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È inaccettabile fallire per 200 milioni (non) dovuti a Equitalia

È inaccettabile fallire per 200 milioni (non) dovuti a Equitalia

Massimo Blasoni – Libero

Conoscevo l’imprenditore Riccardo di Tommaso, un uomo della mia terra che insieme alla madre Teresa aveva aperto nel 1975, a San Giorgio di Nogaro, un negozio di abbigliamento che doveva semplicemente servire a finanziare i suoi studi universitari. Senza confidare in altro che non nella sua tenacia, in pochi anni era invece riuscito a trasformare quell’intuizione nel Gruppo Bernardi (il cognome appunto di sua madre), con centinaia di punti vendita in tutta Italia e nel mondo.
All’indomani della sua morte prematura nel 2010, il gruppo è poi passato nelle mani della moglie e dei due figli. È vero che negli ultimi anni stava vivendo qualche difficoltà a causa della grave crisi internazionale, ma questa situazione si sarebbe potuta superare grazie all’intervento del gruppo Coin, che in quel momento stava trattando l’acquisizione dei suoi negozi. A compromettere il piano di salvataggio è stato però l’arrivo di una cartella esattoriale monstre di 200 milioni di euro che contestava mancati versamenti Iva e Irap, con conseguente pignoramento della somma contestata eseguito proprio presso il fornitore Coin. Il sistema bancario ha poi subito bloccato ogni tipo di accesso al credito.
Da qui il fallimento, dovuto non a incapacità commerciale ma all’intervento improvvido della cieca burocrazia fiscale. Oggi veniamo infatti a sapere dalla stampa che quella cartella dell’Agenzia delle Entrate era illegittima, niente altro che un errore marchiano: quei denari non erano dovuti. Chi risarcirà adesso il danno di un’impresa che non c’è più e di centinaia di dipendenti rimasti senza lavoro? E soprattutto, quante altre realtà imprenditoriali si trovano in questo momento nella stessa situazione? Qui nel Nord Est c’è gente che nella sua azienda ha messo tutta la sua vita, che partendo dalla classica fabbrichetta in un capannone ha saputo conquistare i mercati internazionali.
Eppure troppe volte quel sogno viene infranto non dalla crisi ma dagli eccessi di una burocrazia che decide di passare sopra a tutto e a tutti.
Imprese, mercato e concorrenza istituzionale

Imprese, mercato e concorrenza istituzionale

Carlo Lottieri

In più occasioni viene richiamata l’attenzione su un fatto: e cioè che sono i Paesi di più piccole dimensioni e anche quelli a struttura federale a offrire le condizioni migliori per la creatività imprenditoriale e per il successo delle società. Dove abbiamo piccoli principati o minuscoli cantoni è anche facile trovare bassa tassazione, limitata regolazione, una burocrazia più semplice e meglio funzionante. Entro quel quadro istituzionale la vita delle aziende è assai semplice: nell’interesse di tutti.
Una delle ragioni fondamentali sta nel fatto che le piccole giurisdizioni non possono essere protezionistiche e le imprese di quei territori, quindi, nei fatti si trovano a operare entro un mercato di vaste dimensioni. Il protezionismo è un errore sempre, ma si tratta comunque di una strategia che più facilmente può venire adottata da un Paese di 60 milioni di abitanti invece che da uno di poche centinaia di migliaia, dato che quest’ultimo è largamente dipendente da produttori “esterni”.
Oltre a questo c’è un altro fattore: spesso sottovalutato. Si sa che le imprese crescono entro il mercato e grazie alla competizione: un’impresa cerca sempre di migliorare perché sa che la propria clientela può in ogni momento lasciarla se i propri beni o servizi non sono all’altezza. Senza questa concorrenza non vi sarebbe sviluppo dei prodotti e non vi sarebbe alcuna qualità.
Questo è vero anche per i governi, che quando si prendono cura di territori minuscoli sono sotto la pressione competitiva delle giurisdizioni vicine. Se un cantone svizzero alza le imposte e offre cattivi servizi, per un’azienda basta spostarsi di pochi chilometri per trovare – entro il medesimo universo linguistico e culturale – tasse inferiori e regole più adeguate. Una pluralità di centri di governo responsabilizzati, chiamati a gestire le risorse che ottengono dai loro cittadini, crea una situazione assai simile a quella del mercato e produce – analogamente – tanti benefici.
Se si considera che la Svizzera è più piccola della Lombardia ed è divisa in 26 tra cantoni e semi-cantoni, è facile comprendere come a Basilea non possano troppo alzare le tasse e infittire la regolamentazione perché questo provocherebbe con ogni probabilità uno spostamento di imprese nel vicino cantone di Zurigo. La strategia detta di exit è facilmente praticabile quando il quadro istituzionale è frammentato e questo rappresenta un freno molto serio di fronte alle pretese dei governi di farsi tirannici.
Se l’accrescimento della concorrenza istituzionale è il principale pregio dei Paesi di limitate dimensioni, ve ne sono però anche altri. In un Paese come il Lussemburgo, che ha meno di 500 mila abitanti, operare massicce e durature redistribuzioni è assai difficile, poiché nel faccia-a-faccia di tale piccolo universo sociale per chi è chiamato a sopportare i costi è assai facile scoprire le carte e denunciare l’ingiustizia.
È esattamente per questa ragione che secondo Gordon Tullock entro un ordine federale è possibile ridurre la ricerca di rendite (rent-seeking) condotta da quanti traggono vantaggio dalla complessità di un sistema di tassazione e trasferimenti del tutto opaco. La concorrenza istituzionale rende difficile per ogni giurisdizione mantenere un sistema fiscale troppo complesso: per giunta, la semplicità del percorso compiuto dal denaro dei contribuenti ostacola il lavoro dei gruppi di pressione. Spingendo verso il basso la tassazione, il federalismo competitivo toglie risorse all’azione dei lobbisti. Sprechi e sinecure sono caratteristici dei sistemi politici accentrati di medie o grandi dimensioni, dove tutto diviene assai meno trasparente e riconoscibile.
Una cosa è cruciale: ogni istituzione deve vivere di risorse ottenute dai propri cittadini e, quindi, va il più possibile limitata ogni forma di perequazione. Diversamente abbiamo un falso federalismo, che induce i centri di spesa locali a fare e disfare, con l’obiettivo di comprare il consenso, e senza pagare dazio. Al contrario, ogni soldo che un sindaco o un presidente di Regione spendono deve venire dalle tasche dei loro cittadini. È l’unico per innescare una gestione della cosa pubblica meno disastrosa di quella che abbiamo dinanzi agli occhi.
Marchi in vendita a senso unico

Marchi in vendita a senso unico

Massimo Blasoni – Metro

Se ne va anche Pirelli che, giriamola come vogliamo, non è più italiana e diventa cinese. E intanto viene annunciata la prossima cessione di Pininfarina, storica azienda di design industriale, a un gruppo indiano. Non si tratta di nazionalismo di maniera, ma nella nostra politica economica c’è qualcosa non va se sono ormai centinaia i marchi storici venduti all’estero. Barilla, Alitalia, Star, Plasmon, Algida, Edison, Gucci, BNL, Parmalat, Eridania, San Pellegrino, Salumi Fiorucci, Peroni, Riso Scotti, Pernigotti, Gancia, Buitoni, Antica Gelateria del Corso, Bottega Veneta, Loro Piana e tanti altri costituiscono ormai i grani del triste rosario di un’economia nazionale che sta perdendo competitività.
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Non culliamoci sull’euro e sul petrolio

Non culliamoci sull’euro e sul petrolio

Massimo Blasoni – Panorama

Lo spiraglio di ripresa che si intravede nella crescita della produzione industriale dipende da fattori evidenti. Il basso prezzo del petrolio e l’euro svalutato rispetto al dollaro sono alla base di quel 5,4 per cento in più che le nostre esportazioni hanno fatto registrare a fine 2014, rispetto all’anno precedente. Inoltre iniziano a farsi sentire anche gli effetti del «quantitative easing» (l’acquisto sul mercato di titoli pubblici e privati) varato dalla Banca centrale europea, garanzia di un credito più generoso.
A questi fattori di stimolo esterni non si somma tuttavia l’incisiva azione del governo. Occorre agire per stimolare la domanda interna ma soprattutto rafforzare il nostro sistema produttivo che si trova spesso a sopportare una concorrenza estera che beneficia di costo del lavoro, valori di cambio e fiscalità più favorevoli. Tranne che per il Jobs act che, pur perfettibile, introduce importanti elementi di novità nel mercato del lavoro, non vi sono stati interventi significativi in tema di fiscalità, liberalizzazioni e sburocratizzazione.
La contrazione dell’Irap dispiegherà i suoi effetti solo nel 2016 e gli indicatori internazionali continuano a collocare il nostro tra i peggiori e più onerosi sistemi fiscali al mondo. Per la Banca mondiale (rapporto «Doing business») l’insieme complessivo delle imposte più i contributi sociali pagati da un imprenditore italiano, raggiunge il 65,4 per cento del reddito d’impresa, 16 punti in più della Germania e 31 in più dell’Inghilterra. Quanto agli investimenti, l’andamento della spesa pubblica certificata da Eurostat dimostra che il governo ha applicato la spending review dal lato sbagliato, tagliando gli investimenti e non la spesa corrente. Rispetto al 2009 l’Italia ha ridotto del 30 per cento la spesa pubblica per investimenti, passata così dai 54,2 miliardi del 2009 ai 38,3 miliardi del 2013, riportandoci in termini reali indietro di dieci anni. Nello stesso periodo la spesa pubblica complessiva è, però, cresciuta di 12,8 miliardi: la causa, ovviamente, è da ricercarsi in una spesa corrente che nessun governo, nonostante gli annunci, è riuscito a comprimere.
A tralasciare la burocrazia oppressiva, la carenza delle infrastrutture fisiche ed informatiche, resta infine da ricordare il tema dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Il problema non si è affatto risolto, malgrado gli annunci del premier in tv. Il debito nel corso del 2014 si è riformato e ammonta oggi a oltre 75 miliardi (dati Eurostat e Intrum Justitia) con tempi medi di pagamento vicini ai 130 giorni che obbligano le imprese ad anticipare i crediti presso il sistema bancario. Un’operazione costosa e che pesa sui bilanci delle imprese fornitrici dello Stato per sei miliardi di euro ogni anno, cifra che non ha eguali in Europa. Larga parte di questo cahier de doléances può trovare almeno parziale soluzione agendo tempestivamente. La timida ripresa va sostenuta, pena un’immediata ricaduta.
Burocrazia lenta Renzi intervenga

Burocrazia lenta Renzi intervenga

Massimo Blasoni – Metro

Il rapporto di fiducia tra Stato e aziende si è ormai rotto per eccesso di burocrazia. Ogni giorno si confrontano due realtà diverse e cinconciliabili: da un lato l’imprenditore che avrebbe voglia di costruire e sviluppare il suo business; dall’altro l’amministrazione pubblica che lo frena appigliandosi a una selva di leggi e regolamenti spesso barocchi e inutili.
Un esempio: i giorni di attesa per la concessione di un’autorizzazione edilizia. L’ultimo rapporto annuale di Doing Business (Banca Mondiale) rivela che in Italia sono mediamente 233 contro i 96 in Germania e i 64 in Danimarca.
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Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Carlo Lottieri

Il dibattito di questi giorni suscitato dai recenti scandali legati alla gestione delle grandi opere si sono quasi interamente focalizzati sul coinvolgimento più o meno diretto di questo o quel politico, e al massimo hanno indotto taluni a interrogarsi sul tema (ben più vasto) del rapporto tra vita pubblica, imprese e corruzione.
Pochi hanno però focalizzato la loro attenzione sulla questione delle infrastrutture stesse e sul fatto, in particolare, che in Italia continua a dominare l’idea che trafori, ponti, linee ferroviarie e altre cruciali iniziative dette “di interesse generale” debbano essere progettati, costruiti e poi gestiti dallo Stato. Per contro, quanti si oppongono a questa prospettiva interventista quasi sempre sono animati da un furore ideologico di taglio ambientalista che guarda con ostilità ogni innovazione.
In questo senso, la battaglia scatenata in questi anni contro la Tav è la riprova che molte grandi opere di Staro sono bloccate solo in ragione del prevalere di un ecologismo pregiudizialmente avverso alla modernità e alle esigenze dell’economia. E non si tratta certo di un contrasto tra destra e sinistra, dato che la demagogia ecologista ha contagiato esponenti di ogni schieramento.
C’è però anche dell’altro. In fondo, le tensioni riguardanti le grandi opere sono pure la conseguenza di logiche tecnocratiche che fatalmente creano legittime resistenze. Una realizzazione destinata ad avvantaggiare un gran numero di persone dovrebbe anche destinare ingenti risorse a quanti possono essere danneggiati da quell’opera. Non è accettabile che, come avvenne nel caso dell’aeroporto di Malpensa, si arrechino danni patrimoniali tanto rilevanti senza aver avviato una trattativa con i proprietari di case e terreni, che a seguito della realizzazione dello hub in provincia di Varese hanno visto dimezzato il valore delle loro abitazioni.
La logica delle grandi opere, allora, deve cambiare non solo perché fino a ora le infrastrutture maggiori sono state essenzialmente grandi occasioni di corruzione e spreco. Oltre a ciò, è importante che questo ambito sia consegnato ai privati e al diritto. Bisogna insomma che da decisioni assunte unilateralmente si passi a negoziazioni tra privati che rispettino i diritti e le ragioni altrui. Anche per questo è indispensabile che le opere di grande interesse – si tratti di strade, impianti energetici, ponti o metropolitane – siano realizzate da imprese, e non direttamente dallo Stato.
Quest’ultimo, infatti, ha la tendenza a lanciarsi in imprese economicamente irrazionali, senza tenere in considerazione i diritti delle persone interessate. Tutto questo ovviamente esige non soltanto che si metta da parte il pregiudizio secondo il quale solo lo Stato può realizzare opere di particolare rilievo, ma al tempo stesso è importante che si difendano due diritti: la libertà di iniziativa degli imprenditori, che non possono essere bloccati da una troppo fitta rete di regole e burocrazie, e il diritto di proprietà di quanti possono essere penalizzati da questa o quella costruzione di particolare impatto.
La nostra società ha bisogno di essere all’altezza dei tempi e rinnovarsi di continuo, ma è necessario che siano fissate regole a tutela di tutti e che quanti si lanciano in imprese colossali facciano tutto ciò con i loro soldi e, al tempo stesso, senza subire veti infondati o subire ricatti di vario genere.
Oggi parlare di grandi opere significa evocare corruzione, da un lato, e costi davvero alti per i contribuenti, dall’altro. Significa evocare logiche dirigiste e scelte top-down che suscitano tensioni e ledono diritti. È il momento di voltare pagina.
La (non) riforma della Rai targata Renzi

La (non) riforma della Rai targata Renzi

Carlo Lottieri

C’è qualcosa di ingenuo, ipocrita e – sotto certi aspetti – anche di ridicolo nel riformismo renziano in tema di televisioni. Come ha annunciato la rivoluzione nel campo della televisione pubblica l’attuale premier? La retorica è simil-grillina, perché in definitiva il messaggio che si vuole far passare è che, finalmente, i partiti saranno messi alla porta. Non quindi la lottizzazione “hard” di alcuni decenni fa (con Rai Uno alla Dc, Rai Due al Psi e Rai Tre al Pci) e neppure quella più “soft” dei tempi recenti, caratterizzati da un intreccio più complesso di ruoli e poteri. Tutto questo sarebbe accantonato per veder nascere una nuova Rai con solo sette consiglieri di amministrazione invece che nove, uno dei quali eletti addirittura dai dipendenti.
Una rivoluzione? Macché. Se guardiamo nel dettaglio il governo si riserva la scelta di tre consiglieri e altri tre sono eletti dalle Camere in seduta comune. Il risultato è che governo e maggioranza sono più che sicuri di poter controllare la Rai (esattamente come adesso), lasciando uno spazio pure alla minoranza. Il che non guasta mai. Per giunta si è strutturata la riforma immaginando un peso rilevante – da leader assoluto e vera mente di tutta l’azienda – per un amministratore delegato dotato di ampi poteri in ogni direzione: programmi, scelta degli uomini, gestione del bilancio.
Renzi sa che se, grazie al (facile) controllo della maggioranza del Cda, egli riesce a mettere un uomo di sua assoluta fiducia alla testa della Rai questi gli può assicurare una linea editoriale, e non solo, del tutto schierata dalla sua parte. Il resto è aria fritta. Infatti il progetto parla di una Rai Uno generalista, di una Rai Due dedicata all’innovazione (qualsiasi cosa ciò voglia dire) e di Rai Tre una culturale. Ma il cuore della questione è che la politica non si ritrae affatto e anzi, sotto certi punti di vista, il governo rafforza il proprio controllo sul colosso televisivo pubblico. Un controllo importante per il numero dei dipendenti e per il ruolo propagandistico che la Rai ha sempre svolto e continuerà a svolgere a favore di questo o quello.
Una vera riforma, ovviamente, consisterebbe nel vendere la Rai e nell’aprire a chiunque, italiano o no, il mercato delle televisioni. Ovviamente tutto ciò l’attuale governo non vuole farlo per una serie di ragioni che illustrano assai bene i limiti del preteso “riformismo” renziano.
In primo luogo, l’ex-sindaco della città di Machiavelli non intende assolutamente ridurre la presa sulle risorse (anche umane) e sulla potenza di fuoco della televisione di Stato. Renzi è un politico a tutto tondo, che negli anni passati a Firenze – inizialmente alla guida della Provincia e poi alla testa dei Comune – ha imparato assai bene a gestire il nesso tra risorse finanziarie, voti e controllo sociale. Il suo realismo gli impedisce di essere davvero un riformatore, perché per farlo dovrebbe rinunciare a una parte rilevante dell’artiglieria di cui dispone.
In secondo luogo, manca la minima consapevolezza culturale di cosa voglia dire indirizzarsi verso una società libera. I toni liberali che talvolta possono affiorare nella retorica del premier sono funzionali a obiettivi politici di piccolo cabotaggio – come nel caso delle polemiche con la Cgil – oppure a costruire una retorica in grado di attrarre gli elettori moderati. Ma nulla è più lontano dalla sua cultura che l’idea di un’informazione davvero aperta, senza interferenze statali, senza una programmazione e senza regolazione di Stato.
La riforma della Rai immaginata da Renzi è insomma all’insegna del gattopardismo. E in questo modo stiamo sprecando un’altra opportunità.