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Spesa pubblica e risparmi

Spesa pubblica e risparmi

di Massimo Blasoni – Metro

C’è una sola via per la contrazione drastica e strutturale della spesa pubblica che nemmeno la manovra di quest’anno affronta: occorre che lo Stato riduca il suo campo di azione e, gravati da meno tasse, siano i cittadini e le imprese a occupare quegli spazi. Non è frutto di un ordine necessario che lo Stato gestisca, in via quasi esclusiva, pensioni, scuola, sanità.

I risultati in tema di riduzione della spesa pubblica sono stati in questi anni assai lontani dagli obiettivi che si erano ripromessi i vari commissari alla spending review. Diminuire la spesa è problematico perché significa toccare situazioni di cui molti beneficiano: ridurre privilegi ma anche servizi. Essendo difficile decidere chi scontentare, i tagli di norma sono lineari oppure si tratta di spese differite all’anno successivo. Poco o nulla di strutturale, quindi. Peggio, si tende a tagliare la spesa per investimenti, quella di cui ci sarebbe bisogno in un Paese carente di infrastrutture fisiche e soprattutto digitali, tanto da essere agli ultimi posti in Europa per capacità di innovazione.

La spesa corrente al netto di interessi è passata, in valori assoluti, da 671 a 702 miliardi tra il 2012 e il 2016. Quella per investimenti nell’ultimo quinquennio è scesa di 7,8 miliardi: l’opposto di quello che è successo in Inghilterra. Che ne è stato del taglio delle partecipate? Chi ha novità sulle liberalizzazioni e privatizzazioni per lo più naufragate? Anziché discettare di buona spesa pubblica e di tagli, senza metterli in pratica, occorrerebbe un cambio di prospettiva.

Non è detto che molte delle cose di cui si occupa la pubblica amministrazione non possano essere fatte, e meglio, dai cittadini. Chi spende per se stesso spende con attenzione, diversamente da quello che accade spesso nella PA. Un esempio: il denaro che versiamo per le nostre future pensioni non è ben amministrato dallo Stato. Perché non dovremmo ricorrere al mercato? L’Inps registra passivi pesantissimi anche a causa di evidenti inefficienze e ha uno sterminato patrimonio immobiliare acquistato spesso a prezzi esosi e poi locato per importi magari risibili. Fatta la tara a tutte le indubbie complessità e alle esigenze sociali, qualcuno ha dubbi sul fatto che ognuno di noi gestirebbe meglio quel denaro se potesse farlo, almeno in parte, direttamente?

Paese in ginocchio, falliscono 57 aziende ogni giorno

Paese in ginocchio, falliscono 57 aziende ogni giorno

di Claudio Antonelli – La Verità

Nell’arco delle 24 ore in cui questa edizione sarà valida, in Italia avranno chiuso per insolvenza 57 aziende. È la media aritmetica dei fallimenti registrati. Un numero spaventoso che se viene spalmato dal 2009 a oggi arriva a contare 6 cifre. Se continua cosi chiuderemo, infatti, l’anno con 100.000 imprese finite a gambe all’aria.

I conti li ha fatti il centro studi ImpresaLavoro, presieduto da Massimo Blasoni, e definiscono un Paese in profonda crisi. Rielaborando i numeri forniti da Ocse e Cribis, società di servizi per la gestione del credito, appare chiaro come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di crac superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto alle nostre. Tutti le altre nazioni segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le imprese costrette a chiudere per insolvenza sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). Idem per la Finlandia, il Belgio e la Svezia.

Lo stupore di fronte a tale mortalità dovrebbe però lasciare spazio alla consapevolezza che la nazione che ci ospita è fondamentalmente avversa all’imprenditoria privata. Statalisti nel Dna, i politici che guidano il Paese sono molto restii a ridurre il perimetro della burocrazia e dello Stato. Qui sta il male originario di tutti i problemi e i gravami che cadono sulla testa di chi investe i propri capitali. Lo straripamento della spesa pubblica non genera solo una pressione scale abnorme, che obbliga un’azienda a versare allo Stato non meno di 55 centesimi per ogni euro incassato (arrivano a essere 68 se si aggiungono altri oneri o imposte), ma produce una lunga serie aggiuntiva dí tasse occulte. Sono scartoffie, corsi obbligatori per il personale, certificazioni vissute non come una tutela ma una vera e propria vessazione.

Un artigiano che lavora l’intera settimana senza pause può essere costretto a sborsare 160 euro + Iva per un certificato contro lo stress da lavoro correlato. Chi si occupa di autotrasporto sa che le norme nazionali o regionali sono un labirinto che finisce immancabilmente con un prelievo dal portafogli. Un’azienda che si occupa di impianti termoidraulici e magari ha 5 dipendenti nell’arco di cinque anni avrà finito con lo spendere 4.000 euro per la formazione professionale e oltre 250 ore sottratte alla produttività. In molti si chiedono a che servano i corsi di primo soccorso, se poi nessuno si azzarda a intervenire per timore che arrivi una denuncia penale e si finisca con l’essere processati. Così si chiama sempre il 118. Eppure se il titolare non si mette in regola (serve almeno un dipendente formato) scattano le sanzioni e persino le multe.

Da tenere nel cassetto ci sono anche le certificazioni sul rumore (300 euro + Iva) e il documento per la valutazione dei rischi che ovviamente passa per le mani di un professionista e non costa meno di 380 euro, sempre Iva esclusa. E questa è solo una veloce carrellata che rende l’idea di come la burocrazia appesantisca un’impresa quasi più della pressione fiscale. Certo, un giovane che si mette a fare l’imprenditore capisce subito che dovrebbe trasferirsi altrove. Per avviare un’impresa servono almeno nove procedure e si può arrivare ad attendere 36 mesi per avere tutte le carte in regola. E ci sarà un motivo se le persone pagano più per timore delle multe che per reale convinzione: perché spesso gli adempimenti servono a giustificare l’esistenza di chi li ha inventati.

Ovviamente queste «rogne» riguardano solo le attività che sono in salute. Le altre devono affrontare la rigidità dei finanziamenti, la crisi del credito e alla fine la voragine della giustizia civile. Il primo motivo per cui gli stranieri sono restii a investire in Italia. Nel complesso, l’ambiente è ostile alle aziende. Non è odio. È solo aridità. Come vivere nel deserto se si è una pianta di mele: molto difficile. Non a caso tutte le statistiche internazionali ci dipingono come una nazione del Terzo mondo. Ultimo in ordine di tempo è il Global Competitiveness Index. L’Italia si è piazzata al 44° posto (43° nel 2015) preceduta, tra gli altri, da Islanda 29°, Malesia, Azerbaigian, Federazione Russa e Spagna (33°). L’efficienza del mercato del lavoro è al numero 119 su 138 in classifica. L’efficienza delle istituzioni è al numero 103 e la trasparenza del mercato finanziario al 122° posto. Per innovazione tecnologica ritorniamo nella parte alta della classifica. Come ci riusciamo, con tutte le zavorre, non si sa. Deve essere lo stesso mistero che permette all’Italia di svegliarsi ogni mattina. E ripartire dai fallimenti.

La strage delle imprese: ne chiudono 57 al giorno

La strage delle imprese: ne chiudono 57 al giorno

di Antonio Signorini – Il Giornale

Sempre più difficile fare impresa in Italia. I segnali di ripresa, se ci sono, si traducono in un lieve rallentamento della strage di imprese iniziata già da anni e mai interrotta. Con buona pace di chi ancora vede segnali positivi e incoraggianti. Il Centro Studi ImpresaLavoro ha messo in fila i dati sui fallimenti degli ultimi sei anni. Dal 2009 a oggi sono fallite 95mila imprese e alla fine del 2016 si prevede avranno chiuso i battenti 100mila. Il ritmo è impressionante: in Italia chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo. Fallimenti veri, non un dato fisiologico, rileva il centro studi diretto dall’imprenditore Massimo Blasoni.

ImpresaLavoro, basandosi su dati provenienti dall’Ocse, evidenzia come i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42% rispetto a sei anni fa, cioè da quando è iniziata la crisi mondiale. Sono passati dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato, questo, che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia.

In altre parole il problema dell’Italia non è la crisi della finanza mondiale. Semmai i mercati in tempesta dal 2009 ad oggi, hanno fatto emergere la debolezza del Paese. E l’incapacità della politica a dare risposte ai problemi delle imprese. In tutti gli altri Paesi, c’è infatti stato un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono calate in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). L’unico sollievo per l’Italia è un lieve rallentamento dei fallimenti nei primi due trimestri di quest’anno rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro, alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1.000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014.

Un po’ di ottimismo è d’obbligo, ma il problema è che l’Italia resta lontanissima dai livelli pre-crisi (nel 2009 i fallimenti furono 9.384) ed è sempre più distante dagli altri Paesi europei. La soluzione secondo Blasoni, imprenditore del Nord Est, sono le riforme. «La ripresa del ciclo economico dipende dalla salute delle imprese. Occorrono politiche volte a ridurre il macigno della burocrazia e il peso delle tasse». Altrimenti il rischio è quello di «un ulteriore incremento del numero dei fallimenti».

Dal 2009 sono fallite 100mila imprese italiane

Dal 2009 sono fallite 100mila imprese italiane

Alla fine di quest’anno la crisi avrà fatto fallire nel nostro Paese più di 100mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti dall’Ocse, evidenzia come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015.

Un dato, questo, che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia. Tutti gli altri Paesi segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi due trimestri di quest’anno lasciano intravedere un piccolo rallentamento nel numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1.000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014.

Dati che non possono essere comunque accolti con ottimismo, visto che siamo ancora lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende che fallivano nel 2009. Dall’inizio della crisi a oggi sono fallite nel nostro Paese più di 95mila imprese e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse dal 2009 ad oggi. Il ritmo dei fallimenti è impressionante: nel nostro Paese chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo.

Fallimenti ancora record: tra 2009 e 2016 fallite 100mila imprese

Fallimenti ancora record: tra 2009 e 2016 fallite 100mila imprese

Alla fine di quest’anno la crisi iniziata nel 2008 avrà fatto fallire nel nostro Paese più di 100mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti da OCSE e CRIBIS, evidenzia come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato questo che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’OCSE: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto al nostro paese. Tutti gli altri paesi segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi due trimestri di quest’anno lasciano intravedere un piccolo rallentamento nel numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014. Dati che non possono essere comunque accolti con ottimismo, visto che siamo ancora lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende che fallivano nel 2009. Dall’inizio della crisi del 2008 ad oggi sono fallite nel nostro paese più di 95mila imprese e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse dal 2009 ad oggi. Il ritmo dei fallimenti è impressionante: nel nostro paese chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo.

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Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

di Massimo Blasoni – Il Fatto Quotidiano

Confindustria e diverse altre organizzazioni si schierano apertamente per il Sì al referendum, sostenendo che questa riforma sarà in grado di velocizzare il processo normativo e creare le condizioni per una stabile ripresa economica. Sono un imprenditore anch’io – una realtà che occupa 2.000 persone – tuttavia non sono d’accordo e provo a spiegarne le ragioni.

Primo: le leggi non devono essere approvate velocemente ma semmai scritte bene e in maniera chiara affinché la loro applicazione non venga poi vanificata o ritardata da una pletora di ricorsi. D’altra parte il bicameralismo perfetto, che ora si vuole abolire, non ha mai impedito l’approvazione rapidissima di leggi considerate prioritarie (magari perché utili agli stessi partiti): a dettare i tempi in Parlamento è sempre e soltanto la volontà politica. Non hanno senso poi senatori dopolavoristi e non eletti direttamente.

Secondo: l’economia cresce se si consente agli imprenditori di creare ricchezza e dare lavoro. Non voglio fare il benaltrista, ma credo che sarebbe stato molto più utile modificare l’articolo 41 della Costituzione. Al primo comma recita che «L’iniziativa economica privata è libera». Un principio liberale fondamentale che purtroppo viene subito contraddetto al terzo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». È stata proprio l’osservanza a questo principio ideologico dell’indirizzo statalista che prefigura il “coordinamento” pubblico a costruire un eccesso di regole che frenano lo sviluppo delle aziende, trasformando la burocrazia in un micidiale ostacolo alla crescita economica. Già nel 2010 l’allora ministro Tremonti propose di sostituire quel comma con una frase semplice ma rivoluzionaria: «È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». Una formulazione che avrebbe introdotto, ad esempio, la totale autocertificazione per le Pmi e le imprese artigiane, spostando ex post il momento dei pur necessari controlli e verifiche dei requisiti richiesti per legge. Non se ne fece nulla allora, non se ne è discusso nemmeno questa volta. Ecco perché, al netto di molte altre ragioni, il 4 dicembre voterò no. Con buona pace di Confindustria.

La crescita può attendere

La crescita può attendere

di Massimo Blasoni – Panorama

Diciamolo con chiarezza, i tre anni di governo Renzi sono stati contraddistinti da previsioni di crescita puntualmente smentite – purtroppo in negativo – come le correlate previsioni su deficit e debito. È significativo che il deficit di bilancio resti sostanzialmente inalterato: era il 2,6% nel 2015, pressoché tale è rimasto quest’anno in barba a ogni impegno preso con il Fiscal Compact. Non riusciamo peraltro a uscire dalla spirale perversa di un debito pubblico che ci ripromettiamo di ridurre e che invece continua a crescere.

La crisi economica è globale ma vi sono in Italia aspetti peculiari le cui colpe vanno ascritte al nostro governo. Non si sono infatti ottenuti risultati significativi sul fronte della riduzione della spesa, peggio, si è contratta quella per investimenti mentre è cresciuta quella corrente. Eppure avremmo un gran bisogno di investimenti in infrastrutture fisiche e soprattutto digitali. Per capirci, mentre nel Regno Unito tra il 2010 e il 2015 la spesa per investimenti saliva da 58,6 a 68,1 miliardi, nel nostro Paese è scesa da 46,7 a 37,4 miliardi. Per converso la nostra spesa corrente, al netto degli interessi sul debito, è salita dai 671 miliardi del 2012 ai 701 del 2016. Nel Regno di Sua Maestà, invece, nello stesso periodo si è registrata minor spesa per più di 50 miliardi.

Non induca in errore il fatto che i trasferimenti agli enti locali – comuni e regioni – sono stati ridotti dal nostro governo, perché per contraltare si è ampliata la voragine dei conti INPS e si sono incrementate numerose altre voci di spesa. Nemmeno sul tema lavoro il governo merita la sufficienza. Il Jobs Act funziona poco e, ridotta la decontribuzione, l’occupazione a tempo indeterminato sta calando mentre resta preoccupante il dato relativo ai giovani. La disoccupazione giovanile oggi è 17 punti percentuali superiore a quella del 2007, peggio di noi fa solo la Grecia. Peraltro si investe poco sul futuro: restiamo tra gli ultimi in Europa per numero di laureati, capacità digitale e di innovazione. I vari bonus, partendo dagli 80 euro, non hanno sortito effetti visibili tanto che i consumi domestici languono e la povertà cresce. Nel 2015 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni e 598 mila, il valore più alto registrato nell’ultimo decennio. I primi dati sull’anno in corso purtroppo sono anche peggiori. Infine le tasse: molto si può dire ma il dato oggettivo è che le entrate erariali a luglio di quest’anno erano di circa nove miliardi superiori a quelle incassate dallo Stato nello stesso periodo dell’anno scorso.

Sia chiaro, questo stato di cose – non siamo gufi – non è frutto di un ordine necessario e irreversibile. Abbiamo citato la spending review inglese, potremmo ricordare la crescita spagnola. Per conseguire risultati occorre però un cambio radicale nella mentalità di governo, impresa e sindacato. Un’evoluzione che Renzi non è stato in grado di indurre, troppo preso da interventi in chiave elettorale e poco capace di intuire il tempo a venire. L’attuale legge di Bilancio ne è un esempio: pochi investimenti e troppa attenzione al consenso.

Lavoro: mercato italiano ancora ultimo per efficienza in Europa

Lavoro: mercato italiano ancora ultimo per efficienza in Europa

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 119esimo su 138 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si colloca infatti subito dopo quello dell’Honduras, del Brasile, dell’Isola di Capo Verde e del Kuwait. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel “The Global Competitiveness Report 2016-2017” pubblicato dal World Economic Forum.

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Il Jobs Act continua ad avere un impatto positivo sulla complessiva performance del nostro sistema: anche nell’ultimo anno l’efficienza del nostro mercato del lavoro è migliorata a livello mondiale, passando dalla 126esima alla 119esima posizione. Nonostante questo segnale positivo, però, il nostro continua a restare il mercato del lavoro meno efficiente tra i 28 paesi dell’Unione Europea.
L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa, nonostante il lieve miglioramento registrato negli ultimi due anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, nelle retrovie della classifica europea.

Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 111mo posto al mondo e penultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Svezia e Olanda). Siamo invece al 131esimo posto al mondo e quart’ultimi in Europa per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo (nonché 127esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa siamo 22esimi (e 130esimi nel mondo) per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro (facciamo peggio di Paesi come Lituania, Polonia e Portogallo). Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto siamo 124esimi nel mondo e quart’ultimi in Europa, mentre recuperiamo qualche posizione con riferimento alla capacità di trattenere talenti (107esimi nel mondo e 21esimi in Europa) e di attrarre talenti (105esimi nel mondo e 18esimi in Europa).

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«Il nostro mercato del lavoro – commenta Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro – ha certamente difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Il Jobs Act ha invertito la tendenza all’irrigidimento delle regole che si era verificata con la cosiddetta Riforma Fornero, generando un positivo effetto sulla nostra competitività. Adesso è importante favorire un processo di innovazione anche sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza».

 

Per l’accoglienza dei profughi abbiamo già speso 12 miliardi

Per l’accoglienza dei profughi abbiamo già speso 12 miliardi

di Francesco Borgonovo – La Verità

Ieri Mario Morcone, capo del Dipartimento per l’Immigrazione del ministero dell’Interno, si è presentato davanti al Comitato Shengen per un’audizione. Il superprefetto alle dipendenze di Angelino Alfano è l’uomo che dovrebbe occuparsi di gestire l’emergenza immigrazione per conto del governo. Ma, stando alle sue dichiarazioni, pare che il suo compito sia piuttosto quello di sponsorizzare l’ospitalità. «L’accoglienza ci costa un miliardo e 200 milioni l’anno, ampiamente sotto quello che i migranti che vivono nel nostro Paese e lavorano legittimamente ci restituiscono sotto forma di Pil» ha detto ieri. Quello fornito da Morcone è un dato singolare, che fa a pugni con quanto dichiarato dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan nei giorni scorsi. Nel testo della manovra presentata dal governo, infatti, sta scritto che «al netto dei contributi Ue», il costo dell’accoglienza «è attualmente stimato a 2,6 miliardi di euro per il 2015, previsto a 3,3 miliardi per il 2016 e a 3,8 miliardi per il 2017, in uno scenario costante, assumendo che non ci siano escalation nella crisi».

Dove sta la verità? Quanto ci costa davvero accogliere gli stranieri? A fare chiarezza provvede una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, che vi presentiamo in esclusiva. Le cifre che emergono non soltanto sono altissime, ma sono pure diverse sia da quelle diffuse da Morcone sia da quelle presentate da Padoan. Secondo ImpresaLavoro, infatti, «il conto complessivo negli ultimi sei anni supera gli 11 miliardi di euro, con una progressione impressionante: spenderemo nel 2016 cinque volte la cifra impegnata nel 2011, con un esborso per le casse dello Stato che arriverà a 4,11 miliardi di euro su base annua». Alla fine del 2016, infatti, «saranno sbarcate sulle nostre coste 162mila persone, 9mila in più rispetto allo scorso anno e 8mila in meno rispetto al picco fatto registrare nel 2014, quando arrivarono in Italia 170mila migranti».

C’è un aspetto ulteriore della questione: non soltanto aumentano i flussi, ma crescono le persone che affollano i centri deputati all’ospitalità. «Nel 2013 nel sistema di accoglienza erano ospitate 22.118 persone, praticamente triplicate l’anno successivo (66mila) per superare quota 100mila nel corso del 2015», spiegano gli esperti di ImpresaLavoro. «L’ultima ricognizione è del 18 ottobre e certifica 164mila presenze tra centri di accoglienza, strutture temporanee e sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati». Il settore dell’accoglienza, ad oggi, «assorbe 2,4 miliardi di euro, circa il 50% della spesa complessiva». Nelle voci di bilancio vanno considerati anche il fondo per i minori stranieri non accompagnati e le commissioni territoriali che esaminano le richieste di asilo politico. Poi ci sono le spese amministrative, comprese quelle del ministero dell’Interno. Infine, c’è il soccorso in mare, per cui «spenderemo quest’anno poco più di un miliardo che servirà sostenere le spese per gli uomini e i mezzi della Difesa, delle Capitanerie di porto e della Guardia di Finanza». Non è finita. A tutto ciò vanno aggiunte le spese relative alle cure ricevute dagli stranieri irregolari e rimborsate dal ministero dell’interno alle varie Asl. E come dimenticare i costi per l’istruzione degli alunni stranieri irregolari? «Al 31 dicembre di quest’anno per la somma di queste due funzioni avremo speso ulteriori 689 milioni di euro», dice ImpresaLavoro.

Vediamo allora di tirare le somme. Nel 2011, il totale dei costi dell’accoglienza ammontava a 828 milioni di euro. Nel 2012 siamo saliti a 834 milioni. Nel 2013 eravamo già a 1 miliardo e 255 milioni. Poi si verifica l’exploit: 2,045 miliardi nel 2014 e 2,616 miliardi nel 2015. Per il 2016, la previsione di ImpresaLavoro è di 4,115 miliardi. Significa che, dal 2011 alla fine di quest’anno, gli stranieri irregolari ci saranno costati quasi dodici miliardi (11,7 per la precisione). E per il 2017 la proiezione è di una spesa pari a 4,174 miliardi.

Domanda: come è possibile che le stime di Padoan – utili a ottenere la flessibilità dall’Europa – siano inferiori? Semplice: il ministero dell’Economia ha tenuto conto di un scenario costante». Cioè ha presunto che i flussi di stranieri in entrata non aumenteranno. Tuttavia, i dati forniti dal ministero dell’Interno mostrano un crescente aumento degli sbarchi, quindi le spese sono destinate a salire. Va notato, fra l’altro, quanto sia risibile il contributo dell’Europa. Bruxelles trasferisce al nostro Paese «in media 110 milioni su base annua. Erano 94 milioni nel 2011, sono arrivati a 160 nel 2014 e sono scesi a 112 nel 2016. Niente a che vedere con i 3 miliardi che sono stati riconosciuti alla Turchia».

Secondo Massimo Blasoni, imprenditore e presidente di ImpresaLavoro, «emerge con chiarezza che i costi per la gestione di questa emergenza stanno crescendo esponenzialmente di anno in anno. L’effetto è generato in parte dall’aumento degli sbarchi, in parte dalla lentezza con cui il nostro sistema esamina le richieste di asilo e dispone gli eventuali rimpatri». A parere di Blasoni, «senza una vera politica europea di redistribuzione dei profughi tra tutti i Paesi rischiamo di ritrovarci con una pericolosa bomba nei nostri conti pubblici». Una bomba le cui dimensioni, a quanto pare, sfuggono tanto a Morcone quanto a Padovan.