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Più risparmi, ma la Crisi del credito non si allenta

Più risparmi, ma la Crisi del credito non si allenta

La Vita Cattolica

Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Friuli-Venezia Giulia ad imprese e famiglie sono scesi di 6,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei depositi presso le banche di 5,1 miliardi di euro: lo rende noto un report del Centro Studi ImpresaLavoro che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

Secondo l’istituto fondato da Massimo Blasoni, non si allenta quindi la morsa del credit crunch e questo nonostante il sistema bancario abbia ricevuto dal 2011 ad oggi fortissime iniezioni di liquidità. In parte si è trattato di trasferimenti effettuati dalla Bce ma una buona fetta di quelle risorse deriva dall’incremento del risparmio di famiglie e imprese.

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Banche: ImpresaLavoro, meno prestiti e più depositi nel 2014

Banche: ImpresaLavoro, meno prestiti e più depositi nel 2014

Udine20.it

Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Friuli Venezia Giulia a imprese e famiglie sono scesi di 6,3 miliardi di euro, rispetto a un aumento dei depositi di 5,1 miliardi. Il dato emerge da un report del Centro Studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

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Rai Way, comunicazioni arretrate

Rai Way, comunicazioni arretrate

Davide Giacalone – Libero

Rispondere all’offerta di acquisto dicendo che il governo aveva stabilito di tenersi il 51% non ha alcun senso, né legittimità. Ciò non vuol certo dire che la sola risposta legittima e sensata sia positiva, ma anche in caso di rifiuto si deve affrontare il tema che presiede all’offerta pubblica di acquisto e scambio, con cui Ei Towers chiede di acquisire il controllo di Rai Way. Cosa fare degli impianti e come valorizzarli. Il governo ci pensi bene, prima di rispondere. Il resto, a base di nazareni morti o risorti e pro o anti­berlusconismi, è reazione tipica degli orecchianti: non sapendo di che si parla, la buttano in caciara.

La prima cosa da capire è che il pluralismo televisivo e la libertà d’informazione non c’entrano niente. Non si confonda il postino con il contenuto del pacco. Le regole di funzionamento dei fornitori di rete, di quei soggetti che non fanno televisione, ma trasportano il segnale televisivo, sono fissate per legge. Il fatto che Rai e Mediaset abbiano entrambe due società delle reti (cosa che si riproduce anche per alcuni più piccoli) ha a che vedere con la storia, con il modo in cui il mercato s’è formato, non con le regole del suo funzionamento.

La seconda cosa è il 51%, che taluni credono sia stato deciso resti in mano pubblica. Non è così. Nel novembre 2014 la Rai portò in Borsa il 35% di Rai Way. Lo fece per compensare la riduzione del trasferimento del canone (nel senso che il governo ne trattenne una parte per altre spese). Prima di quel passo la Rai doveva essere autorizzata dall’azionista, che è il ministero dell’economia, vale a dire il governo. Il governo autorizzò una vendita non superiore al 49%. Tutto qui, mica è una legge. Ora c’è un operatore privato che offre di comprare almeno il 66,67% delle azioni. Non ha senso rispondere: avevamo detto di no, perché nessuno aveva offerto nulla e quell’indicazione si riferiva alla quotazione per far cassa e avere soldi per spesa corrente. Chi cita quel decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), quindi, ha le idee confuse.

Andando in Borsa, però, Rai Way non si limita a foraggiare il vorace ruminante di quattrini, ovvero la Rai, ma entra ufficialmente nel mercato. Il che comporta qualche conseguenza. Una di queste è che taluno offra di comprare. E ci siamo. Ma se non ha a che vedere con le televisioni e si lavora in un mercato regolamentato, perché chiede di acquistare quel che già ha? Ei Towers e Rai Way, infatti, fanno lo stesso mestiere. Risposta: a. nel caso minimo, perché gestendo più impianti, per più clienti, si creano sinergie che possono far diminuire i costi e crescere i profitti; b. nel caso massimo, il più interessante, perché le sinergie si allargano al settore delle telecomunicazioni.

Questo è il tema che il governo non può eludere: l’Italia delle comunicazioni è arretrata; eravamo all’avanguardia e abbiamo smesso, per lustri, di investire nelle reti di telecomunicazione; invece si è investito in quelle televisive; se pensiamo di recuperare gli squilibri digitali interni (digital divide) mediante gli investimenti degli operatori telefonici (con Telecom distrutta da politicanti e corsari), magari in fibra ottica, ci rivediamo fra dieci anni; se, invece, utilizzassimo le radiofrequenze digitali potremmo tagliare costi e tempi, offrendo in fretta soluzioni accettabili a imprese, scuole, sanità, cittadini. In ciò consiste la più ghiotta sinergia.

Anche in questo caso non ha senso che il governo risponda: ho deciso di tenermi il 51%. Vor­rebbe dire che non hanno capito la domanda. Possono rispondere: 1. no, lo facciamo da soli (poi, però, spiegano dove trovano i soldi e perché buttano via un premio del 52,7% rispetto al prezzo di quotazione, di soli tre mesi fa); 2. no, lo facciamo fare a un altro (poi raccontano scelto come e da chi finanziato); 3. no, perché c’è chi offre di più (nel qual caso il 51% si conferma la risposta sbagliata). La terza ipotesi è la sola ragionevole, ma ce n’è una migliore: 4. sì, ma se ti prendi tutto devi anche sottoscrivere impegni relativi a quantità e tempi degli investimenti, perché non ci serve trasferire una rendita, ma è bene che sia un privato a far rinascere l’Italia digitale.

Nel frattempo, giusto per non lasciare infezioni in giro, meglio chiudere l’assegnazione delle frequenze per televisioni e radio, in grave ritardo. Questo è il tema. Il governo ci pensi, mentre gli altri, in cortile, giocano con il pallone sbagliato.

La lezione di Ferrero per Renzi

La lezione di Ferrero per Renzi

Simone Bressan – Formiche

L’episodio è gustoso come un vasetto di Nutella. Lo riferirono i presenti ma da allora – passato di bocca in bocca – è possibile che sia stato confezionato con qualche variante, pur mantenendo intatti i suoi ingredienti principali. Alba, novembre 1994. Il neo presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si reca in elicottero per valutare i danni della tremenda alluvione che ha sconvolto tutto il Piemonte. Appena atterrato scorge tra gli spalatori di fango il cavalier Michele Ferrero, da molti anni uno dei principali inserzionisti delle sue televisioni commerciali. Gli si avvicina sorridente per stringergli la mano, ma questi lo guarda dritto negli occhi e replica secco: «Un presidente del Consiglio prima si reca in visita al Sindaco. Poi, se vuole, va a salutare gli amici». Una piccola storia che però molto rivela tanto del carattere di Berlusconi quanto di quello del grande industriale che da poco ci ha lasciati.
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L’Europa convalescente

L’Europa convalescente

Giuseppe Pennisi – Startmag.it

Il settimanale Americano “The National Review”, di orientamento conservatore, definisce l’Europa “Convalescente”. Cosa preoccupa oltreoceano dello stato di salute dell’UE? Su ‘The National Review’ , settimanale americano di orientamento conservatore , Michael Bird chiama l’Europa ‘convalescente’. I suoi strali sono orientati principalmente alla Gran Bretagna ma con riferimenti all’intera eurozona. E’ un segno di miglioramento in quanto in passato l’Unione Europea veniva chiamata ‘ il vecchio ammalato della comunità internazionale’.

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Quanto è liberale il programma di Tsipras?

Quanto è liberale il programma di Tsipras?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Alla fine delle lunghe notti di Bruxelles non sorge sempre il sole. Specialmente a febbraio, quando l’alba è di solito nebbiosa e piovosa. Lo era anche alle 16 del 24 febbraio quando l’Eurogruppo ha approvato il programma presentato dalla Grecia. Se non sorge sempre il sole, cosa si fa dopo giornate (e nottate) di negoziati? Prima di andare a riposare, gli eurocrati usano andare a “La Morte Subite” (un nome che è tutto un programma), una birreria aperta nel 1910 ubicata nel centro storico che è diventata ora ristorante di lusso. Lì si tracannano birra ed alcol più pesanti (oltre che vini di pregio) sino alle ore piccolissime.

L’ultima parola (tedesca)

La sera del 24 febbraio il commento più frequente era, in toni un po’ sprezzanti, “il nouveau bail à court terme avec la Grèce”, letteralmente “il nuovo contratto di locazione a breve termine con la Grecia”. Si sotto-intendeva che era stato firmato per stanchezza, che comunque alcuni Parlamenti nazionali (specialmente quello tedesco) hanno l’ultima parola, che Tsipras non riuscirà a tenere gli impegni con il resto dell’eurozona e, al tempo stesso, mantenere tranquillo il fronte interno.

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La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

Davide Giacalone – Libero

La sola spending review fatta è consistita nel tagliare il commissario incaricato di metterla a punto. Le sole spinte alla ripresa vengono da fattori esterni e le dobbiamo alle scelte della Banca centrale europea (altro che eurorigore). Gli 80 euro hanno funzionato egregiamente come messaggio elettorale, ma non hanno spinto i consumi, appesantendo invece la spesa pubblica, proprio perché non sono permanenti sgravi erariali e sono stati finanziati con aggravi fiscali. Così messe le cose c’è il serio rischio di vedere scattare le clausole di salvaguardia, messe a presidio dei conti pubblici e grazie alle quali il governo ha ottenuto il consenso delle autorità europee. Clausole che significano una sola cosa: ulteriore pressione fiscale. Tutte cose che i nostri lettori hanno già letto molte volte, ma che ora sono scritte anche nel «Rapporto sulle prospettive della finanza pubblica dopo la legge di stabilità», inviato dalla Corte dei conti al Parlamento.

Cose che noi abbiamo illustrato e temuto per tempo. Senza alcun compiacimento, semmai con rammarico. Sono le cose che portano a prevedere (dati della Commissione europea) una crescita dell’Italia inferiore alla metà della crescita dell’eurozona (0,65 contro 1,3%). Noi qui suoniamo e cantiamo l’inno alla fine della crisi e all’inizio della ripresa, ma si tratta di un risultato che dobbiamo al pezzo d’Italia che non ha  ai smesso di restare agganciato ai mercati globali, non ha mai smesso di vedere crescere le esportazioni (nel 2014, rispetto al 2013, in crescita del 2% verso il mondo intero e del 3,7 verso l’Ue), ma commettiamo il gravissimo errore, o cediamo al perfido trucco propagandistco, di misurarci solo con noi stessi, mentre ci si deve misurare con gli altri paesi, con i concorrenti. E mentre le nostre imprese concorrono bene con i loro simili, l’Italia concorre male, sprofondando più degli altri e poi crescendo meno degli altri. Perché? La spiegazione sta tutta nelle cose non fatte, nella spesa non rivista, nella burocrazia pazzotica, nell’incertezza del diritto, nelle tasse troppo alte. Abbiamo messo troppa zavorra sulle spalle dell’Italia che corre. Che non è stramazzata e ancora procede perché ha una forza straordinaria, ma non può reggere il ritmo di chi non viene salassato negli spogliatoi. Questo è quel che ci siamo sforzati di spiegare. Questo quel che la Corte dei conti certifica. Non se ne sentiva il bisogno, ma ora c’è anche il bollo dei contabili in toga.

Grazie alle politiche della Bce pagheremo, quest’anno, fra i 5 e i 7 miliardi in meno di interessi sul debito pubblico. Basta dare un occhio agli spread, che tre­quattro anni fa erano l’indicatore (falsato, lo spiegammo, ma reale) del nostro collasso, per rendersi conto che quelle politiche hanno avuto successo. Ma, da sole, non bastano. I tagli alla spesa pubblica, ricorda la Corte, sono previsti, dal governo, in 16 miliardi per il 2016 e 23 nel 2017. Con la legge di stabilità, per far tornare i saldi, se ne sono aggiunti altri 3 nel 2016. Come pensiamo di arrivarci se manca una politica coerentemente a ciò indirizzata? Anzi, andiamo in direzione opposta, come testimonia la gioia con cui s’è comunicata l’imminente assunzione di un’altra vagonata d’insegnanti, rigorosamente presi da quelle graduatorie che altro non sono se non testimonianza fossile dell’inefficienza pubblica, sicché avremo più spesa per meno (o, nel migliore dei casi, medesima) qualità.

Questo è l’andazzo, che difficilmente conduce verso i risultati annunciati. Sicché si passa alle misure d’emergenza già previste: tasse. Le quali, a loro volta, comprimono la crescita, contribuendo a spingerci sotto la metà di quella altrui. L’ossigeno viene da fuori, ma noi ne sprechiamo una parte per alimentare il fuoco che ci arrostisce le terga. La Corte fa due ulteriori osservazioni. Prirna: la si smetta d’indicare la lotta all’evasione come fonte di copertura delle nuove spese. Giusto, ne sento parlare da quando sono nato e se fosse anche solo lontanamente vero gli evasori fiscali dovrebbero essere protetti come il Wwf protegge i Panda, invece si moltiplicano come conigli. Seconda: l’elasticità concessa dalle autorità europee agevola il govemo. Vero solo apparentemente, perché fa perdere tempo. Anche questo lo abbiamo ripetuto cento volte: crea effetti illusori, lasciando correre l’infezione della spesa improduttiva. Il Rapporto morirà nei cassetti parlamentari. I problemi irrisolti s’incancreniscono, infischiandosene delle sceneggiate assembleari.

Caccia aperta al contribuente

Caccia aperta al contribuente

Carlo Lottieri – L’Intraprendente

Non può sorprendere più di tanto il dover constatare che, entro una classifica realizzata individuando una decina di Paesi rappresentativi delle varie aeree d’Europa, l’Italia finisca all’ultimo posto per lo scarso rispetto che riserva ai propri contribuenti. Grazie al contributo di ricercatori universitari di dieci diverse realtà (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera), il centro studi “ImpresaLavoro” ha esaminato il sistema fiscale in Europa e la conclusione a cui è giunto è che in un continente oppresso dalle imposte l’Italia si trova proprio in fondo alla classifica. La ricerca condotta dall’istituto friulano ha infatti individuato quattro fattori, diversamente pesati, e sulla base di questi (la pressione complessiva, l’ITR in relazione al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la semplicità delle procedure per l’adempimento degli obblighi tributari; la localizzazione e la responsabilizzazione del prelievo) ha stilato una graduatoria che pone la Svizzera al primo posto e l’Italia all’ultimo, un po’ peggio della stessa Francia.

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Una buona scuola anche se è privata

Una buona scuola anche se è privata

Giorgio Vittadini – Corriere sella Sera

Questa settimana sono attesi i decreti attuativi del pacchetto sulla «Buona scuola» con cui il governo intende «riscrivere le regole» del sistema formativo, come ha ribadito di recente il premier Matteo Renzi. Il progetto cerca di chiudere definitivamente l’annosa questione dei circa 123mila precari (obbligo imposto dall’Unione Europea), impiegando a questo scopo quasi tutti i fondi disponibili e lasciando ben poco ad altri obiettivi previsti nel piano, come la formazione degli insegnanfi o l’innovazione tecnologica. La proposta tocca anche altri punti importanti, come la carriera dei docenti legata al merito ma, nei complesso, avrebbe potuto essere più coraggiosa. Non bisogna dimenticare intatti che dalla scuola dipende chi saranno gli adulti di domani e come porteranno avanti la vita del Paese.

Studi internazionali certificano che una proposta formativa di qualità dipenda da: un progetto chiaro, condiviso, partecipato in modo attivo; un potere centrale che dialoga con le scuole flssando poche regole essenziali e controllando il raggiungimento degli obiettivi. Si tratta – alla radice – dei temi dell’autonomia, rimasti per lo più sulla carta a diciotto anni dalla legge 59 che sancì la trasformazione delle scuole in «istituzioni scolastiche dotate di autonomia gestionale e personalità giuiidica». Nemmeno il secondo principio essenziale all’evoluzione del sistema formativo, quello della parità scolastica, ha fatto passi avanti dalla legge 62 voluta ormai quindici anni fa dall’allora ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer, legge che, benché rimasta senza copertura finanziaria, ha equiparato scuole Statali e paritarie in un unico sistema pubblico.

Anche in tema di parità, studi comparati sui sistemi scolastici, insieme all’evidenza dei cambiamenti sociali in atto, mostrano come continuare a far coincidere «scuola pubblica» con «scuola gestita dallo Stato» sia ormai anacronistico e deleterio per il bene del servizio pubblico. Sistemi di scuole autonome e paritarie, di diritto pubblico e privato, sono concepiti ormai in tutti i Paesi avanzati per favorire una competizione virtuosa tra scuole in funzione della qualità e per costruire un sistema che valorizzi forza ideale, creatività ed energie presenti nel tessuto sociale, secondo il principio di sussidiarietà. È utile ricordare che in Italia le scuole paritarie sono promosse da ordini religiosi ma anche da laici di diverse estrazioni culturali e che il finanziamento pubblico della scuola privata è previsto è previsto in quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea garantendo l’accesso e l’iscrizione libera e gratuita per tutti i gli studenti.

È davvero arrivato il momento di dare una svolta. Non con grandi rivoluzioni, ma ad esempio a partire da una sperimentazione controllata, che preveda una autonomia piena, didattica, organizzativa e finanziaria delle scuole statali. E, per chi frequenta le paritarie, estendendo metodi di finanziamento già condivisi tra le diverse forze politiche, quali i voucher, i buoni scuola o altri contributi alle famiglie (attivi in diverse regioni tra cui Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia) e prevedendo la detraibilità fiscale delle rette pagate dalle famiglie. Questo permetterebbe senza traumi di continuare sul piano economico la strada intrapresa da Berlinguer su quello giuridico. E sarebbe un riconoscimento per i 2 miliardi e 680 milioni di euro che lo Stato risparmia grazie all’esistenza delle scuole paritarie con il loro milione di studenti. Nell’orizzonte delle riforme verso cui deve avviarsi il nostro Paese questo nuovo approccio alla scuola, prima o poi, dovrà essere intrapreso.