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25 milioni di italiani oggi alla cassa per il saldo Imu-Tasi

25 milioni di italiani oggi alla cassa per il saldo Imu-Tasi

Oltre 25 milioni di italiani sono chiamati a versare il saldo dell’Imu e della Tasi. Nonostante l’abolizione delle tasse sull’abitazione principale, infatti, resta ancora in vigore il prelievo sulle seconde case e sugli immobili diversi dall’abitazione principale. Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia si riduce quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. La pressione fiscale risulta comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando ín termini relativi un corposo più 30,2 per cento. Lo rileva una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro.

A subire il maggiore incremento nel periodo considerato è la quota patrimoniale del prelievo – più che raddoppiata (+173%) secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti – a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti. I 3,6 miliardi di euro di gettito in meno rispetto all’anno precedente sono integralmente attribuibili al taglio della TASI per le abitazioni principali, facendo scendere il gettito da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Restano invece stabili a 20,4 miliardi su base annua le entrate derivanti dall’IMU: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva «solo» 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni fa anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti che passano da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi: 11,4 miliardi in più rispetto al 2011

Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi: 11,4 miliardi in più rispetto al 2011

Venerdì 16 dicembre circa 25 milioni di italiani avranno un importante appuntamento con il fisco e saranno chiamati a versare il saldo dell’Imu e della Tasi. Nonostante l’abolizione delle tasse sull’abitazione principale, infatti, resta ancora in vigore il prelievo sulle seconde case e sugli immobili diversi dall’abitazione principale.

Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia dovrebbe ridursi per quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. La pressione fiscale risulterà a fine anno comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento. Lo rileva una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro.

Immobili

Ciò che ha subito il maggiore incremento nel periodo considerato è la quota patrimoniale del prelievo, più che raddoppiata (più 173 per cento) secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti, a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (meno 29 per cento) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

I tre miliardi e mezzo di calo rispetto all’anno precedente sono integralmente attribuibili al taglio della TASI per le abitazioni principali licenziato dal governo nell’ultima legge di stabilità e che fa passare il gettito della misura da 4,7 a 1,1 miliardi di euro.  Stabili a 20,4 miliardi su base annua sono invece le entrate derivanti dall’IMU: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva “solo” 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni fa anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti che passano da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

“Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – la tassazione sugli immobili nel nostro paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una manovra che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: ha impoverito il patrimonio delle famiglie, messo in ginocchio il settore dell’edilizia e generato grande incertezza, deprimendo consumi e domanda interna”.

Oltretutto sul settore incombe la grande incognita della riforma del catasto: il rischio è quello di una  revisione al rialzo delle rendite, ossia della base imponibile su cui poggiano più di 40 dei 49,1 miliardi che paghiamo ogni anno sui nostri immobili. Con, conseguente, aumento della pressione fiscale sull’intero comparto.

 

La spesa pubblica ha doppiato il PIL

La spesa pubblica ha doppiato il PIL

di Claudio Antonelli – La Verità

La spesa pubblica negli ultimi 10 anni è cresciuta sia in termini assoluti sia in termini pro-capite. Spesso le parti in campo nel gioco della politica sostengono che la spesa pubblica sia troppa o incida solo in parte allo sviluppo del Paese; che la spesa pubblica è male indirizzata; che le tasse sono alte o che le tasse sono alte solo per chi le paga. Altri argomenti, non sempre ben strutturati, vengono avanzati ogni volta che si discute sul peso che dovrebbe avere il pubblico nell’attività economica.

METRO DI PARAGONE

La misura più utilizzata per valutare l’impatto dello Stato sull’attività economica è il Total Tax Rate che, dietro un’espressione inglese di sicuro impatto, cela un semplice rapporto fra il totale delle entrate pubbliche e il Pil. Questa misura non fornisce però alcuna indicazione su come vengano utilizzate queste risorse, se per rilanciare gli investimenti, per pagare pensioni inique o per mantenere enti obsoleti. Il centro studi ImpresaLavoro ha fatto un focus sui dati e ne emerge un quadro difficile: le risorse non hanno prodotto maggiore ricchezza. «Per contribuire a capire meglio come si stia muovendo il nostro Paese in questi anni di cambiamenti strutturali delle economie e delle società, molto più interessante è andare ad analizzare la spesa pubblica», spiega il centro studio ImpresaLavoro. «È qui che si annidano l’altra parte delle informazioni sulle azioni messe in campo dalle varie amministrazioni pubbliche per fronteggiare il cambiamento». Entrare nei dettagli della spesa è un’attività molto complessa resa però più semplice dal dettagliato lavoro svolto dalla Ragioneria Generale dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali. Attraverso una ricostruzione puntuale delle voci di entrata e di spesa divise per settore e aree amministrative, i Cpt danno la possibilità a chi interessato di analizzare in maniera puntale l’attività dello Stato. «Lo Stato è presente e incide sulla nostra vita più di quanto possiamo immaginarci: si tenga conto che dal 2005 al 2014 la spesa pubblica pro-capite è cresciuta più di 1.600 euro», prosegue lo studio della fondazione di Massimo Blasoni. Per averne un’idea prendiamo il dato sulla crescita del Pil e sulla crescita della spesa pubblica.

VARIAZIONI DI SPESA

«Nel confronto fra le variazioni del Pil e della spesa effettiva, si osserva come in alcuni anni la crescita del Pil sia stata ottenuta sostanzialmente modulando la spesa pubblica. Si prenda ad esempio il tasso di crescita nel 2008: senza una vigorosa iniezione di denaro pubblico la crescita dell’economia si sarebbe attestata ad un -4,5%; così, nel 2014 la anemica crescita dello 0,4% si è ottenuta in un momento di riduzione della spesa effettiva: con le stesse risorse pubbliche del 2013 si sarebbe ottenuta una crescita superiore al 2,5%. Se questi interventi non vengono modulati il rischio è quello di trovarsi dipendenti dalla spesa pubblica. Per spiegarsi meglio: mentre la spesa pro-capite aumentava di 1.600 euro fra il 2005 e il 2014, il Pil pro-capite cresceva della metà. Dalla tabella si evince chiaramente come la componente generata dall’attività privata e non da attività pubbliche si è ridotta: se nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 siamo al 45%. Un bel problema, soprattutto se l’obiettivo è, ad esempio, quello di ribaltare queste proporzioni, portando il pubblico al 45% e il privato al 55%. «La presenza della spesa pubblica come generatore del Pil è maggiore di quanto si possa attendere», conclude lo studio. «Questa considerazione deve far riflettere sulla qualità della spesa e sulla sua pervasività in maniera più incisiva e costruttiva di quanto si faccia ora. Uno dei problemi è che la discussione politica affronta la questione da prospettive che servono a colpire il pubblico, più che a formare un’opinione strutturata basata sui dati».

La buona e la cattiva spesa pubblica

La buona e la cattiva spesa pubblica

di Paolo Ermano

Riassunto

La spesa pubblica in Italia ha rappresentato uno strumento fondamentale per sostenere l’economia in anni di caduta del PIL. Questo centro studi più volte ha sottolineato l’importanza di ridurre l’impegno pubblico. Purtroppo è un fatto che l’impegno pubblico negli ultimi 15 anni sia aumentato significativamente, ben oltre quanto il pubblico si possa immaginare.

Entrate o uscite?

Spesso le parte in campo nel gioco della politica sostengono che la spesa pubblica è troppa o incide solo in parte allo sviluppo del Paese; che la spesa pubblica è male indirizzata o che abbiamo per fortuna servizi pubblici di prima qualità; che le tasse sono alte o che le tasse sono alte solo per chi le paga. Altri argomenti, non sempre ben strutturati, vengono avanzati ogni volta che si discute sul peso che dovrebbe avere il pubblico nell’attività economica. La misura più utilizzata per valutare l’impatto dello Stato sull’attività economica è il Total Tax Rate che, dietro un’espressione inglese di sicuro impatto, cela un semplice rapporto fra il totale delle entrate pubbliche e il PIL. Questa è una misura efficace per l’agone politico ma poco significativa perché non dice alcune cose importanti: primo fra tutte, chi contribuisce alle entrate, le imprese o i dipendenti, i consumi o i redditi, i ricchi o i poveri; secondo, non fornisce alcuna indicazione su come verranno utilizzate queste risorse, se per ridurre il debito, per rilanciare gli investimenti, per pagare pensioni inique o per mantenere enti o funzioni obsoleti se non dannosi.

Per contribuire a capire meglio come si stia muovendo il nostro Paese in questi anni di cambiamenti strutturali delle economie e delle società, molto più interessante è andare ad analizzare la spesa pubblica. E’ qui che si annidano l’altra parte delle informazioni sulle azioni messe in campo dalle varie amministrazioni pubbliche (nazionali, regionali o locali) per fronteggiare il cambiamento. Entrare nei dettagli della spesa è un’attività molto complessa resa però più semplice dal dettagliato lavoro svolto dalla Ragioneria Generali dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali (CPT). Attraverso una ricostruzione puntuale delle voci di entrata e di spesa divise per settore e aree amministrative, i CPT danno la possibilità a chi interessato di analizzare in maniera puntale l’attività dello Stato.

Quanto incide la spesa?

Per quanto riguarda la spesa, i CPT ci permettono di valutarne l’ammontare totale e diversi tipi di parziali secondo il principio contabile di competenza per cassa: vengono registrate le spese nel momento in cui l’Amministrazione pubblica eroga i fondi ad una controparte. Così, se andiamo a vedere com’è variata la spesa pubblica negli ultimi 10 anni, ci accorgiamo di un suo aumento sia in termini assoluto che in termini pro-capite (tabella 1).

cpt1

Lo Stato è presente e incide sulla nostra vita più di quanto possiamo immaginarci: si tenga conto che dal 2005 al 2014 la spesa pubblica pro-capite è crescita di più di €1.600. Per averne un’idea prendiamo il dato sulla crescita del PIL e sulla crescita della spesa pubblica. La tabella 2 mette ben in luce qual è il contributo della variazione della spesa sulla crescita del PIL (1).

cpt2

Nel confronto fra le variazioni del PIL e della spesa effettiva, si osserva come in alcuni anni la crescita del PIL sia stata ottenuta sostanzialmente modulando la spesa pubblica. Si prenda ad esempio il tasso di crescita nel 2008: senza una vigorosa iniezione di denaro pubblico la crescita dell’economia si sarebbe attestata ad un -4,5%; così, nel 2014 la anemica crescita dello 0,4% si è ottenuta in un momento di riduzione della spesa effettiva: con le stesse risorse pubbliche del 2013 si sarebbe ottenuto una crescita superiore al 2,5%.

Troppo pubblico?

Ben venga, a parere di chi scrive, la spesa pubblica se ha una funzione contro ciclica di tipo keynesiano: quando i privati non generano reddito, l’intervento dello Stato a sostegno della domanda può essere funzionale alla ripresa economica. Intervento che però deve essere modulato e ben indirizzato; in caso contrario il rischio è quello di trovarsi dipendenti dalla spesa pubblica, una dipendenza difficile da eradicare (tabella 3). Un dato su tutti: come già accennato, mentre la spesa pubblica pro-capite aumentava di €1600 fra il 2005 e il 2014, il PIL pro-capite cresceva della metà.

cpt3

Dalla tabella si evince chiaramente come la componente generata dall’attività privata e non da attività pubbliche (una distinzione utile più al ragionamento che corretta dal punto di vista sostanziale) si è progressivamente ridotta: se nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 siamo al 45%.
Un bel problema, soprattutto se l’obiettivo è, ad esempio, quello di ribaltare queste proporzioni, portando il pubblico al 45% e il privato al 55%.

Conclusioni

La presenza della spesa pubblica come generatore del PIL è maggiore di quanto si possa attendere. Questa considerazione deve far riflettere quella qualità della spesa e sulla sua pervasività in maniera più incisiva e costruttiva di quanto si faccia ora. Uno dei problemi è che la discussione politica e tecnica affronta la questione da prospettive che servono a colpire il pubblico, più che a formare un’opinione strutturata basata sui dati. Per questo l’utilizzo dei CPT, insieme ai molti altri importanti strumenti messi a disposizione del pubblico negli ultimi anni (un plauso ai vari enti che si sono prodigati per aumentare la trasparenza della cosa pubblica), rappresentano un valido strumento per sminare diversi luoghi comuni sul ruolo dello Stato nella nostra economia.


(1) Ricordiamo che il PIL è formato dalla somma di alcune voci che caratterizzano l’impiego di risorse in un Paese. Ricordando l’equazione principale della macroeconomia che viene insegnata il primo anno di ogni corso di laurea in economia, il PIL è dato dalla somma di: consumi, investimenti privati, spesa pubblica (consumi e investimenti pubblici), bilancia dei pagamenti. Ove una componente si riduca, per mantenere costante il valore del PIL è necessario che aumenti un’altra componente

Gli aguzzini delle multe: Milano batte Firenze

Gli aguzzini delle multe: Milano batte Firenze

di Adriano Scianca – La Verità

Le multe stanno diventando una tassa occulta per gli italiani. È Milano la città che, in rapporto ai cittadini maggiorenni residenti, incassa di più dalle multe (138,90 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 158 milioni di euro). Il dato emerge dallo studio effettuato dal Centro studi ImpresaLavoro a partire dai dati del Siope, il Sistema informatico sulle operazioni degli enti pubblici. Oltre al capoluogo lombardo, la città più tartassate da sanzioni amministrative, ammende e oblazioni sono Firenze (99,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 32,58 milioni di euro), Parma (95,12 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 15,47 milioni di euro), Bologna (94,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,47 milioni di euro) e Torino (67 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 50,84 milioni di euro).

In generale, negli ultimi tre anni i Comuni italiani hanno incamerato 3,87 miliardi di euro di gettito extra-tributario grazie alle multe. Le risorse che i municipi ogni anno derivano da questa fonte di guadagno è stabile nel triennio, attestandosi a circa 1,3 miliardi di euro su base annua. Nel 2016, i bilanci dei Comuni potranno contare su incassi complessivi per 1 miliardo 257 milioni di euro. Un dato in leggera discesa rispetto a quello del 2015, quando gli incassi da multe erano arrivati a 1 miliardo 362 milioni e leggermente superiore al dato del 2014 (1 miliardo 254 milioni).

Si noterà che, nella speciale classifica delle città con i contribuenti più «spremuti», manca Roma. C’è in realtà una spiegazione «tecnica»: nel 2016, per problemi legati alla contabilizzazione e comunicazione degli incassi al sistema centrale Siope, i dati della capitale non sono disponibili in forma completa e quindi manca al conteggio complessivo una fetta importante delle sanzioni incassate nel 2016 dall’amministrazione romana. «Quest’anno – ha spiegato Elisa Qualizza, ricercatrice di ImpresaLavoro citata da Repubblica – abbiamo notato valori anomali legati al Campidoglio: se nel 2014 a questo punto dell’anno stimavamo 153 milioni di incassi, e nel 2015 eravamo in linea con 145 milioni, per il 2016 avremmo dovuto scrivere un dato di 46 milioni. Chiaramente non è giustificabile ma imputabile a un difetto contabile». Ecco perché il dato complessivo del 2016 può dirsi sottostimato.

Di sicuro si sa che l’amministrazione Raggi intende attingere proprio al bacino delle multe per colmare la ciclopica voragine dei conti capitolini, a partire da quelle non riscosse, che a Roma sarebbero addirittura più di quelle incassate. In una delibera propedeutica al bilancio previsionale 2017, già approvata dalla Giunta a Cinque Stelle e in attesa del nulla osta dell’aula Giulio Cesare, per l’anno venturo si stima un incremento di 21 milioni nelle entrate derivanti dalle multe rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda le multe già staccate e non ancora riscosse, la Raggi punta a un incremento di oltre un terzo degli incassi, da 115 a 155 milioni di euro. Va detto che, in generale, nel quinquennio 2010-2015 il gettito extra-tributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni riscosso dai Comuni italiani è diminuito di 272,5 milioni di euro. Le cifre complessivamente incamerate sono infatti passate da 1 miliardo 529 milioni nel 2010 a 1 miliardo 257 milioni nel 2015 (-17,82%). Nel 2015 il trend delle riscossioni era rimasto sostanzialmente stabile (+o,24%, pari a circa 3 milioni di euro), passando da 1 miliardo 254 milioni di euro nel 2014 a 1 miliardo 257 milioni di euro nel 2015.

Ciò non toglie che spesso, anziché essere sacrosante punizioni per automobilisti indisciplinati, e quindi potenzialmente pericolosi o dannosi per il prossimo, le multe si rivelano essere facili scorciatoie per amministratori in crisi di ispirazione, con lo specifico obiettivo di fare cassa, costi quel che costi. Anche con l’aiuto delle nuove tecnologie. I vigili urbani, per esempio, sono appena entrati in possesso di «Nuvola It urban security-street monitoring», un dispositivo in grado di segnalare in tempo reale diverse infrazioni, come il passaggio nelle zone a traffico limitato, la mancata revisione del veicolo, la sosta irregolare o l’assicurazione scaduta. Il sistema per ora è stato adottato dal Comune di Pisa ma presto potrebbe essere preso in considerazione da altri Comuni. Ai vigili basterà il numero di targa e verranno rilevate tutte le irregolarità. Per non parlare di Pegasus, sorta di «elicottero-radar» già in uso in Spagna e che sta per arrivare in Italia. Si tratta di un sofisticato sistema comprendente un radar, attraverso cui è molto piu semplice monitorare il traffico e quindi chiunque infranga i limiti di velocità. In termini numerici, lo scato rispetto ai radar fissi è notevole: 17% di controlli contro il 3%.

Blasoni: «Non mi uniformo a Confindustria, io voto No»

Blasoni: «Non mi uniformo a Confindustria, io voto No»

di Antonio Signorini – Il Giornale

Per nulla convinto dal merito delle riforme, sicuro che il governo Renzi abbia sbagliato bersaglio rinunciando a favorire la vera innovazione, quella che si fa con le aziende e nella pubblica amministrazione. Massimo Blasoni è un imprenditore di successo. Al referendum del 4 dicembre voterà No, quindi non seguirà le indicazioni di viale dell’Astronomia. «Non tutti gli imprenditori si uniformano a Confindustria. L’idea che votare Sì rappresenti un momento di innovazione contrasta palesemente con la realtà», spiega al Giornale il presidente del Centro studi ImpresaLavoro.

Eppure secondo il ministro Boschi chi vota No è contro il cambiamento…

«Ci sono due modi diversi di dire No: quello della sinistra più retriva che non vuole cambiare, ma anche quello di chi vuole più innovazione e vuole cambiare o rimuovere tutto ciò che impedisce al Paese di ripartire. Chi vuole dare una risposta al fatto che l’Italia è ancora sotto i livelli di Pil pre crisi, intorno all’uno per cento, contro il 3% di Spagna e Irlanda. La Costituzione va cambiata».

La Carta ha un peso sulla competitività del Paese?

«In negativo, perché risente della presenza nell’Assemblea costituente di un Partito comunista allora rilevantissimo. Va cambiata consentendo più facilmente l’innovazione».

Cosa cambierebbe?

«L’articolo 41».

Perché?

«Al primo comma recita che l’iniziativa privata economica e libera, ma poi si contraddice al terzo comma, stabilendo che l’attività pubblica e privata debba essere finalizzata ai “fini sociali”. Questa pretesa dello Stato di coordinare l’attività economica è un grande freno per l’impresa»›.

Altra obiezione del fronte del Sì: se vince il No, è rischio la stabilità del Paese. Condivide questi timori?

«Il rischio di instabilità nel nostro Paese non si risolve con un Senato di nominati. Pesa semmai la nostra incapacità di fare riforme economiche. La situazione delle pensioni resta grave, così come quella del credito o della giustizia civile. Chi può avere voglia di investire in Italia quando per regolare una qualunque contesa sono necessari anni? A settembre del 2016 il debito è cresciuto di oltre 37 miliardi. Il costo degli interessi è sceso ma la spesa corrente e il debito continuano a crescere. Sono queste le vere cause della instabilità del Paese. La riforma costituzionale è fatta male proprio perché non incide su quei dati strutturali che sono la causa dell’instabilità del Paese».

Nel merito, le riforme del governo la convincono?

«Da cittadino riesco a immaginare con fatica senatori, non eletti ma nominati, che dovranno svolgere il doppio lavoro di rappresentanti in Parlamento ed eletti nei consigli. Le riforme non semplificano il procedimento legislativo come sostiene il governo. Sarebbe stato meglio superare definitivamente il bicameralismo abolendo il Senato».

Che prospettive vede per il dopo voto?

«Io spero che vinca il No, ma ritengo che in ogni caso il Paese abbia bisogno di andare a votare, ha bisogno di una leadership eletta che comprenda fino in fondo i temi dell’economia. Un governo che distribuisca meno bonus e faccia più riforme».

 

Perché la digitalizzazione può far impennare la produttività

Perché la digitalizzazione può far impennare la produttività

di Massimo Blasoni – Formiche.net

Se malauguratamente ci tocca un ricovero in una città che non è la nostra scopriamo che gli ospedali non dialogano informaticamente tra loro, nemmeno in una stessa regione. Eppure cartelle cliniche condivise potrebbero salvarci la vita. Difficilmente in Italia potremo prenotare in via telematica i nostri esami o riceverne a casa l’esito.

Il basso livello di digitalizzazione non riguarda solo la sanità e nemmeno solamente la Pubblica Amministrazione. L’Aci ad oggi tiene aggiornato il Pubblico Registro Automobilistico che contiene informazioni sulle nostre vetture mentre allo stesso compito attende il ministero dei Trasporti attraverso la Motorizzazione. I due archivi gestiscono informazioni analoghe senza comunicare e con un’evidente sovrapposizione. Solo il 10 per cento delle imprese italiane vende anche online i propri prodotti e siamo tra gli ultimi per quanto riguarda l’informatizzazione aziendale.

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Multe: nel 2016 i Comuni incasseranno 1,25 miliardi di euro. Milano, Firenze e Parma le città con il gettito pro-capite più elevato.

Multe: nel 2016 i Comuni incasseranno 1,25 miliardi di euro. Milano, Firenze e Parma le città con il gettito pro-capite più elevato.

Negli ultimi tre anni i comuni italiani hanno incamerato 3,87 miliardi di euro di gettito extratributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni. Le risorse che i municipi ogni anno derivano dalle “multe” è stabile nel triennio, attestandosi a circa 1,3 miliardi di euro su base annua.

Secondo la stima effettuata da ImpresaLavoro su dati SIOPE, nel 2016 i bilanci dei comuni potranno contare su incassi complessivi per 1 miliardo 257 milioni di euro. Un dato in leggera discesa rispetto a quello del 2015, quando gli incassi da multe erano arrivati a 1 miliardo 362 milioni e leggermente superiore al dato del 2014 (1 miliardo 254 milioni).

A pesare, oltre a un calo strutturale di questa voce che è rimasta negli ultimi tre anni sempre molto lontana dal “picco” di 1,53 miliardi del 2010, c’è anche un dato tecnico: nel 2016, per problemi legati alla contabilizzazione e comunicazione degli incassi al sistema centrale Siope, i dati di Roma non sono disponibili in forma completa e quindi manca al conteggio complessivo una fetta importante delle sanzioni incassate nel 2016 dall’amministrazione capitolina.

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ImpresaLavoro ha poi effettuato un’analisi incrociata dei dati SIOPE e Istat sulle sanzioni e ammende riscosse nel periodo 2014-2016 in un campione rappresentativo dei principali Comuni italiani. È risultato così che Milano è la città che in rapporto ai cittadini maggiorenni residenti incassa di più da sanzioni, ammende e oblazioni (138,90 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 158 milioni di euro), seguita da Firenze (99,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 32,58 milioni di euro), Parma (95,12 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 15,47 milioni di euro), Bologna (94,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,47 milioni di euro) e Torino (67 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 50,84 milioni di euro).

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**Dati 2008-2015 definitivi, dati 2016 stima ImpresaLavoro su andamento incassi dell’anno in corso.

Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Il Rapporto Cerved PMI è dedicato all’analisi delle piccole e medie imprese italiane (PMI), individuate in base alla classificazione della Commissione Europea (CE). In particolare, il documento analizza il complesso di società di capitale non finanziarie che soddisfano i requisiti di dipendenti, fatturato e attivi definiti dalla Commissione. In base agli ultimi bilanci disponibili soddisfano i requisiti di PMI 137.046 società, tra le quali 113.387 rientrano nella definizione di ‘piccola impresa’ e 23.659 in quella di ‘media impresa’.Queste società, che rappresentano più di un quinto (il 22%) delle imprese che hanno depositato un bilancio valido, hanno occupato 3,9 milioni di addetti, di cui oltre la metà lavorano in aziende piccole o piccolissime.

Le PMI realizzano un volume d’affari pari a 838 miliardi di euro, un valore aggiunto di 189 miliardi di euro (pari al 12% del Pil) e hanno contratto debiti finanziari per 255 miliardi di euro. Rispetto al complesso delle società non finanziarie, pesano per il 36% in termini di fatturato, per il 41% in termini di valore aggiunto e per il 30% in termini di debiti finanziari. Sono, quindi, una realtà importante e dinamica dell’economia italiana.

Come si può estendere il loro potenziale, specialmente in materia di innovazione? Alcune risposte interessanti sono nello studio “Design Contribution to the Competitive Performance od SME: The Role of Innovation Capabilities” appena pubblicato nella rivista Creativity and Innovation Management (Vol. 25 No.4 pp. 484-499) a cura di Claudio Dell’Era, Gregorio Ferraloro, Roberto Verganti (Politecnico di Milano), Paolo Landoni (Politecnico di Torino), Helena Karlsoon (Malerden University) e dell’economista Mattia Peradotto. Il loro lavoro merita di essere letto e studiato per comprendere meglio il ruolo dell’innovazione attraverso lo studio di sei piccole e medie imprese in Lombardia che hanno recentemente ricevuto finanziamenti per l’innovazione, analizzando il nesso tra questa e la loro accresciuta competitività sui mercati.

Siano i contribuenti a valutare e sanzionare i dirigenti pubblici

Siano i contribuenti a valutare e sanzionare i dirigenti pubblici

di Massimo Blasoni – Libero

In materia fiscale lo Stato ha peccato di presunzione. Dal 1993 ha presunto infatti di conoscere il reddito dei lavoratori autonomi grazie al confronto delle loro dichiarazioni fiscali con i famigerati studi di settore. Il risultato di questa politica è a tutti noto: chi non rientrava in quei parametri spesso astratti di coerenza e congruità andava trattato senza alcun riguardo come un truffatore, mentre agli evasori fiscali era sufficiente dichiarare redditi formalmente in regola con le stime decise a tavolino dallo Stato.

Nel decreto fiscale in corso di approvazione, gli studi di settore vengono ora sostituiti da indici sintetici di affidabilità di ciascun contribuente. Si chiameranno indicatori di compliance e saranno in buona sostanza una pagella stilata dallo Stato, beninteso sulla base di regole e relative punizioni decise dallo Stato. Al netto dell’ennesimo anglicismo, non sembra un gran cambiamento. E se per una volta cambiassimo paradigma? Pensate a cosa succederebbe se fossero invece i contribuenti a poter stilare una valutazione dell’indice di affidabilità delle singole pubbliche amministrazioni, insomma fossero possibili sanzioni per quei dirigenti e funzionari pubblici che lavorano male, con ritardi inaccettabili, di fatto ostacolando l’attività delle imprese e dei lavoratori autonomi.

Non credo di esagerare: in fin dei conti come ricordava Margaret Thatcher «non esistono i soldi pubblici, piuttosto soldi dei contribuenti». La Pubblica amministrazione impiega in media 131 giorni prima di pagare i suoi fornitori privati (ha ancora debiti per 61,1 miliardi) e impone mediamente 227 giorni di attesa per il rilascio di una concessione edilizia. Ci sono aziende sanitarie in Calabria che saldano i propri debiti abitualmente dopo un anno. La giustizia civile richiede mediamente 590 giorni per un esito in primo grado e certo non è finita li. Non sono rari i fallimenti causati da questi ritardi.

Ribadisco: così non può funzionare. Anche perché se un cittadino non paga una qualche tassa scattano (giustamente, sia chiaro) multe severissime, mentre lo Stato paga o giudica quando vuole senza che vi sia nessuna possibilità di sanzione per i suoi ritardi. Dunque per migliorare il rapporto di fiducia fra Stato e imprese perché non affiancare agli indicatori di affidabilità fiscale anche quelli di efficienza per la PA?