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L’Italia dei dipendenti pubblici. Boom di statali nelle regioni a statuto speciale. Ma anche quelle del Mezzogiorno sono oltre la media

L’Italia dei dipendenti pubblici. Boom di statali nelle regioni a statuto speciale. Ma anche quelle del Mezzogiorno sono oltre la media

La Notizia

Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su dati della Ragioneria Generale dello Stato e dell’ISTAT, evidenzia come le regioni a Statuto speciale siano quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare questa classifica è la Valle d’Aosta con 11.909 dipendenti, pari al 9,26% dei residenti. Significa che un valdostano su dieci (bambini e anziani inclusi) campa di denaro pubblico. A seguire il Trentino Alto Adige (78.868 dipendenti, pari al 7,50% dei residenti) e il Friuli Venezia Giulia (85.610 dipendenti, pari al 6,96% dei residenti). Subito dietro si collocano il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (396.865 dipendenti pari al 6,76% dei residenti) e un’altra regione a Statuto speciale come la Sardegna (109.066 dipendenti, pari 6,56% dei residenti). Per converso le regioni più grandi ed economicamente più sviluppate presentano tassi di presenza di dipendenti pubblici nettamente più bassi: 4,11% in Lombardia, 4,55% in Veneto e 4,92% in Piemonte. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, anche la Campania ha un rapporto non altissimo (4,99%) di dipendenti pubblici in rapporto ai suoi residenti e comunque minore di quello che si registra in Emilia Romagna (5,09%), nelle Marche (5,23%), in Umbria (5,49%) e in Toscana (5,51%).

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Partita tlc, lo Stato ne stia alla larga

Partita tlc, lo Stato ne stia alla larga

Davide Giacalone – Libero

La grande partita sulla rete per le telecomunicazioni somiglia alla rievocazioni in costume delle battaglie d’epoca: folklore. Ma la testa di molti è rimasta a quando Berta filava, sicché vorrebbero fregarle il rocchetto. La rete e i contenuti non sono l’uovo e la gallina, dovendosi stabilire da cosa nasce cosa.

La prima è un mero strumento, la cui utilità e ricchezza cresce al crescere dell’attrattività e ricchezza dei secondi. Non viceversa. Compriamo quel determinato smartphone o quel computer perché fornisce i servizi e apre l’accesso ai contenuti che ci interessano, o perché è di moda, ci infiliamo una sim o un cavetto solo perché altrimenti non funzionano. Ma scegliamo il terminale e i contenuti che ci finiscono sopra, non la rete. Che resta condizione necessaria al funzionamento, ma state certi che se la domanda cresce per i fatti suoi nessuno si porrà più il problema degli incentivi per allargare la rete, dacché i soldi li fornirebbe il mercato. Al contrario, invece, ragionare di rete senza ragionare di servizi e di modello di business è come volere una rete da pesca più grande e fitta per poi gettarla nella vasca da bagno: che ci peschi, la saponetta persa?

Per Telecom Italia la rete ereditata è un patrimonio. Il che già ne indica la vecchiezza. Ma nello scontro con alabarde e mazze ferrate, inscenato per la festa di paese, il governo ha pensato di metterla sotto scacco supponendo di poterne cancellare la propaggine finale, il doppino in rame. Se non fosse un’idea comica, contraria a quel che avviene in mercati più aperti alla competizione, sarebbe stata considerata una turbativa di mercato. Poi è sorta l’idea di far stendere la rete a Enel, cosa che ci ha portato a rievocare, qui, il disastro economico che la stessa idea provocò, a carico della medesima società, controllata e diretta dallo Stato. Non mi ripeto, ma trovo confortante che l’amministratore delegato, Francesco Storace, si sia chiesto: «a che servirebbe Enel nella rete?». A nulla. Lo si faccia capire anche al socialismo borsaiolo delle municipalizzate. La traduzione di “multiutility” non è “multioccupazione” di spazi. Né sarebbe superfluo far notare ai vertici della Cassa depositi e prestiti che essi non sono capitani di finanza, gestori di soldi che i clienti hanno fiduciosamente affidato loro, ma nominati dalla politica per amministrare soldi pubblici. Provino a star zitti almeno una settimana.

La larga banda è un bene? Sì. La banda ultra larga è un bene? Ultra sì. L’Italia è in ritardo? Purtroppo sì. E fa rabbia, perché eravamo all’avanguardia. Prima delle locuste. Ma il grosso svantaggio si concentra nelle connessioni che portano dentro le case e gli uffici. Invece di avviare una pianificazione nazionale non sarebbe meglio offrire agli interessati la possibilità di arricchire la loro abitazione e il loro luogo di lavoro? Voglio la larga banda, per farci quello che mi pare, quindi pago il filo che mi collega alla più vicina fibra o allaccio digitale. S’intende che avrò uno sconto in bolletta, visto che l’ultimo miglio l’ho fatto a piedi. Meno trippa collettivista, più libertà individuale. Da qui in poi si apre la gara vera: chi riesce a vendermi qualche cosa, che non siano le telefonate gratis, perché quelle le faccio di già, da anni. È su questo fronte che il mondo frizza di fusioni e incursioni d’innovatori.

Se, invece, passa il modello che tanto attizza ricorrentemente la politica, ovvero quello delle grandi reti srotolate per dire che ci sono, va a finire che l’investimento pubblico porta ricchezza a quelli che le useranno per farci affari: da Google ad Apple ad altri ancora, eroi del profitto e del marameo allo Stato. E mentre dalle autostrade ottiche m’entrano in casa Tir di merce che mi confina al mero ruolo di consumatore spenditore, il catasto continuerà a chiedermi la firma autenticata, l’anagrafe di andare a dimostrare che sono veramente io e il fisco mi manderà per posta i due codici identificativi, naturalmente diversi da quelli della motorizzazione, della scuola, della sanità, dell’Inps e cosi via delirando.

Invio questo articolo connettendo il computer al cellulare, da uno sperduto pizzo ove mi trovo per lavoro. So bene di non essere su una pista di Formula 1, ma è anche vero che non ha senso calzare il casco integrale per andare a comprare il latte. Larga la banda stretta l’idea, voi riducete le tasse che io spendo di tasca mia.

Dipendenti PA: in Italia sono il 14,42% degli occupati, record in Valle d’Aosta (21,78%) e nel Mezzogiorno.

Dipendenti PA: in Italia sono il 14,42% degli occupati, record in Valle d’Aosta (21,78%) e nel Mezzogiorno.

NOTA

Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su dati della Ragioneria Generale dello Stato e dell’ISTAT, evidenzia come le regioni a Statuto speciale siano quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare questa classifica è la Valle d’Aosta con 11.909 dipendenti, pari al 9,26% dei residenti. Significa che un valdostano su dieci (bambini e anziani inclusi) campa di denaro pubblico. A seguire il Trentino Alto Adige (78.868 dipendenti, pari al 7,50% dei residenti) e il Friuli Venezia Giulia (85.610 dipendenti, pari al 6,96% dei residenti). Subito dietro si collocano il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (396.865 dipendenti pari al 6,76% dei residenti) e un’altra regione a Statuto speciale come la Sardegna (109.066 dipendenti, pari 6,56% dei residenti). Per converso le regioni più grandi ed economicamente più sviluppate presentano tassi di presenza di dipendenti pubblici nettamente più bassi: 4,11% in Lombardia, 4,55% in Veneto e 4,92% in Piemonte. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, anche la Campania ha un rapporto non altissimo (4,99%) di dipendenti pubblici in rapporto ai suoi residenti e comunque minore di quello che si registra in Emilia Romagna (5,09%), nelle Marche (5,23%), in Umbria (5,49%) e in Toscana (5,51%).

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L’analisi territoriale è particolarmente interessante se effettuata anche con riferimento al totale dei soggetti occupati. Se in Italia i 3,2 milioni di dipendenti pubblici costituiscono il 14,49% dei lavoratori, l’analisi territoriale evidenzia situazioni molto diversificate. Anche in questo caso il record spetta alla Valle d’Aosta, con il 21,78% di dipendenti pubblici in rapporto al numero dei lavoratori occupati (più di 1 su 5). Subito dietro si colloca la Calabria, con il 21,58% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. Più in generale, in cima a questa classifica compaiono tutte le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale: Sicilia (21,11%), Sardegna (19,96%), Molise (19,37%), Basilicata (19,36%), Campania (18,54%) e Puglia (17,94%). In coda a questa speciale classifica si collocano invece due regioni del Nord: il Veneto (10,96%) e la Lombardia (9,71%).

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Rassegna Stampa
La Notizia
Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Massimo Blasoni – Il Giornale

Se avendo figli, ora bambini, ci chiedessimo dove andranno in futuro a lavorare credo ben pochi di noi penserebbero alle pubbliche amministrazioni, i cui organici hanno piuttosto bisogno di dimagrire. Dovranno essere le imprese a creare occupazione: magari anche nuovi lavori. Si stima che metà dei bambini di oggi faranno in futuro un lavoro che ora nemmeno esiste. Dunque l’occupazione e la crescita del nostro Paese dipendono in parte rilevante dalla possibilità di sviluppare le imprese esistenti e di farne nascere di nuove. Non pare, però, che il governo Renzi stia concretamente lavorando con questo obiettivo.
Rispetto ai principali partner europei un imprenditore italiano sconta molti punti di svantaggio. Partiamo dall’accesso al credito, che rimane difficile. Gli ultimi dati di Bankitalia registrano ancora un calo di prestiti del 2,2% sugli ultimi 12 mesi, ma soprattutto le rilevazioni Bce di marzo quantificano nel 3,40% il tasso medio complessivo per le imprese italiane contro il 2,83% delle imprese tedesche o il 2,61% delle imprese francesi. Non è poco. L’energia pesa sulle nostre imprese: il Chilowattora costa a una pmi italiana 18 cents, il 50% in più che in Spagna e il 100% in più che in Francia e il costo del lavoro resta tra i più alti in Europa. Si tratta di dati statistici che diventano però molto concreti nell’esperienza ­ lo dico da imprenditore ­ di chi ogni giorno deve produrre beni o servizi, scontrandosi con i problemi che abbiamo enumerato e molti altri.
Fatevelo spiegare da un imprenditore friulano che ha alle porte l’Austria o la Slovenia con un’imposizione fiscale di 1/3 inferiore o, chessò, da un imprenditore manifatturiero pugliese del distretto calzaturiero che deve vendere all’estero prodotti in concorrenza con Paesi, pur dell’Area Euro, con un costo del lavoro che è meno della metà come il Portogallo. L’edilizia non fa eccezione: il rilascio di un permesso di costruire in Italia richiede 233 giorni, in Danimarca sono 64. In generale, lo abbiamo stimato con il Centro Studi ImpresaLavoro, l’indice di imprenditorialità cioè la facilità di fare impresa­ ci colloca dietro tutti i nostri partner europei: l’Italia è ultima, per imprese create e opportunità percepite dagli imprenditori.
Resta poi il tema delle tasse. Vanno pagate, ovviamente. Tuttavia c’è da chiedersi se questo livello di imposizione fiscale sia sostenibile e se il patto tra Stato e impresa e cittadini non sia sbilanciato. Se una famiglia o un’impresa non pagano per tempo scattano Equitalia e le ganasce fiscali. Sarà a lungo possibile sostenere una tassazione alle imprese che nell’insieme, compresi i contributi ai lavoratori, raggiunge quest’anno il 65,4%? A tanto ammonta la cosiddetta total tax rate italiana: un dato lontanissimo da quelli del Regno Unito 33,7% o tedesco 48,8 per cento. Eppure, malgrado tutto, ci sono imprenditori che si battono e imprese che crescono magari nascendo da zero: ne guido una con 1.500 dipendenti di cui 200 assunti nel 2014.
Nessuno ha la bacchetta magica tuttavia il governo Renzi, tranne gli annunci, ha fatto ben poco per sostenere il sistema delle imprese. Non si tratta certo di elargire contributi ma di garantire l’opportunità di competere: il solo Jobs Act non basta. Liberalizzare, sburocratizzare, privatizzare non possono rimanere punti di un ordine del giorno che non si realizza mai.
Debiti, le aziende aspettano 70 miliardi

Debiti, le aziende aspettano 70 miliardi

Marco Valeri – Il Tempo

Lo Stato chiede soltanto. Ma non dà. O meglio, quando si tratta di pagare non è certo il più puntuale dei creditori. Una cosa che ovviamente fa infuriare i contribuenti che spesso, per versamenti fatti con qualche giorno di ritardo, si vedono recapitare multe salate. Eppure la realtà dei debiti saldati con ritardi di mesi è certificata dalla Banca d’Italia che smonta, di fatto, l’entusiasmo di Matteo Renzi che lo scorso anno aveva annunciato trionfalmente che avrebbe saldato tutti i conti della Pubblica amministrazione per la data del suo onomastico, ovvero il 21 settembre. In realtà già allora lo stock di debito nei confronti delle imprese era di circa 66,5 miliardi di euro a cui dovevano essere sottratti 31/32 miliardi già pagati. La tendenza era quella comunque di assicurare il saldo dell’arretrato entro la fine del 2014. Martedì scorso invece la sorpresa dal pulpito di Banca d’Italia.

La verità di Visco

Nelle stime presentate da Bankitalia nella «Relazione Annuale 2014», il debito commerciale della Pubblica amministrazione italiana nei confronti dei fornitori privati ammontava lo scorso 31 dicembre a circa 70 miliardi di euro. Un’informazione preziosa, dal momento che dallo scorso 30 gennaio la «Piattaforma per la certificazione dei crediti» del Mef non ha più aggiornato il monitoraggio del pagamento dei debiti maturati dalla Pa al 31 dicembre 2013. All’epoca il Governo sosteneva di aver pagato 36,5 miliardi su un totale di 74,2 miliardi di euro: poco meno della metà del dovuto.

Stato «lumaca»

Il dato fornito dai tecnici della Banca d’Italia non fa che confermare quanto denunciato già a febbraio dal Centro studi ImpresaLavoro e che fa parte del buon senso economico: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare, solo in parte, i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo:questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti che si creano risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pubblica amministrazione (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, il centro studi ha stimato che questo costo aggiuntivo per gli interessi sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).

La bomba interessi

A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infarti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti della Pa e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2,4 miliardi di euro.

Ultimi in Europa

Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito. La Cgia di Mestre guidata da Giuseppe Bortolussi spiega che «nonostante i tempi di pagamento nell’ultimo anno siano scesi di 21 giorni, secondo Intrum Iustitia nel 2015 la nostra Pa si conferma la peggiore pagatrice d’Europa, visto che salda mediamente i propri fornitori dopo 144 giorni, contro i 34 giorni medi che si registrano in Ue. Rispetto ai nostri principali partner economici, la Francia salda le proprie fatture dopo 62 giorni, i Paesi Bassi in 32 giorni, la Gran Bretagna in 24 giorni e la Germania dopo 19 giorni».

Gli italiani hanno un asso nella manica. Aumentare la percentuale di laureati e giocarsi il futuro sulla forza intellettuale

Gli italiani hanno un asso nella manica. Aumentare la percentuale di laureati e giocarsi il futuro sulla forza intellettuale

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Se si leggono con cura le 280 pagine del Rapporto Istat si nota un nesso poco trattato in documenti analoghi e nel dibattito di politica economica: il link tra mercato del lavoro, proprietà intellettuale ed istruzione. In primo luogo, in materia di indicatori salienti del mercato del lavoro e proprietà intellettuale, l’Italia appare in posizione asimmetrica rispetto al resto d’Europa. Il tasso di occupazione cresce (+0,2% nel 2014) ma meno della media europea e si assesta al 55,7% di coloro in età da lavoro (per raggiungere la media europea dovremmo avere tre milioni e mezzo di occupati in più). Siamo tre punti percentuali in meno di quanto rilevato nel 2008. Pure asimmetrica la contrazione degli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale che caratterizza l’Italia (-1,5% tra il 2008 ed il 2014); nello stesso periodo, gli investimenti in ricerca e sviluppo (una determinante degli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale) sono aumentati dell’11,8% nella media europea. Un dato importante soprattutto per la scuola di pensiero secondo cui fantasia ed ingegnosità ci tireranno comunque fuori dalla crisi. Senza investimenti in prodotti della proprietà intellettuale, l’occupazione resta al palo (sotto questo profilo i due indicatori sono simmetrici tra di loro, ma divergenti dal resto d’Europa).

Invece, il nesso tra occupazione ed istruzione, dopo una fase di incertezza (in parte da collegarsi con l’introduzione ed il rodaggio della nuova struttura – 3 + 2 – dell’istruzione di terzo livello), torna ad essere simmetrico sia con il resto d’Europa sia con l’Italia del passato. I lavoratori in possesso di laurea trovano un’occupazione più presto e sono pagati di più (le donne il 28,9% in più, gli uomini il 67,9% in più) di coloro con un diploma di scuola secondaria superiore. Ci sono naturalmente differenze su base territoriale e professionale. In breve, ciò vuol dire che studiare rende, e rende bene. Se dal generale si va al caso particolare dei dottorati di ricerca (di norma, la categoria maggiormente connessa agli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale), il Rapporto ci dice che a quattro anni dal conseguimento del dottorato, il 91,5% dei ‘dottori’ del 2010 e il 98% dei ‘dottori’ del 2008 sono occupati – oltre il 97% nelle aree disciplinari di ingegneria e informatica, ma anche l’88,7% e l’87,6 nelle discipline letterarie. Questi dati, da un lato, forniscono indirizzo su dove deve andare l’istruzione ma, da un altro, confermano che l’Italia ha almeno un ingrediente per migliorare la propria posizione in investimenti in proprietà intellettuale per uscire dalla crisi. Gli altri due – la liquidità ed i risultati operativi delle imprese – dipendono dalla Banca centrale europea e dalle capacità degli imprenditori.

Verso un sistema  previdenziale “europeo”

Verso un sistema previdenziale “europeo”

Giuseppe Pennisi – Formiche

Si può rimettere mano al sistema previdenziale tenendo in conto principalmente le esigenze delle giovani generazioni? Il tema è anche una chiave per la sopravvivenza dell’unione monetaria e della stessa Unione europea. Infatti, l’unione monetaria è stata concepita come un percorso a tappe obbligate per giungere a quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale, caratterizzata da effettiva mobilità dei fattori di produzione (capitale e lavoro), oltre che di beni e servizi. Anche ove si superassero difficoltà linguistiche e culturali, tale effettiva mobilità è impedita, per il lavoro – ora che si sono superate quelli attinenti strettamente al diritto del lavoro – a sistemi previdenziali  profondamente differenti in termini di accesso, livello, e amministrazione delle prestazioni (per citare gli aspetti più salienti). Sono il frutto di percorsi storici e sistemi di sicurezza sociale molto diversi.

Esiste, è vero, una rete (o meglio una ragnatela o un labirinto) di accordi bilaterali per le pensioni statali – o comunque pubbliche – oltre a una direttiva europea per facilitarne l’attuazione. Tuttavia, se un lavoratore dell’Ue, in caso di difficoltà di occupazione per la sua professione, richiesta invece in un altro Paese, si spostasse dove c’è domanda (come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti) subirebbe molto probabilmente una perdita secca (e anche forte) in termini di tutela previdenziale. Quindi, la sua mobilità verrebbe frenata. Con un costo, in termini di occupazione e reddito per l’individuo e di produttività, per l’intera Ue.

Come uscirne? Da circa 12 anni, la strada è stata tracciata in una conferenza internazionale, organizzata dalla Banca mondiale e dall’Istituto di previdenza sociale svedese (con folta ed attiva partecipazione di esperti italiani), e tenuta nell’isola di Sandhamn, nell’arcipelago baltico a circa un’ora di navigazione da Stoccolma. Il percorso è quello di una graduale convergenza dei vari Stati dell’Ue verso quello che, in gergo tecnico, viene chiamato un sistema Notional defined contribution (Ndc), in effetti un sistema contributivo figurativo, modellato su quelli messi in atto da Italia e Svezia, quasi contemporaneamente, pur se distintamente (e senza consultazioni o coordinamento) nella primavera del 1995. Da allora è adottato gradualmente da oltre una ventina di Stati, tra cui gran parte dei nuovi aderenti all’Ue.

Il messaggio principale delle maggiori organizzazioni è che, pur basate sull’Ndc, le pensioni statali o comunque pubbliche sono solamente una promessa che non potrà essere soddisfatta se il quadro economico non migliora in misura significativa, sempre in balìa di governi e parlamenti che guardano a riforme delle pensioni anche (ove non principalmente) per fare cassa.

Tale promessa, alle prese con un costante rischio politico, deve essere affiancata da fondi pensione anch’essi gradualmente europei, soggetti sì al rischio finanziario ma, se sufficientemente grandi e diversificati, in grado di minimizzarlo, cosa che non possono fare i 700 lillipuziani fondi pensione nostrani, tra quelli di vecchia e quelli di nuova generazione. Per di più, tali fondi andrebbero incoraggiati fiscalmente, non penalizzati (come si è fatto di recente) per essere in linea con standard, criteri e direttive europee (una seconda direttiva europea sulla previdenza complementare è in avanzata fase di preparazione).

L’Italia è stato uno dei primi due Paesi a mettere in atto un sistema previdenziale Ndc. Ha l’opportunità di avere un ruolo importante nella costruzione di un sistema previdenziale Ndc europeo, se effettua i correttivi necessari per incoraggiare la previdenza privata. Ovviamente, tenendo i conti previdenziali – pubblici o privati – ben distinti da spese assitenziali per anziani non capienti, che per loro natura devono essere a carico della collettività (come avviene nel resto del mondo), non si contribuisce alla previdenza per la tarda età.

Debiti PA: il ritardo dei pagamenti 2014 è costato alle imprese creditrici 6,1 miliardi

Debiti PA: il ritardo dei pagamenti 2014 è costato alle imprese creditrici 6,1 miliardi

NOTA

Secondo le stime presentate ieri da Bankitalia nella “Relazione Annuale 2014”, il debito commerciale della nostra Pubblica amministrazione nei confronti dei fornitori privati ammontava lo scorso 31 dicembre a circa 70 miliardi di euro.
Un’informazione preziosa, dal momento che dallo scorso 30 gennaio la “Piattaforma per la certificazione dei crediti” del Mef (http://www.mef.gov.it/focus/article_0003.html) non ha più aggiornato il monitoraggio del pagamento dei debiti maturati dalla PA al 31 dicembre 2013. All’epoca il Governo sosteneva di aver pagato 36,5 miliardi su un totale di 74,2 miliardi di euro: poco meno della metà del dovuto.
Il dato fornito adesso da Bankitalia non fa che confermare quanto denunciato a febbraio dal Centro studi ImpresaLavoro: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare (e solo in parte) i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.
Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, stimiamo pertanto che questo costo sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).

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A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti della Pa e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2,4 miliardi di euro.
Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra PA assume dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.
Osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro: «Questi dati assumono ancor più rilevanza se ricordiamo – come attesta il report “European Payment 2015” di Intrum Justitia – che il 38% delle nostre imprese si dichiara disposta a effettuare più assunzioni a fronte di un miglioramento significativo dei tempi di pagamento».

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Rassegna Stampa
Il Tempo
Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi

Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il 25 maggio sono stati distribuiti due documenti, del tutto distinti e distanti, ma tra i quali c’è un messo probabilmente non notato dagli autori. Il primo è un’analisi del piccolo ma dinamico Centro Studi ImpresaLavoro sulla dinamica della spesa pubblica negli anni delle varie e numerose spending review. Il secondo è il decreto legge sulla nuova società a partecipazione statale variamente chiamata “turnaround” (la svolta) o “salva aziende” e spesso considerata come una nuova Gepi.

I due testi si prestano a una lettura parallela o simultanea in quanto il primo (quello di ImpresaLavoro) fornisce la cornice in cui situare il secondo (la nuova società a partecipazione statale).

L’analisi di ImpresaLavoro sottolinea che, durante la crisi degli ultimi sette anni, la spesa pubblica in Italia è cresciuta in rapporto al Pil dal 47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti di 3,3 punti percentuali superiore sia alla media dei Paesi dell’Unione Europea UE (+1,6%) che a quelli della sola Area Euro (+2,6%).

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