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Crisi: per le imprese italiane la bolletta energetica è di gran lunga la più cara d’Europa

Crisi: per le imprese italiane la bolletta energetica è di gran lunga la più cara d’Europa

NOTA

Le nostre imprese sono costrette a pagare una bolletta energetica salatissima, di gran lunga la più cara nelle grandi economie europee. Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro rivela quanto sia impietoso il raffronto del costo italiano (tasse incluse) per l’elettricità con quello sostenuto dai nostri principali competitor: +14% rispetto alla Germania, +30% rispetto al Regno Unito, +49% rispetto alla Spagna e addirittura +91% rispetto alla Francia. Non solo. Risultiamo nettamente perdenti anche nei confronti degli altri Stati confinanti, che da tempo attraggono imprese e capitali italiani grazie a una tassazione e a un costo del lavoro decisamente inferiori a quelli del cosiddetto Belpaese: +46% rispetto all’Austria, +89% rispetto alla Croazia e +105% rispetto alla Slovenia.
L’analisi di ImpresaLavoro è stata condotta elaborando i dati Eurostat relativi al secondo semestre 2014 e considerando il prezzo praticato a una media industria italiana, con un fabbisogno energetico annuo tra i 500 e i 200 MWh (megawattora).
Il prezzo finale sostenuto dalle nostre imprese è composto dal costo netto dell’energia e dal totale di imposte e accise che lo Stato applica loro. Se considerata prima delle tasse la nostra energia risulta la quarta più cara in Europa, costando come quella portoghese e leggermente meno di quella britannica, irlandese e spagnola: 0,1052 centesimi di euro per Kwh (chilowattora). Il discorso però cambia se vengono incluse le imposte, che da noi hanno incidono in maniera rilevantissima (pesano fino al 48% se si considerano anche le imposte sul valore aggiunto e il 25% se non si considera l’Iva e altre imposte che le aziende possono recuperare) e che fanno quindi diventare la nostra energia in assoluto la più cara d’Europa: 0,1735 centesimi di euro per Kwh (chilowattora).

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Rassegna Stampa
LaRepubblica.it
Una via di uscita ‘alla portoghese’ se il negoziato dovesse fallire

Una via di uscita ‘alla portoghese’ se il negoziato dovesse fallire

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Data la situazione del negoziato, vale la pena chiedersi se la Grecia può uscire dall’Unione monetaria senza che si facciano troppo male sia Atene sia gli altri Stati che fanno parte dell’area dell’euro. Occorre dire che negli ultimi cinquant’anni non sono mancati casi di unioni monetarie che si sono ‘sciolte’ senza grandi crisi o anche che siano state ‘lasciate’ da uno solo degli Stati membri senza che ci siano state grandi sofferenze. A differenza di altre unioni monetarie, però, l’area dell’euro è stata costruita come passo per contribuire a trasformare l’Unione europea in una confederazione o anche federazione politica. Ciò comporta un nodo giuridico: può la Grecia, Stato membro dell’Ue che ha scelto volontariamente e liberamente di entrare nell’Eurozona, uscirne senza lasciare, simultaneamente l’Ue medesima? I giuristi paiono concordi: uscire dall’euro vuol dire uscire dell’Unione europea, con le conseguenze che si possono immaginare (imposizione di dazi doganali, fine dei fondi strutturali e dei finanziamenti della Bei e via discorrendo).

In diritto internazionale, e in diritto europeo, ostacoli puramente giuridici sono superabili se tutte le parti in causa sono d’accordo nel farlo. Il premio Nobel Paul Krugman ha scritto, correttamente, che il nodo di fondo non è tecnico-giuridico ma politico: la mancanza del minimo di fiducia reciproca tra l’attuale governo greco e i creditori.

Se ci fosse tale fiducia, non sarebbe difficile delineare una via d’uscita tecnica. Nel febbraio 2012, la crisi portoghese ha spinto alcuni economisti lusitani a lavorare su ipotesi di uscita: una fase di transizione di alcune settimane (autorizzando severi controlli sui movimenti di capitale); la stampa di una nuova unità di misura, transazione e riserva (ossia una nuova moneta) con cui sostituire l’euro; l’ingresso in quello che viene giornalisticamente chiamato lo Sme2 (l’accordo sui cambi che consente fluttuazioni del 15%). La proposta prevedeva il rimborso del debito in euro (non nella nuova moneta). Solo che i greci non possono farlo perché hanno le casse vuote. La proposta non è più d’attualità per Lisbona dato che, in seguito ad un severo programma di riassetto strutturale, il Portogallo – il cui debito pubblico in percentuale del Pil è leggermente inferiore a quello dell’Italia – è stato ‘promosso’’dalla trojka (Bce, Fmi, Commissione europea). Contiene, però, idee che possono essere utili alla Grecia. Sempre che si stabilisca il clima di fiducia essenziale per fare parte della stessa unione.

Imprese: ecco il conto salato della bolletta energetica – LaRepubblica.it

Imprese: ecco il conto salato della bolletta energetica – LaRepubblica.it

LaRepubblica.it

“Le nostre imprese sono costrette a pagare una bolletta energetica salatissima, di gran lunga la più cara tra le grandi economie europee”. Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro rivela quanto sia impietoso il raffronto del costo italiano (tasse incluse) per l’elettricità con quello sostenuto dai nostri principali competitor: +14% rispetto alla Germania, +30% rispetto al Regno Unito, +49% rispetto alla Spagna e addirittura +91% rispetto alla Francia. Non solo. Risultiamo nettamente perdenti anche nei confronti degli altri Stati confinanti, che da tempo attraggono imprese e capitali italiani grazie a una tassazione e a un costo del lavoro decisamente inferiori a quelli del cosiddetto Belpaese: +46% rispetto all’Austria, +89% rispetto alla Croazia e +105% rispetto alla Slovenia.

L’analisi di ImpresaLavoro è stata condotta elaborando i dati Eurostat, di cui aveva dato conto Repubblica.it, relativi al secondo semestre 2014 e considerando il prezzo praticato a una media industria italiana, con un fabbisogno energetico annuo tra i 500 e i 200 mWh (megawattora).

Il prezzo finale sostenuto dalle nostre imprese è composto dal costo netto dell’energia e dal totale di imposte e accise che lo Stato applica loro. Se considerata prima delle tasse la nostra energia risulta la quarta più cara in Europa, costando come quella portoghese e leggermente meno di quella britannica, irlandese e spagnola: 0,1052 centesimi di euro per kWh (chilowattora). Il discorso però cambia se vengono incluse le imposte, che da noi hanno incidono in maniera rilevantissima (pesano fino al 48% se si considerano anche le imposte sul valore aggiunto e il 25% se non si considera l’Iva e altre imposte che le aziende possono recuperare) e che fanno quindi diventare la nostra energia in assoluto la più cara d’Europa: 0,1735 centesimi di euro per kWh (chilowattora).

Ultimatum degli imprenditori al premier

Ultimatum degli imprenditori al premier

Davide Giacalone – Libero

Bella, la relazione di Marco Gay all’annuale convegno dei giovani confindustriali. Ne metto in evidenza sei punti, che ne descrivono contenuto e taglio. In corsivo il riassunto di quanto detto da Gay, che di quei giovani è presidente.

1. Non possiamo continuare a cambiare le norme e i riferimenti fiscali, nel frattempo rispedendo al mittente finanziamenti europei non utilizzati. Ovvio, si dirà. Mica tanto, visto che ad ogni riforma i mezzi di comunicazione annunciano il cambiamento del mondo, così incentivando il politico desideroso d’apparire più a sventolare bandiere che a contabilizzare risultati. Si potrebbe mettere una regola: ogni riforma deve immediatamente portare a una diminuzione delle norme su eguale materia, altrimenti non è valida.

2. La via giudiziaria alle mani pulite ha fallito. Ha distrutto qualche partito, cambiato qualche consiglio d’amministrazione, ma non è servita a rendere migliore l’Italia. «Perché è stata una resa di conti interna al vecchio sistema». Non serve aggiungere altro.

3. Il rapporto fra affari e politica s’è incancrenito perché si sono lasciate aperte tre piaghe: il finanziamento della politica; la regolamentazione dei partiti; e quella delle lobbies. Tre leggi mancanti. Mancanze che derivano da un comune ceppo ipocrita (e totalitario), ovvero il volere ciascuno essere interprete degli «interessi generali», considerando degradante incarnare quelli reali, per loro natura parziali.

4. Dobbiamo imparare a contabilizzare i risultati, misurando il rapporto tra cause ed effetti, fra promesse e realtà. Altrimenti le riforme saranno solo un cambiar di nome a cose e concetti sempre più consunti. In assenza di dati accettati le discussioni si fanno ideologiche, e quando le ideologie tramontano diventano scontri di tifosi. Il fatto è che noi già avremmo diversi istituti preposti ai dati e alle misurazioni, cui si somma un numero divertente di presunte autorità indipendenti. Solo che le nomine hanno targhe politiche. Gay ha ragione, ma faccia attenzione in casa, in quella Confindustria di cui si commentavano, qualche tempo fa, le previsioni di crescita italiana al di sopra del 2%. Quello che Brera avrebbe defìnito: un tiro alla viva il parroco.

5. Passi per gli 80 euro, l’Irap, le defiscalizzazioni, tutte non misurate negli effetti, ma, alla fine, qual è la politica industriale? La lascia come domanda, perché non c’è risposta. È cosi: tante tessere del mosaico, alcune apprezzabili, altre orribili, ma senza il disegno. Critica che vale per questo governo, ma anche per un’intera stagione.

6. Al governo proponiamo uno scambio: noi industriali ci assumiamo l’onere di far crescere le nostre aziende, il che significa investire (ma non possiamo riuscirci se la defiscalizzazione inglese, per le nuove società, è all’85%, mentre da noi si ferma al 20), voi governanti v’incaricate di sgomberare il mercato dalle macerie giudiziarie, dai blocchi amministrativi, dai ricorsi infiniti e dalle 32mila stazioni appaltanti. Volesse il cielo. Ma sta accadendo il contrario.

Le nuove aziende cercano ambienti meno ostili, mentre le novità legislative, dall’abuso di diritto al falso in bilancio, sembrano fatte apposta per allargare la centralità togata. Qui occorre saper fare i conti non solo con la politica, ma, appunto, con la forza degli interessi. Gay ha detto che vogliono sporcarsi le mani. Bravo, è il modo migliore per avere la coscienza pulita. Ha anche detto che alle regionali tutti hanno perso, perché gli elettori hanno voltato le spalle alle urne. Secondo me anche perché ciascuno ha incassato una sconfitta della propria strategia (si fa per dire). Temo che non basteranno i guanti, ci vorranno anche gli stivali.

La crisi è davvero alle nostre spalle? – Editoriale di Massimo Blasoni

La crisi è davvero alle nostre spalle? – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Metro

Poche cose come i dati sulla disoccupazione scatenano dibattiti così accesi tra gli opinionisti: c’è chi annuncia “la fine della crisi” e “l’inizio della ripresa” e chi, invece, professa pessimismo spiegando che sono “dati congiunturali”. I numeri, però, difficilmente mentono e da quelli è opportuno partire. Va chiarito innanzitutto che i dati diramati l’altro ieri dall’Istat sono certamente positivi. Dopo 14 trimestri si inverte il mood negativo e questo è un segnale che fa ben sperare soprattutto alla luce dei 159mila occupati in più rispetto al mese precedente e di un numero di persone al lavoro che ritorna ai livelli, certamente non esaltanti, di fine 2012. Pur tuttavia rimangono sullo sfondo diversi elementi di criticità che andranno affrontati con molta serietà.

Continua a leggere su Metro.
Marino mette la patrimoniale sui condizionatori

Marino mette la patrimoniale sui condizionatori

Davide Giacalone – Libero

Hai un impianto di climatizzazione estiva o di riscaldamento invernale? Disgraziato, distruttore dell’ambiente, ricco profittatore. Ora, per penitenza, paghi una patrimoniale e vieni ginocchioni a darmene ricevuta, dopo avere scucito l’obolo alla società privata cui assegnai il compito di vigilare sul nulla. Il burocrate più socialmente utile è quello che non fa niente, il più nocivo quello che si trova una funzione. Vediamo, dunque, questa nuova incarnazione del satanismo.

Ricevo una lettera su carta intestata del comune di Roma: «Gentile Cittadino». Bene, cominciamo bene. Ma cadiamo subito: «desideriamo informarLa che, con riferimento a quanto in oggetto…». Fanno dei corsi appositi, per compitare in tal modo? Comunque, vogliono farmi sapere che «l’ATI CON.TE, organismo tecnico, ha attivato il servizio di censimento e controllo degli impianti di climatizzazione estiva ed invernale previsto dal D.Lgs. 192/ 2005, così come modificato dal Decreto Legge n. 63 del 4 giugno 2013 n. 90 del 03/08/2013». Chi siete? Che volete? Che cavolo di servizio è stato «attivato»? Che vi hanno fatto di male le virgole? Le congiunzioni non si mettono in quel modo, altrimenti ci si riferisce solo a impianti che riscaldano «ed» raffreddano.

Cerco e scopro che CON.TE è un soggetto privato cui partecipano Promoseco SME, Servizi Energia Ambiente e Italgas Ambiente. Troppo ambiente, è inquinante. Questi signori hanno vinto un appalto e ora vogliono mettere le mani sui miei impianti. E siamo già alle minacce: «Alla luce di quanto sopra, pertanto, Le richiediamo la trasmissione della dichiarazione di avvenuta manutenzione, entro e non oltre il 15 luglio 2015 (…) mediante l’invio di: 1. Rapporto di efficienza energetica (conforme all’Allegato III del Decreto Ministeriale del 10/02/2014), rilasciato da manutentore al momento del controllo; 2. Ricevuta di relativo versamento, il cui importo è stabilito in base alla potenza termica dell’impianto».

Quindi devo: a. chiamare i signori di CON .TE, altrimenti fanno senza di me; b. riceverli quando sono disponibili, perché si dà per inteso che tutti noi, come loro, non si abbia nulla da fare; c. pagarli, per il loro prezioso e per niente desiderato intervento; d. pagare una patrimoniale che sale al salire della potenza istallata. Ometto alcune spontanee considerazioni, come quella sulla burodemenza dell’«entro e non oltre». Esiste un entro che è oltre? Un oltre che è entro? Piuttosto fornisco qualche suggerimento, a gratis.

Mettiamo che siano utili questi controlli. Si fanno su impianti regolarmente installati (quelli irregolari manco li conoscono), con macchine regolarmente omologate, che ho pagato coni miei redditi, da cui sono già state detratte le imposte, con regolare fattura, quindi ho già pagato anche l’Iva. Chiedermi di pagare dell’altro è un insulto alla ragionevolezza. Poi, una volta che un manutentore autorizzato, vale a dire quelli che curano questi impianti, quasi sempre a nome dei produttori, quindi non necessariamente il vincitore di un appalto di cui non si sentiva il bisogno, viene e controlla, gli si mette a disposizione un bel sito del Comune, una bella banca dati degli impianti, sicché spunta on­line il mio nome e il mio indirizzo. Fine della trasmissione. I controlli così sono facilitati, visto che si dovrà pensare solo a chi non lo ha fatto. Questi, invece, vogliono non solo che anticipi la documentazione (e la ricevuta della patrimoniale) via fax o e.mail, ma poi devo recapitarla ai loro uffici, quelli di quei privati, e devo sempre conservarne una copia, da esibire tremulo al sopraggiungere del CONTE Tacchia.

Da diversi punti si può guardare Roma dall’alto. Fatelo con gli occhi del CON.TE: vedrete che moltissimi hanno i condizionatori o le caldaie, variamente inchiodati alle mura esterne di case e uffici, ma in alcuni punti si concentrano tumori del tetto, baluginanti impianti atti a riscaldare l’Antartide o rendere fresco il Sahara. Non vi potete sbagliare: sono uffici pubblici. Gli unici che non pagano per boccheggiare d’inverno e congelare d’estate, tanto che gli impiegati, prudentemente, tengono comunque la finestra aperta. Che manco ci sono più le mezze stagioni.

Questa storia dei bollini, infine, è una gran presa in giro. Si spaccia per utile, ma non lo è. Dice di difendere l’ambiente, ma lo peggiora. Portai la macchina a controllare i gas di scarico, così come previsto dalle norme. Arrivai, pagai e mi diedero il bollino da appiccicare al parabrezza. Scusate, chiesi, ma non controllate i gas? Il meccanico rispose, saggiamente: dotto’ ce pole mette ‘n tubo e ficcarlo nell’abitacolo, così more subitamente, i gas benefici non l’hanno ancora ‘nventati. Famolo sindaco.

Deficit democratico ed Europa: perché va bene così

Deficit democratico ed Europa: perché va bene così

Carlo Lottieri

Da più parti si ripete che uno dei problemi più urgenti da affrontare consisterebbe nel risolvere il cosiddetto “deficit democratico” che affligge l’Unione europea.
La tesi è la seguente. In Europa abbiamo istituzioni importanti e anche molto influenti sulla nostra vita (basti pensare che una larga parte delle normative nazionali sono in sostanza applicazioni di direttive comunitarie), ma in larga misura esso provengono da istituzioni che non sono state selezionate direttamente dai cittadini. Alcuni degli organismi europei sono addirittura apparati burocratici, ma anche quando si tratta di entità politiche – come nel caso della Commissione, che è una specie di “esecutivo” dell’Europa – la loro legittimazione è indiretta. Sono i governi nazionali, espressione del gioco democratico interno, a selezionare chi andrà a ricoprire il ruolo di commissario per conto di questo o quel Paese.
L’argomento usato da chi contesta il deficit democratico ha una sua fondatezza. I sistemi politici del nostro tempo fondano la loro legittimità (reale o presunta che sia) sul voto, e in questo caso è strano che l’unico organismo europeo eletto direttamente dagli europei, il Parlamento, continui a giocare un ruolo marginale. Bisogna però avere il coraggio di dire che va bene così e che superare questo deficit non può che peggiorare la situazione.
Quando si immaginano organismi politici selezionati dalla popolazione europea, grazie al voto dei circa 600 milioni che compongono l’Ue attuale, si dimentica che l’Europa, quale società, esiste solo in termini molto limitati. Non vi è alcun dubbio che esistono tratti che accomunano quanti vivono nel Vecchio Continente, ma è pur vero che le diverse storie e lingue pesano moltissimo. È difficile immaginare una vita politica che veda quali membri attivi – gli al fianco degli altri – i danesi e i portoghesi, gli irlandesi e i romeni, gli italiani e i finlandesi. Una cosa è chiara: nel mondo che conosciamo non esistono dibattiti condivisi che vedano confrontarsi le diverse popolazioni europee e per questo motivo non esiste, né può esistere, un’opinione pubblica europea.
In assenza di dibattito condivisi e di un’opinione, c’è da chiedersi come si possa avere un sistema politico unificato in grado di eleggere direttamente propri organismi.
Oltre a ciò, bisogna iniziare a riflettere sulla natura dell’Europa. E come spiega molto bene Jean Baechler ne Le origini del capitalismo (un volume degli anni Settanta che IBL Libri si appresta a ripubblicare) il tratto probabilmente più caratteristico dell’Europa è stato, storicamente, l’assenza di unità. L’Europa ha generato il capitalismo perché si è trovata a disporre, specie nella fase conclusiva del Medioevo, di un gran numero di giurisdizioni indipendenti e in concorrenza tra loro. Il potere politico era debole e questo ha favorito lo sviluppo di un’economia libera e forte.
La pretesa di colmare il deficit democratico è sensata entro gli schemi della politica otto-novecentesca, che vuole una diretta legittimazione popolare di ogni istituzione. Anche quando l’Italia ottenne il Veneto dalla Francia, nel 1866, il governo si sentì in dovere di far mettere ai voti un’annessione che, in realtà, era già stata stabilita. Furono plebisciti fasulli, come tanti storici hanno rilevato, ma quel che conta è che il Regno d’Italia avvertì l’esigenza di legittimare con il voto popolare quella modifica dei confini.
“Democratizzare” compiutamente l’Europa, però, ci porterebbe in una situazione poco favorevole alle libertà individuali e assai difficile da gestire. Se il Parlamento di Bruxelles e Strasburgo diventasse un Parlamento vero, in grado anche di esprimere autonomamente un governo, la complicata convivenza delle diverse realtà nazionali all’interno della Ue si farebbe ancor più problematica.
Probabilmente la situazione attuale non è accettabile ed è fonte di varie perplessità constatare come larga parte della nostra vita sia nelle mani di commissari europei venuti un po’ da chissà dove. Ma la soluzione non sta certo nella costruzione di un artificiale Stato europeo sempre più lontano e incomprensibile.
Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Davide Giacalone – Libero

È grave che l’Italia sia stata esclusa dal vertice europeo sulla situazione greca. Sono ridicoli quelli che vogliono sempre andare a battere i pugni da qualche parte, ma la nostra esclusione ha a che vedere con interessi vitali del Paese, mica con questioni d’etichetta o fasulla prosopopea. Il fatto che si siano visti i capi dei governi francese e tedesco, assieme ai vertici della Banca centrale europea e del Fondo monetario inoltre, non trova legittimità in alcun trattato europeo. In attesa di aggiornarli si dovrebbe rispettarli.

Qualche numero è utile a capire la nostra posizione, nonché l’inaccettabilità dell’esclusione. Il debito greco ammonta a 330 miliardi di euro. Il 60% è detenuto da fondi europei Efsf ed Esm. L’8% dalla Bce. Il 5% sono altri prestiti. Il 12% dal Fmi. Sommando le prime tre voci si arriva al 73%. Noi italiani siamo i terzi contributori di quei fondi e di quelle istituzioni, giacché si paga in ragione del prodotto interno lordo (Germania 27, Francia 20, Italia 18%). Già questo basterebbe e avanzerebbe per essere invitati non a colazione, ma a parlare di una Grecia la cui sorte ci riguarda tutti. Ma questi dati sono in parte ingannevoli, perché l’Italia è si il terzo creditore, ma, forse, è il primo netto.

Al momento del primo default greco (2010) i sistemi bancari erano cosi esposti rispetto al montante del debito greco: Germania 42%, Francia 32, Olanda 11, Belgio 8 e Italia 5. Quei titoli del debito greco non venivano acquistati per generosità, ma perché ad alto rendimento. Si pensava senza rischio, sbagliando alla grande. A quel punto i più esposti gridarono aiuto, altrimenti sarebbe saltato il sistema bancario europeo. Il primo fondo di salvezza (Efsm) fu finanziato con il meccanismo solito, quindi noi pagammo per il 18 del totale, essendo esposti per il 5%. Si disse che era sperimentale, ma poi quella regola restò. Quindi: sì, siamo i terzi creditori, ma considerato che il primo e il secondo sono quelli che hanno preso più soldi per le loro banche, è probabile si sia i primi netti. E stiamo fuori dall’uscio?

Poi c’è l’altra faccia della medaglia, ovvero il nostro mostruoso debito pubblico. Che è una colpa, Però è anche la ragione per cui siamo più interessati di altri. Il risalire degli spread (nonostante la morfina Bce) lo paghiamo noi più di tutti. E va anche detto che dal 2008 al 2013 l’incremento del valore monetario del nostro debito è stato del 24%, mentre quello tedesco è cresciuto del 30 e quello francese del 44. Il che contribuisce (solo in parte) a capire come abbiamo fatto ad avere la recessione più lunga e dura.

Dunque: sulla base di quale superiorità politica e in virtù di quale articolo dei trattati due governi europei trattano come cosa loro un problema collettivo? Hanno ricevuto un mandato? Da chi? Considerato che al tavolo sedevano una istituzione internazionale (Fmi) e due europee (Bce e Commissione), si sono prese decisioni, o anche solo orientamenti? Perché la loro legittimità non sarebbe dubbia, bensì inesistente. Dopo due guerre mondiali l’asse franco-­tedesco fu un bene, ma dopo la nascita dell’Unione europea e dell’euro (in particolare), quell’esclusività sa di usurpazione. Non è un modo per rendere più dinamica e autorevole l’Unione, ma per garantirsi l’esatto contrario, alimentando il vittimismo na­ zionalista di quanti si sentono prede della forza teutonica. Dall’Italia si lanciano appelli, a cominciare da quello del Presidente della Repubblica, affinché gli inglesi anticipino il loro referendum sull’Ue, previsto per il 2017. Ma perché? Capisco lo facciano francesi, spagnoli e tedeschi, che hanno varie scadenze elettorali, ma a noi converrebbe il contrario: usare la pendenza di quell’arma (così concepita dagli inglesi) per innescare negoziati seri e rivedere quel che non va nell’ingranaggio europeo. Si può essere per la fine dell’Ue e l’uscita dall’euro. Trovo siano errori, ma ne capisco il senso (temendo che sfugga a chi li propone). Da europeista, però, vedo quel che s’è inceppato e so per certo che se non riparato porterà tutto alla rovina, sicché, quando si tengono riunioni come quella di Berlino, mi domando se c’è ancora un governo italiano e se pensa, con calma, di dovere dire qualche cosa. Anche per non dare l’impressione che si taccia per avere indietro l’elemosina dell’elasticità sui conti, ovvero un favore da somari che aiuta il governo in quel momento in carica senza essere di alcuna utilità all’Italia.

L’escamotage: una rata unica per tutto giugno

L’escamotage: una rata unica per tutto giugno

Giuseppe Pennisi – Avvenire

La crisi greca sarà senza dubbio il tema che terrà banco al Consiglio della Banca centrale Europea in programma oggi. Ad Atene le casse sono vuote ed è improbabile che la Grecia sia in grado di pagare la rata di 303 milioni di euro dovuta al Fondo monetario entro il 5 giugno. Sarebbe di Carlo Cottarelli, che ha passato circa trent’anni al Fmi e rappresenta, nel Consiglio dell’istituto, un gruppo di Paesi tra cui la Grecia, l’idea che potrebbe dare un po’ di respiro ad Atene: combinare tutte le rate dovute in giugno (per un totale di 1,3 miliardi) e pagarle a fine mese. È una procedura adottata in alcuni casi in passato per Paesi molto indebitati e a basso reddito: l’ultima volta fu una quarantina di anni fa per lo Zambia. Forse l’orgoglio di Tsipras e Varoufakis (e di tanti greci) verrebbe ferito dall’essere trattati come il Paese dell’Africa australe. Tuttavia, se il sistema funzionasse e se nei prossimi giorni si arrivasse ad un accordo tanto sul debito quanto su nuovi finanziamenti, si tranquillizzerebbero anche i contribuenti italiani che hanno prestato alla Grecia circa 40 miliardi di euro, oltre il doppio di quanto stimato per la perequazione delle pensioni e un nuovo contratto nel pubblico impiego.

Tuttavia, la strada è irta e tutta in salita. In primo luogo si è arrivati al punto che il direttore del Fmi, Christine Lagarde, ha detto di avere perso la pazienza con le promesse (vaghe e senza esito concreto) di Tsipras e Varoufakis; per di più, la strumentazione econometrica del Fmi direbbe che l’uscita della Grecia dall’eurozona sarebbe ininfluente sui mercati mondiali ed europei. In secondo luogo, sempre al Fmi, la decisione improvvisa di sostituire il supplentevicario di Cottarelli (incarico spettante alla Grecia) con Elena Paranitis, una parlamentare del partito socialista ellenico non rieletta alle ultime elezioni e passata tra le file di Syriza; a rendere il tutto ancora più complicato, nel giro di 48 ore, proprio su richiesta dei maggiorenti di Syriza la nomina è stata ritirata, creando costernazione a Washington. In terzo luogo, in seno all’unione monetaria europea non ha fatto una buona impressione l’intervista di Tspiras a Le Monde in cui le difficoltà del negoziato sono state interamente addossate alle istituzioni di Bruxelles e al Fmi; non solo garbo, ma anche efficienza ed efficacia richiedono di mantenere il più stretto riserbo su trattative relative ad argomenti così delicati come debito e flussi finanziari aggiuntivi. In quarto luogo, all’interno di Syriza è in atto una vera e propria rivolta contro Tspiras, accusato di concedere troppo ai creditori – ciò spiegherebbe i temi dell’intervista a Le Monde. In breve, lo spiraglio che s’intravvedeva all’inizio della settimana scorsa ora sembra molto più stretto.