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Deficit democratico ed Europa: perché va bene così

Deficit democratico ed Europa: perché va bene così

Carlo Lottieri

Da più parti si ripete che uno dei problemi più urgenti da affrontare consisterebbe nel risolvere il cosiddetto “deficit democratico” che affligge l’Unione europea.
La tesi è la seguente. In Europa abbiamo istituzioni importanti e anche molto influenti sulla nostra vita (basti pensare che una larga parte delle normative nazionali sono in sostanza applicazioni di direttive comunitarie), ma in larga misura esso provengono da istituzioni che non sono state selezionate direttamente dai cittadini. Alcuni degli organismi europei sono addirittura apparati burocratici, ma anche quando si tratta di entità politiche – come nel caso della Commissione, che è una specie di “esecutivo” dell’Europa – la loro legittimazione è indiretta. Sono i governi nazionali, espressione del gioco democratico interno, a selezionare chi andrà a ricoprire il ruolo di commissario per conto di questo o quel Paese.
L’argomento usato da chi contesta il deficit democratico ha una sua fondatezza. I sistemi politici del nostro tempo fondano la loro legittimità (reale o presunta che sia) sul voto, e in questo caso è strano che l’unico organismo europeo eletto direttamente dagli europei, il Parlamento, continui a giocare un ruolo marginale. Bisogna però avere il coraggio di dire che va bene così e che superare questo deficit non può che peggiorare la situazione.
Quando si immaginano organismi politici selezionati dalla popolazione europea, grazie al voto dei circa 600 milioni che compongono l’Ue attuale, si dimentica che l’Europa, quale società, esiste solo in termini molto limitati. Non vi è alcun dubbio che esistono tratti che accomunano quanti vivono nel Vecchio Continente, ma è pur vero che le diverse storie e lingue pesano moltissimo. È difficile immaginare una vita politica che veda quali membri attivi – gli al fianco degli altri – i danesi e i portoghesi, gli irlandesi e i romeni, gli italiani e i finlandesi. Una cosa è chiara: nel mondo che conosciamo non esistono dibattiti condivisi che vedano confrontarsi le diverse popolazioni europee e per questo motivo non esiste, né può esistere, un’opinione pubblica europea.
In assenza di dibattito condivisi e di un’opinione, c’è da chiedersi come si possa avere un sistema politico unificato in grado di eleggere direttamente propri organismi.
Oltre a ciò, bisogna iniziare a riflettere sulla natura dell’Europa. E come spiega molto bene Jean Baechler ne Le origini del capitalismo (un volume degli anni Settanta che IBL Libri si appresta a ripubblicare) il tratto probabilmente più caratteristico dell’Europa è stato, storicamente, l’assenza di unità. L’Europa ha generato il capitalismo perché si è trovata a disporre, specie nella fase conclusiva del Medioevo, di un gran numero di giurisdizioni indipendenti e in concorrenza tra loro. Il potere politico era debole e questo ha favorito lo sviluppo di un’economia libera e forte.
La pretesa di colmare il deficit democratico è sensata entro gli schemi della politica otto-novecentesca, che vuole una diretta legittimazione popolare di ogni istituzione. Anche quando l’Italia ottenne il Veneto dalla Francia, nel 1866, il governo si sentì in dovere di far mettere ai voti un’annessione che, in realtà, era già stata stabilita. Furono plebisciti fasulli, come tanti storici hanno rilevato, ma quel che conta è che il Regno d’Italia avvertì l’esigenza di legittimare con il voto popolare quella modifica dei confini.
“Democratizzare” compiutamente l’Europa, però, ci porterebbe in una situazione poco favorevole alle libertà individuali e assai difficile da gestire. Se il Parlamento di Bruxelles e Strasburgo diventasse un Parlamento vero, in grado anche di esprimere autonomamente un governo, la complicata convivenza delle diverse realtà nazionali all’interno della Ue si farebbe ancor più problematica.
Probabilmente la situazione attuale non è accettabile ed è fonte di varie perplessità constatare come larga parte della nostra vita sia nelle mani di commissari europei venuti un po’ da chissà dove. Ma la soluzione non sta certo nella costruzione di un artificiale Stato europeo sempre più lontano e incomprensibile.
Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Massimo Blasoni – Il Giornale

Se avendo figli, ora bambini, ci chiedessimo dove andranno in futuro a lavorare credo ben pochi di noi penserebbero alle pubbliche amministrazioni, i cui organici hanno piuttosto bisogno di dimagrire. Dovranno essere le imprese a creare occupazione: magari anche nuovi lavori. Si stima che metà dei bambini di oggi faranno in futuro un lavoro che ora nemmeno esiste. Dunque l’occupazione e la crescita del nostro Paese dipendono in parte rilevante dalla possibilità di sviluppare le imprese esistenti e di farne nascere di nuove. Non pare, però, che il governo Renzi stia concretamente lavorando con questo obiettivo.
Rispetto ai principali partner europei un imprenditore italiano sconta molti punti di svantaggio. Partiamo dall’accesso al credito, che rimane difficile. Gli ultimi dati di Bankitalia registrano ancora un calo di prestiti del 2,2% sugli ultimi 12 mesi, ma soprattutto le rilevazioni Bce di marzo quantificano nel 3,40% il tasso medio complessivo per le imprese italiane contro il 2,83% delle imprese tedesche o il 2,61% delle imprese francesi. Non è poco. L’energia pesa sulle nostre imprese: il Chilowattora costa a una pmi italiana 18 cents, il 50% in più che in Spagna e il 100% in più che in Francia e il costo del lavoro resta tra i più alti in Europa. Si tratta di dati statistici che diventano però molto concreti nell’esperienza ­ lo dico da imprenditore ­ di chi ogni giorno deve produrre beni o servizi, scontrandosi con i problemi che abbiamo enumerato e molti altri.
Fatevelo spiegare da un imprenditore friulano che ha alle porte l’Austria o la Slovenia con un’imposizione fiscale di 1/3 inferiore o, chessò, da un imprenditore manifatturiero pugliese del distretto calzaturiero che deve vendere all’estero prodotti in concorrenza con Paesi, pur dell’Area Euro, con un costo del lavoro che è meno della metà come il Portogallo. L’edilizia non fa eccezione: il rilascio di un permesso di costruire in Italia richiede 233 giorni, in Danimarca sono 64. In generale, lo abbiamo stimato con il Centro Studi ImpresaLavoro, l’indice di imprenditorialità cioè la facilità di fare impresa­ ci colloca dietro tutti i nostri partner europei: l’Italia è ultima, per imprese create e opportunità percepite dagli imprenditori.
Resta poi il tema delle tasse. Vanno pagate, ovviamente. Tuttavia c’è da chiedersi se questo livello di imposizione fiscale sia sostenibile e se il patto tra Stato e impresa e cittadini non sia sbilanciato. Se una famiglia o un’impresa non pagano per tempo scattano Equitalia e le ganasce fiscali. Sarà a lungo possibile sostenere una tassazione alle imprese che nell’insieme, compresi i contributi ai lavoratori, raggiunge quest’anno il 65,4%? A tanto ammonta la cosiddetta total tax rate italiana: un dato lontanissimo da quelli del Regno Unito 33,7% o tedesco 48,8 per cento. Eppure, malgrado tutto, ci sono imprenditori che si battono e imprese che crescono magari nascendo da zero: ne guido una con 1.500 dipendenti di cui 200 assunti nel 2014.
Nessuno ha la bacchetta magica tuttavia il governo Renzi, tranne gli annunci, ha fatto ben poco per sostenere il sistema delle imprese. Non si tratta certo di elargire contributi ma di garantire l’opportunità di competere: il solo Jobs Act non basta. Liberalizzare, sburocratizzare, privatizzare non possono rimanere punti di un ordine del giorno che non si realizza mai.
Opinione pubblica ed egualitarismo nell’età di Facebook

Opinione pubblica ed egualitarismo nell’età di Facebook

Carlo Lottieri

Un dato fondamentale del nostro tempo è la crisi dell’editoria periodica per come la conoscevamo. Si tratta di una crisi profonda che riguarda quasi tutti i quotidiani (dopo che i settimanali sono quasi scomparsi da anni) e che va ben al di là dei pur massicci licenziamenti di redattori e del crollo verticale delle vendite. Il cambiamento del costume e il fatto che si vedano sempre meno quotidiani spuntare dai tasche dei soprabiti sono accompagnati da una serie di conseguenze molto importanti.
I motivi della crisi sono numerosi, ma certamente uno dei principali è l’imporsi di internet (dove è possibile reperire, gratuitamente, una gran massa di informazioni e commenti), insieme al successo dei social network. La trasformazione è profonda e ha ricadute rilevanti sull’economia, sulla vita sociale, sulla politica. Se il giornalismo è stata una delle attività cruciali del ventesimo secolo (veniva dalla carta stampata, ad esempio, Benito Mussolini e ha ruotato a lungo attorno al giornalismo molta parte della vita politica), oggi questo universo sembra progressivamente sprofondare, insieme alla stessa idea degli opinion leader.
Con la disfatta del giornalismo sembra infatti ridursi sempre di più lo spazio di chi storicamente s’incaricava di offrire un punto di vista “ragionato” e aiutava, in tal modo, l’emergere di un’opinione pubblica sufficientemente consapevole. Per decenni “The Times”, “Le Figaro” o il “Corriere della Sera” hanno permesso ogni mattina di avere un’interpretazione dei fatti e della società con cui confrontarsi. L’idea era che l’analisi giornalistica e la riflessione sviluppata nei fondi e nei commenti aiutassero ad affrontare i problemi con razionalità e spirito critico.
Nell’età della rete, però, quanto scrivono gli opinionisti di larga fama sembra interessare sempre meno. Se il giornalismo si basava sull’autorevolezza di alcune testate e di taluni autori, nell’epoca della rete sembra che viga l’eguale dignità dei differenti punti di vista. Ognuno – in Twitter, in Facebook o altrove – dice la propria e al più cerca le opinioni degli amici, per confrontarsi e dialogare. Tutto progressivamente si appiattisce e delinea alla fine uno scenario in cui possono imporsi senza problemi le teorie economiche o scientifiche meno difendibili.
In fondo, il vecchio giornalismo nasceva dalla modestia di una società borghese colta che non si riteneva in grado di dire la propria su tutto, non pretendeva di sapere ogni cosa anche senza avere visto niente, confidava nella qualità di alcuni quotidiani e professionisti. Per citare solo un caso, i “montanelliani” erano persone che in primo luogo conoscevano i propri limiti e poi, in seconda battuta, apprezzavano l’arguzia e l’intelligenza dello scrittore toscano.
Il protagonismo generalizzato dei nostri tempi sembra “liberante” e in parte lo è, ma comporta pure problemi. È certamente positivo nei social network si abbiano confronti e discussioni, e che sia possibile per chiunque esprimere la propria opinione, ma se questo toglie tempo e spazio ad analisi non superficiali è facile che la conseguenza principale sia il venir meno di ogni ostacolo di fronte a quanti vogliono affermare demagogia e complottismo.
Durante il secolo ormai alle spalle spesso i giornali sono stati confezionati male, utilizzati a fini politici, piegati agli interessi di questo o quel gruppo. La barriera che si poneva dinanzi a quanti volevano esprimersi e comunicare ha avuto più volte effetti deprecabili. Era però in qualche modo positiva l’idea (più un ideale che un fatto, ma un ideale comunque non banale…) che il pulpito della comunicazione fosse almeno in parte esclusivo, riservato a pochi, da utilizzarsi con grande cura.
Non ha alcun senso ritenere che siamo sempre e in ogni occasione eguali, perché non posso pensare che quanto so in tema di cellule staminali abbia lo stesso valore di quanto conosce chi questi temi li studia da una vita. Non basta dare un microfono in mano a chiunque perché si possa assistere al costituirsi di un’opinione pubblica improntata a ragionevolezza e buon senso.
Non c’è alcun dubbio che in passato molti opinion leader siano stati poco onesti e inadeguati. È difficile pensare che la totale assenza di opinion leader sia però la soluzione al problema.
Lavoro, il Jobs Act non basta

Lavoro, il Jobs Act non basta

Massimo Blasoni – Metro

I dati incoraggianti sulle assunzioni e il saldo positivo tra queste e i licenziamenti nel primo trimestre dell’anno, resi noti dall’Inps, non significano purtroppo che il numero complessivo degli occupati stia crescendo. Questi ultimi infatti sono calati di 111.000 unità tra dicembre 2014 e marzo 2015, come impietosamente segnala il rapporto Istat.
L’arcano è presto spiegato. Il dato Inps si riferisce alle comunicazioni obbligatorie delle aziende su assunzioni, cessazioni e trasformazioni relative al solo lavoro dipendente e para subordinato del settore privato. Non si quantifica il numero degli occupati e una persona può avere più contratti nello stesso periodo. Per altro non si tiene conto di lavoratori pubblici e autonomi come invece accade nell’indagine Istat, che fotografa il numero effettivo degli occupati. Il dato Inps sulle assunzioni è poi ovviamente condizionato dai numerosi contratti trasformati in tempo indeterminato sulla scorta dei contributi del Jobs Act.
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La folle guerra dell’Europa ai paradisi fiscali

La folle guerra dell’Europa ai paradisi fiscali

Carlo Lottieri

Da qualche tempo una commissione appositamente costituita da parte del Parlamento europeo sta conducendo indagini al fine di valutare in che modo taluni Paesi europei (Lussemburgo, Belgio, Regno Unito, Svizzera e altri ancora) stiano violando le regole comunitarie, sottoscritte anche da chi – come la federazione elvetica – ha firmato accordi bilaterali. L’idea di fondo è che talune normative tributarie di questo o quel Paese europeo sarebbero state elaborate al fine di attirare capitali e investimenti.
Sembra, insomma, che si debba considerare “sleale” il comportamento di cerca di mantenere entro ben precisi limiti l’entità della tassazione, rendendo difficile la vita agli Stati più esosi. Buona parte di questa agitazione è conseguente allo scandalo che ha visto coinvolto Jean-Claude Juncker, attuale presidente della Commissione europea e per molti anni figura cruciale del piccolo principato lussemburghese. Al di là delle circostanze del momento è comunque un segno dei tempi che buona parte della classe politica del Vecchio Continente sembri ossessionata dalla volontà di alzare le imposte là dove sono basse, invece che preoccuparsi di ridurle dove sono divenute ormai insopportabili.
Una quota significativa (sicuramente maggioritaria) del ceto dirigente europeo ritiene che non vi siano limiti alle pretese del potere pubblico, determinato a spremere quanto più sia possibile le imprese e le famiglie. Per questo vengono messe sotto accusa, allora, quelle multinazionali che dislocano nei diversi Paesi le attività e i profitti tenendo in grande considerazione i diversi regimi tributari. Esattamente come ognuno di noi compra un prodotto nel negozio A e un altro nel negozio B, molte corporation con attività in varie aree del mondo valutano i loro progetti di crescita e insediamento anche sulla base del principio che collega tra loro i costi e le opportunità. Se non facessero così, i prezzi dei prodotti e servizi che esse offrono sarebbero molto più alti.
È comunque interessante come la lotta ai paradisi fiscali, e a difesa degli inferni fiscali, si basi in larga misura su una manipolazione del linguaggio. Poiché il mainstream statalista ritiene che ogni euro sia potenzialmente del potere pubblico e che questi abbia il diritto di rivendicarlo, la riduzione delle imposte è presentata come un “aiuto di Stato”, come “concorrenza sleale”, come collaborazione in un’attività sostanzialmente criminale che è orientata a “evadere l’obbligo della contribuzione fiscale”.
Tutto questo è molto preoccupante, dal momento che il chiaro disegno politico di chi combatte le politiche fiscali attrattive – e che negli scorsi, ad esempio, mise sotto processo la crescita impetuosa dell’Irlanda, un tempo terra di povertà ed emigrazione – è arrivare a un’armonizzazione crescente delle politiche fiscali. Su “La Repubblica”, ad esempio, Nicola Acocella ha sostenuto la necessità “di maggiore uniformità nella conduzione delle politiche fiscali, oltre che in materia di regolamentazione finanziaria, politiche industriali e del lavoro e di progetti comuni”. D’altra parte, se adottare una tassazione inferiore significa essere sleale verso chi chiede di più (e attrarre capitali e imprese) è chiaro che l’unica maniera per uscire da questa situazione consiste nell’avere – prima o poi – un regime fiscale identico in ogni parte d’Europa. Ovviamente non si tratterebbe di estendere all’intero continente la fiscalità della Svizzera o del Lussemburgo, ma invece di innalzare tutti i regimi tributari al livello dei più esigenti.
Già oggi molti dicono che non è possibile avere una politica monetaria comune, grazie all’euro, e poi avere differenti politiche fiscali, regole del lavoro disomogenee, sistemi previdenziali differenziati. Ma la battaglia condotta contro i paradisi fiscali – a difesa del socialismo europeo di destra e sinistra – è allora solo una componente (tra le altre) di una più generale battaglia contro le libertà individuali e contro le logiche dell’autogoverno.
Un’Europa che declina a causa dello statalismo (della pressione fiscale, della regolazione asfissiante, dell’intreccio tra politica ed economia) chiede oggi sempre più stato e sempre più dirigismo, provando a soffocare le ultime aree di resistenza e gli ultimi spazi di libertà. Per questa ragione, quanti sono fedeli alle ragioni del liberalismo classico dovrebbero battersi a difesa della concorrenza istituzionale e fiscale tra governi, guardando ai paradisi fiscali non già come a realtà da combattere, ma modelli da imitare.

 

Lavoro, un Paese che tassa troppo

Lavoro, un Paese che tassa troppo

Massimo Blasoni – Metro

Al netto della “narrazione” cara al premier Renzi, in Italia il carico fiscale sul lavoro non accenna a diminuire. Tra il 2013 e 2014 è addirittura aumentato del +0,4%, toccando il livello record del 48,2% rispetto al costo del lavoro: significa che quasi metà di quanto gli imprenditori pagano per le buste paga dei lavoratori se ne va in tasse e contributi sociali. La nostra elaborazione degli ultimi dati Ocse dimostra come l’Italia sia l’unico grande Paese europeo che registra una crescita consistente del cuneo fiscale. Quest’ultimo, infatti, diminuisce in Francia (-0,4%) e Regno Unito (-0,3%) mentre resta sostanzialmente invariato in Germania (+0,1%) e Spagna (0,1%).

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Le pensioni di domani tra Stato e privato

Le pensioni di domani tra Stato e privato

Carlo Lottieri – La Provincia di Como

La recente sentenza della Corte costituzionale, che ha ripristinato gli aumenti per le pensioni superiori ai 1.400 euro, ha riportato la questione previdenziale al centro dell’attenzione e sta di nuovo obbligando a porre mano all’intero sistema delle pensioni: troppo costoso e basato su logiche difficilmente giustificabili sulla base di criteri di giustizia.

Nell’immediato, il governo sarà costretto a trovare risorse che permettano di soddisfare (almeno in parte) le richieste della Consulta. Questo però non basta. Più in generale è bene comprendere che il passaggio che ebbe luogo una ventina di anni fa dal sistema detto “retributivo” a quello “contributivo” non è in grado di garantirci un futuro, dal momento che non si è usciti da quello schema che vede i lavoratori attuali pagare la pensione dei lavoratori del passato, ormai anziani. Per giunta la demografia ci condanna, dato che l’età della vita si è allungata proprio mentre crollava l’indice di fertilità. Lo scenario futuro vede pochi giovani che dovranno mantenere tantissimi anziani.

La gestione pubblica delle pensioni è stata costruita operando una collettivizzazione dei risparmi destinati a sorreggere la nostra terza età. I lavoratori sono stati costretti a destinare le loro risorse all’Inps e a istituti simili, che non hanno accantonato e investito tali capitali, ma li hanno usati per soddisfare le esigenze dei pensionati presenti e anche per altre esigenze “sociali”. Ora però i conti della previdenza non tornano e sono necessarie misure drastiche, che si aggiungano alle varie riforme degli ultimi anni.

Al tempo stesso, se l’economia non si mette in moto è impossibile che vi siano risorse per garantire una vita decente alla popolazione anziana, ma con questi prelievi fiscali e previdenziali è difficile che si possa avere una qualche ripresa.

Entro tale quadro molti si rendono conto dell’esigenza di passare da un sistema previdenziale “politicizzato” (pubblico, statale) a uno basato sulla responsabilità di singoli in grado di controllare direttamente i loro accantonamenti. È questo in particolare il tema dei fondi privati e della previdenza complementare.

Non è un caso, però, che oggi soltanto una minoranza dei lavoratori (meno di un terzo) stia costruendo una pensione complementare: un po’ perché l’insieme del prelievo fiscale e contributivo è già molto alto, e quindi i giovani non hanno risorse da destinare a una pensione ulteriore, ma anche perché c’è poca fiducia. Il modo in cui negli scorsi anni il legislatore è intervenuto a modificare le regole fiscali in materia di previdenza privata oppure ha annullato l’autonomia delle varie mutue professionali ha insegnato che in questo ambito regna un arbitrio che non promette molto di buono.

Pure in tema di pensioni, insomma, c’è bisogno di più diritto e meno politica. In altri termini è necessario che vi siano regole precise, semplici, di lunga durata, sottratte alla volubilità di governi e legislatori. Questo è importante non soltanto per aiutare l’economia a rimettersi in moto, ma anche per favorire quella fiducia che è necessaria a far crescere una previdenza nuova e direttamente nelle mani dei lavoratori.

C’è un legame tra Renzi e i black bloc?

C’è un legame tra Renzi e i black bloc?

Carlo Lottieri

A qualcuno può anche sembrare che la devastazione per le strade di Milano causata dai gruppi dei centri sociali porti soltanto acqua al mulino di Matteo Renzi, che d’altra parte è stato uno dei bersagli polemici di quella violenza di strada. Ed è possibile che, nel breve periodo, in qualche modo sia così e che qualche elettore arrivi a pensare che per sconfiggere la sinistra estrema (anche al di là dei black bloc) si debba puntare su questo ex-democristiano riuscito abilmente a mettere le mani su quanto rimane del vecchio Pci.
A ben guardare, però, la relazione tra renzismo e black bloc non è solamente di opposizione: come si capisce subito dalla lettura della “Carta di Milano” prodotta per iniziativa di questo governo e che l’esecutivo ha in vari modi esaltato. Quello stucchevole miscuglio di decrescita, ecologia, dirigismo e pauperismo che è appunto la Carta presentata nell’imminenza di Expo deve farci riflettere, perché il rapporto tra la sinistra in doppiopetto e quella di piazza esiste senza alcun dubbio e non va dimenticato.
I nostri giovani – a scuola, alla televisione, sui giornali – sono ogni giorno nutriti di una visione distorta della realtà proprio perché da decenni a dominare sono culture ostili al mercato e alla libertà individuale. Quello che la sinistra vuole realizzare è la sconfitta del capitalismo selvaggio e l’edificazione di una società senza diseguaglianze. Quanti hanno distrutto le vetrine di corso Magenta sono cresciuti in un mondo che ritiene normale togliere ai produttori la metà e anche più della ricchezza che realizzano in un anno. E anche per questo non si sentono affatto in colpa di aver sottratto qualche migliaia di euro a chi vende abiti costosi o gioielli.
È ovvio che non vi sia alcuna responsabilità diretta da parte di Renzi per le devastazioni del Primo Maggio, ma è egualmente vero che l’Italia di sinistra (cattocomunista, azionista, progressista, socialdemocratica ecc.) nel corso del tempo ha posto le basi per una contestazione crescente della proprietà e del mercato. E non c’è da stupirsi quando i figli sono un poco più violenti e più coerenti dei padri.
Se la mentalità contemporanea prevalente, che Renzi interpreta tanto bene, vede nelle diversità un’ingiustizia, quelli che il premier ha chiamato “teppistelli” ne traggono le conseguenze. Perché non si può mettere costantemente sotto accusa le logiche del profitto e poi immaginarsi che non succeda nulla.
Bisognerebbe allora iniziare a capire come l’estremismo di coloro che usano le molotov per cercare di sbriciolare le istituzioni del capitalismo liberale aiuti anche a comprendere quanto veleno vi sia nel moderatismo della sinistra governativa. L’immobilismo di chi non fa nulla per ridurre la costante crescita del debito pubblico e anche della tassazione viene talvolta accompagnato da una specie di retorica liberale, ma più spesso è giustificato dal persistere di quello statalismo che la Carta di Milano ha esaltato sotto vari aspetti principali.
È allora chiaro che o si riesce a contrastare il blocco sociale post-comunista e post- democristiano che sorregge Renzi e definisce in larga misura la cultura prevalente, oppure non cambierà nulla. Lo Stato continuerà a dilatarsi e molti dei nostri giovani riterranno di essere vittime di un qualche capitalismo selvaggio che esiste soltanto nei loro sogni e nei testi con cui vengono introdotti alla conoscenza della realtà.
Renzi vale quel che vale, prova a tirare avanti e in qualche rara occasione riesce perfino a muoversi nella giusta direzione. Ma la sua cultura è tanto intrisa di dirigismo che a ben guardare non è affatto così lontano da quanti l’hanno contestato nelle strade milanesi.
Chi desidera vivere in una società più libera e basata sull’economia capitalista deve sapere costruire un’alternativa sia a Renzi, sia alla sinistra radicale. Il mondo non può essere fatto di molte sfumature del rosso: bisogna invece cercare di dare spazio ad altri colori e a diversi modi di esaminare la realtà sociale.