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L’addizionale Irpef ci stende: pesa più delle tasse sulla casa

L’addizionale Irpef ci stende: pesa più delle tasse sulla casa

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Regioni e Comuni come Ugolino della Gherardesca. A lui, Dante fa dire: più del dolor potè il digiuno. Per i contribuenti vale la regola analoga: più della Tasi poterono le addizionali. Secondo uno studio degli artigiani di Mestre, gli italiani pagano più di addizionali comunali e regionali che di tasse sulla casa. E la situazione può soltanto peggiorare, visto l’impegno del governo a concedere autonomia fiscale ai Comuni per compensare il taglio dei trasferimenti.

Tra il 2010 e il 2015 le addizionali comunali e regionali aumenteranno in maniera esponenziale, in relazione al reddito. In media, per un impiegato saliranno del 35 per cento; per un operaio e un lavoratore autonomo del 36 per cento; per un quadro del 38 per cento e per un dirigente del 41 per cento. Il loro peso economico è superiore a quello di Tari e Tasi messe assieme. Una famiglia di tre persone pagherà al Comune sotto forma di tasse sulla casa e sui servizi intorno ai 500 euro all’anno. Dalla sua busta paga, però, il combinato disposto di addizionali regionali e comunali ridurrà il potere d’acquisto di un impiegato di 732 euro; quello di un lavoratore autonomo scenderà per le addizionali di 924 euro; quello di un quadro di 1.405 euro. Mentre un dirigente verserà nelle casse degli enti locali 3.583 euro. Solo un operaio pagherà più di Tasi e Tari che di addizionali: 500 euro contro 430.

Gli artigiani di Mestre hanno anche fatto le simulazioni categoria per categoria. Eccole. Un operaio con uno stipendio mensile netto pari di quasi 1.290 euro, ha visto aumentare in questi ultimi 5 anni il carico fiscale delle addizionali di 114 euro (+36%). Nel 2015 pagherà 429 euro (- 1 euro rispetto al 2014). Un impiegato con uno stipendio netto di poco superiore ai 1.800 euro al mese, tra il 2010 e il 2015 versa 195 euro in più, pari a un aumento del 35%. L’anno prossimo pagherà 747 euro (+ 15 euro rispetto al 2014). Un lavoratore autonomo con un reddito annuo di 40mila euro ha subito un incremento di imposta di 253 euro (+36%). Nel 2015 il peso delle addizionali sarà pari a 747 euro (+ 15 rispetto al 2014). Un quadro con uno stipendio mensile netto di circa 3mila euro al mese, ha subìto, invece, un aggravio di 403 euro (+38%). L’anno prossimo verserà 1.455 euro (+ 50 euro rispetto al 2014). Un dirigente, infine, con uno stipendio di quasi 7mila euro netti al mese ha visto aumentare il peso delle addizionali di 1.094 euro (+41%). Nel 2015 le addizionali peseranno per un importo complessivo di 3.753 euro (+ 170 euro rispetto l’anno prima).

Secondo Giuseppe Bortolussi, segretario degli artigiani di Mestre, il fenomeno è da mettere in relazione al fatto che «negli ultimi anni le addizionali Irpef hanno subito dei forti incrementi, sia per compensare i tagli dei trasferimenti statali, sia per fronteggiare gli effetti della crisi che hanno messo a dura prova i bilanci delle Regioni e dei Comuni». Eppure contro l’aumento delle addizionali non c’è stata la protesta politica e non, come sulle tasse sulla casa. «La ragione di questo paradosso va ricercata – spiega Bortolussi – nelle modalità di pagamento di queste imposte. Le addizionali Irpef vengono prelevate mensilmente alla fonte, di conseguenza il contribuente non ha la percezione di quanto gli viene decurtato lo stipendio o la pensione. Per il pagamento della Tasi e della Tari, invece, i cittadini devono mettere mano al portafogli per onorare le scadenze e recarsi fisicamente in banca o alle Poste. Operazioni che psicologicamente rimangono ben impresse nella mente di ciascuno». Senza contare il fatto che le tasse sulla casa, in tre anni, sono passate da un gettito di 10 miliardi a uno di 31 miliardi.

Le famiglie italiane tornano a risparmiare: lo fa il 33% del totale

Le famiglie italiane tornano a risparmiare: lo fa il 33% del totale

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

«La riduzione dello stock di risparmio negli ultimi anni è stata importante e ora le famiglie stanno attivamente cercando di porvi rimedio». Il presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti introduce così i dati della consueta ricerca Ipsos alla vigilia della novantesima giornata del risparmio che si celebra oggi a Roma, presenti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e Antonio Patuelli presidente dell’Abi. Dati che, spiega, confermano come il valore del risparmio sia qualcosa di molto presente nel Dna degli italiani, soprattutto nei momenti difficili. Infatti nel 2014, per il secondo anno consecutivo, è cresciuta di quattro punti la quota di italiani che negli ultimi dodici mesi sono riusciti a risparmiare: la percentuale è passata dal 29% del 2013 al 33% attuale; contemporaneamente si è ridotta per il secondo anno di fila e in modo consistente la percentuale delle famiglie in saldo negativo di risparmio, dal 30% al 25 per cento.

Dalla ricerca Ipsos risulta anche che il mattone ha smesso di essere l’investimento ideale degli italiani. Solo il 24% continua ad essere affezionato all’investimento immobiliare rispetto al 35% del 2012 e al 70% del 2010 e la preferenza degli italiani per la liquidità è stabilmente elevata: riguarda 2 italiani su 3. Cresce invece, raggiungendo il nuovo massimo storico del 36%, la quota di chi reputa questo il momento di investire negli strumenti ritenuti più sicuri: risparmio postale, obbligazioni e titoli di stato.

Nel corso della presentazione della ricerca, al presidente dell’Acri viene anche richiesto un commento sull’esito degli stress test per le banche italiane. E Guzzetti sottolinea la solidità del sistema bancario italiano ed esprime soddisfazione per per il risultato di Intesa Sanpaolo (i dieci miliardi di eccedenza di capitale) che conferma il piano dell’ad Messina per quanto riguarda la remunerazione degli azionisti, tra cui figura la fondazione Cariplo. Ma poi non rinuncia a togliersi qualche sassolino dalle scarpe: «Abbiamo avuto 15 banche sotto esame, di queste, due già sapevamo essere in difficoltà e la loro situazione è stata conclamata ora dalla Bce» afferma. «Guardando il sistema nel suo complesso, le banche italiane si sono difese bene». Certo, aggiunge «sarebbe stato meglio ancora una volta tenere fermi i criteri di Basilea 3, invece di annacquare qualche criterio nei test e favorire qualche banca tedesca che, altrimenti, forse non sarebbe finita in testa alle classifiche».

Il riferimento del presidente dell’Acri è esplicito a Commerzbank, che ha ancora il 17% di capitale in mano pubblica, e a Deutsche Bank, che ha fatto «un aumento di 9 miliardi di euro coperto dai cinesi». Guzzetti dice di augurarsi che «i problemi di Genova e Siena» si risolvano positivamente con soluzioni nel territorio e aggiunge: «Mi hanno stupito questi due italiani che si sono difesi» a proposito dell’imparzialità e omogeneità dei giudizi della Bce sulle banche europee. Si riferisce al presidente dell’Eba, Andrea Enria e a Ignazio Angeloni, responsabile del dipartimento per la stabilità finanziaria all’Eurotower: Guzzetti non li cita per nome ma conferma trattarsi di loro rispondendo ad un domanda diretta dei cronisti. «Queste dichiarazioni – afferma – mi hanno ricordato il detto excusatio non petita…»

Gli italiani vedono nero: ancora 5 anni di crisi

Gli italiani vedono nero: ancora 5 anni di crisi

Rosaria Amato – La Repubblica

Più soddisfatti dei propri redditi ma solo perché hanno imparato ad accontentarsi di poco e a stringere la cinghia, fortemente delusi dall’euro ma europeisti perché prevale la sfiducia verso le istituzioni nazionali, più ottimisti ma solo perché si sono rassegnati: gli italiani ormai considerano la crisi economica come una situazione quasi stabile, si aspettano di venirne fuori almeno tra cinque anni.

Dall’indagine Ipsos-Acri, presentata come ogni anno alla vigilia della Giornata Mondiale del Risparmio, emergono diversi aspetti positivi, che farebbero quasi pensare alla “luce fuori dal tunnel” di cui nessuno negli ultimi mesi si azzarda più a parlare. Eppure, guardando meglio i dati del sondaggio, le percentuali positive in rialzo sembrano più frutto di adattamento a uno stile di vita decisamente peggiorato rispetto al passato che di un rinato ottimismo. Infatti l’87% degli italiani pensa che la crisi sia ancora “molto grave”. Però è in recupero la fiducia nelle prospettive personali: ottimista il 24% contro il 21% di sfiduciati, percentuali ribaltate rispetto al 2013. Gli italiani non se la prendono con l’Europa (rimane favorevole all’Unione il 51%), anche se il 74% si dichiara insoddisfatto dall’euro. Però le colpe della crisi sono attribuite ai politici di casa nostra: il 56% ritiene che la situazione attuale sia dovuta al malgoverno e alle mancate riforme, appena il 5% dà la colpa alla Ue. Inoltre gli italiani convinti che tra 20 anni essere nell’euro sarà un vantaggio salgono dal 47 al 52%. La sfiducia nella nostra classe dirigente è tale che la maggioranza degli intervistati dall’Ipsos, il 66%, è pronto a delegare la tutela del risparmio all’Unione Bancaria europea, anche se poi solo il 7% sa veramente di cosa si tratta.

Sulla gestione di consumi e risparmi le famiglie, così impoverite che una su quattro non riuscirebbe a far fronte a una spesa imprevista di 1000 euro, hanno da tempo attuato una strategia difensiva. Tutti, anche i più abbienti, hanno rivisto al ribasso i propri consumi: viaggi e vacanze sono stati ridotti dal 60% degli italiani, la frequenza dei ristoranti è calata per il 59%, quella agli spettacoli per il 55%, tagli anche nell’abbigliamento, solo la spesa per i farmaci è rimasta invariata.

Rispetto al 2013 è aumentata la percentuale di chi preferisce investire sulla qualità della vita attuale (42% contro il precedente 39%), anche se la maggioranza (54%) investe pensando al futuro. E infatti gli italiani continuano a risparmiare: il 46% dichiara di non dormire tranquillo se non mette qualcosa da parte, solo l’8% si dichiara allegramente cicala. Però l’utilizzo di questo risparmio è molto cambiato rispetto al passato: due intervistati su tre scelgono la liquidità, crescono i sottoscrittori di polizze assicurative e fondi pensione, risalgono lievemente titoli di Stato e anche le azioni. Ma soprattutto il mattone non ha mai avuto così poco appeal: se nel 2004 era la scelta preferita dal 70% degli italiani, adesso la percentuale è scesa al 24%, il minimo storico dall’inizio dell’indagine, il 2001.

Aprire un’impresa è più facile ma il fisco resta un labirinto

Aprire un’impresa è più facile ma il fisco resta un labirinto

Alessandro Barbera – La Stampa

Nel dibattito italiano, quello nel quale le parole prendono spesso il sopravvento su fatti e numeri, le cause della crisi sembrano essersi trasformate in una variabile indipendente. La domanda non riparte, gli imprenditori non investono, e capita di sentir dire che la responsabilità è tutta degli austeri tedeschi, della gabbia dell’euro, dei burocrati di Bruxelles. Poi arrivano le classifiche internazionali, quelle che periodicamente costringono a riportare la realtà alla sua rappresentazione più semplice e noiosa.

Ad esempio: quante ore deve dedicare agli adempimenti fiscali un imprenditore? Domanda cruciale per chi fa impresa, piccola o grande che sia: più salgono le ore, più aumentano i costi dei consulenti, più è difficile fare previsioni sulle percentuale di utili o perdite alla fine dell’anno. Ebbene, in Italia ci vogliono ancora 269 ore l’anno, in Germania 218, in Spagna 167. Nella Francia di François Hollande, non propriamente un bengodi per gli investitori, ne bastano la metà: 137. In Gran Bretagna scendiamo a 110. Ancora: quanti pagamenti fiscali deve fare mediamente un imprenditore italiano rispetto ad un collega europeo? Fra tasse locali, addizionali, Irap, Ires si arriva a quindici l’anno. In Germania ne sono sufficienti nove, in Francia, Spagna e Gran Bretagna otto. In passato la classifica «Doing Business» della Banca Mondiale è stata oggetto di critiche per quel «total tax rate» che calcola la pressione fiscale delle imprese italiane fino al 65,4 per cento dei profitti; poco di meno della Francia (al 66,6 per cento), diciassette punti in più della Germania (48,8 per cento), il doppio della Gran Bretagna, ferma al 33 per cento. Ad alcuni sembrano numeri spropositati, se non altro perché la pressione fiscale calcolata dagli istituti di statistica è più bassa. Ma quel dato riguarda il peso della tassazione sui profitti d’impresa, che è cosa diversa dalla pressione fiscale nel suo complesso. In ogni caso «Doing Business» è ormai lo strumento più completo per chi vuole confrontare il fare impresa in giro per il mondo.

L’ultimo rapporto conferma i mali italiani ma offre anche alcune speranze. I tempi per avviare una nuova attività, ad esempio: nel giro di due anni l’Italia ha recuperato 44 posizioni e si è classificata 46esima su 189 Paesi. Merito fra gli altri – così dice l’Ordine dei Notai – della trasmissione telematica degli atti. O ancora la tutela degli azionisti di minoranza nelle società di capitali: l’anno scorso la Banca Mondiale ci ha classificati 21esimi, trenta posizioni sopra la Germania.

Le buone nuove finiscono qui. Il resto conferma le peggior impressioni, basti un rapido confronto sull’asse Roma-Berlino. Prendiamo le formalità burocratiche da espletare per una licenza edilizia: l’Italia si classifica al 116 posto, la Germania all’ottavo. Per chiudere una pratica in Italia sono necessari mediamente 233 giorni, in Germania ne bastano 96. Accesso all’energia elettrica: l’Italia è 102esima, la Germania terza. Se per un allaccio una impresa italiana aspetta mediamente 124 giorni, chi vuole aprire uno stabilimento nelle pianure tedesche avrà il sì in 28. Accesso al credito: Italia 89esima, Germania 23esima. Trasferimento della proprietà immobiliare: Germania 41esima, Italia 89esima. Quando il piazzamento italiano non è pessimo, i tedeschi svettano. È il caso della voce «apertura e chiusura delle procedure fallimentari»: in Italia sono necessari mediamente un anno e otto mesi (29esimi), in Germania un anno e due mesi (terza nel ranking). Come tutte le classifiche «Doing Business» ha i suoi limiti. Scoprire che la grande malata d’Europa – la Francia – sia l’unico dei grandi Paesi europei a risalire la classifica (dal 33esimo al 31esimo posto) può sembrare strano. Le classifiche valgono per quel che offrono, ma constatare che l’Italia è 56esima, quattro posti più in basso del 2014 fra Turchia e Bielorussia, non è incoraggiante.

Le tessere sindacali sono gonfiate

Le tessere sindacali sono gonfiate

Cesare Maffi – Italia Oggi

La polemica sui tesserati pretesamente falsi della Cgil ha riportato l’attenzione sui numeri milionari, ma altresì un po’ ballerini, degli iscritti ai sindacati. L’ultimo intervento al riguardo risale al febbraio 2012, quando una confederazione autonoma, la Confsal, denunciò la forte discrepanza esistente fra pensionati sindacalizzati certificati dall’Inps e pensionati dichiarati come iscritti dalle centrali sindacali. ItaliaOggi ne diede notizia (23 febbraio 2012): «Sindacati, oltre 3 milioni di tessere gonfiate». Quasi un milione e mezzo di differenza era riscontrato fra dati ufficiali e dati sindacali, con un’accentuata discordanza per l’Ugl. Ovviamente le altre confederazioni elevarono fiere proteste, in particolare appunto l’Ugl. A proposito di quest’ultima confederazione, sarà opportuno ricordare un curioso precedente.

Negli anni sessanta il Corriere della Sera, in un’inchiesta dedicata alle confederazioni sindacali, sparò una cifra: un milione di lavoratori era organizzato dalla Cisnal (la progenitrice dell’Ugl). Ovviamente i dirigenti della Cisnal furono ben lieti del numero attestato da una fonte autorevole, ma si trovarono in imbarazzo negli anni successivi. Infatti non poterono né serbare intatto quel livello né, ancor meno, denunciare una cifra minore. Furono quindi costretti a far lievitare i propri iscritti (quelli denunciati pubblicamente, non quelli veri), fino a raggiungere, sotto Renata Polverini, cifre plurimilionarie, che il segretario della Uil con un amichevole rabbuffo alla collega definì fantasiose.

Se nel settore pubblico vi sono dati di riferimento più solidi, come le deleghe sindacali o i voti nelle elezioni interne (questi ultimi non riguardano i soli tesserati), nel settore privato non può esservi alcuna certezza. Ecco quindi le differenze, di quando in quando ribadite, fra cifre denunciate per un fine e cifre segnalate per un altro. Un fatto è certo: la forza numerica dei sindacati dei lavoratori sta negli ex lavoratori, vale a dire nei pensionati.

L’inghippo sta nelle deleghe rilasciate dai pensionati nel momento in cui lasciano il lavoro: permettono l’automatica riscossione mensile sui ratei di pensione, attuata dall’Inps. Un esperto come pochi altri di faccende sindacali, quale Giuliano Cazzola, ha già indicato la strada per affamare le centrali sindacali: vietare all’Inps la riscossione permanente delle deleghe sindacali (ItaliaOggi, 17 ottobre). Obbligare a deleghe rilasciate anno per anno vorrebbe dire, fuor di dubbio, fornire il destro a centinaia di migliaia di pensionati di revocare, di fatto, l’autorizzazione a riscuotere i contributi sindacali.

Troppe tasse sulle casse private

Troppe tasse sulle casse private

Italia Oggi

La legge di Stabilità 2014 non perdona le Casse di previdenza private. Almeno nella stesura bollinata dalla Ragioneria di Stato e ora in discussione in Parlamento, la politica di maggiore spending del governo Renzi viene finanziata anche da un prelievo maggiore nel settore della previdenza a favore dei liberi professionisti, le cui rendite vengono tosate presumibilmente al 26%. Se fosse così, la tassazione avrebbe avuto una escalation senza precedenti nella storia sociale del nostro Paese: dall’11,5%, poi al 12,5%, poi al 20% con il Governo Monti e ora in predicato di schizzare al 26%. Casse strizzate il doppio nel giro di pochissimi anni.

«È chiaramente negativo il mio giudizio sui provvedimenti che il Governo è intenzionato ad adottare», afferma Valerio Bignami, presidente Eppi, che giudica con decisione il testo della manovra in approvazione. Non solo non si elimina il sistema di «doppia tassazione», non solo non si armonizza la tassazione sui rendimenti finanziari tra le Casse di previdenza private e i Fondi pensione complementari al 13% come ipotizzato solo quest’estate dal ministro del Welfare Poletti, non solo non si diminuisce l’imposizione fiscale, ma la si aumenta in modo considerevole. «È sconcertante e assolutamente imbarazzante», continua Bignami, «constatare che, ancora una volta, abbiamo un Governo il quale, invece di operare provvedimenti strutturali di vero e profondo mutamento, opta per scelte episodiche di emergenza che mai potranno contribuire al cambiamento radicale invocato dal presidente del consiglio Matteo Renzi. È come sparare sulla Croce rossa». Le conseguenze di una maggiore tassazione sono evidenti nell’intervista al professor Paolo de Angelis, uno dei relatori al prossimo Congresso straordinario dei periti industriali, che spiega come minori rendite comportano un sostanziale addio alle politiche di maggior adeguatezza delle pensioni.

Hai voglia a dire che il metodo contributivo non è generoso: se il governo taglia le rendite, le pensioni dei liberi professionisti resteranno a livelli al limite della dignità. Il sottosegretario all’Economia Baretta getta acqua sul fuoco, auspica un dibattito in Parlamento e insomma fa il suo mestiere: se i conti sono in difficoltà, bisogna raddrizzarli in qualche modo. Però, semplificando la questione, tagliare i fondi del Welfare significa bruciare i mobili di casa per ripararsi dal freddo: dopo che cosa rimane da fare? Quei soldi tagliati andrebbero non soltanto a sostenere le pensioni dei liberi professionisti, ma anche a finanziare politiche di investimento nell’economia reale: comporta avere meno risorse per far ripartire l’economia, oltre, ovviamente, ad inasprire gli animi. «Riguardo il sistema di tassazione doppio su contributi e pensioni, conclude Bignami, ritengo sia giunto il momento di rivolgersi alla Corte di giustizia europea, affinché il sistema fiscale verso le Casse di previdenza, assolutamente unico in Europa, venga finalmente dichiarato illegittimo».

Gli italiani si rifugiano nel risparmio

Gli italiani si rifugiano nel risparmio

Stefania Tamburello – Corriere della Sera

Gli italiani hanno ripreso a risparmiare. Per il secondo anno consecutivo, dopo la caduta seguita allo scoppio della crisi, è infatti aumentata, passando dal 29 al 33%, la quota di famiglie che negli ultimi 12 mesi sono riuscite a mettere i soldi da parte. «Il valore del risparmio è nel Dna dei nostri concittadini, anche – e forse soprattutto – in momenti difficili come questo», ha osservato Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, l’Associazione tra le Casse di risparmio e le fondazioni di origine bancaria, che oggi celebra la 90esima giornata del risparmio, presentando la ricerca elaborata da Ipsos. Gli italiani «formiche», dunque, che di fronte ad una crisi più grave e lunga del previsto – l’87% degli intervistati dall’Ipsos ritiene che durerà ancora 5 anni – hanno preso nuove misure rimodulando le strategie di spesa.

A spingere questa rinnovata voglia di risparmiare sarebbe quindi l’incertezza, unita al timore dell’aggravarsi della situazione economica che non consiglia di impegnarsi in grosse spese – e la contemporanea caduta degli acquisti di immobili lo dimostra – ma di approvvigionarsi di fronte all’imprevisto. È però possibile anche che alcuni si siano adattati alla crisi meglio di altri con quella dualità che caratterizza per esempio l’andamento delle industria, un terzo delle quali esporta e non soffre. Il dato che segna la differenza è quello che rivela come circa un terzo delle famiglie italiane – il 26% del campione – non sarebbe in grado di far fronte con sue risorse a una spesa imprevista di mille euro e quello che invece fa salire al 74% la quota impreparata a una di 10 mila euro. Tra queste percentuali si inseriscono le famiglie colpite direttamente dalla crisi pari al 27% in diminuzione dal 30% del 2013 e quella, il 23% (erano il 26% nel 2013), dei nuclei che segnalano un serio peggioramento del proprio tenore di vita negli ultimi due anni.

Di contro aumenta, e raggiunge il 50%, cioè un italiano su due, la quota di chi si dichiara soddisfatto della propria situazione economica: negli ultimi tre anni la percentuale degli insoddisfatti era sempre stata superiore. Significativo anche il balzo fatto dagli ottimisti rispetto ai pessimisti: rappresentano il 24% e il 21%, nel 2013 erano rispettivamente il 21% e il 28%. I più fiduciosi sono i giovani e gli over 45 mentre restano scettici gli individui dai 31 ai 44 anni: i più colpiti dalla crisi. Gli investimenti infine: l’incertezza ha accentuato la preferenza per la liquidità – svettano i depositi in conto corrente – mentre continua la contrazione dell’ appeal del «mattone» anche a causa delle tasse.

Il vigile del fuoco rapinatore e l’impiegato «ubriaco fisso», quei casi assurdi del reintegro

Il vigile del fuoco rapinatore e l’impiegato «ubriaco fisso», quei casi assurdi del reintegro

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La mattina entrava in banca vestito da sceriffo con cappello da cowboy e stellone sul petto. Ma non si trovava negli States e non faceva il poliziotto. In quella italianissima banca era solo un impiegato. Così fu licenziato: fece causa ma non ottenne il reintegro. Sfortunato. Fosse capitato con quel giudice di Monza che aveva revocato il licenziamento del dipendente di una ditta che si ostinava a presentarsi tutti i giorni con i pantaloncini corti, sarebbe andata diversamente. Cioè come al solito. Con la bilancia dell’articolo 18 che quando si arriva davanti al magistrato, argomenta l’avvocato giuslavorista Andrea Del Re, pende quasi sempre dalla parte del lavoratore. Anche in casi che davvero non ti aspetti.

Fece scuola quello dell’alcolista cronico che non solo non andava a lavorare, ma nemmeno avvertiva l’azienda. Il giudice lo reintegrò perché «l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute non già a stati di ubriachezza, bensì a un danno cerebrale costituente l’esito della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti». Siccome era sempre ubriaco non era dunque capace di intendere e volere, quindi non licenziabile. Il celebre giurista Giuseppe Pera la marchiò come la sentenza dell’«ubriaco fisso». Caso per nulla paradossale, percorrendo la lunga galleria degli orrori giudiziari che Del Re ha pubblicato nel saggio collettivo «Art.18: la reintegrazione al lavoro», curato da Massimo Bornengo a Antonio Orazi.

C’è l’infermiere che picchia un paziente e il giudice intima alla clinica di ridargli il posto con la motivazione che «si è trattato di un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare», aggiungendo che «l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni non può giustificare quella che rimane un’estrema ratio». C’è il vigile del fuoco colto a rapinare una banca, sospeso dal servizio e riammesso con il pagamento degli arretrati da un magistrato appassionato di cinema che s’indigna per la decisione ritenendo «vergognoso rovinare prima di una condanna una persona e la sua famiglia per una sostanziale esigenza di immagine, di apparenza dell’istituzione, in assenza di un concreto pericolo in ambiente lavorativo e nella società…». Tanto più ricordando, scrive testualmente nella sentenza, il film «“Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick, risalente al lontano 1956 nel quale il protagonista (Sterling Haiden) dice alla fidanzata: “Vedi, nessuno di loro è un vero e proprio criminale, hanno tutti un lavoro e apparentemente conducono una vita normale, ma hanno i loro problemi”».

C’è l’operaio che mostra i genitali ai suoi colleghi e viene reintegrato, «tenuto conto che il gesto esibizionistico era compiuto in assenza di personale femminile, non era stato dettato da istinti sessuali e, pur nella sua volgarità e indecenza, non aveva integrato gli estremi del delitto di atti osceni». E c’è chi, avendo invece molestato due compagne di lavoro «compiendo atti esibizionistici, in particolare esibendo i genitali ad una di loro», si salva dal licenziamento perché il giudice lo considera «provvedimento disciplinare sproporzionato».

Per non parlare del più classico dei classici. Ovvero, del dipendente licenziato perché scoperto a svolgere un secondo lavoro durante le assenze per malattia e regolarmente reintegrato. E grazie a un precedente che ha da poco compiuto ventotto anni. Una sentenza del pretore di Viareggio nella quale si afferma: «È illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore che, in costanza di malattia, ha svolto attività lavorativa ma nessun danno ha arrecato al datore di lavoro, in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata».

Le mani sui risparmi

Le mani sui risparmi

Vittorio Malagutti – L’Espresso

Mettere le mani nelle tasche degli italiani passando dalla porta di servizio del loro conto in banca. Matteo Renzi e il suo governo hanno scelto di celebrare così la “Giornata mondiale del risparmio”, che cade, come ogni anno, il 31 ottobre. C’è poco da festeggiare, in effetti. Conti correnti e depositi vincolati, fondi d’investimento e gestioni patrimoniali, obbligazioni e dividendi. Con l’eccezione dei titoli di Stato e dei buoni postali, la legge di stabilità appena annunciata dall’esecutivo ha il suono sgradevole di una litania di nuove tasse per tutte le forme d’investimento. Nella storia repubblicana non si ricorda un’altra stangata di queste dimensioni al risparmio delle famiglie, se si esclude il prelievo sui depositi bancari varato nel 1992 dal governo di Giuliano Amato. Quella, però, fu un’operazione straordinaria, un intervento una tantum. Questa volta, invece, la manovra riscrive per intero la tassazione delle rendite finanziarie.

La tagliola finirà per colpite anche la previdenza. con una sorprendente inversione di marcia rispetto al passato. Ricordate gli inviti ad accantonare risorse in vista di un avvenire sempre più incerto? Niente da fare, adesso il governo vuole aumentare il prelievo fiscale anche sui fondi pensione. Perfino la rivalutazione del trattamento di fine rapporto (Tfr), cioè la parte di futura liquidazione che il lavoratore sceglie di lasciare in azienda, sarà tassata come mai prima d’ora.

I provvedimenti messi nero su bianco nella legge di stabilità rischiano di avere un primo, paradossale effetto sul piano psicologico. In una fase d’incertezza senza precedenti, tra recessione e disoccupazione, le nuove imposte vanno ad amplificare i timori per il futuro prossimo venturo perché colpiscono il gruzzolo, grande o piccolo che sia, messo da parte dalle famiglie per fronteggiare gli imprevisti. E se aumenta l’insicurezza è difficile che gli italiani riprendano a spendere. Gli acquisti vengono rimandati in attesa di tempi migliori. Addio crescita economica, allora. Il motore del Pil non riparte e la recessione si trasforma in stagnazione, con il corollario del calo dei prezzi, cioè la deflazione. Tutto il contrario, insomma, di quanto va predicando il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che nello stimolo ai consumi vede l’antidoto migliore alla crisi.

«Bisogna spostare il peso del Fisco dal lavoro alle rendite». Questo il mantra dei renziani, che hanno sbandierato per mesi il taglio dell’Irap alle imprese annunciato dal governo e in buona parte rinviato a tempi migliori nell’ultima stesura della legge di stabilità. Il premier non ha perso tempo. La scorsa primavera, da poco insediato a Palazzo Chigi, Renzi aveva già provveduto a smantellare la riforma della tassazione del risparmio varata a fine 2011 dal governo di Mario Monti. Allora la parola d’ordine era «semplificare». E così le aliquote. con l’eccezione di titoli di Stato e fondi pensione, furono unificate a quota 20 per cento. Non mancarono le correzioni al ribasso: l’imposta sui rendimenti dei conti correnti e dei depositi vincolati passò dal 27 al 20 per cento. Renzi invece ha di nuovo alzato l’asticella fino al 26 per cento. Con il risultato che, se la legge di stabilità verrà approvata nella versione attuale, alcune forme di risparmio, come i fondi d’investimento e le gestioni patrimoniali, subiranno un prelievo più che raddoppiato rispetto a due anni fa, quando andava al Fisco il 12,5 per cento dei proventi.

Stangata? Dipende dai punti di vista. Davide Serra, il finanziere grande sponsor e consigliere del presidente del Consiglio, in passato si è più volte espresso a favore di un giro di vite ancora più pesante sulle rendite finanziarie. «L’aliquota andrebbe portata dal 20 al 30-35 per cento», ha dichiarato l`anno scorso in un’intervista il gestore del fondo Algebris, con base a Londra. Il governo per ora si è fermato a mezza strada, a quota 26 per cento. L’obiettivo dichiarato è quello di rastrellare almeno 3,6 miliardi di entrate supplementari nel 2015. Questa almeno è la cifra che compare nei documenti presentati dall’esecutivo.

Costretto a trovare nuove fonti di gettito per finanziare voci di spesa supplementari come gli 80 euro di sgravi Irpef, il ministro Padoan ha pensato bene di attingere a un serbatoio di risorse che la crisi ha fin qui intaccato solo marginalmente. Anzi, secondo lo studio più aggiornato della Banca d’Italia, a fine 2012 le attività finanziarie di proprietà delle famiglie italiane, pari a 3.670 miliardi di euro, erano addirittura cresciute del 4,5 percento rispetto all’anno precedente. Lo stesso non si può dire dei salari oppure dei profitti societari, che invece sono diminuiti per effetto del rallentamento dell’economia. Di conseguenza sono calati anche i proventi del prelievo fiscale su queste due categorie di redditi.

Va detto che negli ultimi anni la geografia del risparmio degli italiani è profondamente cambiata. I titoli di Stato, che offrono rendimenti ridotti ai minimi termini, ormai rappresentano poco meno del 5 per cento del portafoglio complessivo delle famiglie, contro il 20 per cento di una ventina di anni fa. D’altra parte, i fondi d`investimento hanno visto crescere a gran velocità la raccolta. Nei primi nove mesi del 2014 le nuove sottoscrizioni hanno raggiunto i 97 miliardi, quasi il doppio rispetto ai 55 miliardi dell’anno precedente. Secondo i calcoli della società di ricerche Prometeia, da inizio 2012 al primo trimestre 2014 le famiglie italiane hanno riversato circa 95 miliardi su fondi, polizze assicurative e prodotti previdenziali, riducendo di oltre 100 miliardi le loro attività sotto forma di Bot, Cct e Btp.

Non basta. Il boom delle Borse, almeno fino a settembre, ha anche garantito guadagni importanti ai risparmiatori che hanno puntato sulle azioni, direttamente oppure tramite i fondi. Festeggiano gli investitori, ma anche il Fisco, perché le plusvalenze della compravendita di titoli si trasformeranno in un gettito supplementare per l’Erario. E con il rialzo dell’imposta dal 20 al 26 per cento previsto dalla legge di stabilità i proventi per le casse dello Stato saranno ancora maggiori. Tutto questo, ovviamente, a condizione che i mercati non si avvitino al ribasso e che la manovra proposta dal governo Renzi arrivi al traguardo dell’approvazione parlamentare senza perdere per strada il previsto aumento delle aliquote.

Molto più ridotto, invece, sarà l’incasso garantito dal prelievo sui rendimenti dei conti in banca. I tradizionali depositi ormai offrono interessi su base annuale di molto inferiori all’uno per cento. Secondo una simulazione della Cgia di Mestre (Associazione artigiani e piccole imprese) l’aumento d’imposta dal 20 al 26 per cento si dovrebbe tradurre in un aggravio pari nella media a 93 centesimi, per un conto di 12 mila euro. Briciole, rispetto alle nuove tasse sui ricchi proventi del trading azionario o di quote di fondi comuni.

Il vero salasso a carico dei risparmiatori è un altro. Si chiama imposta di bollo, una sorta di mini patrimoniale sulle attività finanziarie. È stata introdotta nel 2012 sotto forma di un prelievo pari allo 0,1 per cento del valore di tutte le attività finanziarie (esclusi i conti correnti bancari) di proprietà di ogni singolo contribuente. L’aliquota è poi stata ritoccata due volte.Dapprima è salita allo 0,15 per cento (nel 2013) per poi raggiungere la soglia dello 0,2 per cento dall’inizio del 2014. Come dire che un portafoglio del valore di 50mila euro subirà un prelievo di 100 euro, il doppio rispetto a due anni fa. A questa somma vanno poi aggiunte le tasse da pagare sui rendimenti o sui guadagni realizzati con la compravendita di prodotti finanziari.

Particolare importante: l’imposta di bollo e sulle rendite finanziarie non si applicano in modo proporzionale al reddito del contribuente o al valore del suo patrimonio. Chi possiede titoli per 10mila euro, con rendimenti per poche decine di euro, è sottoposto ad aliquote identiche a chi amministra un portafoglio milionario di attività. All’estero non funziona cosi. In alcuni Paesi, come la Francia o la Spagna, l’imposizione è progressiva per scaglioni sulla base dei guadagni realizzati. In Gran Bretagna, invece, le rendite finanziarie vengono inserite nella dichiarazione annuale dei redditi, tassati secondo aliquote via via più alte al crescere delle entrate del contribuente. Da tempo molti esperti segnalano che allinearsi a questi modelli stranieri porterebbe maggiore equità nel sistema italiano, che finisce per favorire i più ricchi. Ma per cambiare serve tempo e invece il governo ha una fretta terribile di far cassa. Tutto rinviato, allora. E più tasse per tutti.

L’Italia è il paese peggiore per fare impresa

L’Italia è il paese peggiore per fare impresa

Il Giornale

L’Italia non è un Paese per imprenditori, nonostante la confermata vocazione all’imprenditorialità dei suoi abitanti. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dello stato dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College. Si tratta di un’analisi puntuale effettuata da quasi un centinaio di Istituti di ricerca e che riesce a mappare il comportamento e le condizioni in cui agiscono gli imprenditori con riferimento al 75% della popolazione e all’89% del prodotto interno mondiale.

L’analisi e l’aggregazione dei 19 indicatori misurati da GEM ha permesso a “ImpresaLavoro” di elaborare un suo “Indice dell’Imprenditorialità” nei 23 principali paesi dell’Europa a 28. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è stata il fanalino di coda della classifica europea e ha perso il confronto con tutti i suoi principali competitor. L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo Paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia ma fanno segnare ottime performance anche Paesi con economie mature quali Olanda, Portogallo o Irlanda.

In particolare, nel 2013 il nostro Paese si è collocato nella classifica europea al 23esimo posto per la percentuale (2,4%) dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori (non pagando salari, stipendi o altre forme di retribuzione da più di tre mesi), ha perso il confronto con quasi tutte le altre economie per la percentuale (17%) di quanti vedono buone opportunità di avviamento di un’impresa nell’area nella quale vivono ed è risultato al 22esimo posto per la percentuale (12%) delle nuove imprese che si aspettano di assumere almeno 5 impiegati nel prossimo quinquennio. L’Italia si è invece collocata al 15esimo posto – vincendo il confronto con Germania, Spagna, Gran Bretagna e Grecia – per la percentuale (9,8%) di quanti nonostante tutto intendono avviare un’impresa nei prossimi tre anni.

«Nonostante gli italiani abbiano, più o meno, la stessa voglia di intraprendere dei colleghi delle principali economie avanzate europee, difficilmente riescono a dar seguito ad iniziative di successo» osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro”. «L’ambiente in cui sono chiamati a muoversi è infatti particolarmente penalizzante rispetto a quello dei competitor europei in tema di tasse, regole, burocrazia. Concretamente questo si traduce in un bassissimo tasso di nuove imprese (siamo ultimi in Europa) e in un dato preoccupante sul fronte occupazionale: solo la Grecia fa peggio di noi in quanto a imprese che hanno intenzione di ampliare la propria base occupazionale nei prossimi cinque anni. In queste settimane – conclude Blasoni – si è a lungo parlato di regole del mercato del lavoro: il tema delle regole è certamente importante ma dobbiamo affrontare anche il tema della produzione di posti di lavoro da parte delle imprese. Se non nascono nuove imprese e se quelle esistenti non si sviluppano, rischia di rivelarsi inutile anche un’eventuale semplificazione delle regole».