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Il fallimento degli 80 euro: col bonus consumi in calo

Il fallimento degli 80 euro: col bonus consumi in calo

Antonio Signorini – Il Giornale

Gli ottanta euro sono rimasti in banca o nei portafogli. Se non fosse un controsenso, verrebbe da pensare che la misura fatta per rilanciare i consumi, in realtà li abbia rallentati; ma è più probabile che il bonus sia andato a rimpinguare i risparmi di cittadini con poca fiducia nella ripresa. I dati Istat parlano chiaro e confermano i timori espressi non molto tempo fa dalle associazioni del commercio. In giugno, quindi in coincidenza con l’arrivo degli ottanta euro in busta paga, le vendite al dettaglio sono rimaste ferme rispetto al mese precedente, ma sono calate rispetto allo steso mese dell’anno precedente (quando non c’era il bonus) del 2,6%. Gli italiani hanno speso meno sia per i prodotti alimentari (-2,4%) sia peri non alimentari (-2,8%). In calo la grande distribuzione (meno 1,3%), un salasso per i piccoli (-3,9). 

Non è una sorpresa per i commercianti. Per Confcommercio i dati Istat confermano «quanto già anticipato dal nostro indicatore consumi e cioè che le misure prese fino ad oggi non hanno prodotto gli effetti sperati sui consumi e non sono state idonee a sostenere la fiducia delle famiglie, in calo anche ad agosto». Per la confederazione «è presumibile che anche la seconda parte del 2014 possa mancare l’appuntamento con la ripresa economica, confermando, dunque, l’urgenza di interventi più incisivi». Segnali negativi anche sui salari (le retribuzioni contrattuali orarie in giugno sono aumentate dell’1,1% rispetto all’anno scorso, la crescita annua più bassa dal 1982) e sul fronte delle imprese (in agosto l’indice della fiducia è passato a 95,7 da 99,1). 

Importanti elementi di riflessione per il premier Matteo Renzi che oggi guiderà il Consiglio dei ministri per l’approvazione dello Sblocca Italia e delle misure per la scuola. Ieri il premier è andato al Quirinale a illustrare le misure del Consiglio dei ministri. Prima, un vertice con il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan e il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi per cercare le coperture alle infrastrutture. La soluzione trovata è approvare in parte oggi e in parte con la legge di Stabilità le misure.Le coperture disponibili da subito si confermano i 3,7 miliardi. Sono 1,26 miliardi dal fondo delle opere incagliate, e 2,54 miliardi dal fondo di coesione In tutto 3,8 miliardi da destinare soprattutto a nuove linee ferroviarie di alta velocità o alta capacità. Lo Sblocca Italia «non sostituisce la legge di Stabilità» ha dichiarato Lupi, è un pacchetto di «dieci punti» e «confermo le coperture per i provvedimenti contenuti in es SU». 

Nella bozza in entrata al Consiglio le linee citate sono solo quelle del Sud: la Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania, con poteri straordinari per Fs e burocrazia limitata. In via di riscrittura di un articolo che rendeva più facile installare antenne su tralicci preesistenti per la contrarietà del ministero dei Beni culturali (che ha bocciato più articoli del ministero dell’Economia). Tra le novità in entrata, un piano per la costruzione di nuovi inceneritori di rifiuti e semplificazioni a favore dell’edilizia. Per le grandi locazioni e le costruzioni nei campeggi. Anche ieri è continuato il tiro alla fune sulla privatizzazione delle società partecipate da Comuni, Province e Regioni. L’accelerazione e gli incentivi (meno vincoli di bilancio) ai Comuni che vendono o accorpano – nonostante il pressing dello stesso Renzi- potrebbero essere rinviati. Sullo sfondo la partita delle pensioni e del lavoro, rinviata forse a fine anno. «Nessun intervento sulle pensioni in legge Stabilità», ha assicurato ieri il ministro del Lavoro Giuliano Poletti al Meeting di Rimini di Comunione e liberazione. Ad avere ipotizzato un taglio delle rendite più alte per finanziare misure per gli esodati o l’estensione degli 80 euro ai pensionati era stato lo stesso Poletti, che ha smentito attriti con il premier: «Sono stabilissimo», ha assicurato.

La cessione di Eni-Enel e i paletti antiscalata

La cessione di Eni-Enel e i paletti antiscalata

Andrea Ducci – Corriere della Sera

Vendere, incassare circa 5 miliardi di euro e mantenere la presa pubblica sul controllo delle società di Smto. La cessione di un consistente pacchetto di azioni di Eni (il 4,34%) ed Enel (il 5%) da parte del ministero dell’Economia, al di là dell’immagine di un Paese che fa cassa vendendo un pezzo dei gioielli della corona, non espone le due aziende a rischi di scalate. La privatizzazione a cui sta lavorando il ministero di via XX Settembre prefigura, del resto, la discesa da parte dell’azionista pubblico al di sotto della fatidica soglia del 30% del capitale, ossia la quota azionaria che preclude la possibilità di rastrellamenti ostili e forestieri per conquistarne il controllo. A meno che non sia lanciata una cosiddetta offerta pubblica di acquisto (Opa). Regola che tuttavia non vale per Eni ed Enel, poiché gli statuti delle due società contengono una clausola di garanzia a tutela dell’azionista pubblico. 

Una misura, insomma, che ne blinda il controllo. A prevederla è una legge del 1994, predisposta alla vigilia delle grandi privatizzazioni di Stato. Il dispositivo è semplice e stabilisce che i titolari di quote azionarie esercitano il loro diritto di voto fino al 3% del capitale posseduto. In pratica ogni azione eccedente la soglia del 3% viene «sterilizzata» e non consente di esercitare votazioni in assemblea. Il limite può essere aggirato modificando lo statuto con una delibera assembleare che rappresenti almeno il 75% del capitale Un obiettivo che però resta un miraggio se il ministero dell’Economia mantiene una quota superiore al 25%. 

Un’operazione di privatizzazione in corso prevede che i pacchetti Eni ed Enel in mano allo Stato siano venduti entro l’autunno. E una volta avvenuta la cessione ai fondi istituzionali, vale ricordare che al ministero resterà una quota del 26,24% di Enel e del 25,76% di Eni (detenuto attraverso Cassa Depositi e Prestiti). In queste ore, agli osservatori più critici e alle speculazioni politiche che lamentano l’ennesimo arretramento in asset strategici per il sistema Paese, è stato fatto osservare che per Eni esiste un’ulteriore clausola di salvaguardia degli interessi nazionali. Si tratta dei golden power inseriti al secondo comma dell’articolo 6 dello statuto. In sintesi, grazie a una legge del 2003 al ministero dell’Economia e al ministero dello Sviluppo economico sono riservati alcuni «poteri speciali», a presidio e tutela di Eni. In tutto sono quattro i golden power e permettono allo Stato di opporsi sia all’assunzione di pacchetti rilevanti sia alla formazione di patti o accordi che raccolgano oltre il 3% del capitale. Il terzo potere riservato all’azionista pubblico è il veto a delibere di scioglimento, trasferimento della sede all’estero, fusione e scissione. L’ultimo grimaldello antiscalata è rappresentato dalla nomina di un amministratore senza diritto di voto all’interno del board. 

Gli statuti di Eni ed Enel non hanno finora adottato l’ulteriore facoltà del voto plurimo. Il meccanismo cioè che prevede di maggiorare il diritto di voto, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione detenuta. L’introduzione del voto plurimo, sovvertendo il principio anglosassone del one share one vote, consente a un azionista di valere in sede di votazione più del capitale effettivamente detenuto. In soldoni con il voto plurimo lo Stato potrebbe controllare poco più del 25% dei voti possedendo una quota di capitale del 12,5%. Tradotto significa che potrebbe riservarsi di vendere un’altra bella fetta di Eni, Enel, Finmeccanica, ma pure delle quotande Poste, Enav e Sace senza mollare la presa.

Incentivi aleatori non portano lavoro

Incentivi aleatori non portano lavoro

Il Sole 24 Ore

Incentivi alle assunzioni: mosso dall’emergenza occupazione oppure dalla necessità di rinnovare il sistema produttivo, il legislatore spesso concede aiuti ai datori di lavoro. Peccato che le buone intenzioni spesso si scontrino con le lungaggini e gli ostacoli della burocrazia. Un caso esemplare è quello della legge 83/2012 che ha previsto un credito d’imposta per le assunzioni, in azienda, di personale altamente qualificato. Il regolamento dell’agevolazione, però, è arivato solo qualche settimana fa e solo a settembre, da lunedì 15, con una gara telematica le imprese che hanno assunto nel 2012 potranno sapere se avranno o meno diritto al premio fiscale. Nel frattempo, tanto era la convinzione sulla bontà della scelta, i fondi per gli anni successivi sono stati diminuiti.

Con queste premesse – i ritardi nello stanziamento delle risorse e l’incertezza sulla possibilità di beneficiarne – sembra davvero difficile che un imprenditore possa ragionevolmente pianificare un’assunzione sulla scorta di un incentivo aleatorio.   

Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Andrea Biondi e Giovanna Mancini – Il Sole 24 Ore

È durata poco l’illusione di essere usciti dalla recessione che da sei anni ormai attanaglia il nostro Paese e che solo nel periodo 2011-2013 ha bruciato 4,1 punti di Pil. Gli ultimi aggiornamenti dei principali indicatori macroeconomici sembrano senza tanti dubbi spegnere l’entusiasmo al quale, fino a poco più di un mese fa, si aggrappavano gli italiani. Tanto è vero che ad agosto l’indice di fiducia delle imprese registrato dall’Istat è sceso a 88,2, contro il 90,8 registrato a luglio. Un pessimismo che riguarda tutti i settori produttivi, ma in particolare il manifatturiero che, dopo tre mesi consecutivi in discesa, ha raggiunto i livelli più bassi da un anno (95,7). E che riflette il calo di fiducia dei consumatori, reso noto l’altroieri, sceso in agosto per il terzo mese consecutivo, da 104,4 a 101,9. Insomma, tutto fuorché una cartina di tornasole di una stagione dell’ottimismo. E infatti, se in tutta Europa l’indice Esi (il «sentiment economico» complessivo) scende a quota 104,6, è l’Italia il Paese più sfiduciato dell’Unione, secondo i dati diffusi dalla Commissione Ue.

Non che manchino gli spiragli di luce, come il dato sulla produzione industriale (+0,9% a giugno su base annua) o quello sulle immatricolazioni di auto (+5,02% su base annua a luglio). Ma mettendo in fila i principali indicatori – e il loro andamento altalenante nei mesi – emerge un quadro ancora troppo fragile e (soprattutto) contraddittorio per parlare di una vera ripresa. A guastare la festa degli ottimisti, ieri sono arrivati i dati relativi alle vendite al dettaglio, che su base annua sono diminuite addirittura del 2,6%, rispedendo sul banco degli imputati il bonus da 80 euro del governo Renzi.

Ma la doccia fredda era arrivata già a inizio estate, con quello 0,2% in meno del Pil registrato dall’Istat nel secondo trimestre dell’anno rispetto al trimestre precedente, e dello 0,3% rispetto all’anno precedente. Un dato non solo inferiore alle attese, ma che ha inoltre costretto analisti e imprese a rileggere tutti gli altri indicatori. Perché se è vero che la produzione industriale a giugno è cresciuta, è anche vero che da novembre dello scorso anno l’andamento di questo indicatore oscilla costantemente tra segno positivo e negativo. E preoccupa il dato sugli ordini dell’industria, riferito a maggio, che rileva un calo del 2,5% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e che ha colpito in particolare il comparto dei macchinari e attrezzature (-13,6%). Inoltre, rispetto al mese precedente, in maggio gli ordinativi totali sono scesi del 2,1%, registrando il calo più pesante (-4,5%) proprio su quei mercati esteri su cui si fonda la speranza di una ripresa da parte delle imprese italiane.

Anche dal fronte export arrivano del resto segnali contraddittori e perciò non facili da interpretare. Al risveglio dei mercati europei, che da inizio anno avevano contribuito in modo decisivo a trainare le vendite all’estero dei prodotti made in Italy, si era aggiunto a maggio anche il recupero dei mercati extra-Ue, che invece negli ultimi mesi avevano fatto registrare segnali negativi, dovuti soprattutto alle svalutazioni, alla crisi di domanda interna e alle turbolenze geopolitiche.

Purtroppo però il mese di giugno (a cui risalgono gli ultimi dati disponibili) ha provveduto a congelare le speranze delle imprese, con una contrazione dell’export extra-Ue addirittura del 4,3% su base mensile, che si traduce in un -2,8% su base annua. Il quadro complessivo delle esportazioni (dati relativi a maggio) è perciò deludente, con una crescita tendenziale di appena lo 0,2% rispetto a maggio del 2013, sintesi dell’incremento delle vendite verso l’Europa (+2,4%) e della diminuzione di quelle verso l’area extra-Ue (-2,3%). Si aggiunga un mercato del lavoro in piena paralisi, con retribuzioni mai così basse (si veda l’articolo in basso) e un numero di disoccupati oltre quota 3,15 milioni, con una disoccupazione giovanile del 43,7% (+4,3% rispetto a giugno 2013).

Privatizzazioni, via al piano Enel-Eni

Privatizzazioni, via al piano Enel-Eni

Celestina Dominelli – Il Sole 24 Ore

Il governo accende ufficialmente i motori per la cessione di ulteriori quote di Enel ed Eni con l’obiettivo di far ripartire il piano di privatizzazioni e centrare così i 10 miliardi di euro di proventi per quest’anno messi nero su bianco nel Documento di economia e finanza. Ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha presieduto una riunione, a cui ha preso parte anche il capo della segreteria tecnica del Mef, Fabrizio Pagani, in modo da accelerare il percorso su cui sono puntati i fari di Bruxelles. Il piatto forte, come detto, è il ridimensionamento della presenza dello Stato nei due “gioielli” di famiglia, Enel ed Eni, di cui saranno ceduti, rispettivamente, il 5% e il 4.34% ancora in mano al Tesoro (il restante 25,76% fa capo a Cdp).

Secondo la tabella di marcia messa a punto ieri dal vertice all’Economia, le quote dovrebbero arrivare sul mercato tra la fine di ottobre e gli inizi di dicembre. Ovviamente non appaiate anche perché entrambe le operazioni andranno adeguatamente supportate per assicurare il massimo ritorno possibile. Ai piani alti di Via XX Settembre si respira un cauto ottimismo: Piazza Affari e tornata a virare in positivo negli ultimi giorni e questo lascia ben presagire per il futuro anche se un occhio resta puntato sugli sviluppi internazionali che potrebbero far girare i mercati. Dalle due cessioni il governo conta di ricavare non meno di 5 miliardi di euro. Agli attuali corsi di Borsa un 5% dell’Enel – che ha ripreso a salire sul Ftse Mib grazie all’accelerazione al piano di dismissioni voluta dal nuovo numero uno, Francesco Starace – vale 2-2,5 miliardi di euro, mentre la vendita del 4,34% della quota detenuta in Eni potrebbe portare nelle casse dello Stato circa 3 miliardi. Un gruzzoletto che, unito ai 3 miliardi di euro assicurati dal rimborso anticipato dei Monti bond sottoscritti dal Tesoro a favore del Monte dei Paschi di Siena, consentirebbero al governo di avvicinarsi fortemente al traguardo individuato nel Def.

Nella riunione di ieri, poi, si è anche deciso di affiancare a queste cessioni, entro la fine dell’anno, il trasferimento della quota detenuta in STMicroelectronics (13,8°/0) che sarebbe girata al Fondo strategico italiano, il braccio operativo della Cdp, per un incasso valutato sui 7oo-8oo milioni di euro. Mentre sarebbero ormai destinate a slittare al 2015 le Ipo diPoste, Sace ed Enave non sarebbe per ora alle viste nemmeno una ulteriore discesa dello Stato nel capitale di Finmeccanica (il Tesoro è al 30,2%), dove il neo amministratore delegato Mauro Moretti sta portando avanti un piano di ristrutturazione che servirà a rimettere definitivamente in sesto il gruppo di Piazza Monte Grappa.

Tornando invece al tassello clou, l’Economia non ha ancora proceduto formalmente ad affidare i mandati alle banche d’affari, ma la scelta dovrebbe cadere sugli istituti che lavorano da tempo al fianco del ministero. Quanto alla modalità con cui verranno cedute, secondo quanto emerso dal confronto di ieri, l’opzione numero uno e quella di un accelerated bookbuilding, una delle strade scelte anche dall’Eni ai tempi dello scorporo di Snam e dalla stessa Cassa nella vendita dei titoli eccedenti il 30% del Cane a sei zampe, messa in campo proprio per recuperare le risorse necessarie a rilevare il 30% della spa dei gasdotti dall’Eni. Un collocamento che sara destinato agli investitori istituzionali: non solo gli italiani, ma anche gli americani – che Padoan ha avuto modo di incontrare nella sua ultima missione a Washington – e i soliti fondi sovrani che non hanno mai nascosto l’interesse a salire nel capitale di alcune “big” italiane. Senza dimenticare i cinesi che hanno acceso da tempo i riflettori sull’equity della penisola: dalla People’s Bank of China, già presente in Eni ed Enel, a State Grid Corporation of China, che ha appena rilevato il 35% di Cdp Reti e vuole fare altro shopping in Europa.

Il governo intende però anche lanciare un segnale forte, già nello sblocca Italia che arriverà domani al Cdm, sul fronte delle partecipate degli enti locali mappate dal commissario della spending review, Carlo Cottarelli. Con molta probabilità, infatti, nel decreto dovrebbe entrare una norma che consente ai Comuni di usare i proventi da dismissioni fuori dal Patto di stabilità. Una mossa che porrebbe sbloccare, già entro l’anno, alcune partite da tempo ferme al palo come l’annunciata privatizzazione, a Torino, della Gtt, la società di trasporto pubblico. «Quello delle partecipate degli enti locali – spiega al Sole24Ore Andrea Mazziotti, capogruppo di Scelta Civica alla Camera – è un tema molto difficile, ma Renzi deve scardinarlo scontentando la parte del Pd che sostiene questo fronte». E proprio Sc si è fatta portatrice di una proposta di legge che punta a ottenere significativi risparmi di spesa dalla razionalizzazione delle ex municipalizzate e che è già stata inviata al premier e al ministro Padoan. L’obiettivo? Fare in modo che alcune delle misure suggerite, a cominciare dall’obbligo di dismettere le partecipazioni in società non quotate inferiori al 10% trovino spazio già nello sblocca Italia.

Sommersi da una valanga di regole fiscali

Sommersi da una valanga di regole fiscali

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Bravissimi a «incasinare le cose semplici», abbiamo «un sistema fiscale che è quanto di più assurdo, farraginoso e devastante si possa immaginare». Diagnosi pressoché perfetta, quella di Matteo Renzi. Così perfetta che di fronte a questa realtà certe promesse, condite dalla convinzione che «se ci impegniamo le tasse possiamo pagarle con un sms» sembrano fantascienza. Inarrestabile nel fare la pulci alla burocrazia, l’ufficio studi della Confartigianato si è preso la briga di contare le norme in materia fiscale che sono state emanate di volta in volta dai quattro governi che si sono succeduti dal 29 aprile 2008 all’8 agosto 2014. Sono la bellezza di 691, in 46 diversi provvedimenti. Una massa imponente di regole e disposizioni che si sono andate ad aggiungere al mucchio, già inverosimile, di leggi e circolari. E di quelle 691 norme, ben 418 hanno avuto un impatto burocratico sulle imprese, rendendo ancora più complessi gli adempimenti. Il tutto mentre le disposizioni che avrebbero dovuto facilitargli la vita, sempre fiscalmente parlando, si sono fermate a 96. Facendo la differenza fra i due dati, salta fuori un «saldo burocratico», come lo definisce la Confartigianato, di 322. Il che fa concludere che nei 2.292 giorni presi in esame il nostro fisco si è complicato al ritmo di una norma alla settimana. Esattamente, una ogni 7,1 giorni. Sabati, domeniche e feste comandate comprese. E poco importa che la maggioranza delle regole «complicatrici» abbia avuto effetti contenuti, considerando che quelle il cui impatto è considerato tragicamente insostenibile sono «soltanto» 29 su 4.18. Il fatto è che quella «tela di Penelope» capace di rendere il sistema sempre più intricato, lento e costoso hanno continuato imperterriti a tesserla di giorno e smontarla di notte. Se è vero, nei sei anni presi in esame, che per ogni norma di semplificazione ne sono state approvate 4,3 di complicazione.

Il record assoluto è stato conseguito nel 2013, anno per due terzi governato da Enrico Letta. L’organizzazione degli artigiani ha calcolato un «saldo burocratico» di ben 93 norme. Una ogni 3,9 giorni. Al secondo posto il 2012, interamente sotto la responsabilità del governo di Mario Monti, con il «saldo burocratico» arrivato a 70. Vero è che anche l’esecutivo di Silvio Berlusconi ci aveva messo del suo, con un «saldo»paria 142. Ma in tre anni e mezzo. E Renzi? Il governo dell’ex sindaco di Firenze, afferma il dossier della Confartigianato, «ha emanato sette provvedimenti con 75 norme di carattere fiscale di cui 24 semplificano, 11 sono neutre e 40 hanno impatto burocratico sulle imprese». C`è però da dire che le semplificazioni sono quasi tutte concentrate (23 su 24) nel decreto sulle dichiarazioni precompilate esaminato dal Consiglio dei ministri a giugno ma ancora da approvare. Forse domani: vedremo. E se nella valanga abbattutasi dal 2008 sulle imprese potrebbe essere quello il provvedimento con il migliore «saldo burocratico», alla luce dell’andazzo di questi sei anni non possiamo che considerarlo per ora solo un segnale.

La corda è davvero tesa all’inverosimile. Il segretario generale della Confartigianato Cesare Fumagalli sostiene che non c’è da perdere un minuto: «Il gioco di ridurre una tassa e poi aumentarne altre perché serve gettito per coprire le spese sta ammazzando le pecore, tosate già oltre ogni limite. Senza interventi immediati che riducano gli oneri fiscali per le imprese si rischia davvero grosso. Se non ora, quando?». Tornano alla mente le parole con cui il ministro delle Finanze Antonio Gava debuttò in un’audizione parlamentare: «La prima cosa, urgentissima, per potenziare la lotta all’evasione fiscale, è la semplificazione del sistema tributario». Correva l’anno 1987. Sei anni dopo, era il 1993, il suo successore Franco Reviglio firmava il decreto istitutivo di una commissione per la semplificazione della normativa fiscale. Finita nel nulla. Neanche quindici mesi e il primo governo Berlusconi, ministro il «Reviglio boy» Giulio Tremonti, faceva trapelare un progetto superavveniristico. Titolo dell’Ansa del 5 agosto 1994: «Fisco, verso pagamento tasse con bancomat». Rincarava la dose il ministro Augusto Fantozzi, il 24 maggio 1995: «Grosse novità dal ddl semplificazione fiscale››. E nel 2001, mentre gli sportelli automatici delle banche erano in attesa di avvistare il primo contribuente e delle «grosse novità» non c’erano ancora tracce. Tremonti dichiarava: «Grazie al regolamento sulla semplificazione del Fisco in Italia si avranno 190 milioni di atti amministrativi in meno». Da allora non c’è stato governo che non abbia garantito un Fisco più facile e amico dei cittadini e delle imprese. L’ha promesso il centrodestra e l’ha promesso il centrosinistra. L’ha promesso il governo tecnico e l’ha promesso quello delle larghe intese. Ma ondeggiando arditamente tra bancomat, sms e dichiarazioni precompilate alla francese, siamo sempre li. Sempre più sommersi da commi, circolari e regolamenti. Inchiodati a quel 1987, quando la semplificazione era considerata urgentissima. Quando Reagan e Gorbaciov firmavano il trattato sugli euromissili, la Cbs trasmetteva in America la prima puntata di Beautiful, al maxiprocesso di Palermo la cupola di Cosa nostra veniva condannata all’ergastolo.

Partecipata addio?

Partecipata addio?

Alberto Brambilla – Il Foglio

Decidere cosa tagliare e come farlo è una scelta politica, ha detto ieri il ministro del’Economia, Pier Carlo Padoan, in un’intervista al Corriere della Sera. Uno dei “terreni propizi per un’opera di razionalizzazione – disse a inizio agosto alla presentazione del decreto sblocca Italia – è quello delle partecipate”. Opera d’impatto sui potentati locali che in questi anni hanno contribuito al dissesto di almeno un terzo delle municipalizzate italiane. Secondo gli annunci del governo, in attesa del Cdm di venerdì che darà allo sblocca Italia i crismi dell’ufficialità, le municipalizzate volgono a una riforma drastica e complessiva scaturita dalle indagini del commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Nell’architettura del disboscamento, secondo indiscrezioni, ci sarebbero elementi di novità significativi. Il più rilevante è la possibilità di prevedere il fallimento delle società in perdita. Sono almeno 1.250 su 8.000 censite (un numero certo non esiste, alcune non hanno registrato i bilanci 2012). Secondo Cottarelli, anche attraverso altre chiusure, cessioni e privatizzazioni, nei prossimi tre anni si potrà arrivare ad averne solo un migliaio, come in Francia, con un ritorno per lo stato di 2-3 miliardi. Risorse provvidenziali a coprire i costi per il rilancio dei progetti infrastrutturali rimasti fermi, il fulcro del maxi provvedimento sblocca Italia. 

La chiusura di aziende inefficienti è spesso obbligata, visti i bilanci malandati: in cinquemila organismi privati e partecipati dagli enti locali l’indebitamento complessivo è di 34 miliardi, dice la Corte dei Conti. Per quelle in attivo la privatizzazione o la vendita di quote in Borsa invece è possibile. Per incentivare i Comuni a vendere e allo studio del governo l’eventualità di non conteggiare i proventi della vendita ai fini del patto di stabilità interno. Mentre verranno prorogate le concessioni (fino a 22 anni, dice il Corriere) in caso di sbarco a Piazza Affari. Le intenzioni pragmatiche del governo hanno già riscosso consensi dagli economisti più liberisti, sebbene con qualche avvertenza. “Se il governo riuscisse davvero a confermare le proposte annunciate e a renderle operative, sarebbe un segnale di concretezza nella svolta per un sistema più efficiente delle risorse pubbliche e più aperto ai benefici della concorrenza”, dice al Foglio Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’istituto Bruno Leoni. Anche i compromessi cui si potrebbe giungere in corso d’opera per arrivare all’obiettivo di riportare all’efficienza aziende di pubblica utilità sono in parte indice di pragmatismo, dice Sileoni. Ad esempio, la mancanza di un’esplicita scelta di aprire alla concorrenza i servizi pubblici e quindi lasciare la gestione diretta solo come ipotesi eccezionale deriva probabilmente dalla volontà di non contraddire il risultato referendario del 2011, quello sull’acqua pubblica. Oppure l’intenzione di mantenere la concessione anche in caso di fusione o acquisizione societaria. “Specie nel periodo transitorio, i compromessi sono una costante di ogni piccola o grande riforma, ma se le proroghe e le deroghe dovessero essere sproporzionate rispetto alle necessità della transizione, e si spera in particolare che sia smentita la possibilità di allungare la concessione per le società quotate, non faranno altro che smentire gli obiettivi governativi”, aggiunge Sileoni.

Per ora le aspettative sono alte. Finora si è intervenuti in modo “astratto e inefficace”, per usare le parole del presidente dell’Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino, attraverso la richiesta ai Comuni di liquidare società in perdita a una certa data di scadenza. Il riferimento è alla legge di stabilità del 2010 che imponeva ai Comuni con 30mila abitanti di liquidare o cedere entro il settembre 2013 le loro partecipazioni. Finora delle 1.472 società interessate solo un quinto risulta in liquidazione, dice il Cerved. Il motivo di fondo è che attorno alle municipalizzate ruotano interessi politici che si esplicitano attraverso l’assegnazione di incarichi nei cda, un numero di cariche che spesso supera quello dei dipendenti. L’affollamento è una degenerazione: con le privatizzazioni degli anni Novanta è stato tolto il pane di bocca alla politica che si è rifatta su scala locale. La possibilità di incidere e sfrondare è autoevidente soprattutto in quelle società che si dedicano a servizi collaterali (consulenza gestionale, pubbliche relazioni, organizzazione eventi) con attivi scarsi e che sono di discutibile utilità.

Se Made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo al mondo

Se Made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo al mondo

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Un obiettivo importante – valorizzare il marchio Italia – è finalmente entrato nell’orbita del governo con l’ipotesi del varo di un piano da 160 milioni. È un’arma per combattere la crisi perché la nostra crescita dipende anche e soprattutto da un marchio unitario “Italia” che porterebbe al nostro sistema il vantaggio immediatamente riscontrabile della lotta alla contraffazione. In cifre, solo nell’agro-alimentare, secondo Mise, 54 miliardi (cifra che doppia il nostro export). I colossi internazionali del digitale sono sempre più attenti al Made in Italy. Prova ne sia che Google ha negli ultimi mesi avviato la seconda tappa del suo progetto con Unioncamere, “Made in Italy: Eccellenze in Digitale” .

Un progetto dedicato ai giovani che – se selezionati – riceveranno una borsa di studio di 6mila euro all’esito di un percorso formativo che Google e Unioncamere hanno promosso in collaborazione con l’Agenzia Ice. I giovani dovranno aiutare le imprese dei territori a sfruttare le opportunità offerte dal web per far conoscere le eccellenze del Made in Italy. Samsung , invece, ha varato il progetto Maestros Academy (http://www.maestrosacademy.it) per far crescere una nuova generazione di artigiani italiani mettendo in contatto maestri artigiani e giovani.

Qualche dato: il valore del commercio elettronico a livello mondiale cresce a ritmo sostenuto: 1,3 trilioni di dollari nel 2013 (+ 20% anno su anno). Se il Made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo marchio più noto al mondo, dopo Coca Cola e Visa. E le ricerche condotte su Google, nel primo semestre 2013, mostrano che il Made in Italy e i suoi settori-chiave sono cresciuti dell’8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con picchi in Giappone (+29%), Russia (+13%) e India (+20%). Nonostante questi numeri solo il 34% delle Pmi italiane è presente online con un proprio sito; solo il 4% delle realtà italiane con più di 10 addetti vendono almeno l’1% online, contro il 12% di quelle francesi e spagnole, il 14% del Regno Unito e il 21% delle imprese tedesche; le migliori venti aziende italiane che operano online fanno assieme il 70% del fatturato dell’e-commerce italiano. Le prime 50, l’86 per cento. Le ragioni: investimenti elevati, competenze specifiche, presidio delle leve tecnologiche e di marketing.

Il governo Renzi dovrebbe prendere l’iniziativa di concorrere a costruire un’identità unitaria del Made in Italy, un Master Brand capace di fornire rassicurazioni, specifiche associazioni mentali positive al mercato, soprattutto per le piccole imprese. Proprio come fa Armani, attorno al cui nome sono nate linee di abbigliamento che si rivolgono a segmenti di mercato differenti, beneficiando però dell’appartenenza alla stessa scuderia. Occorre lavorare per trovare un simbolo, una rappresentazione iconica evocativa dell’italianità; Oscar Farinetti ha proposto la mela (per l’agroalimentare), un concorso internazionale dovrebbe aiutarci a celebrare l’integrazione tra creatività e tecnica. Con un motore di promozione, un piano marketing che conti su di una unica cabina di regìa: un’Agenzia Italia (esteri, commercio, turismo e cultura) – alle dipendenze della Presidenza del Consiglio – che si avvalga del braccio operativo della rete diplomatica. Serve un nuovo marketing mix; nel nuovo mondo è fondamentale non solo essere presenti a fiere, organizzare eventi, quanto piuttosto costruire una presenza multicanale del marchio Italia: nuovi media e cinematografia sono i principali strumenti con cui costruire opinioni e preferenze in capo a un soggetto unitario di promozione. Una gestione integrata del marchio Italia promette crescita: solo i settori più ancorati all’effetto Made in Italy (abbigliamento, arredo, agro-alimentare) con un +10% del valore dell’export genererebbero nei prossimi 10 anni circa 100 miliardi di entrate in più. Ben venga dunque Google – che legittimamente intravede nella costruzione di contenuti legati al Made in Italy e nel percoso di alfabetizzazione digitale degli operatori italiani un grande potenziale pubblicitario – ma Governo, sistema camerale, agenzia Ice devono credere nel lancio di un grande piano di formazione e marketing digitale del Made in Italy.

Una partecipata su 4 con rendimento negativo

Una partecipata su 4 con rendimento negativo

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Una società partecipata dagli enti locali su quattro presenta un’indice di redditività negativo rispetto al capitale investito (Roe). È quanto emerge dalla mappa aggiornata al 2012 contenuta nella banca dati del dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia che è stata pubblicata dal commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, a pochi giorni dal probabile avvio dell’operazione di potatura della giungla delle partecipate con il decreto “Sblocca Italia” in arrivo venerdì. L’operazione dovrebbe essere poi completata con la prossima legge di stabilità. Anche se resta ancora in piedi l’ipotesi (al momento meno gettonata) di un intervento in un’unica soluzione a ottobre con la “ex Finanziaria”.
La mappa diffusa da Cottarelli è tra l’altro parziale visto che i bilanci 2012 di 1.075 società sono risultati “off limits” per il Mef, che è riuscito a catalogare 5.264 partecipate di cui 1.424 con un rendimento negativo nel rapporto percentuale tra risultato netto e mezzi propri. Le municipalizzate che presentano un patrimonio negativo o nullo sono 143: a guidare questo elenco pubblicato come gli altri sul sito della spending review è la Cmv Spa di Venezia che gestisce il casinò (segno meno di 20,3 milioni di euro), seguita da Fiera di Roma Spa (-15,7 milioni di euro) e da Cotral, partecipata della Regione Lazio e del Comune di Roma (segno meno per circa 15 milioni). Nel censimento rientrano 1.242 società non operative (molte già in liquidazione) e 86 con incoerenze di bilancio. Oltre alle 1.424 partecipate con una redditività in negativo, la mappa presenta 2.708 società con un Roe superiore a zero ma inferiore a 10 e 1.172 con una forte redditività (Roe a due cifre). Utilizzando il parametro della grandezza patrimoniale emerge che le società censite con un capitale fino a 10mila euro sono solo 130, di cui 67 con un Roe negativo; quelle con un capitale tra 10 e 100mila euro sono 1.182 (una su tre con redditività sotto lo zero) mentre le partecipate tra i 100mila euro e 1 milione sono 1.662 (408 con Roe in negativo). A superare la soglia del milione di capitale nel 2012 sono state 2.290 società (612 con un Roe con segno meno).
«La pubblicazione di indici che misurino l’efficienza delle partecipate – si afferma sul sito web dedicato alla spending – può costituire un importante stimolo al miglioramento delle attività di queste società». Cottarelli non arriva, almeno sul sito, ad alcuna conclusione ma fa notare come il Roe (Return on equity) sia «un fondamentale indice di efficienza».
Quanto all’operazione per dare il via allo sfoltimento della giungla delle partecipate, sollecitato ieri anche da molti sindaci, il governo punta sulla quotazione in Borsa (Mercato telematico italiano) delle società che oggi gestiscono in house servizi di trasporto pubblico locale, di igiene e ambiente, di raccolta dei rifiuti. L’obiettivo è molteplice: privatizzazione per attrarre nuovi capitali finanziari e capacità industriali, destinare le somme incassate dagli enti locali a riduzione del debito e al rilancio degli investimenti, ridurre gli sprechi e dare soluzione innovativo a un regime di monopoli in house che si trascina da dieci anni. La carota che Palazzo Chigi ha studiato per incentivare i comuni ad aderire è il prolungamento delle attuali concessioni, che verrebbero a scadenza già il prossimo anno, con varie ipotesi di gradazione fino a un massimo di 22 anni e sei mesi (termine presente nel regolamento comunitario 1370/2007).

Il testo del decreto sblocca-Italia diramato da Palazzo Chigi domenica scorsa conferma le indiscrezioni delle settimane scorse (si veda Il Sole 24 Ore del 20 agosto) ma aspetta il vaglio decisivo del Mef, che potrebbe anche preferire il veicolo della legge di stabilità per intervenire sulle partecipate. La quotazione può avvenire con due modalità per accedere alle agevolazioni: gli enti locali collocano il 60% del capitale oppure tengono il 50,01% delle azioni, collocando una quota inferiore e destinando la quota restante a un partner industriale scelto con gara europea. Il presidente dell’Anci, Piero Fassino (si veda l’intervista al Sole 24 Ore del 25 agosto) ha già detto che la modalità è interessante, anche se se ne devono ovviamente precisare meglio molti aspetti. La relazione allegata alle norme diramate da ultimo domenica scorsa conferma che l’operazione potrebbe portare a un maggior valore per gli enti locali dell’ordine dei dieci miliardi se tutti aderissero.
Nell’ultimo testo una novità interessante riguarda l’attribuzione dei poteri regolatori nel settore dei rifiuti all’Autorità dell’energia elettrica, il gas e i servizi idrici, come successo tre anni fa proprio per l’acqua. Oltre alle norme principali ci sarebbero per gli enti locali numerose altre agevolazioni in caso di fusione di aziende di modeste dimensioni, lo svincolo delle somme incassate dal patto di stabilità interno e anche un contributo per interventi infrastrutturali della stessa dimensione della dismissione fatta, fino a un limite complessivo di 300 milioni per il 2014 e 300 per il 2015.

Distacchi sindacali dimezzati, in ballo 1.400 dipendenti

Distacchi sindacali dimezzati, in ballo 1.400 dipendenti

Matteo Barbero – Italia Oggi

Sono almeno 1.400 i dipendenti pubblici che dal 1° settembre dovranno rientrare in servizio dal distacco sindacale. È uno degli effetti del taglio delle prerogative sindacali previsto dal decreto Madia sulla p.a. e reso operativo dalla circolare n. 5/2014 diramata la scorsa settimana dalla Funzione pubblica (si veda ItaliaOggi del 23 agosto 2014). L’art. 7 del dl 90/2014 ha previsto che, a partire da settembre, i contingenti complessivi dei distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali già attribuiti al personale delle p.a. siano ridotti del 50% per ciascuna associazione sindacale. Per i distacchi, in particolare, la riduzione è operata con arrotondamento dell’eventuale frazione residua all’unità superiore e non trova, comunque, applicazione qualora l’associazione sindacale sia titolare di un solo distacco sindacale. Entro il prossimo 31 agosto, tutte le associazioni sindacali rappresentative dovranno comunicare la revoca dei distacchi sindacali non più spettanti alle amministrazioni, che a loro volta lo comunicheranno alla Funzione pubblica al fine di consentire le opportune verifiche a consuntivo. Secondo i dati forniti dagli stessi sindacati, i distacchi in essere oscillano tra i 2.700 e i 2.800, la metà dei quali fra pochi giorni dovrà cessare.

Queste cifre, però, si riferiscono alle c.d. unità di lavoro equivalenti, per cui i lavoratori interessati alla misura possono essere in numero maggiore. I risparmi attesi per le casse pubbliche, sempre stando alle fonti sindacali, non dovrebbero superare i 25 milioni di euro. Sebbene si tratti di piccoli numeri, nelle unità operative interessate indubbiamente si pone un problema organizzativo non trascurabile. Non a caso, la circolare n. 5/2014 dedica particolare attenzione al rientro dei dirigenti sindacali oggetto dell’atto di revoca. Questo, infatti, dovrà avvenire nel rispetto dell’art. 18 del CCNQ 7 agosto 1998, nonché delle altre norme di tutela dei dirigenti sindacali previste dagli ordinamenti di settore per il personale in regime di diritto pubblico.