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Dal 2007 al 2016 persi in Sicilia quasi 130mila posti di lavoro

Dal 2007 al 2016 persi in Sicilia quasi 130mila posti di lavoro

di Michele Giuliano – Giornale di Sicilia

In 10 anni oltre 130 mila siciliani hanno perso il lavoro. Lo certifica la ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione dei dati Istat. Un dato allarmante, se si pensa che lo stesso valore viene fuori dalla somma dei nuovi disoccupati di tutta Italia. Rispetto al 2007, oggi risultano occupate più persone nel Lazio (+201.070, +9,42%), in Trentino Alto Adige (+31.645, +7,04%), in Toscana (+35.856, +2,34%), in Emilia Romagna (+42.685, +2,2%) e in

Lombardia (+90.958, +2,15%). In questo stesso periodo di tempo si registra una contrazione più marcata degli occupati in tutte le regioni del Sud: Campania (-74.l39, -4,33%), Molise (-5.539, -4,97%), Puglia (-80.425, 6,31%), Sardegna (-43.816, -7,23%), Sicilia (-129.443, -8,74%) e Calabria (-69.093, -11,61%).

Quello delle costruzioni è il comparto che ha registrato il calo più elevato di occupati perdendo il 23,78% degli addetti in sette anni: un’emorragia di 464mila posti di lavoro, che non si è fermata nemmeno negli ultimi due anni, quando gli altri settori hanno fatto segnare timidi segnali di ripresa. Più contenuto il calo degli occupati in agricoltura (-3,35%) e nell’industria (-8,76%) con entrambi i settori che hanno visto crescere negli ultimi due anni il numero dei propri addetti. Cresce invece l’occupazione nei servizi, che oggi è già oltre i livelli fatti registrare prima della crisi (+l,74%): 267mila nuovi posti di lavoro, di cui ben 233mila negli ultimi due anni, a maggior dimostrazione di come sia il terziario il settore che sta trainando maggionznente la ripresa dell’occupazione nel nostro Paese. L’agricoltura fa segnare generalmente cali dei livelli occupazionali pià modesti, con otto regioni italiane che registrano oggi un numero di occupati nel settore superiore a quello del 2008. Sono due regioni del Sud, invece, a far registrare il reoord negativo di posti persi nel settore: in Molise l’occupazione agricola cala del 40,49% e in Puglia del 23,54%. I servizi, come detto, trainano la ripresa: il Lazio da solo (+9,55% di occupati nel settore rispetto al 2008) contribuisce a più di metà della crescita del comparto rispetto agli anni pre-crisi. Soffre anche in questo comparto il Sud del Paese: l’Abruzzo perde l’l l ,46% degli occupati, la Calabria il 9,31%, la Sicilia il 4,40%.

«Mentre tutti gli altri nostri principali competitor europei sono da tempo ritornati ai livelli di crescita pre crisi, l’Italia continua a registrare valori di reddito pro capite e occupazione inferiori a quelli del 2007» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Purtroppo non si è voluto approfittare di questa crisi decennale per cambiare drasticamente le regole del mercato del lavoro e per alleggerire le nostre imprese dal peso esorbitante (e disincentivante) di una tassazione eccessiva nonchè di leggine e regolamenti che imbrigliano la loro azione quotidiana».

E la situazione è drammatica se si guarda ai giovani. Il rapporto CongiunturaRes, prodotto dall’Istituto di Ricerca su Economia e Società in Sicilia, riporta per la Sicilia nel 2016 un tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e 24 anni) del 57,2%. Peggio di noi soltanto la Calabria che segna nel 2016 il 58,7% di disoccupazione giovanile, un punto e mezzo in più rispetto alla Sicilia. Nel 2015 il divario era ancora maggiore, con la Calabria al 65,1% e la Sicilia al 55,9%. In Europa, soltanto l’Andalusia è messa peggio della Sicilia. Nel 2016 il tasso di disoccupazione giovanile nella regione del Sud della Spagna è infatti stato del 57,9%.

Zero tasse sulle start up per rilanciare l’occupazione

Zero tasse sulle start up per rilanciare l’occupazione

di Massimo Blasoni – La Verità

C’è poco per le imprese e il rilancio dell’economia nella legge di Stabilità che verrà portata in Parlamento. Certo non si può pretendere molto da una manovra sostanzialmente assorbita dalla sterilizzazione dell’aumento dell’Iva. Tuttavia sono state proposte soltanto una nuova decontribuzione sulle assunzioni dei giovani a tempo indeterminato (aperte soltanto per il primo anno agli under 35) e il mantenimento degli iper ammortamenti per alcuni investimenti aziendali. Misure condivisibili ma non sufficienti, se solo pensiamo che lo scorso anno sono espatriati ben 124.076 italiani (+15,4% rispetto al 2015), di cui quasi la metà sono giovani, e soprattutto se consideriamo che restiamo l’unico grande Paese europeo con un Pil reale inferiore a quello del 2007, ultimo anno pre-crisi.

Poiché vi è poco spazio per nuova spesa pubblica vanno create le condizioni per nuovi investimenti privati. Occorre sburocratizzare per favorire le imprese esistenti ma necessitiamo anche, e forse soprattutto, di nuove imprese: un’occasione per i giovani per creare occupazione e dispiegare la propria creatività senza dover cercare un approdo fuori dai confini nazionali.

Per favorire la costituzione di start-up esistono decine di programmi di contributi pubblici che Stato e regioni hanno fin qui attivato senza ottenere grandi risultati. Si tratta spesso di misure tortuose (rese impervie da innumerevoli domande, bolli e regolamenti) che rimangono in parte inutilizzate o che paradossalmente impiegano la maggior parte delle risorse nelle strutture pubbliche preposte alle istruttorie dei singoli progetti. Passano anni prima che i richiedenti ricevano finanziamenti o garanzie al credito: nel frattempo l’azienda è autonomamente decollata oppure è già morta.

Un’idea liberale per creare nuove imprese? Ridare vita al decreto Tremonti n. 357 del 1994, che stabiliva la completa detassazione delle nuove imprese costituite da under 32. Toglieva Ires e Irap, eliminava le imposte comunali per l’esercizio di imprese e sugli immobili; toglieva anche la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche e soprattutto (e per ogni tributo) i connessi adempimenti. Quel beneficio valeva per un triennio e sino alla rilevante soglia di un miliardo annuo di lire, cioè un milione di euro attuale o giù di lì. Se riproposta, questa misura potrebbe favorire la nascita di un rilevante numero di imprese e connessi posti di lavoro. Funzionerebbe? All’epoca funzionò e personalmente fu decisiva affinché nel 1996 decidessi anch’io di avviare un’attività con ex compagno di classe: oggi è una Spa che occupa quasi 2.500 persone e opera in tutta Italia.

I conti in disordine del Governo, debito cresciuto di 138 miliardi

I conti in disordine del Governo, debito cresciuto di 138 miliardi

di Valerio Maccari – Il Tempo

Il debito scenderà? Forse, ma per ora siamo sempre più in rosso. Dal 2014 ad oggi il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro: una cifra incredibile, soprattutto se si confronta con le prestazioni di bilancio della Germania, dove nello stesso periodo il fardello è diminuito di 63 miliardi. A fare i conti – sulla base dei dati Bce – è il Centro Studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dei debiti sovrani delle big 5 dell’economia europea: Germania, Italia, Francia, Spagna e Regno Unito.

«Recentemente – scrive il centro studi – il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha annunciato che già nel corso di quest’anno il rapporto debito/Pil del nostro Paese è destinato a scendere in misura significativa. Uno sguardo retrospettivo sui precedenti DEF approvati dai governi ad aprile può aiutarci, però, a capire quanto siano credibili le stime circa un’inversione di questa tendenza». Secondo i ricercatori di ImpresaLavoro, infatti, sul fronte del debito i governi italiani hanno spesso peccato di ottimismo, immaginando nel DEF scenari spesso smentiti – anche in maniera clamorosa, con scostamenti di 7,5 punti percentuali – dalla realtà. Certo l’Italia non è la sola ad aver visto un incremento costante del debito pubblico. Fatta eccezione per la Germania, risultano in crescita tutti debiti pubblici degli altri grandi partner europei: Spagna (+121 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi). Sì, la Francia – finora – ha fatto peggio di noi. Ma parte da una posizione migliore, e occorre considerare che l’analisi si ferma al primo trimestre 2017: da allora Bankitalia ha confermato che da aprile ad agosto il nostro debito è cresciuto di altre 18,6 miliardi, arrivando a quota 2.279 miliardi.

Nei primi otto mesi del 2017 il debito è aumentato di 61,2 miliardi di euro, un dato superiore allo stesso periodo del 2016 (+52,4 miliardi) e del 2015 (+50,6 miliardi). «Nonostante le ripetute rassicurazioni del Governo sull’andamento del nostro debito pubblico, questo continua purtroppo a crescere inesorabilmente», osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Il tema è molto serio perché rappresenta uno degli indicatori più preoccupanti del Paese: gli aumenti ci dicono che gli obbiettivi di riallineamento ai principali partner europei sono un puro miraggio, la timida ripresa in atto non è sufficiente a invertire il trend».

Negli ultimi 3 anni il debito pubblico di Berlino è calato di 63 miliardi, il nostro è invece cresciuto di 138 miliardi

Negli ultimi 3 anni il debito pubblico di Berlino è calato di 63 miliardi, il nostro è invece cresciuto di 138 miliardi

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Dal 2014 ad oggi il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro, mentre quello della Germania è diminuito di 63 miliardi.  È questo uno dei dati che emergono da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, elaborando dati Bce, ha analizzato l’andamento dei debiti sovrani dal 2014 al primo trimestre 2017 delle cinque principali economie europee.

Fatta eccezione per la Germania, che riduce il rapporto debito/Pil dal 76,3% del 2014 al 66,9% di marzo 2017, tutti gli altri Paesi europei vedono crescere questo indicatore. La Spagna supera la soglia psicologica del 100%, passando dal 98,1% del 2014 al 100,4% del 2017 mentre il Regno Unito fa salire il proprio indebitamento statale dal 86,5 all’88% del Pil. Peggio dell’Italia – che dal 131,6% del 2014 è passata al 134,7% del 2017 – ha fatto solo la Francia, che ha visto crescere il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti raggiungendo quota 98,7%: un aumento considerevole ma che va comunque a incidere su un debito percentualmente molto inferiore al nostro.

In valori assoluti, negli ultimi tre anni la Germania ha, come detto, ridotto il suo indebitamento di ben 63 miliardi di euro. Risultano invece in crescita i debiti pubblici degli altri grandi partner europei: Spagna (+121 miliardi), Italia (+138 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi).

L’analisi comparata di ImpresaLavoro si ferma al primo trimestre 2017, data in cui sono disponibili i numeri relativi a tutti i Paesi europei. Un dato questo che rischia di risentire di alcuni aspetti congiunturali tipici dei primi mesi dell’anno in cui storicamente le amministrazioni pubbliche vedono aumentare il proprio stock di debito che va poi riducendosi verso la fine dell’anno.

L’analisi delle storie storiche mensili di Bankitalia conferma tuttavia il trend di crescita del nostro debito: da aprile a luglio il debito pubblico italiano è infatti cresciuto di ulteriori 39,4 miliardi, toccando quota 2.299 miliardi di euro. Nei primi sette mesi del 2017 il debito è aumentato complessivamente di 82 miliardi di euro, un dato in linea con lo stesso periodo del 2016 (+83 miliardi) ma nettamente superiore a quello del 2015 quando il nostro debito era cresciuto “soltanto” di 64 miliardi.

Uno sguardo retrospettivo sui precedenti Def approvati dai governi ad aprile può aiutarci, invece, a capire quanto siano credibili le stime circa un’inversione di questa tendenza. I documenti di programmazione economica hanno infatti, storicamente, il vizio di sottostimare la corsa del nostro debito. Negli ultimi sei anni soltanto in un caso (il 2015) l’esecutivo ha immaginato un rapporto debito/Pil superiore a quello che poi si è effettivamente realizzato. Tutti gli altri Def hanno sempre ipotizzato scenari ottimistici che poi sono stati smentiti dai bilanci consuntivi: gli errori vanno dai 7,5 punti del 2013 allo scostamento tra previsioni e realtà di quest’anno quando il rapporto debito/Pil finale dovrebbe essere “solo” di 0,7  punti superiore a quello ipotizzato da Padoan ad aprile.

«Nonostante le ripetute rassicurazioni del Governo sull’andamento del nostro debito pubblico, questo continua purtroppo a crescere inesorabilmente: da marzo a luglio sono ben 5 i mesi consecutivi in cui il debito statale è aumentato per cifre mensili che vanno dai 2,1 miliardi di giugno ai 20,4 miliardi di marzo» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Il tema è molto serio perché questo rappresenta uno degli indicatori più preoccupanti del nostro paese: se volessimo traguardare il nostro debito ai livelli di quello spagnolo o francese dovremmo auspicare una riduzione pari rispettivamente a 575 e 603 miliardi di euro. Gli aumenti che abbiamo invece riscontrato in questi mesi ci dicono che gli obbiettivi di riallineamento ai principali partner europei sono un puro miraggio: la timida ripresa che pure è in atto, quindi, non è sufficiente a invertire questo trend».

In tre anni vola il debito pubblico in Europa, si salva solo la Germania

In tre anni vola il debito pubblico in Europa, si salva solo la Germania

MILANO – Dal 2014 ad oggi il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro, mentre quello della Germania è diminuito di 63 miliardi. È questo uno dei dati emersi da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, elaborando dati Bce, analizza l’andamento dei debiti sovrani dal 2014 al primo trimestre 2017 delle cinque principali economie europee. Fatta eccezione per la Germania, che riduce il rapporto debito/Pil dal 76,3% del 2014 al 66,9% di marzo 2017, tutti gli altri paesi europei vedono crescere questo indicatore. La Spagna supera la soglia psicologica del 100%, passando dal 98,1% del 2014 al 100,4% del 2017 mentre il Regno Unito fa salire il proprio indebitamento statale dal 86,5 all’88% del Pil. Peggio dell’Italia – che dal 131,6% del 2014 è passata al 134,7% del 2017 – ha fatto solo la Francia, che ha visto crescere il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti raggiungendo quota 98,7%: un aumento considerevole ma che va comunque a incidere su un debito percentualmente molto inferiore al nostro.

In valori assoluti, negli ultimi tre anni, la Germania ha, come detto, ridotto il suo indebitamento di ben 63 miliardi di euro. Risultano invece in crescita i debiti pubblici degli altri grandi partner europei: Spagna (+121 miliardi), Italia (+138 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi). L’analisi comparata di ImpresaLavoro si ferma al primo trimestre 2017, data in cui sono disponibili i numeri relativi a tutti i paesi europei. Un dato questo che rischia di risentire di alcuni aspetti congiunturali tipici dei primi mesi dell’anno in cui storicamente le amministrazioni pubbliche vedono aumentare il proprio stock di debito che va poi riducendosi verso la fine dell’anno.

L’analisi delle storie storiche mensili di Bankitalia, tuttavia, conferma il trend di crescita del nostro debito:  da aprile a luglio il debito pubblico italiano è infatti cresciuto di ulteriori 39,4 miliardi, toccando quota 2.299 miliardi di euro. Nei primi sette mesi del 2017 il debito è aumentato complessivamente di 82 miliardi di euro, un dato in linea con lo stesso periodo del 2016 (+83 miliardi) ma nettamente superiore a quello del 2015 quando il nostro debito era cresciuto “soltanto” di 64 miliardi.

Uno sguardo retrospettivo sui precedenti Def approvati dai governi ad aprile può aiutarci, invece, a capire quanto siano credibili le stime circa un’inversione di questa tendenza. I documenti di programmazione economica hanno infatti, storicamente, il vizio di sottostimare la corsa del nostro debito. Negli ultimi sei anni soltanto in un caso (il 2015) l’esecutivo ha immaginato un rapporto debito/Pil superiore a quello che poi si è effettivamente realizzato. Tutti gli altri Def hanno sempre ipotizzato scenari ottimistici che poi sono stati smentiti dai bilanci consuntivi: gli errori vanno dai 7,5 punti del 2013 allo scostamento tra previsioni e realtà di quest’anno quando il rapporto debito/Pil finale dovrebbe essere “solo” di 0,7  punti superiore a quello ipotizzato da Padoan ad aprile.

«Nonostante le ripetute rassicurazioni del Governo sull’andamento del nostro debito pubblico, questo continua purtroppo a crescere inesorabilmente: da marzo a luglio sono ben 5 i mesi consecutivi in cui il debito statale è aumentato per cifre mensili che vanno dai 2,1 miliardi di giugno ai 20,4 miliardi di marzo» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Il tema è molto serio perché questo rappresenta uno degli indicatori più preoccupanti del nostro paese: se volessimo traguardare il nostro debito ai livelli di quello spagnolo o francese dovremmo auspicare una riduzione pari rispettivamente a 575 e 603 miliardi di euro. Gli aumenti che abbiamo invece riscontrato in questi mesi ci dicono che gli obbiettivi di riallineamento ai principali partner europei sono un puro miraggio: la timida ripresa che pure è in atto, quindi, non è sufficiente a invertire questo trend».

Il debito tedesco cala di 63 miliardi, il nostro salirà al 134,7% del Pil

Il debito tedesco cala di 63 miliardi, il nostro salirà al 134,7% del Pil

di Claudio Antonelli – La Verità

Inarrestabile. Con questo aggettivo il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha definito il calo del debito rispetto al Pil. L’esclamazione non condiva una televendita, tipica della parte bassa del telecomando, ma la Nota di aggiornamento al Def, il documento programmatico per l’economia italiana. Nel testo, sulla quale si basa la manovra da presentare a Bruxelles entro il 20 ottobre, il governo prevede un taglio del debito fino al 129% del Pil. Peccato che arrivi a tale risultato senza tenere conto dei valori assoluti di spesa (in crescita del 3% in tre anni) e soltanto con la speranza di ulteriori impennate dell’industria e del prodotto interno lordo.

Uno sguardo retrospettivo sui precedenti Def approvati dai governi ad aprile può aiutarci, invece, a capire quanto siano credibili le stime circa un’inversione di questa tendenza. I documenti di programmazione economica hanno infatti, storicamente, il vizio di sottostimare la corsa del nostro debito. Negli ultimi sei anni soltanto in un caso (il 2015) l’esecutivo ha immaginato un rapporto tra debito e Pil superiore a quello che poi si è effettivamente realizzato. Tutti gli altri Def hanno sempre ipotizzato scenari ottimistici che poi sono stati smentiti dai bilanci consuntivi: gli errori vanno dai 7,5 punti del 2013 allo scostamento tra previsioni e realtà di quest’anno quando il rapporto tra debito e Pil finale dovrebbe essere “solo” di 0,7 punti superiore a quello ipotizzato da Pier Carlo Padoan ad aprile.

Il che offre pure l’occasione per sfatare un mito dell’antiausterity. Ovvero che tutte le economie Ue in ripresa abbiano spinto il piede sull’acceleratore della spesa per stimolare l’andamento del Pil. Dal 2014 ad oggi il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro, mentre quello della Germania è diminuito di 63 miliardi. La Danimarca ha lasciato per strada ben undici miliardi nello stesso lasso di tempo. L’Olanda 18 e l’Irlanda poco meno di sette. È questo uno dei dati emersi da una ricerca del centro studi ImpresaLavoro che, elaborando dati Bce, ha analizzato l’andamento dei debiti sovrani dal 2014 al primo trimestre 2017 delle cinque principali economie europee. In termini relativi, la Germania è riuscita a ridurre il rapporto tra debito e Pil dal 76,3% del 2014 al 66,9% di marzo 2017, l’Irlanda addirittura del 4,3%, Malta dell’11% e l’Ungheria del 6,9%. Al contrario, tutti gli altri Paesi europei hanno visto crescere questo indicatore. La Spagna supera la soglia psicologica del 100%, passando dal 98,1% del 2014 al 100,4% del 2017 mentre il Regno Unito fa salire il proprio indebitamento statale dal 86,5 all’88% del Pil. Peggio dell’Italia – che dal 131,6% del 2014 è passata al 134,7% del 2017 – ha fatto solo la Francia, che ha visto crescere il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti raggiungendo quota 98,7%: un aumento considerevole ma che va comunque a incidere su un debito percentualmente inferiore al nostro.In valori assoluti, negli ultirui tre anni, la Germania ha, come detto, ridotto il suo indebitamento di ben 63 di euro. Risultano in vece in crescita i debiti pubblici degli altri grandi partner europei: Spagna (+121 miliardi), Italia (+138 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi). L’analisi comparata di ImpresaLavoro si ferma al primo trimestre 2017, data in cui sono disponibili i numeri relativi a tutti i Paesi europei. E può risentire di variazioni a causa di aspetti congiunturali tipici dei primi mesi dell’anno in cui di solito lo stock di debito aumenta.

Un’analisi delle serie storiche mensili di Bankitalia, tuttavia, conferma il trend di crescita del nostro debito: da aprile a luglio il debito pubblico italiano è infatti cresciuto di ulteriori 39,4 miliardi, toccando quota 2.299 miliardi di euro. Nei primi sette mesi del 2017 il debito è aumentato complessivamente di 82 miliardi di euro, un dato in linea con lo stesso periodo del 2016 (+83 miliardi) ma nettamente superiore a quello del 2015 quando il nostro debito era cresciuto “soltanto” di 64 miliardi. «Nonostante le ripetute rassicurazioni del governo sull’andamento del nostro debito pubblico, questo continua purtroppo a crescere inesorabilmente: da marzo a luglio sono ben 5 i mesi consecutivi in cui il debito statale è aumentato per cifre mensili che vanno dai 2,1 miliardi di giugno ai 20,4 miliardi di marzo» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «Il tema è molto serio perché questo rappresenta uno degli indicatori più preoccupanti del nostro Paese: se volessimo traguardare il nostro debito ai livelli di quello spagnolo o francese dovremmo auspicare una riduzione pari rispettivamente a 575 e 603 miliardi di euro. Gli aumenti che abbiamo invece riscontrato in questi mesi ci dicono che gli obbiettivi di riallineamento ai principali partner europei sono un puro miraggio». Se non bastasse, c’è anche l’Fmi a smontare il dati «inarrestabili» di Padoan. Secondo le ultime previsioni macroeconorniche redatte dal Fondo monetario, il debito pubblico italiano salirà quest’anno al 133% in rapporto al Pil, in rialzo rispetto al 132,6% registrato nel 2016. Il prossimo anno, quindi, l’errore di sottovalutazione del Tesoro risulta pari a 1,4 punti percentuali. Ne deriva che la Germania resta un esempio. Mentre l’Italia è un benchmark costantemente negativo. Con qualunque valuta i nostri bilanci sarebbero allo sbando.

L’occupazione risale, ma ancora non basta

L’occupazione risale, ma ancora non basta

di Massimo Blasoni – Panorama

Il lavoro resta il primo problema del nostro Paese. È vero che oggi i dati sull’occupazione, se pur altalenanti, ci vedono finalmente ritornare ai livelli del 2007, cioè l’ultimo anno pre-crisi. Basta però scorrere i dati Eurostat sulla crescita dell’occupazione in Germania per avere l’esatta misura della gravità della situazione italiana. Nello stesso periodo gli occupati tedeschi sono cresciuti di 2 milioni e 800 mila: non avete letto male. Una crescita imperiosa che fa impallidire la nostra modesta ripresa. Il tasso di occupazione tedesco raggiunge il 74,7%, un livello per noi lontanissimo.

Troppo facile e impietoso paragonarci coi primi della classe? Una rilevante crescita si è avuta anche nel Regno Unito, dove ci sono oggi un milione e 800 mila lavoratori in più, e incrementi consistenti si riscontrano anche in Polonia e Ungheria. Peraltro, se distinguiamo per classi d’età, ci accorgiamo che in Italia si registrano ancora oggi forti variazioni negative relativamente al numero degli occupati più giovani mentre si ha un incremento principalmente tra gli over 50.

La spiegazione più plausibile di questo fenomeno è il progressivo aumento dell’età di pensionamento. Insomma, più che un maggior numero di persone con un lavoro si avrebbero lavoratori che vanno più tardi in pensione. Il nostro tasso di occupazione, cioè il numero di persone che effettivamente lavorano non supera il 58%: uno dei più bassi in Europa, dieci punti sotto la media. È un dato che ci accomuna alla Grecia e alla Croazia e che sottolinea il fatto che i Paesi con i fondamentali economici meno solidi sono anche contraddistinti da una minore partecipazione al mercato del lavoro. Pare che il governo intenda reagire a questa situazione con una politica di riduzione del cuneo fiscale per i più giovani, significativa nel primo triennio, più bassa ma protratta nel tempo nel periodo successivo. È uno sforzo lodevole ma non risolutivo, come in fin dei conti hanno dimostrato i frutti modesti della decontribuzione sulle nuove assunzioni del 2015.

Gli obiettivi da perseguire piuttosto si possono trarre dal report annuale sull’efficienza del mercato del lavoro del World Economic Forum che ci classifica 119esimi su 138 Paesi considerati. I motivi del basso rating italiano? Lo scarso legame tra salari e produttività, gli ostacoli nel premiare il merito, la complessità delle relazioni sindacali, la lentezza del contenzioso. Occorre migliorare su questi aspetti se vogliamo che le imprese ricomincino ad assumere: mediamente una causa di lavoro nel nostro Paese dura un anno e due mesi, in Europa la metà.

Un’ultima considerazione, il mercato del lavoro è in grande mutamento anche per l’innovazione tecnologica e l’automazione che tenderà a ridurre il numero di occupati in molti settori. Secondo uno studio della società McKinsey  basato su 820 mestieri, il 49% delle professioni è automatizzabile con tecnologie già sviluppate che devono solo diffondersi. Il nostro Paese è tra gli ultimi in Europa per numero di laureati, tra quelli che spendono meno per formazione permanente dei lavoratori e tra i meno pronti all’evoluzione digitale. Un’evoluzione a cui occorre attrezzarsi in fretta visto che – indebitati come siamo – i nuovi posti di lavoro non si potranno creare per decreto né si potrà scaricare la disoccupazione sul sistema  pensionistico.

Ci vuole uno shock fiscale per riportare l’Italia sulla carreggiata europea

Ci vuole uno shock fiscale per riportare l’Italia sulla carreggiata europea

di Massimo Blasoni – Libero

Almeno in economia, non è affatto detto che chi s’accontenta gode. D’altronde i recenti toni trionfalistici a commento della nostra “ripresina” economica mal si accordano con i freddi dati Ocse. Per il quindicesimo anno consecutivo il Pil italiano è infatti cresciuto a un ritmo inferiore rispetto alla media europea. Dall’introduzione della moneta unica ad oggi, questa differenza di ritmo di crescita (o di decrescita) è oscillata tra il minimo del 2010 (-0,4%) al massimo del 2012 (-2,3%).

Comparando invece l’andamento del Pil italiano con quello tedesco, è interessante notare come, negli anni immediatamente successivi all’introduzione dell’euro, l’Italia sia cresciuta a un ritmo più sostenuto della Germania. Dopo una serie di riforme strutturali coraggiose (ed efficaci) messe in campo dal governo di Berlino, però, la tendenza si è bruscamente invertita. E dal 2006 ad oggi l’andamento del Pil tedesco è stato nettamente superiore a quello del nostro Paese, con la sola eccezione del 2009 (Italia -5,5%; Germania -5,6%). Negli ultimi dieci anni, mentre l’Italia ha perso in media 4 punti decimali di Pil all’anno, la Germania così ha fatto registrare un più che dignitoso +1,4%.

Ma c’è soprattutto un dato che dovrebbe preoccuparci: fatto 100 il Pil reale delle economie occidentali più avanzate nell’ultimo trimestre del 2007, solo noi continuiamo ancor oggi a restare al di sotto dei livelli precedenti alla grande crisi. Francia e Germania sono “emerse” già nel primo trimestre del 2011, nel penultimo trimestre di quello stesso anno è arrivato il turno degli Stati Uniti mentre il Regno Unito ha dovuto aspettare fino al secondo trimestre del 2013. Nel primo trimestre di quest’anno anche il Pil reale della Spagna ha ormai raggiunto il livello pre-crisi. Manca all’appello dunque solo l’Italia (ancora ferma al 94%) e con l’attuale ritmo di crescita la strada per tornare ai nostri livelli pre-crisi appare ancora in salita e incerta. Ma quanto sarà lunga? Continuando con una crescita annua del Pil tra l’1,3% e l’1,5% – e quindi con numeri analoghi a quelli delle previsioni per il 2017 – l’economia italiana tornerebbe ai livelli pre-crisi soltanto tra il 2021 e il 2022. Peccato che la realtà s’incarichi spesso di smentire l’ottimismo dei nostri governi e soprattutto che per quella data sarà trascorso già un decennio da quando tutti i nostri principali competitor saranno usciti dalle secche della crisi. Inutile nasconderci dietro un dito: a forza di crescite annue intorno all’1 virgola qualcosa il vagone italiano rischia di sganciarsi definitivamente dal treno della ripresa europea. Per questo s’impone con urgenza l’adozione di misure coraggiose, di un vero e proprio shock fiscale che alleggerisca finalmente le nostre imprese dall’oppressione tributaria (e burocratica). Accontentarsi non è più possibile.

Gli immigrati fanno perdere all’Italia 5 miliardi l’anno

Gli immigrati fanno perdere all’Italia 5 miliardi l’anno

di Fausto Biloslavo – Il Giornale

Gli immigrati regolari sono una risorsa economica per la scassata Italia? Non proprio: se le entrate per le casse dell’erario ammontano a 20,6 miliardi di euro, le uscite risultano di 25,6 miliardi con un saldo negativo di 5 miliardi. Per non parlare del fatto che in Italia i posti di lavoro per i cittadini extracomunitari aumentano e quelli per i connazionali diminuiscono. In Europa siamo quasi il fanalino di coda rispetto al 24,8 per cento di differenza a favore dei tedeschi doc in Germania.

La Banca centrale europea, l’Inps, il Papa, fondazioni buoniste varie osannano l’impatto economico positivo degli immigrati. «I nostri ricercatori indicano numeri diversi perché non facciamo finta di non vedere», spiega a il Giornale Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. Prendendo spunto dai dati della fondazione Moressa del 2015, che fa parte del coro pro-immigrati come risorsa, risulta che le entrate annue per lo Stato sono di 9,7 miliardi di gettito fiscale e 10,9 miliardi di contributi previdenziali. Il problema è sul calcolo delle uscite riguardo all’impatto economico degli stranieri regolari. Per la sanità, scuola e servizi sociali escono 8,3 miliardi di euro. Per la casa ed ulteriori misure di sostegno vanno calcolati 3,4 miliardi. Tre miliardi sono da aggiungere per carceri e tribunali assieme al lavoro del ministero dell’Interno relativo a sicurezza e permessi. «L’ulteriore dato negativo, che non viene considerato né dalla fondazione, né dal presidente dell’Inps, Tito Boeri, scaturisce dal debito implicito pensionistico», spiega Blasoni. Una bella cifra quantificata in 10,9 miliardi di euro.

Il debito implicito si basa sul fatto che gli occupati di oggi paganti le pensioni per chi ha già maturato i requisiti per goderne con la promessa, o patto generazionale, che ci sarà qualcun altro a fare lo stesso con il loro vitalizio. «Lo Stato sta di fatto contraendo un debito, non dichiarato, e quindi implicito, nei confronti di chi oggi versa i contributi, con la promessa di saldarlo, un domani, attraverso la pensione», spiegano gli addetti ai lavori. «In termini semplici – sottolinea Blasoni – i contributi che oggi vengono versati dagli extracomunitari si tradurranno in pensioni che dovremmo pagare un domani». Oltre a quelle legate ai contributi effettivamente versati ce ne saranno non poche slegate da questo sistema. «Già oggi su 81.660 pensioni pagate agli stranieri ben 49.852 sono pensioni sociali, che non derivano dal lavoro svolto», spiega. Il risultato è che fra entrate ed uscite, in relazione all’impatto economico degli stranieri in Italia, Pantalone perde ogni anno 5 miliardi.

Il Centro studi ImpresaLavoro fornisce anche altri dati, che dovrebbero far scattare qualche campanello d’allarme sull’aprire troppo le braccia, come vuole il Papa, all’accoglienza. Dal 2008 al 2016 gli occupati italiani sono scesi di 1.043.337 unità. Al contrario gli stranieri regolari hanno registrato un’impennata di 710.826 occupati. E non si tratta solo dello stereotipo legato ai lavori che gli italiani non vogliono più fare. Non è un caso che, secondo una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro sui dati Eurostat 2016, «il tasso di occupazione degli italiani tra i 15 e i 64 anni residenti nel nostro Paese è del 57 per cento, un dato che ci accomuna alla Croazia». Gli extracomunitari occupati ci superano con il 57,8 per cento. Germania, Regno Unito, Francia e Spagna battono nettamente l’Italia. I tedeschi hanno un tasso di occupazione dei cittadini «nazionali» del 76,5 per cento rispetto a quelli extracomunitari del 51,7 per cento con una differenza del 24,8 per cento. Blasoni fa notare che «nessuno ha propensioni xenofobe, ma dobbiamo stare attenti sui flussi ragionati. L’arrivo di immigrati regolari rischia di sostituire gli italiani nel mercato del lavoro».

Ma gli italiani non si accorgono della ripresa

Ma gli italiani non si accorgono della ripresa

di Enrico Marro – Corriere della Sera

La crescita dell’economia si consolida, ma la soddisfazione del governo non trova uguale riscontro nelle famiglie. Che spesso non si accorgono di questa ripresa. Perché? Una prima risposta e che essa è piccolina, intorno all’1,5% quest’anno, forse un po’ meno nel 2018. Lontana, per esempio, dalla crescita del 2,1% prevista dall’Ocse per l’area euro o dal 2,2% stimato per la Germania. Inoltre, da noi la recessione è stata più lunga e duratura. Tanto che il Pil in Italia è ancora di circa 6 punti inferiore a quello del 2007. E se il Pil pro capite era di 28.700 euro dieci anni fa, nel 2016 è stato di 25.900 euro. Ogni italiano deve insomma recuperare ancora 2.800 euro per tornare ai livelli pre crisi, sottolinea il centro studi Impresa Lavoro. È vero, nel 2016 c’è stato un miglioramento (che continua anche quest’anno) rispetto ai 25.600 euro di Pil pro capite del 2015, ma si tratta di 300 euro: in media 25 euro al mese a testa, «che non cambiano certo la vita delle persone», osserva Enrico Giovannini, ordinario di Statistica economica all’Università Tor Vergata e portavoce dell’Alleanza per lo sviluppo sostenibile.

Giovannini, già presidente dell’Istat e poi ministro del Lavoro, ha introdotto in Italia gli indicatori del Bes, il Benessere equo e sostenibile, che hanno proprio lo scopo di andare oltre il parametro del Pil per rappresentare lo stato di salute di un’economia. Nel Def dello scorso aprile il governo ha per la prima volta inserito un allegato con quattro indicatori del Bes (su un totale di dodici) messi a punto da una commissione di esperti cui ha partecipato lo stesso Giovannini. Ci sono il reddito medio disponibile pro capite, l’indice di diseguaglianza, il tasso di mancata partecipazione al lavoro, le emissioni di CO2 e altri gas inquinanti. Entro febbraio di ogni anno il governo dovrà presentare una relazione al Parlamento sull’impatto delle politiche di bilancio sugli indicatori del Bes.

Il reddito medio disponibile pro capite «aggiustato», ovvero inclusivo del valore dei servizi in natura forniti dalle istituzioni pubbliche e senza fini di lucro, era nel 2016 di 21.725 euro, meglio del 2015 (e il miglioramento continua nel 2017) ma ancora sotto i 22.154 euro del 2008. Del resto, anche il livello dei consumi delle famiglie, sebbene in ripresa (+1,3% nel primo trimestre dell’anno), è ancora di oltre 3 punti inferiore a quello del 2007. Nel frattempo le persone in condizioni di povertà assoluta sono raddoppiate, da 2,4 milioni nel 2007 a 4,7 milioni nel 2016. E così il tasso di disoccupazione, passato dal 5,7% dell’aprile 2007 all’11,3% del luglio scorso, in pratica da circa 1,5 milioni a 3 milioni di persone in cerca di un lavoro.

È vero, gli occupati sono tornati ai livelli pre crisi, con circa 23 milioni di persone che lavorano. Ma in termini di Ula, cioè Unità di lavoro a tempo pieno, mancano 1 milione di unità, sottolinea ancora Giovannini. Questo significa, tra l’altro, che è aumentata l’incidenza del lavoro a tempo parziale (dal 14 al 19% degli occupati), mentre, come confermano i dati di ieri dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps, meno di un’assunzione su quattro (il 24,2%) di quelle effettuate nei primi sette mesi di quest’anno è stata a tempo indeterminato, contro il 38,8% dello stesso periodo del 2015, l’anno della decontribuzione. Esaurita la quale, i contratti precari sono tornati a farla da padrone. E le retribuzioni lorde di fatto restano al palo: perdono nel secondo trimestre del 2017 lo 0,3% rispetto a un anno prima.

La ripresina è stata trainata dalle esportazioni più che dalla domanda interna. Ne hanno beneficiato soprattutto le aziende che producono per l’estero, che hanno goduto anche del petrolio a buon mercato, dei tassi d’interesse ai minimi e del taglio di Ires e Irap. La pressione fiscale azionata dallo Stato è leggermente scesa anche perle famiglie, soprattutto per i lavoratori dipendenti tra 8 e 26 mila euro di reddito, grazie al bonus da 80 euro. Ma il beneficio è stato spesso compensato dalla corsa delle tasse locali. Insomma, nonostante il peggio sia alle spalle, non c’e da scialacquare.