tassazione abbia raggiunto livelli sempre più alti e sia aumentata mediamente di cinque volte nella maggior parte dei Paesi occidentali.
Nel nostro Paese questa dilatazione del prelievo tributario ha raggiunto livelli elevati, soprattutto negli ultimi venticinque anni, così che oggi la situazione è divenuta insostenibile. Dal 1990 al 2015 la pressione fiscale (Apparente) è salita di 5 punti percentuali, passando dal 39% al 44%, e questo spiega in larga misura le difficoltà di un sistema produttivo in cui troppe aziende chiudono o subiscono significative contrazioni. La pressione fiscale reale, cioè tenendo in conto del sommerso che non paga imposte, è giunta al 53%. Vanno ricordate ovviamente anche la total tax rate per le imprese e il cosiddetto cuneo fiscale sul lavoro. Entrambi ci collocano tra i peggiori paesi al mondo. Anche la retorica della lotta all’evasione non ha portato a grandi risultati: si stimano in soli 1 miliardo gli importi recuperati nel 2014.
Nei primi anni del secondo decennio, dal 2011 a ora, mentre il Pil reale calava il prelievo è cresciuto in maniera significativa. Le imposte dirette erano 226,4 miliardi nel 2011 e sono passate a 240,9 miliardi nel 2013 mentre quelle indirette erano 221,7 miliardi (2011) e sono arrivate a 238,6 miliardi nel 2013. Quando un’economia indietreggia e la pressione fiscale cresce, è irragionevole attendersi una ripresa. Spesso le operazioni di riforma del sistema che talora sono state annunciate come riduzioni del prelievo (si pensi alla nuova fiscalità della casa, tra “abolizione” dell’Imu e nuovi tributi come la Tasi) nei fatti hanno finito per pesare sempre più sui bilanci di famiglie e imprese. Sempre nel 2014 si è proceduto ad abbassare l’Irpef sui ceti medio-bassi, ma al tempo stesso sono state introdotte tasse sul risparmio.
Il prelievo alla fonte e l’imposizione indiretta (l’Iva e non solo) rappresentano imposizioni fiscali di cui gli italiani sono certo a conoscenza, ma di cui faticano a valutare il peso. In Italia le imposte sul risparmio – capital gain, imposte di bollo, tobin tax – sono cresciute di 9 miliardi dal 2011-2015. Gli effetti del carico fiscale purtroppo sono moltissimi e perniciosi: la compressione dei consumi e il disincentivo agli investimenti esteri, in primo luogo. Ma altre conseguenze sono la scarsa spinta all’innovazione (che non è certo defiscalizzata) del sistema produttivo, la bassa competitività delle nostre aziende rispetto a quelle di Paesi esteri con un total tax rate decisamente inferiore, l’incentivo all’evasione. Tra gli effetti non mancano, poi, quelli che derivano dalla scarsa efficienza delle spese pubbliche sostenute attraverso l’imposizione fiscale.
Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia. Pensandoci non è infondata la massima: quando spendi i tuoi soldi per te, usi la massima attenzione; quando spendi i tuoi soldi per gli altri, stai attento a quanto spendi, ma non alla qualità di cosa compri; quando spendi i soldi degli altri per te, stai attento a cosa compri, ma non a quanto spendi; quando infine spendi i soldi degli altri per gli altri, spesso non ti interessa né cosa compri né quanto spendi. Come solitamente avviene nel caso dello Stato.
Massimo Blasoni, Presidente Centro Studi ImpresaLavoro
E Io Pago – Il Manifesto Anti-Tasse di ImpresaLavoro
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MANIFESTO
Dopo poco meno di un anno dalla sua nascita, il centro studi ImpresaLavoro raggiunge le 25mila edicole italiane con la sua prima fatica editoriale, un libro allegato a Il Giornale dal titolo molto evocativo: “E io pago!”.
Nel 2015 abbiamo realizzato il nostro Indice Europeo della Libertà Fiscale: un lavoro originale e svolto coordinando un team di dieci ricercatori europei che hanno elaborato dieci studi sui principali sistemi fiscali continentali, analizzando diversi indicatori. L’Italia è emersa come il paese fiscalmente meno libero, perché abbina un elevata pressione fiscale ad un sistema complesso e burocraticamente invasivo.
Da qui siamo partiti per una riflessione più ampia, chiedendo a 15 italiani illustri di darci un loro contributo sul tema delle tasse e di spiegarci perché, secondo loro, la pressione fiscale è troppo elevata e rischia di soffocare la crescita. Ne è uscito un “manifesto anti-tasse” variegato per stili e sensibilità ma coerente su un punto: il peso delle tasse è troppo gravoso.
Nel libro gli interventi e i punti di vista di imprenditori, intellettuali liberali, giornalisti, economisti. Da Massimo Blasoni a Santo Versace a Florindo Rubbettino, da Giovanni Tria a Giorgio De Rita; da Carlo Lottieri a Raimondo Cubbeddu; da Giuseppe Pennisi a Salvatore Zecchini; da Nicola Porro a Davide Giacalone; da Giorgio Spaziani Testa a Marco Bassani. A loro si sono aggiunti Paolo Villaggio nei panni del Rag. Ugo Fantozzi e il vignettista Vincino che ha illustrato il nostro lavoro realizzando sette disegni esclusivi. La prefazione è del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti.
Da oggi trovate il nostro manifesto anti-tasse in tutte le edicole italiane.