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Sette anni di guai tra imposte e rincari

Sette anni di guai tra imposte e rincari

di Luigi Frasca

Spesa: Tra 2010 e 2017 la bolletta degli italiani è aumentata di quasi il 9Il 37del prezzo finale è costituito da balzelli. Tariffe giù solo in 8 Paesi Ue • Dal 2010 al 2017 le famiglie italiane hanno visto crescere dell’8,7% i costi per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici. Lo rivela una ricerca del Centro studi Impresa- Lavoro realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Dall’analisi dei dati emerge come rispetto a sette anni or sono il prezzo dell’energia domestica sia diminuito in appena 8 dei 28 Paesi monitorati: Ungheria (-31,0%), Malta (-19,9%), Paesi Bassi (-12,3%), Slovacchia (-8,9%), Lussemburgo (-6,9%), Lituania (-6,3%), Cipro (-4,9%) e Repubblica Ceca (-3,9%).

In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è invece aumentata, e anche in maniera consistente: +51,1% in Lettonia, +48,7% in Grecia, +44,3% in Belgio e +38,9% in Portogallo. Guardando alle grandi economie europee si osserva come l’onere sostenuto dalle famiglie sia cresciuto anche in Francia (+30,9%), Regno Unito (+27,8%), Germania (+26,7%), Spagna (+25,0%) e, come detto, Italia (+8,7%).

Nel nostro Paese il costo per l’energia elettrica domestica (tasse incluse) è infatti passato da 0,1943 euro per kWh nel 2010 a 0,2111 kWh nel 2017. Stimando nel 2017 un consumo medio annuo per famiglia di 3.199 kWh (fonte: osservatorio facile.it) si ottiene così per ogni famiglia una bolletta elettrica di 675 euro su base annua.

A livello europeo solo in Germania, Danimarca, Belgio, Irlanda, Portogallo e Spagna l’energia costa di più che nel nostro Paese. Se invece la stessa famiglia italiana si trovasse a vivere nei Paesi Bassi risparmierebbe 176 euro all’anno, 160 euro se vivesse in Slovenia, 124 se vivesse in Francia e 96 euro se vivesse nel Regno Unito. In Germania, invece, il conto da pagare sarebbe più elevato: +300 euro. Quelli indicati sono costi comprensivi di tasse e accise, che nel nostro Paese costituiscono da sole il 37% del prezzo finale. La loro incidenza risulta peraltro più elevata in Danimarca (68,2%), Germania (54,5%), Portogallo (51,6%), Slovacchia (41,9%), Austria (37,9%) e Grecia (37,3%). Il fisco pesa invece meno nella bolletta delle famiglie che vivono in altre economie continentali: Francia (35,5%), Regno Unito (25,8%) e S p a g n a (21,4%).

«Nel nostro Paese il mercato dell’energia elettrica è stato liberalizzato dal 1° luglio 2007 ma le bollette non sono affatto calate: un paradosso tutto italiano» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Dal 1° luglio 2019, a meno di ulteriori rinvii da parte del nuovo governo, è prevista la fine del regime della maggior tutela (per chi ha mantenuto il proprio storico fornitore di energia) e il passaggio obbligatorio al mercato libero. Si tratta in realtà di una spada di Damocle: coloro che entro quella data non avranno provveduto autonomamente al passaggio a un fornitore sul libero mercato potrebbero confluire nel cosiddetto «servizio di salvaguardia» che già oggi prevede costi maggiori di quelli praticati in regime di maggior tutela.

Benzina, 5 miliardi di tasse in più in 10 anni

Benzina, 5 miliardi di tasse in più in 10 anni

Dal 2008 il gettito delle accise dei carburanti è aumentato del 26,6%. Uno studio elenca tutti i numeri del salasso tributario che rende i nostri distributori tra i più temuti in assoluto. «E se non saranno disinnescate le clausole di salvaguardia, avremo ulteriori rincari»

di GIANLUCA DE MAIO

Cinque miliardi e mezzo di euro. Tanto è aumentato in Italia negli ultimi dieci anni il gettito raccolto dallo Stato grazie alle accise su prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi. A snocciolare i numeri di questo salasso (nemmeno troppo) nascosto a carico dei contribuenti è il Centro studi Impresalavoro, che ha realizzato sul tema una ricerca basata sui dati del Def (il Documento di economia e finanza presentato ogni anno dal governo alle Camere) e della Commissione europea. Nel dettaglio, lo studio mostra come le accise applicate sui carburanti hanno permesso allo Stato italiano di aumentare i propri incassi di 5,4 miliardi di euro in 10 anni. Il gettito totale è infatti passato dai 20,3 miliardi del 2008 ai 25,7 miliardi del 2017 (+26,6%).

Con il suo prezzo di 1,623 euro al litro, la nostra benzina è la quarta più cara del continente, superiore alla media europea dell’ 11,2%. Secondo il centro studi Impresalavoro, riempire il serbatoio costa a noi italiani il 5,2% in più rispetto ai vicini francesi, il 10,1% in più dei tedeschi e addirittura il 26,3% in più rispetto agli austriaci. In tutta Europa pagano la benzina più di noi solamente gli olandesi (1,688 euro al litro), i danesi (1,671 euro) e i greci (1,624 euro). Naturalmente a «fare il prezzo» e a renderlo cosi pesante sono proprio le citate accise. Nel nostro Paese il prelievo statale rappresenta infatti ben il 62,9% del prezzo finale, contro il 59,9% della media europea, il 52,3% della Spagna, il 60,4% della Germania e il 61,5% della Francia.

Non se la passano meglio gli italiani che preferiscono il diesel. Da noi questo tipo di carburante costa 1,501 euro al litro. Per trovarne uno più caro in tutto il continente bisogna andare fino in Svezia, dove il diesel si paga 1,548 euro al litro. Anche in questo caso, l’Italia supera la media europea del 10,7%, e batte in scioltezza Germania (+16,1%) e Austria (+21,7%). La colpa, manco a dirlo, è sempre delle famose tasse, che da sole si prendono il 59,2% del prezzo finale contro il 54,2% della media europea. Le accise sui carburanti in Italia sono ben 17, alcune delle quali, come è noto, risalgono al 1935 e sono a dir poco anacronistiche.

Ogni volta che premiamo il grilletto della pistola del distributore, benzina o diesel che sia, versiamo contributi per varie voci di spesa pubblica a volte innegabilmente assurde, «dalla guerra di Etiopia all’acquisto di autobus ecologici, dal rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004 all’emergenza migranti causata dalla crisi libica», ricorda lo studio di Impresalavoro. Senza contare le varie emergenze, dal terremoto in Emilia (2012) a quelli del Friuli (1976) e dell’Irpinia (1980), dall’alluvione in Liguria (2011) a quella di Firenze (1966).

«Questi numeri», commenta Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del centro studi Impresalavoro, «dovrebbero far riflettere, soprattutto nel momento in cui occorre reperire risorse utili a disinnescare le cosiddette clausole di salvaguardia. Il nuovo governo dovrà infatti reperire ben 12,4 miliardi di euro per il 2019 per scongiurare l’incremento dell’Iva (dal 10% all’11,5% l’aliquota agevolata e dal 22% al 24,2% quella ordinaria) e delle accise. In caso contrario, solo quest’ultima voce porterebbe alle casse dello Stato risorse aggiuntive per 350 milioni annui a partire dal 2020, facendo quindi salire il gettito oltre la soglia dei 26 miliardi. I rincari potrebbero quindi essere consistenti e non dimentichiamo che l’iva si applica anche sulle accise».

Le nostre banche hanno triplicato l’esposizione sui Btp

Le nostre banche hanno triplicato l’esposizione sui Btp

Dal 2007 al 2017 le banche italiane hanno visto crescere i propri depositi di 1.023,4 miliardi (+67%), ma solo 266,7 miliardi (+19%) sono serviti a finanziare famiglie e imprese, mentre 532,8 miliardi (+202%) sono stati usati per triplicare l’esposizione in titoli di Stato. A rivelarlo è una ricerca del centro studi Impresalavoro, realizzata elaborando i dati ottenuti del Sistema europeo delle Banche centrali.
L’Italia si colloca ai primi posti della classifica dei Paesi che negli ultimi dieci anni hanno visto incrementare maggiormente lo stock dei depositi dei propri istituti bancari: da 1.531,4 a 2.554,9 miliardi. Il discorso cambia per quanto riguarda invece l’impiego di tali risorse per prestiti a famiglie e imprese: in questo caso l’Italia si ferma nella seconda metà della classifica, con una crescita del 19%. Nello stesso periodo i prestiti bancari sono invece saliti del 28% in Belgio (+78 miliardi), del 44% in Francia (+727,1 miliardi) e del 65% in Finlandia (+82,7 miliardi).
Nel nostro Paese il Qantitave easing voluto dalla Banca centrale europea ha paradossalmente ristretto l’accesso al credito. Nei primi due anni (dal 2015 al 2017) i prestiti bancari sono diminuiti del 3% a fronte di una crescita in gran parte del resto d’Europa: +6% in Germania (pari a 154,8 miliardi), +8% in Francia (pari a 183 miliardi) e +13% in Belgio (pari a 41,2 miliardi).
Ad aumentare negli attivi dei bilanci bancari italiani è stato semmai l’impiego in titoli di Stato e obbligazionari, triplicati nell’ultimo decennio con un aumento di 532,8 miliardi (+202%). Si tratta di una crescita record, senza uguali nell’Eurozona, a cui si avvicinano solamente quelle dei sistemi portoghese (51,4 miliardi, +176%) e spagnolo (266,9 miliardi, +130%).
«Questi dati confermano la radicale trasformazione del modello di business delle nostre banche rispetto ai livelli pre crisi, al quale è corrisposto un ricorso ben maggiore all’acquisto di titoli di Stato e obbligazionari rispetto agli impieghi a favore di quanti si impegnano ogni giorno a tenere in piedi i bilanci delle proprie aziende e famiglie», ha detto Massimo Blasoni, presidente del centro studi Impresalavoro. «Nemmeno nei mesi del Quantitative easing – strumento che volge ormai al suo termine e che nelle intenzioni del presidente della Bce Mario Draghi doveva assicurare favorevoli condizioni di finanziamento per famiglie e imprese si è potuta apprezzare una, ripresa dei volumi di credito all’economia reale: da allora questi prestiti sono infatti paradossalmente diminuiti del 3% e al tempo stesso è aumentata invece l’esposizione delle banche italiane al debito pubblico. Un’altra preziosa occasione è andata sprecata».

Per stare in piedi l’Inps dovrà vendere gli immobili

Per stare in piedi l’Inps dovrà vendere gli immobili

di Massimo Blasoni – La Verità

Ogni anno le casse pubbliche devono ripianare in deficit e ricorrendo alle tasse la differenza di circa 88 miliardi tra i contributi versati dai lavoratori e gli assegni previdenziali effettivamente erogati, inclusa la spesa assistenziale. A sostenerlo non sono dei profeti di sventura mossi da animosità politica ma il “Rapporto sull’invecchiamento” pubblicato recentemente dalla Commissione europea e debitamente sottoscritto dal nostro Ministero dell’Economia. Non si riesce quindi a comprendere sulla base di quale ragionamento lo stesso ministro Padoan e diversi altri esponenti di governo abbiano voluto a più riprese rassicurarci sostenendo che «il sistema è in equilibrio». Non lo è affatto, e rischia semmai di divenire in breve tempo letteralmente insostenibile per le tasche degli italiani.

A salvarci dal baratro non servirà nemmeno la rigorosa applicazione del severo lascito dal governo Monti: quel meccanismo di innalzamento progressivo dell’età pensionabile, legato all’aspettativa di vita media della popolazione, che alla lunga rischia di produrre effetti perversi. Per essere sostenibile finanziariamente, la riforma Fornero si fondava infatti su due presupposti che purtroppo non si sono finora verificati: una crescita costante del nostro Pil di almeno l’1,5% all’anno e un significativo aumento del tasso di occupazione (cioè del numero degli italiani concretamente al lavoro) che da molti anni ristagna attorno a un misero 58%, dieci punti sotto la media europea.

A tutto questo si aggiunga una gestione certo non brillante dell’INPS, con i suoi bilanci in profondo rosso anche perché appesantiti da oltre 100 miliardi di contributi non riscossi (una situazione paragonabile ai non performing loans che hanno messo in crisi le nostre banche). Forse sarebbe possibile la dismissione di almeno una parte degli immobili di proprietà dell’ente, valutati più di 3 miliardi e acquistati in anni in cui le scelte erano fondamentalmente politiche. Le alienazioni non si fanno però sia a causa dell’asfittico mercato immobiliare sia perché molti di quei 25mila immobili sono stati locati a fitti sin troppo vantaggiosi.

A pagare il conto salatissimo di questa situazione saranno i soggetti meno tutelati dalla politica e dai sindacati: quei giovani che già adesso devono accollarsi il prezzo del sistema retributivo applicato in passato in maniera troppo generosa. Tra lavori discontinui (e quindi versamenti contributivi intermittenti) e ritardato ingresso nel mondo del lavoro i neoassunti finiranno per dover lavorare ben oltre i 70 anni.

Una considerazione conclusiva: non è frutto di un ordine necessario che debba essere lo Stato a gestire i nostri contributi obbligatori. Sarebbe forse preferibile che ci fosse data la possibilità di decidere liberamente dove investirli, optando tra soggetti pubblici e privati in concorrenza tra loro. Passare da un sistema a ripartizione a uno a capitalizzazione rappresenta un passaggio complesso ma a ben vedere non impossibile.

«Basta tasse sulle tasse, l’unica via per crescere è meno spesa pubblica»

«Basta tasse sulle tasse, l’unica via per crescere è meno spesa pubblica»

di Diana Alfieri – Il Giornale

Massimo Blasoni è il presidente del Centro studi di ispirazione liberale ImpresaLavoro ma soprattutto un imprenditore di prima generazione con 2.000 dipendenti che costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani. Le tasse in Italia sono veramente così alte?

«Le basti sapere che negli anni ’70 tasse e imposte rappresentavano il 24% del Pil nazionale, oggi superano il 43%. Nello stesso periodo negli Usa il rapporto è rimasto sostanzialmente inalterato: dal 23,5% al 26,4%. È evidente che con la logica del “tassa e spendi” nel nostro Paese il perimetro di attività dello Stato si è troppo accresciuto. L’Indice delle Libertà Fiscali ci relega all’ultima posizione in Europa, non solo per il carico fiscale ma anche per l’astrusità del sistema e il numero di adempimenti necessari. Negli ultimi cinque anni oltre alle imposte sul nostro reddito sono cresciute le tasse sulle tasse, cioè quelle che paghiamo ad esempio sulla casa ed il risparmio: il prelievo sulle nostre abitazioni è aumentato di 10,6 miliardi, nonostante il taglio della Tasi sulla prima casa».

Un vero salasso che colpisce anche il risparmio…

«Sì perché tra imposte sostitutive sui guadagni, imposte di bollo su depositi e strumenti finanziari e tobin tax nello stesso periodo anche il prelievo sul risparmio è cresciuto di 8,2 miliardi. Siamo vessati da mille gabelle, da quelle sul lusso alle accise, nonché dalle imposte istituite di fatto. Cosa che ad esempio fanno i Comuni quando, visti i tagli agli enti locali, aumentano le rette degli asili piuttosto che le tariffe delle mense scolastiche».

Tasse e burocrazia sono un problema anche per le imprese però…

«È noto che il total tax rate sulle imprese italiane è tra i più alti d’Europa eppure noi ci balocchiamo mentre Trump sta mettendo in atto una rilevante riduzione delle aliquote, dall’attuale 35% al 20% , e nel Regno Unito la corporation tax è già scesa al 19% da aprile. È vero che in Italia c’è stata una timida riduzione dell’Ires ma è stata compensata da altre imposte e l’eccessivo carico complessivo obiettivamente frena lo sviluppo. Ridurre le tasse alle imprese è ineludibile e non sarebbe una misura a favore degli imprenditori ma di tutti i cittadini poiché occupazione e crescita dipendono dalla nostra competitività. C’è poi da dire che si è in larga parte rotto il rapporto di fiducia tra sistema produttivo e Stato. Mettiamola così: se un’impresa non paga le tasse alla data prefissata scattano giustamente sanzioni anche gravissime. Lo Stato invece paga quando vuole i propri debiti con le aziende che lo forniscono. Si tratti di artigiani o di grandi imprese, gli importi complessivamente dovuti sono ancora oggi pari a 64 miliardi. In Italia l’attesa media dei pagamenti supera i 95 giorni, un tempo triplo rispetto a quello tedesco, che obbliga le nostre imprese a fare da banca allo Stato e ad essere a loro volta gravate da onerosi interessi passivi per l’anticipazione del credito. Con una battuta, forse neanche lo sceriffo di Nottingham si comportava così con i sudditi inglesi».

Tutto vero ma per ridurre le tasse occorre trovare le coperture…

«Ovviamente, ed è possibile solo riducendo la spesa pubblica, cosa che gli ultimi governi di sinistra non hanno fatto. La spesa corrente in valore assoluto continua ad aumentare mentre rispetto a sei anni fa si è ridotta di un terzo quella per investimenti: un errore in un Paese che avrebbe invece bisogno di nuove infrastrutture fisiche e soprattutto digitali».

Secondo il Commissario alla Spending Review Gutgeld si è avuta una riduzione dei costi pubblici nell’ultimo triennio pari a 30 miliardi annui, assorbiti però dalla maggior spesa per pensioni e sociale. Tagliare di più vorrebbe dire ridurre i servizi ai cittadini?

«È questa la grande bugia. Si può rendere più efficiente la spesa riducendola senza tagliare i servizi. Lo dimostra il fatto che ci sono regioni italiane – cito Lombardia e Veneto – che hanno bassi costi pro capite annui e ottimi servizi ed altre con incidenza ben maggiore e servizi che fanno acqua. Si stima che se la spesa nelle regioni si avvicinasse a quelle con le migliori performance si renderebbero disponibili tra i 50 e gli 80 miliardi di euro. Sia chiaro, da usare per ridurre le tasse e non per nuova spesa com’è nella tradizione della sinistra».

Che Paese è quello che strangola l’impresa

Che Paese è quello che strangola l’impresa

di Massimo Blasoni – Panorama

La Banca Mondiale ogni anno pubblica il report Doing Business che mette a confronto le principali economie del globo. Si va dal costo dell’energia elettrica alle tasse, dal lavoro alla burocrazia. Al di là del profluvio di numeri darci una letta è significativo. Emerge che è veramente complesso fare impresa in Italia dovendo competere con Paesi obiettivamente più efficienti. Facciamo un po’ di esempi. Un imprenditore italiano, che per insediare la propria impresa debba costruire un edificio, attende mediamente 227 giorni la concessione edilizia. Il suo competitor tedesco otterrà il permesso di costruire in 126 giorni, quello inglese dopo 86. In altre parole, mentre il nostro imprenditore starà ancora affannandosi con le lungaggini della burocrazia, i suoi competitor nelle nuove sedi avranno invece già iniziato a produrre rispettivamente da tre e quattro mesi. Se si trattasse solamente di permessi e autorizzazioni il problema sarebbe circoscritto, purtroppo però c’è molto altro. L’energia in Italia è più cara esattamente del 27 per cento rispetto alla media europea. Solo il 7,6 per cento delle imprese nazionali vende online, anche per l’arretratezza del nostro sistema digitale.

Guai poi a essere fornitori dello Stato. In Italia i debiti della Pubblica amministrazione, che tutti i governi si sono ripromessi di ridurre, vengono saldati mediamente dopo 95 giorni. In Francia gli stessi debiti vengono pagati dopo 57 giorni e in Germania dopo 23. La maggiore attesa, è ovvio, obbliga le imprese ad anticipare il dovuto presso gli istituti di credito con un ulteriore aggravio di costi per gli interessi passivi. Dobbiamo tra l’altro sperare che il nostro imprenditore non si trovi a dover adire le vie legali per recuperare un credito. Si troverebbe in balia di uno dei peggiori sistemi giudiziari d’Europa. Un processo civile dura in media sette anni. Le tasse, è notorio, in Italia sono molto alte ma va anche ricordato che il numero di adempimenti necessario a pagarle è quasi il doppio che in Germania e Regno Unito: 14 contro nove e otto rispettivamente. Tutto questo rappresenta un aggravio in costi e tempo perso. Malgrado questo scenario non incoraggiante le imprese italiane esportano. Pur in un Paese con infrastrutture fisiche e soprattutto digitali inadeguate, nei primi sei mesi del 2017 il fatturato delle esportazioni è aumentato dell’8 per cento rispetto all’anno precedente, più di quello tedesco che è cresciuto del 6 per cento.

Diciamolo con chiarezza, sarà ben difficile che in futuro molti dei nostri figli trovino lavoro nella Pubblica amministrazione, che probabilmente piuttosto vedrà calare il numero dei propri addetti. La crescita dell’occupazione è connessa allo stato di salute e capacità di sviluppo delle nostre imprese. Vien da chiedersi allora perché non si faccia di più per facilitarle almeno sul fronte della sburocratizzazione. Ci sono Paesi dove le regole vengono modificate sulla base delle nuove necessità del mercato: anche così si spiega come in California si siano sviluppati i colossi del mondo digitale. Troppo spesso invece nel nostro Paese le norme esistenti imbrigliano e soffocano la spinta a innovare, preservando un sistema spesso contorto, anacronistico e non in grado di interpretare il futuro. Ne sanno qualcosa gli oltre 50 mila giovani che lo scorso anno hanno lasciato il nostro Paese.

Burocrazia fiscale da record: ci costa un mese di lavoro

Burocrazia fiscale da record: ci costa un mese di lavoro

di Antonio Signorini – Il Giornale

Bocciati su tutti i fronti. In Italia si continuano a pagare troppe tasse. Come se non bastasse, chi fa il proprio dovere di contribuente è vessato da complicazioni varie che si traducono in ulteriori costi. Soprattutto per le imprese, ma anche per le famiglie. La terza edizione dell’Indice delle libertà fiscali di ImpresaLavoro non lascia intravedere nessuna inversione di tendenza. Il centro studi presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni compara 29 economie europee assegnando un punteggio ad ogni Paese su indicatori della Banca mondiale e di Eurostat che riguardano il fisco. L’Italia è all’ultimo posto con un punteggio di 40 su 100 che corrisponde a un’insufficienza piena e inappellabile. La fotografia, spiega Blasoni, «di un’Italia prigioniera delle tasse, ostile agli investimenti e allo sviluppo delle imprese».

Tra gli indicatori il numero medio di ore di lavoro necessarie per sbrigare le pratiche fiscali. In Italia sono 238, quasi trenta giornate lavorative passate tra le scartoffie del fisco. L’Indice ci piazza alle ultimissime posizioni. Se 10 è punteggio del Paese più virtuoso (l’Estonia con 50 ore), noi totalizziamo un 2. Ci sono paesi dove i contribuenti sono messi peggio di noi. Per lo più dell’Est oltre al Portogallo. Gli altri gruppi di testa dell’Europa sono tutti in posizioni migliori. Dalla Germania (218 ore) al Regno Unito (l 10 ore).

Capita che Paesi che si trovano nelle zone basse della classifica su un indicatore compensino con buone performance in altri. L’Italia si distingue per non avere nessun punteggio alto. Il numero di procedure fiscali è di 14 (punteggio 4 su 10), contro le 8 del Regno unito, le 9 della Germania. Sul tax rate che grava sulle imprese (48%), siamo sui livelli della Germania (48,9%), distanti da Lussemburgo (20,5%) ma anche dal Portogallo (39,8%), che evidentemente cerca di compensare svantaggi competitivi abbassando le tasse sulle imprese. Il punteggio dell’Italia sulla pressione fiscale complessiva è il più basso d’Europa: 17 su 30. Voto assegnato su quel 43,4% ufficiale che, come noto, non rappresenta la tassazione media ma il rapporto tra le entrate fiscali e il Pil. Una media che non considera l’evasione fiscale che in Italia resta altissima.

Nessun miglioramento in vista. L’indice sulla differenza della pressione fiscale (la comparazione è tra il 2010 e il 2015) ci assegna un due, giustificato da un aumento del 3,3%. Sotto di noi, Paesi che sono passati per le cure da cavallo delle Troika come Cipro (5,6%) e il Portogallo (3/1%). Nello stesso periodo in Irlanda la pressione fiscale è calata del 7,5%. In Germania dell’1,6%.

La pagella finale dell’Indice delle libertà fiscali ci vede all’ultimo posto, con 40 punti su 100. L’Irlanda – paradiso fiscale in Europa – ne totalizza 80. Primo grande paese europeo il Regno unito, con 59 punti. Le ex socialdemocrazie del Nord si sono ormai consolidate come economie liberali: 56 punti alla Svezia, 53 alla Danimarca e alla Finlandia. Esempio seguito dalla Spagna, 52 punti. Nelle zone basse la Francia, che totalizza 41 punti. La Germania 46. «Paghiamo una pletora di tasse e di tasse sulle tasse perché – commenta Blasoni – dopo aver subito il prelievo sul nostro reddito da lavoro, quando compriamo casa o depositiamo i nostri risparmi veniamo sottoposti a ulteriori gabelle. Occorre costruire un Paese fiscalmente meno vessato, pena il vanificarsi della già debole ripresa».

Italia, fanalino di coda nel digitale

Italia, fanalino di coda nel digitale

di Massimo Blasoni – Italia Oggi

Per quale motivo in Italia il numero delle transazioni commerciali online resta ancora così basso? Certamente gli Italiani non sono molto “digitali”: se guardiamo all’indice DESI (Digital Economy and Society Index) stilato dalla Commissione Europea risultiamo infatti 25esimi su 28 Paesi: peggio di noi fanno solo Grecia, Bulgaria e Romania. Soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi. Una performance che è pari a circa un terzo della media europea (17,8%) e che ci colloca all’ultimo posto in questa particolare classifica. In termini di valori degli scambi, in Italia le transazioni commerciali online costituiscono così appena l’8,8% del totale. Peggio di noi in Europa fanno solo Romania, Lettonia, Grecia, Cipro e Bulgaria. Anche in questo caso risultiamo nettamente sotto la media europea (16,4%) e molto distanti dalle grandi economie: Regno Unito (19%), Francia (16,7%) e Germania (14,4%).

Il gap che ci separa dai maggiori competitor europei è attribuibile innanzitutto all’assenza di investimenti sul piano infrastrutturale ma origina pure da due ritardi: quello culturale del consumatore medio italiano (favorito dal fatto che il nostro è un Paese sempre più vecchio, con metà della popolazione over 45) e quello formativo delle nuove generazioni.

Il tema va affrontato con decisione, si approssimano grandi sfide che non possiamo evitare. Uno studio del World Economic Forum sostiene che entro cinque anni 5 milioni di persone rischiano di essere sostituite da automazione e automi e per il centro studi di Ubs nei prossimi vent’anni la tecnologia soppianterà metà delle attuali professioni. Un altro studio, questa volta del Labour Department degli Stati Uniti, prevede che il 65% dei bambini che oggi vanno alle elementari faranno in età adulta un lavoro che oggi nemmeno esiste. Molti non svolgeranno più in ufficio il proprio lavoro: non solo perché esiste Skype, ma soprattutto perché la connettività superveloce garantisce già una sorta di ubiquità. Quest’ultima in Italia resta però di 8,73 Mbps e ci colloca al penultimo posto in Europa, peggio della Grecia e subito prima della Croazia.

Occorre un cambio di passo a livello nazionale a monte della filiera digitale, in grado di superare con significativi investimenti pubblici le nostre attuali arretratezze. Altrimenti, privati di strumenti adeguati, le nostre aziende e i nostri giovani saranno condannati a perdere in partenza la partita della competizione globale.

Diminuisce il numero delle imprese fallite

Diminuisce il numero delle imprese fallite

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Alla fine di quest’anno la crisi iniziata nel 2008 avrà fatto fallire nel nostro Paese quasi 114mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti da Ocse e Cribis, evidenzia come, rispetto a 8 anni fa, i fallimenti in Italia siano cresciuti del 43,5%, passando dai 9.384 del 2009 ai 13.467 del 2016. Un dato questo che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: solo la Francia (+12,54%) e l’Islanda (+4,94%) hanno registrato l’anno scorso un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia. Tutti gli altri Paesi registrano al contrario un numero di aziende fallite inferiore a quello di 8 anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Olanda (-43,55%) così come in Finlandia (-27,52%), Germania (-25,04%), Svezia (-21,11%), Spagna (-20,61%), Belgio (-12,13%) e Norvegia (-10,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi tre trimestri di quest’anno (8.656 cessazioni di attività) confermano la tendenza della diminuzione del numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2017 saranno fallite in Italia 12.071 imprese su base annua, 1.396 in meno del 2016 e 3.265 in meno rispetto al picco negativo registrato nel 2014 (quando cessarono ben 15.336 attività). Dati certamente confortanti ma che rimangono purtroppo lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende fallite nel 2009. Il ritmo dei fallimenti resta impressionante: nel nostro Paese chiudono per insolvenza 53 imprese ogni giorno lavorativo.

In Italia, ogni giorno, 53 imprese messe Ko dalla crisi

In Italia, ogni giorno, 53 imprese messe Ko dalla crisi

di Elena Barlozzari – Ilgiornale.it

Entro la fine dell’anno saranno quasi 114mila le imprese dello Stivale messe ko dalla crisi. Non si tratta di un’oscura profezia, bensì di un dato reale, fotografato in tutta la sua ineluttabile drammaticità da una ricerca condotta dal Centro Studi ImpresaLavoro.

Il think tank presieduto da Massimo Blasoni si è preso la briga di rielaborare i numeri forniti da OCSE e CRIBIS, evidenziando uno scenario a dir poco fosco: “Rispetto a 8 anni fa i fallimenti in Italia sono cresciuti del 43,5%, passando dai 9.384 del 2009 ai 13.467 del 2016”. In questo ambito il nostro Paese detiene un primato assoluto. Tra le altre grandi economie monitorate dall’OCSE, infatti, “solo la Francia (+12,54%) e l’Islanda (+4,94%) hanno registrato l’anno scorso un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009” ma le proporzioni del fenomeno sono “decisamente più limitate rispetto all’Italia”.

In tutti gli altri Paesi, invece, il numero di aziende fallite è inferiore a quello di 8 anni fa. “Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Olanda (-43,55%) così come in Finlandia (-27,52%), Germania (-25,04%), Svezia (-21,11%), Spagna (-20,61%), Belgio (-12,13%) e Norvegia (-10,25%)”. Tornando all’Italia, il ritmo dei fallimenti è impressionante. Nel Belpaese assistiamo ad uno stillicidio quotidiano: le imprese strozzate dai debiti e costrette a chiudere per insolvenza sono 53 ogni giorno.

A mitigare il quadro tracciato dall’indagine sono alcuni segnali confortanti, quelli relativi ai primi tre trimestri di quest’anno, che confermano la tendenza della diminuzione del numero dei fallimenti rispetto al 2016. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro “alla fine del 2017 saranno fallite in Italia 12.071 imprese su base annua, 1.396 in meno del 2016 e 3.265 in meno rispetto al picco negativo registrato nel 2014 (quando cessarono ben 15.336 attività)”. Siamo però ancora troppo distanti dal traguardo, ossia dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende fallite nel 2009.