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Enti Locali: nel 2016 la spesa corrente di Province e Città Metropolitane si è attestata a 6,8 miliardi di euro

Enti Locali: nel 2016 la spesa corrente di Province e Città Metropolitane si è attestata a 6,8 miliardi di euro

Domenica 8 gennaio 2017 si sono tenute le elezioni per il rinnovo dei Consigli in diverse Province italiane. Elezioni a cui hanno partecipato con diritto di elettorato attivo e passivo soltanto sindaci e consiglieri comunali delle province interessate: una modalità istituita dalla legge Delrio in attesa della possibile abolizione totale delle Province, contenuta nella Riforma Costituzionale bocciata dal referendum dello scorso 4 dicembre. Le province, quindi, restano in Costituzione e rimane aperto il dibattito su quale potrà essere il loro futuro.

Al di là delle semplificazioni giornalistiche e politiche, però, anche dopo l’approvazione del ddl Delrio di Aprile 2014, le Province hanno continuato ad esistere e funzionare. Secondo le stime del Centro Studi ImpresaLavoro, infatti, la spesa corrente degli enti sovracomunali (oltre alla Province ci sono le Città Metropolitane di recente istituzione) si è attestata nel 2016 a 6,8 miliardi di euro. Una cifra stabile rispetto all’anno precedente ma in calo sia rispetto al 2014 (7,3 miliardi) che al 2011 (8,4 miliardi).

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Larga parte di queste uscite sono attribuibili proprio alle amministrazioni provinciali che hanno fatto registrare nel 2016 spese correnti per 4,7 miliardi di euro, in leggero calo rispetto ai 4,9 miliardi del 2015. La flessione è più marcata se confrontata con gli 8,4 miliardi di spese correnti che le Province hanno sostenuto nel 2011.

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Il risparmio è stato in parte riassorbito dalle spese correnti sostenute dalle neo-costituite Città Metropolitane che hanno registrato nel 2016 uscite per questa funzione pari a 2 miliardi di euro (erano 1,8 nel 2015).

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Una diversa analisi della spesa corrente nelle singole Province e Città Metropolitane consente di evidenziare situazioni molto diverse tra loro. ImpresaLavoro ha preso in considerazione la media delle uscite correnti delle Province e Città Metropolitane capoluogo di regione, ricavandone poi il dato pro-capite. Si tratta di un’elaborazione che non intende mettere in evidenza eventuali inefficienze amministrative, quanto più sottolineare come sul territorio nazionale la riforma ha avuto effetti diversi e come quello che comunemente definiamo come “Province” finisce per assumere competenze e raggi di azione molto diversi da territorio a territorio. In testa per spese correnti effettuate c’è la Provincia di Trieste con 321 euro pro-capite, seguita da Potenza (216 €), la Città Metropolitana di Firenze (172€), quella di Torino (154 €) e la Provincia de L’Aquila (154 €). Spendono, invece, meno di 100 euro pro-capite all’anno per cittadino le Città Metropolitane di Palermo (71 €), Bologna (80 €), Milano (95 €) e Napoli (99€). Numeri che certificano come la fase di transizione si stia confermando piuttosto caotica con forti differenze territoriali rispetto alle spese sostenute dai singoli enti: a più di due anni dall’approvazione della riforma Delrio, infatti, le province continuano a impegnare 4,7 miliardi di euro in spese correnti, a cui vanno aggiunti i 2 miliardi delle Città Metropolitane. Un’incertezza destinata ad aumentare in forza della mancata approvazione definitiva della riforma costituzionale.

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Mps, Province, debito. Che cosa succede in Italia?

Mps, Province, debito. Che cosa succede in Italia?

di Massimo Blasoni

Il pendolo del sentiment nazionale è in costante movimento. Se fino a qualche tempo fa riforme e spending review sembravano – almeno a parole – obiettivi imperativi, oggi rischiamo che a prevalere sia il verso contrario. Pensiamo alla crisi economica. Abbiamo provato a uscirne facendo sacrifici ma non ci siamo riusciti e allora esorcizziamo il peso del debito e del deficit tornando a parlare di Stato. Dal mantenimento delle Province alla pubblicizzazione di Monte dei Paschi passando per il desiderio di un ritorno al proporzionale: sembra che da più parti dilaghi il rimpianto del bel tempo andato, quando i problemi si risolvevano con un accordo a tavolino, non importa a quale costo.

Continua a leggere l’intervento sul sito Formiche.net

Ci sono i soldi per Mps ma non per pagare chi lavora per lo Stato

Ci sono i soldi per Mps ma non per pagare chi lavora per lo Stato

di Massimo Blasoni – Libero

Margaret Thatcher amava ripetere che «non esistono i soldi pubblici, esistono quelli dei contribuenti». Difficile sostenere che i nostri governanti abbiano in materia le stesse idee. I 20 miliardi di fondi pubblici che il governo Gentiloni ha appena destinato al salvataggio di Monte Paschi di Siena e di altre banche dissestate (molto spesso da vertici nominati in ragione della loro affiliazione partitica) dimostrano piuttosto il contrario, andando indiscriminatamente a pesare sulle tasche di tutti i contribuenti e ampliando la voragine del nostro debito pubblico. Intendiamoci, questa misura si è resa necessaria come extrema ratio per salvare il nostro sistema creditizio ed evitare il rischio di un effetto domino esiziale per l’intera economia italiana. Pesa però il grave ritardo di una scelta che sarebbe stata molto meno onerosa se decisa anche solo un anno fa, quando Matteo Renzi andava in tv a sostenere che Mps «è una banca risanata e investirci è un affare».

Ma soprattutto questa vicenda dimostra come per Palazzo Chigi non tutte le imprese private siano uguali. Nonostante le reiterate promesse, lo Stato ha infatti continuato ad accumulare uno stock di circa 61 miliardi di euro di debiti commerciali nei confronti delle aziende dalle quali ha a suo tempo acquistato beni e servizi. Se un cittadino non paga le tasse entro il termine dovuto e’ duramente sanzionato, lo stato invece paga i suoi debiti quando vuole e resta impunito. Il suo ritardo nei pagamenti non ha confronti con alcun altro Paese europeo. Queste imprese meriterebbero almeno la stessa attenzione riservata a Monte Paschi e alle altre banche in crisi, se non altro perché molto spesso vengono gestite con maggiore capacità e accortezza. I ritardi nei pagamenti determinano un onere finanziario enorme per le nostre aziende: scontare in banca le fatture non saldate è costato loro nel 2016 oltre 5 miliardi. È anche questa una delle ragioni alla base dell’impressionante ritmo dei fallimenti nel nostro Paese: ogni giorno lavorativo chiudono infatti per insolvenza ben 57 imprese. Alla fine di quest’anno ne saranno fallite ben 14.348 e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse a partire dal 2009. Un dato che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse e che evidenzia come il nostro governo, nei confronti delle aziende private, usi due pesi e due misure.

Non è un paese per giovani

Non è un paese per giovani

di Massimo Blasoni – Panorama

L’Italia rischia di essere un Paese con poche speranze, soprattutto per i giovani. Per quelli che hanno votato no al referendum al Sud perché ritenevano inadeguato il governo: oltre il 70% nelle Isole e giù di lì in Campania e Calabria. Anche per quelli che pensano che sia indispensabile emigrare all’estero per fare carriera, oppure più semplicemente per trovare lavoro. In effetti non sono pochi i giovani italiani che sono emigrati, oltre 60mila quest’anno. Ci dicono i dati ISTAT che le mete preferite sono il Regno Unito e la Germania. Se ne vanno in Paesi che, in effetti, hanno più crescita e meno burocrazia e dove è più facile fare ricerca. La metà di essi sono laureati e più del 5% tra coloro che hanno conseguito un titolo magistrale se ne va entro un anno dalla conclusione degli studi.

Colpisce una ricerca dell’Osservatorio di Demos-Coop. Il 63% dei nostri figli è convinto del fatto che difficilmente riuscirà a raggiungere – non certo a superare – la posizione sociale dei genitori. Il timore che non esistano opportunità e possibilità adeguate fa crescere l’esercito dei Neet. Sono coloro che né studiano né lavorano e il loro elevato numero ci colloca, in questa speciale classifica, all’ultima posizione in Europa. Un triste primato. I giovani sanno che le scelte fatte in passato con politiche previdenziali e lavori ipergarantiti si traducono oggi, per loro, in situazioni di incertezza. Temono di non avere oggi un lavoro e tantomeno, domani, un dignitoso trattamento pensionistico. D’altronde il nostro tasso di occupazione è al 57,2%, venti punti percentuali inferiore a quello tedesco. Così si allarga il solco tra generazioni.

Scontiamo anche un difetto di formazione. Siamo tra gli ultimi in ambito OCSE per risorse investite nell’Università in rapporto al Pil e meno della metà dei ragazzi italiani ha competenze digitali, contro una media europea del 59%. La maggior parte di loro vive a casa: due su tre, il doppio rispetto ai coetanei francesi e tedeschi. Ovviamente un po’ di mammismo c’è, tuttavia non è prevalente. Tra giovani choosy – cioè schizzinosi – come disse la Fornero nel 2012 e i ragazzi che avrebbero la voglia e le potenzialità per fare di gran lunga prevalgono i secondi. Un esempio? Il numero dei giovani imprenditori è in forte crescita; per spirito d’indipendenza e desiderio di realizzazione e non solo per motivi economici. Nel 2015 gli under 35 hanno aperto 120mila nuove imprese, mentre le chiusure sono state 53mila: un forte saldo positivo. Le young start up in Italia sono il 10% circa delle oltre 6 milioni totali, in media più che nel resto d’Europa. Dunque ci sono anche molti giovani che hanno voglia di mettersi in gioco, sia questo per necessità o per inseguire i propri sogni. Per ingrossarne il numero basterebbe che l’assenza di riforme e l’eccesso di burocrazia del nostro Paese non rappresentassero per loro il primo freno. C’è necessità di opportunità più che di aiuti, quello che gli ultimi governi non hanno saputo dare.

E lo Stato non paga 61 miliardi

E lo Stato non paga 61 miliardi

di Leonardo Ventura – Il Tempo

«In questi ultimi 2 armi la Pubblica amministrazione non ha ridotto i tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Sulla base delle ultime stime elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro, lo scorso 31 dicembre (2015 ndr.) questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro». È il bilancio di quanto lo Stato deve ancora dare alle aziende che hanno lavorato per lui. Insomma, quando si tratta di pagare non è certo il più puntuale dei creditori. Una cosa che ovviamente fa infuriare i contribuenti che spesso, per versamenti fatti con qualche giorno di ritardo si vedono recapitare multe salate.

Nel 2014 il debito commerciale della Pubblica amministrazione italiana nei confronti dei fornitori privati ammontava a circa 70 miliardi di euro. Un’informazione preziosa, dal momento che dallo scorso 30 gennaio la «Piattaforma per la certificazione dei crediti» del Mef non ha più aggiornato il monitoraggio del pagamento dei debiti maturati dalla Pa al 31 dicembre 201 All’epoca il Governo sosteneva di aver pagato 36,5 miliardi su un totale di 74,2 miliardi di euro: poco meno della metà del dovuto. Il dato non fa che confermare quanto denunciato già a febbraio dal Centro studi ImpresaLavoro e che fa parte del buon senso economico: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare, solo in parte, i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti che si creano risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pubblica amministrazione (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, ImpresaLavoro ha stimato che questo costo aggiuntivo per gli interessi sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).

A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2,4 miliardi di euro. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.

 

Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0

Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0

Il nuovo contratto collettivo dei metalmeccanici e l’intesa preliminare per la contrattazione nel pubblico impiego, nonché le recenti iniziative parlamentari dedicate alla innovazione del quadro regolatorio in termini di sussidiarietà verso le parti negoziali sono ulteriori e significative prove che il mondo sociale ed economico sta cambiando e con esso le relazioni di lavoro, anch’esse in (difficile) transizione verso il “4.0”. Con l’ebook intitolato “Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0”, che aggrega gli atti del seminario “La fine del diritto pesante del lavoro nella quarta rivoluzione industriale” recentemente promosso dalla Associazione Amici Marco Biagi e alcuni contributi originali dedicati ai recenti rinnovi contrattuali, ADAPT, Centro Studi Internazionali e Comparati Marco Biagi, intende continuare ad esplorare la nuova grande trasformazione del lavoro in atto, in particolare soffermandosi sulle relazioni di lavoro adattive e partecipative che vanno delineandosi come adeguate per valorizzare e non subire i cambiamenti tecnologici.

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La grande fuga dei giovani dall’Italia, nel 2016 fanno le valigie in 123.000

La grande fuga dei giovani dall’Italia, nel 2016 fanno le valigie in 123.000

di Gianluca Baldini – La Verità

Siamo d’accordo tutti. Chi lascia l’Italia per andare a lavorare all’estero non è per forza migliore di chi resta. «Bisogna correggere un’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori», ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. «Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averla più tra i piedi». Ma se, come succede da noi, il fenomeno riguarda ogni anno decine di migliaia di giovani, allora il problema c’è. Anche perché non conviene a nessuno formare professionisti che voi vanno ad arricchire le casse degli altri Paesi.

VIA TRENTINI E FRIULANI

Solo nel 2015 il numero di italiani andati a vivere oltreconfine ha superato per la prima volta la quota di 100.000 unità: si tratta di una cifra pari a due volte e mezzo la media registrata tra il 1995 e il 2010, e superiore di oltre 13.000 unità al dato relativo all’anno precedente, come sottolineano i numeri di una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro basata su dati Istat. In un anno ci siamo giocati la popolazione equivalente di un piccolo capoluogo di provincia: si tratta di un flusso di persone, silenzioso ma incessante, che dal 2010 cresce inesorabilmente in media del 21 per cento all’anno, e che proprio in virtù di questo potrebbe raggiungere le 123.000 unità già nel 2016, a meno che la tendenza non si mentisca.

Calcoli alla mano, nel 2016, a lasciare la nazione potrebbero essere oltre due italiani ogni 1.000. Non poco. Anche se ci sono aree del Paese dove questi numeri sono anche più alti. Come il Trentino Alto Adige (ben il 2,5 per mille di italiani emigrati), il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta (per entrambe il 2,1 per mille), la Sicilia e la Lombardia (2 per mille). Ma se il fenomeno sta aumentando in tutto lo Stivale, le dinamiche che spingono i giovani a fare baracca e burattini nelle varie aree d’Italia sono differenti e a tratti sorprendenti. Per esempio, rispetto alla media 1995-2010, il flusso in uscita degli italiani si è accentuato molto di più in regioni del Nord che – almeno in teoria – dovrebbero offrire più opportunità rispetto alla media. Lombardia ed Emilia-Romagna, assieme a Veneto, Valle d’Aosta, Marche e Umbria, hanno infatti visto il proprio tasso di espatrio quadruplicarsi in pochi anni. In crescita, ma non sono raddoppiati, i tassi di esodo di alcune regioni del Sud. In Sicilia e in Puglia, ad esempio, il numero di ragazzi che ha tentato fortuna non ha raggiunto i livelli di alcune regioni del Nord. Sono invece stabili in Basilicata e addirittura in flessione in Calabria, rispetto alle medie degli anni passati. In linea con la tendenza nazionale (aumento del 150 per cento) i dati di Lazio, Liguria e Friuli Venezia Giulia.

La classifica delle regioni da cui si emigra di più verso l’estero si è però molto rivoluzionata negli anni: rispetto al 2002 la Lombardia è passata dal 12° al 5° posto per espatri in rapporto alla popolazione residente ed ora è tra le regioni più colpite dal fenomeno, mentre la Basilicata è scesa dal 4° all’ultimo posto e la Puglia dal 5° al quart’ultimo.

PARTONO E NON RIENTRANO

Il risultato è interessante anche se si considera il saldo tra le voci di italiani che rientrano e quelli che emigrano. Il bilancio appare strutturalmente negativo fino al 2001 per quasi 12.000 unità annue in media, mentre è positivo nel triennio successivo e, seppur di poco, anche nel 2007. Dal 2008 in poi, invece, la tendenza si inverte nuovamente, raggiungendo dapprima il saldo record di meno 38.000 unità nel 2012 per poi arrivare a quello ancor più ampio di meno 72.000 nel 2015. I dati analizzati dal Centro studi ImpresaLavoro non vanno confusi con quelli dei saldi migratori globali, che includono quelli dei cittadini stranieri che si iscrivono o si cancellano dall’anagrafe e che evidenzierebbero tutt’altra dinamica.

E se non fosse il sistema duale tedesco la soluzione formativa per Industry 4.0?

E se non fosse il sistema duale tedesco la soluzione formativa per Industry 4.0?

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MASSAGLI E., Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Europa, Studium, Roma, 2016

La monografia di Emmanuele Massagli è preziosa sotto molteplici punti di vista. In primo luogo aiuta il lettore, sia esso un addetto ai lavori o un semplice curioso, a conoscere nel dettaglio le peculiarità del modello duale tedesco, ovvero il più citato e lodato sistema formativo dell’Occidente, l’unico capace di garantire crescente occupazione giovanile anche in questi anni di crisi economica.

Il prof. Massagli non si ferma però alla analitica descrizione delle caratteristiche positive, ma, in secondo luogo, dedica ampio spazio anche alla riflessione sulle ombre dell’apprendistato germanico. In particolare l’Autore osserva i limiti di questo modello in un mercato del lavoro sempre più orientato alla conoscenza, alla adattabilità, alla frammentazione dei percorsi lavorativi.

Le imprese hanno meno bisogno che in passato di lavoratori addestrati a mansioni specifiche e cercano collaboratori capaci di affrontare il cambiamento, imparare continuamente, pensare lateralmente. Ecco la tesi dell’Autore: se l’apprendistato inteso come politica di contrasto alla disoccupazione giovanile non è in grado di fare emergere queste competenze, l’apprendistato inteso come dispositivo didattico del metodo della alternanza formativa è invece la più efficace strategia pedagogica per formare il lavoratore del futuro. Occupabile non perché riempito di nozioni tecniche specifiche, ma perché persona integralmente formata, tanto “in teoria”, quanto “in pratica”. Ulteriore passaggio: è quindi assolutamente giustificata la crescente attenzione politica verso l’alternanza tra formazione e lavoro, uno dei capitoli principali della recente riforma La Buona Scuola.

Tenendo però fermo il “nota bene” esplicitato da Massagli: «l’operazione di affermazione del metodo dell’alternanza è impossibile da innestarsi in un sistema scolastico concepito alla radice secondo altri principi, diventati dogmatici col tempo. L’imposizione di legge è sterile negli effetti e, anzi, più facilmente si trasformerà in ostacolo se la preoccupazione dei dirigenti scolastici sarà polarizzata dalla burocratica necessità di adempiere l’obbligo e non dalla pedagogica attenzione alla costruzione di percorsi realmente formativi». La sfida del futuro è allora quella di ripensare la scuola e la formazione professionale italiana riscoprendo la centralità della alternanza formativa (e, quindi, dei tanti dispositivi che la concretizzano) in ogni processo che voglia essere profondamente educativo.

Sulla casa pesano 11 miliardi di tasse in più

Sulla casa pesano 11 miliardi di tasse in più

di Chiara Merico – La Verità

Uno degli argomenti più gettonati dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi è stato il taglio delle tasse a opera del suo governo, un refrain sentito più e più volte, specie nell’ultima fase della campagna elettorale per il referendum. Ma a smentirlo, alla vigilia del giorno in cui 25 milioni di italiani sono chiamati a versare il saldo di Imu, Tari e Tasi, arriva una ricerca del centro studi ImpresaLavoro, secondo cui dal 2011 a oggi il gettito complessivo derivante dalla tassazione sugli immobili è cresciuto del 30,2%, per un incremento su base annua di 11,4 miliardi rispetto a cinque anni fa. Questo anche se nel 2016 il gettito complessivo dovrebbe ammontare a 49,1 miliardi di euro, in calo del 6,1% rispetto al livello record di 52,3 miliardi di euro segnato lo scorso anno.

ANNUNCI TRIONFALI

Insomma, la pressione fiscale sui proprietari di immobili rimane altissima, nonostante l’abolizione della tassa sulla prima casa. E nonostante le rivendicazioni dell’ex premier, che lo scorso febbraio, in una delle sue newsletter Enews scriveva: «Tutti convinti che abbiamo fatto bene ad abbassare le tasse. Ma ciascuno ha la sua personale classifica di quelle che andavano tagliate e di quelle che invece andavano mantenute. Impossibile accontentare tutti. Però (c’è la, ndr.) consapevolezza che rispetto al passato si è cambiato marcia: ora le tasse vanno giù, prima andavano su». Matteo Renzi aggiungeva una lista delle principali obiezioni che si era visto rivolgere: «Perché hai eliminato le tasse sulla prima casa? E perché questa insistenza sugli 80 euro? E perché gli 80 euro alle forze di polizia? E immaginate il resto: Irap, costo del lavoro, tasse agricole, tax credit sulla cultura. Impossibile accontentare tutti, dai».

Certo non è possibile venire incontro a tutte le esigenze, ma a quanto risulta dallo studio di ImpresaLavoro, rispetto al 2011 la pressione fiscale su chi possiede immobili non solo non è calata, ma è aumentata di un terzo. «A subire il maggiore incremento in questi cinque anni è stata la quota patrimoniale del prelievo – più che raddoppiata (+173%), secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti – a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti», si legge nello studio, dove si precisa inoltre che «i 3,6 miliardi di euro di gettito in meno rispetto al 2015 sono integralmente attribuibili al taglio della Tasi per le abitazioni principali, che ha fatto scendere il gettito da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Restano invece stabili a 20,4 miliardi su base annua le entrate derivanti dall’Imu». Ma, sottolinea lo studio, «la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva “solo” 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni fa anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti che passano da 5,6 a 8,4 miliardi di euro». In totale, oggi gli italiani pagheranno 10,1 miliardi di euro di Imu e Tasi, per una media di 535 euro a testa, con punte di oltre mille euro nelle grandi città come Roma, Milano e Bologna. Chi dovesse ritrovarsi impossibilitato a pagare il saldo entro il 16 dicembre potrà in seguito accedere al cosiddetto ravvedimento operoso, che prevede sanzioni crescenti all’aumentare dei giorni di ritardo.

TREDICESIMA MAGRA

Le scadenze di fine anno pesano parecchio, anche sui bilanci familiari dei fortunati che avranno la tredicesima: dei quasi 35 miliardi di euro che gli italiani incasseranno grazie all’assegno supplementare, infatti, solo il 14,8% (pari a 5 miliardi) potrà essere speso per regali, viaggi e feste di fine anno. Il resto, secondo il rapporto di Adusbef e Federconsumatori, servirà per onorare debiti pregressi, pagare rate del mutuo, bolli auto e bollette, e ovviamente il saldo delle tasse per chi ha una seconda casa. In base ai calcoli delle due associazioni dei consumatori, infatti, per questi contribuenti un terzo della tredicesima, in media circa 530 euro, se ne andrà così, cifra che sale a due terzi (1.000 euro) per chi ha un immobile in una grande città. L’Imu sulla seconda casa assorbirà 2,3 miliardi (4-9,5% rispetto al 2015), mentre la seconda rata della Tasi costerà 2,4 miliardi, +9,1% rispetto al 2015. «Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa», osserva Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro, «la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua a essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una manovra che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: ha impoverito il patrimonio delle famiglie, messo in ginocchio il settore dell’edilizia e generato grande incertezza, deprimendo consumi e domanda interna».

Via la Tasi? Non basta, il salasso sulla casa vale 11 miliardi in più

Via la Tasi? Non basta, il salasso sulla casa vale 11 miliardi in più

di Antonio Signorini – Il Giornale

Dovevano essere le tasse delle autonomie locali, quelle pagate in cambio di servizi ben definiti e visibili. Poi, per ammissione dello stesso Mario Monti – che da premier le ha trasformate in un incubo per gli italiani – sono state classificate per quello che sono. Tasse patrimoniali, balzelli che colpiscono la proprietà preferita dagli italiani, quella immobiliare. Oggi scade il termine per pagare il saldo Imu e Tasi per il 2016. Appuntamento fiscale capace di rovinare preventivamente le feste (cade in piena zona regali) e castrare la ripresa dei consumi.

Il centro studi ImpresaLavoro ha calcolato l’entità della stangata. Entro oggi circa 25 milioni di italiani dovranno pagare, nonostante l’abolizione delle tasse sull’abitazione principale. Il mattone resta la forma di risparmio più diffusa in Italia e sono ancora molti a possedere una seconda casa oppure un immobile strumentale. Cioè adibito a un’attività imprenditoriale, categoria inspiegabilmente non inclusa nell’esenzione. Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia si riduce quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento.

«La pressione fiscale risulta comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento», spiega il centro studi presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni. «Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – osserva Blasoni – la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua a essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una manovra che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: ha impoverito il patrimonio delle famiglie, messo in ginocchio il settore dell’edilizia e generato grande incertezza, deprimendo consumi e domanda interna».

I numeri confermano questa lettura. Il gettito fiscale da immobili è aumentato nonostante siano in flessione le compravendite e quindi sia venuto meno molto gettito da imposte di registro. Cresce solo la quota patrimoniale, cioè le tasse pagate solo per il fatto di possedere un bene, più che raddoppiata (+173%) a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti. I 3,6 miliardi di gettito in meno rispetto all’anno precedente sono integralmente attribuibili al taglio della Tasi. Restano invece stabili a 20,4 miliardi su base annua le entrate derivanti dall’Imu: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva 9,2 miliardi. E in cinque anni il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti è passato da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.