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Cantieri chiusi, persi 31 miliardi. La metà al Sud

Cantieri chiusi, persi 31 miliardi. La metà al Sud

Sergio Governale – Il Mattino

In soli cinque anni, dal 2010 al 2014, l’Italia ha perso investimenti per una cifra superiore al 3% del Pil, pari a quasi 49 miliardi di euro. A uscirne più penalizzato è stato il comparto delle costruzioni, che ha visto crollare la relativa spesa di 30,7 miliardi. A calcolarlo è ImpresaLavoro, centro studi fondato dall’imprenditore Massimo Blasoni. Ma il dato è molto più allarmante al di sotto del Garigliano, avverte il presidente di Ance Salerno Antonio Lombardi, secondo il quale ben la metà di questo valore è riferibile al Sud. «Il settore delle costruzioni pesava cinque anni fa peril 10,5% circa sul Pil nazionale – spiega quest’ultimo – e al Sud questo valore è più elevato del 3,3% rispetto alla media. Considerando che l’edilizia è uno dei primi settori, se non il primo, dell’economia meridionale, possiamo quindi senz’altro dire che la metà di questo valore è riferibile al Sud – aggiunge Lombardi -. Inoltre, al Sud abbiamo ancora 15 miliardi di fondi Por ancora da spendere».
Impresa Lavoro ricorda che le costruzioni rappresentano il 51,2% del totale degli investimenti del nostro Paese. «Questo settore – dice Blasoni – ha visto calare gli investimenti di 30 miliardi dal 2010 al 2014 e da qui arriva il più grosso contributo al rallentamento delle spese complessive per investimento». Nel complesso, si legge nel rapporto del Centro Studi, gli investimenti in costruzioni passano dal 10,6% del Pil del 2010 al 8,6% del 2014. Nello stesso periodo, invece, gli investimenti in costruzioni sono cresciuti in Germania dello 0,8%, nel Regno Unito dello 0,7% e calati in Francia solo dello 0,5%. In valori assoluti, prosegue il presidente di Impresa Lavoro, «questo significa che gli investimenti in costruzioni sono cresciuti di 5,7 miliardi in Francia (dove cala la percentuale su un Pil che cresce, quindi aumenta leggermente il valore assoluto), di 54 miliardi in Germania e di 49 miliardi nel Regno Unito». Secondo Blasoni, «è difficile immaginare una ripresa robusta e stabile se non ripartono gli investimenti, sia privati che pubblici. Non va dimenticato – osserva – che lo Stato non è certo un buon esempio in questo senso, avendo tagliato tra il 2009 e il 2013 ben 15,9 miliardi di investimenti pur aumentando nel complesso il resto delle spese per 20 miliardi. Ed è sempre la mano pubblica che con l’inasprimento fiscale sugli immobili ha determinato il brusco rallentamento del settore edile. Emergono ora alcuni segnali positivi come la crescita dei mutui casa rispetto allo scorso anno, per cui è fondamentale riuscire a far ripartire gli investimenti anche agendo sulla leva fiscale».
Lombardi – ricordando che in Italia il comparto è tornato ai livelli della fine degli anni Settanta e che in Campania si sono persi con la crisi 35mila posti di lavoro – denuncia che ci sono ancora 1,7 miliardi di euro di fondi europei da spendere nella nostra regione entro fine anno, di cui 1,2 miliardi di lavori già partiti «che non saranno però mai completati per dicembre. La Regione ha già chiesto una proroga sulla rendicontazione per i lavori oltre 5 milioni. Ma ci sono 400 Comuni campani sui 551 totali che prevedono lavori per importi inferiori e che, dunque, rischiano di non reggere. Senza la regia di un super-ente regionale per la spesa dei fondi europei e senza procedure più snelle e meno “burocratiche” – è l’amara conclusione di Lombardi – il Mezzogiorno rimarrà al palo».
La spesa delle regioni continua a correre

La spesa delle regioni continua a correre

Leonardo Ventura – Il Tempo

Nonostante gli annunci di spending review, la spesa corrente delle Regioni continua a crescere: è quanto emerge dall’analisi effettuata dal Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i dati resi noti recentemente dalla Corte dei Conti, ha notato come la spesa pubblica corrente delle Regioni nel periodo 2011-2014 sia cresciuta di 3,9 miliardi di euro, passando da 141,7 a 145,6 miliardi (+2,76%). Non tutte le Regioni si sono comportate allo stesso modo. Quelle a statuto speciale hanno ridotto le loro uscite per spese correnti del 2,46%, passando da 31,3 a 30,6 miliardi di euro tra il 2011 e il 2014. Questo «tesoretto» di 0,7 miliardi di risparmi è stato interamente vanificato dall’incremento delle uscite delle Regioni a statuto ordinario, dove la spesa passa da 110,4 a 115,0 miliardi di euro (+4,25%). Fanno eccezione alcune regioni più «virtuose» come la Lombardia e l’Abruzzo.
Al netto degli importi riversati allo Stato per il cosiddetto Fondo di Solidarietà, la Lombardia emerge come la Regione che ha effettuato i maggiori tagli alla spesa corrente, scesa dell’11,63%. L’Abruzzo ha ridotto le proprie spese correnti del 6,09%. Il Lazio, al contrario, detiene il record del maggiore incremento della spesa nel periodo considerato (+33,33%) seguito dalla Calabria (+3l,06%). Tra gli enti a statuto speciale buone performance di riduzione della spesa sono state registrate dalla Provincia Autonoma di Bolzano (-6,33%) seguita dalla Sardegna (-5,94%).
Sempre la Lombardia si conferma la Regione più virtuosa in quanto a spesa corrente pro-capite. Per ogni cittadino la Regione spende infatti 1.739 euro a cittadino, meno della metà di quanto esce dalle casse del Lazio, che con i suoi 3.129 euro di spesa corrente pro-capite fa segnare l’esborso più elevato. Tra le autonomie speciali, invece, è la Valle d’Aosta ad avere una spesa corrente pro-capite decisamente superiore alla media delle altre regioni, ordinarie e non. A causa anche della piccola dimensione e dell’impossibilità strutturale di fare alcune economie di scala, ogni cittadino valdostano costa 8.995 euro ogni anno di spesa corrente. Chi spende di meno per spesa corrente pro-capite è la Sicilia con i suoi 2.529 euro, seguita da Sardegna e Friuli Venezia Giulia. La spending review sembra invece funzionare in Lombardia e Abruzzo: le due Regioni con la minor spesa corrente pro-capite sono anche quelle che hanno effettuato i tagli di spesa più consistenti.
Regioni spendaccione: niente tagli, più costi

Regioni spendaccione: niente tagli, più costi

Sergio Governale – Il Mattino

I tagli piovono a ogni manovra, ma la macchina statale costa ogni anno sempre di più. In particolare quella delle Regioni. Dopo la «Relazione sugli andamenti della finanza territoriale per il 2014» della Corte dei Conti, diffusa poco prima di Ferragosto, è ImpresaLavoro a calcolare che la spesa corrente delle Regioni continua a crescere, «nonostante gli annunci di spending review più volte fatti dai vari governi». Rielaborando i dati della magistratura contabile, il Centro Studi di ispirazione liberale nato su iniziativa dell’imprenditore Massimo Blasoni ha notato «come la spesa pubblica corrente delle Regioni nel periodo 2011-2014 sia cresciuta di 3,9 miliardi di euro, passando da 141,7 a 145,6 miliardi». Più virtuose nel periodo le Regioni a statuto speciale, che hanno diminuito le uscite in media del 2,5%, creando un «tesoretto», come lo ha definito ImpresaLavoro, pari a 700 milioni, «interamente vanificato dall’incremento delle uscite delle Regioni a statuto ordinario», dove la spesa è aumentata di quasi 5 miliardi, «passando da 110,4 a 115 miliardi». Tra queste ultime, spiccano il Lazio e la Calabria, dove le uscite sono cresciute nel quadriennio di oltre il 30%: più 33,33% nel primo e più 31,06% nella seconda.
Non va meglio se si guarda soltanto alla variazione dal 2013 al 2014. In un anno, infatti, le spese correnti degli stessi enti hanno registrato un incremento rispettivamente del 31,45% e del 21,95%. «Medaglia di bronzo» all’Umbria: più 11,11% nel quadriennio e più 8,3% nell’ultimo anno. In fondo alla classifica la Lombardia, che ha effettuato i maggiori tagli ai costi correnti, scesi dell’11,63%. Seguita dalla Provincia autonoma di Bolzano (meno 6,33%), da Abruzzo (meno 6,09%), Sardegna (meno 5,94%) e Sicilia (meno 2,18%). Si è comportata bene anche la Campania: meno 1,96% dal 2001 al 2014, che però ha visto salire le spese correnti nell’esercizio 2014 del 3,57%.
Nel complesso, si legge nello studio, «l’incremento della spesa corrente nel quadriennio per il totale delle Regioni è stato contenuto: più 2,76%». Gli enti a statuto ordinario hanno invece aumentato la propria spesa del 4,25% mentre, come detto, quelle a statuto speciale l’hanno ridotta del 2,46%». Guardando alla spesa corrente pro-capite del 2014, la lombardia è rimasta la Regione più virtuosa. L’ente che ha sede a Milano ha speso infatti l’anno scorso 1.739 euro per ogni residente, meno della metà di quanto è uscito dalle casse del Lazio, che con i suoi 3.129 euro ha fatto segnare l’esborso più elevato tra le Regioni a statuto ordinario, seguito ancora una volta dalla Calabria con 2.638 euro. Per Palazzo Santa Lucia l’uscita per abitante è stata pari a quasi 2.160 euro.
Tra le autonomie speciali, invece, è la Valle d’Aosta ad aver avuto una spesa corrente pro-capite decisamente superiore al resto d’Italia. «Ogni cittadino valdostano è costato l’anno scorso quasi 9.000 euro», ha spiegato ImpresaLavoro. Mentre «chi spende di meno» nella stessa tipologia di ente «è comunque la Sicilia con i suoi 2.529 euro». Secondo il Centro Studi, la spesa di larga parte delle autonomie, benché più elevata della media delle Regioni a statuto ordinario, «si è sensibilmente ridotta in questi anni di spending review, mentre appaiono incomprimibili larga parte delle uscite sostenute dalle Regioni a statuto ordinario, che rappresentano quasi l’80% della spesa totale».
Il lavoro dei responsabili della revisione della spesa pubblica Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, che mirano a ottenere risparmi per almeno 10 miliardi per la manovra 2016 da 25-30 miliardi, è comunque arduo. Secondo Unimpresa, la spesa dello Stato nel primo semestre del 2015, in base ai dati di Bankitalia, è aumentata infatti di quasi 18 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con una crescita superiore al 7%. Sono «in dubbio gli effetti della spending review, alla base del piano di tagli alle tasse da 45 miliardi annunciato dal governo Renzi», ha avvertito nei giorni scorsi il Centro Studi dell’associazione presieduta da Paolo Longobardi.
Aumenta la spesa delle regioni, al Lazio la maglia nera

Aumenta la spesa delle regioni, al Lazio la maglia nera

Andrea Morigi – Libero

Altro che spending review: le Regioni rimangono sprecone. Un’analisi effettuata dal Centro studi ImpresaLavoro che rielabora i dati della Corte dei Conti, rivela come nel periodo 2011-2014 dalle casse delle Regioni siano usciti altri 3,9 miliardi di euro, portando l’esborso in termini di spesa corrente da 141,7 a 145,6 miliardi, con un incremento del 2,76 per cento.
Ci sono anche eccezioni virtuose. La Lombardia emerge come la Regione che, al netto degli importi riversati allo Stato per il cosiddetto Fondo di Solidarietà, ha effettuato i maggiori tagli alla spesa corrente, scesa dell’11,63%. L’Abruzzo ha ridotto le proprie spese correnti del 6,09%. Ma il Lazio, al contrario, detiene il record del maggiore incremento della spesa nel periodo considerato (+33,33%) seguito dalla Calabria (+31,06%). Lo stesso vale per la spesa corrente pro-capite. Per ogni cittadino in Lombardia si spendono infatti 1.739 euro, meno della metà rispetto al Lazio, che con i suoi 3.129 euro di spesa corrente pro-capite fa segnare l’esborso maggiore tra le Regioni a statuto ordinario.
Tra le autonomie speciali, invece, è la Valle d’Aosta a posizionarsi decisamente sopra la media delle altre Regioni, ordinarie e non. Ogni valdostano costa 8.995 euro ogni anno di spesa corrente. Sa gestire meglio la Sicilia con i suoi 2.529 euro, seguita da Sardegna e Friuli Venezia Giulia. In termini generali le Regioni a statuto speciale hanno ridotto le loro uscite per spese correnti del 2,46%, passando da 31,3 a 30,6 miliardi di euro tra il 2011 e il 2014. Tra gli enti a statuto speciale buone performance di riduzione della spesa sono state registrate dalla Provincia Autonoma di Bolzano (-6,33%) seguita dalla Sardegna (-5,94 per cento).
In ogni caso, la spesa di larga parte delle autonomie rimane più alta della media delle Regioni a statuto ordinario, nonostante la riduzione. Allo stesso tempo sembra impossibile prevedere altri tagli nelle altre Regioni a statuto ordinario, le cui uscite rappresentano quasi l’80% della spesa totale. Tranne il caso di Lombardia e Abruzzo, che si confermano le Regioni che hanno saputo risparmiare più delle altre. Anche se finora il loro esempio non è stato seguito.
Carburanti, prezzi record in Italia: +17% sulla media UE

Carburanti, prezzi record in Italia: +17% sulla media UE

Francesca Basso – Corriere della Sera

Come sempre i dati vanno intrecciati. Se da un lato in questi giorni abbiamo assistito a una rafflca di ribassi sui carburanti per effetto della depressione dei mercati petroliferi internazionali (ieri però è tomata un po’ di calma e il prezzo medio nazionale praticato in modalità self della verde andava da 1,580 a 1,615 euro al litro, pompe no-logo a 1,572), dall’altro il prezzo di benzina e diesel nel nostro Paese continua a rimanere alto se paragonato al resto d’Europa: +17% rispetto alla media Ue, +9% nei confronti della Germania, +13% della Francia, +19% rispetto alla Slovenia e +26% all’Austria.
Una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, su elaborazione dei dati della Commissione europea (Weekly Oil Bulletin, 27 Luglio 2015), mette in evidenza che per l’incidenza di tasse e accise siamo sul podio: bronzo all’Italia con un peso del 63%, argento all’Olanda con il 64% e oro alla Gran Bretagna con il 66%. Tradotto sul prezzo della verde: 1,6164 euro al litro in Italia, 1,6460 euro in Olanda e 1.6338 euro al litro in Gran Bretagna, a fronte di un prezzo medio europeo di 1,3872 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono la Repubblica ceca (1,2245 euro al litro), la Lettonia (1,2217 euro), la Polonia (1,2135), la Bulgaria (1,1801) e l’Estonia (1,1710). Nel diesel siamo i secondi più cari d’Europa con 1,4329 euro al litro. Il primato resta al Regno Unito con 1,6410 euro, mentre il prezzo medio europeo è di 1,2206 euro.

20150807CorrieredellaSera

Friuli Venezia Giulia, ripresa tra colpe e progetti

Friuli Venezia Giulia, ripresa tra colpe e progetti

Massimo Blasoni – Messaggero Veneto

Stando al recente rapporto “L’Economia del Friuli Venezia Giulia” della Banca d’Italia, i segnali di ripresa dell’economia nella nostra regione non mancano. La produzione industriale, per quanto inferiore del 10% rispetto all’ultimo picco del 2008, mostra segni evidenti di ripresa. Si è anche avuto un rallentamento della stretta creditizia che non poco aveva pesato negli ultimi anni. Il dato che dovrebbe far riflettere è che questi indici positivi trovano le loro origini fondamentalmente nel buon andamento dell’export per fattori esogeni (prezzo del petrolio e svalutazione dell’euro) più che nella capacità regionale di fare sistema e innovazione. Colpe d’attribuirsi in primo luogo agli imprenditori, tuttavia occorre anche chiedersi se l’Amministrazione regionale stia agendo efficacemente per sostenere questa timida ripresa.

All’inizio dell’anno si è proposto un piano di sviluppo del settore industriale, Rilancimpresa: non pare però che si siano sortiti effetti significativi. Scorrendo i molti articoli e commi della legge, pare quasi che l’ambizione principale del dispositivo sia il riordino dei Consorzi Industriali, realtà importanti che rappresentano però solo una minima parte dell’economia regionale. Inoltre, con la stessa legge è istituita, sotto la Direzione centrale attività produttive, l’”Agenzia Investimenti FVG” che, in collaborazione anche con Friulia S.p.A. e Finest S.p.A., dovrà svolgere un ruolo fondamentale nelle politiche di programmazione industriale. Al di là del dubbio sull’opportunità di istituire un nuovo ente restano rilevanti le domande sulla capacità effettiva di Friulia e delle altre partecipate regionali di esplicare appieno le loro mission economiche. Una perplessità che si estende anche a Mediocredito – la banca regionale – e che nasce dall’analisi dei bilanci di queste realtà. Per quanto riguarda Friulia il numero di nuove partecipazioni in società del territorio è in discesa (14,2 milioni nel 2013/2014 contro i 24,9 e i 31,4 dei due esercizi precedenti) e gli investimenti attuati sono circa la metà di quelli deliberati. Anche le partecipazioni complessive passano da 214 milioni nel 2012 a 190 nel 2014: anno in cui le imprese partecipate complessivamente erano 117 (e soltanto 72 fra queste operative). Non va dimenticato che i soli costi di struttura della finanziaria regionale nell’ultimo esercizio si sono attestati a circa 6 milioni di euro, comprensivi di costi del personale per ben 3,8 milioni e costi generali di funzionamento pari a 2,3 milioni.

Nata nel 1964, con un’intuizione assolutamente innovativa per quel periodo, Friulia avrebbe dovuto, attraverso la partecipazione al capitale di imprese locali e finanziamenti a medio termine, conseguire l’obiettivo di far crescere realtà regionali e dar luogo a start up, soprattutto se ad alto contenuto innovativo. Negli anni invece (molte colpe sono anche del centro destra) ha finito per svolgere più il ruolo di ammortizzatore per società in difficoltà, sostanzialmente ritardandone il default a spese dei contribuenti. Non sono pochi i dubbi anche su Mediocredito: è utile per la regione controllare una banca che per basso numero di sportelli e dimensioni modeste rischia di essere strutturalmente in passivo? Senza peraltro poter svolgere un peculiare ruolo di supporto al sistema imprenditoriale locale, attese le stringenti regole di Basilea 3 sul merito creditizio.

Alla luce della rapida trasformazione del tessuto economico occorre una revisione strategica dei non pochi strumenti con cui l’Amministrazione regionale può attuare politiche di sostegno alla competitività del sistema imprenditoriale. La specialità regionale va difesa e assume significato prima che nella contrattazione con lo Stato sulla quantità delle risorse, attraverso la dimostrata capacità di promuovere con la massima efficienza autonome politiche regionali. Vale per la ridefinizione di strumenti come Friulia e Mediocredito. Potrebbe valere – anche se il tema è complesso- anche per ipotesi quali la fiscalità di vantaggio.

Tasse sui risparmi in salita: + 130%

Tasse sui risparmi in salita: + 130%

Il Tempo

Un incremento progressivo del 130%, pari a 9 miliardi di euro. A tanto ammonta l’aumento del prelievo complessivo dello Stato sulle attività finanziarie, passato da 6,9 miliardi nel 2011 ai 15,9 attesi nel 2015, stando a una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro basata su dati e indici Banca d’Italia, Abi, Mef e Fideuram. Tale cifra si deve per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale e per 0,3 miliardi alla Tobin Tax.

Lo studio ImpresaLavoro rileva come, secondo i più recenti dati di Bankitalia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato, a partire dalla fine del 2011, un «progressivo e repentino inasprimento fiscale». Questo incremento nella tassazione del risparmio appare vertiginoso anche in considerazione del drastico calo della redditività dei titoli di Stato e dei depositi bancari. A inasprire la situazione, da quest’anno è entrato in rigore un «giro di vite fiscale» anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali e Tfr. Lo studio mostra che l’incremento delle aliquote sui fondi pensione al 20% ridurrà il montante contributivo atteso dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 5% e 18,6%.

Risparmiare con le fusioni

Risparmiare con le fusioni

di Gionata Pacor – Associazione Città Comune

Dal riordino degli enti locali possono venire degli utili risparmi di spesa pubblica. Di solito quando si parla di fusione dei comuni ci si riferisce ai centri sotto i 5.000 abitanti, ma sono in corso anche iniziative diverse, che riguardano comuni più grandi. Una di queste è quella di Monfalcone, Ronchi dei Legionari e Staranzano, forse il primo caso in Italia in cui un’iniziativa di fusione è partita dalla cittadinanza, che nonostante la contrarietà dei tre sindaci (tutti e tre del PD), si è organizzata ed ha raccolto 6200 firme autenticate per chiedere un referendum sulla fusione di questi tre comuni che, per compenetrazione urbana, economia ed identità, formano già un’unica città di circa 48.000 abitanti. La normativa regionale del Friuli Venezia Giulia prevede che in primavera si tenga il referendum, nonostante le maggioranze al governo nei tre comuni abbiano fatto poco per agevolare la raccolta delle firme (e qualcosa per ostacolarla).

I motivi a favore di una fusione sono di due tipi: da un lato le potenzialità in termini di riorganizzazione e rilancio del territorio sotto una direzione unica e non frammentata, dall’altro lato la possibilità di ristrutturare ed ottimizzare le amministrazioni pubbliche locali. Questi aspetti sono strettamente connessi tra loro perché un unico comune con un’azione politica coerente può sfruttare meglio le risorse e le infrastrutture del territorio distribuite sul territorio delle diverse amministrazioni (nel caso dei tre comuni in questione si parla di un aeroporto, un porto, la rete ferroviaria ed autostradale, il litorale, le diverse zone industriali, i parchi naturali ecc.), e dalla riorganizzazione delle macchine comunali si possono ottenere i risparmi e le risorse economiche per finanziare quel rilancio.

I risparmi dai costi della politica sarebbero importanti non tanto quantitativamente quanto simbolicamente: due sindaci, una dozzina di assessori e circa quaranta consiglieri in meno farebbero risparmiare circa 270.000 euro l’anno. L’associazione Città Comune, promotrice del referendum, è partita da un confronto con altre città di grandezza comparabile, scoprendo che ci sono città come Empoli che hanno circa 250 dipendenti comunali, mentre i tre comuni da fondere messi assieme ne hanno circa 480. La proposta è quindi quella di una graduale riduzione dei dipendenti comunali senza licenziamenti, attuata man mano che quelli con maggiore anzianità vanno in pensione, per arrivare a circa 320 dipendenti. Il processo prevede l’accorpamento della maggior parte degli uffici (ma non quelli che offrono i servizi direttamente ai cittadini, come ad esempio l’anagrafe), l’esternalizzazione di alcune attività a basso valore aggiunto (ad esempio la manutenzione degli immobili) ed il potenziamento di alcuni uffici (ad esempio l’Ufficio per le Relazioni con il Pubblico e l’ufficio legale). I risparmi calcolati, solo in termini di minore spesa del personale, sarebbero di quasi 3 milioni all’anno. A ciò si aggiungono altri vantaggi difficilmente quantificabili a priori: minori costi di formazione del personale e per le postazioni di lavoro (arredamento e manutenzione degli uffici, computer, software, riscaldamento, corrente elettrica ecc.) e la possibilità di alienare qualche immobile per abbattere il debito pubblico comunale.

Quello di Monfalcone, Ronchi dei Legionari e Staranzano è un progetto che vuol fare da modello e da best practice a livello nazionale e dimostrare i vantaggi dei processi di fusione che, è bene ricordarlo, in Germania sono stati adottati senza nessun referendum consultivo oltre 40 anni fa, tanto che oggi il comune medio tedesco conta 50.000 abitanti, mentre quello italiano ne conta circa 7.500. Di certo non è un processo che da solo potrà risanare le finanze pubbliche ma, se esteso a livello nazionale, potrà fornire un contributo significativo, senza tagliare i servizi ed in certi casi potenziandoli.

La Rai non cambia, l’Italia neppure

La Rai non cambia, l’Italia neppure

di Carlo Lottieri

La rappresentazione più impietosa dell’incapacità riformatrice della maggioranza guidata da Matteo Renzi viene dalle recenti vicende della Rai. Anche in considerazione del fatto che – sotto vari punti di vista – la Rai è l’Italia, e l’Italia è la Rai. In sostanza all’interno dell’azienda di viale Mazzini nulla cambia al di là dei nomi. Ieri si lottizzava e oggi, invece, pure. Ieri si negoziava con le minoranze una quota della loro presenza all’interno degli organismi dirigenti, e adesso avviene esattamente la stessa cosa. Ieri si sceglievano amici e amici degli amici, e ovviamente lo si continua a fare. Ma non è questo il punto.
Il dato cruciale è un altro, e cioè che nel 2015 nessuno sembra scandalizzato dal fatto che il potere statale continua a gestire informazione, cultura e divertimento, esattamente con quando Benito Mussolini parlava alla radio di Stato e il Minculpop si preoccupava di manipolare al meglio le menti degli italiani. La cecità non è solo italiana, ma certo non denota spirito innovativo e capacità rinnovatrice un giovane premier che neppure prende in considerazione di realizzare una vera trasformazione in senso liberale, alzando un muro tra il potere politico e il sistema dei media. Perché certamente non è veramente libera una società in cui i mezzi d’informazione dipendono dagli apparati politico-burocratici.
Per giunta la Rai è un baraccone che costa un’enormità agli italiani. Se volesse dare un segnale di discontinuità rispetto ai governi che l’hanno preceduto, Renzi avrebbe una sola cosa da fare: eliminare il canone (di fatto un’imposta) e mettere in vendita la Rai, con dentro Franco Siddi e Carlo Freccero, Guelfo Guelfi e Arturo Diaconale e tutti gli altri. L’unica soluzione razionale per questo sempiterno ministero della manipolazione delle menti è la sua dimissione. Ma ovviamente Renzi non pensa a nulla di ciò.
Non ci pensa perché il suo potere è costruito attorno a una fitta rete di nomine, favori, incarichi. E la Rai fa parte di questo grande mosaico, ovviamente. Per giunta egli ha bisogno di costruire consenso intorno a sé e quindi ha bisogno che i passacarte dei Tg lo mettano sempre in una buona luce e che lo stesso succeda ai molti miracolati che fanno parte della sua cerchia. Infine, ed è questo forse il punto più drammatico, non è pensabile che Renzi si orienti verso una vera e compiuta privatizzazione della Rai perché egli non ha minimamente il polso della situazione e non comprende la necessità di procedere a tagli massicci della spesa, a una riduzione della presenza dello Stato, a una piena liberalizzazione di vasti settori. Non sa cosa stanno realizzando, con le privatizzazioni, Cameron e Osborne nel Regno Unito e neppure è interessati a saperlo.
Egli continua a vendere la favola di un’Italia che tutto sommato funziona bene e che va solo qua e là un poco aiutata e sostenuta. Sembra insomma non comprendere che il settore produttivo soffre come mai in passato e che solo se si incide con il bisturi sull’Italia parassitaria è forse possibile ridare speranza al mondo degli imprenditori. In questo senso, la grande azienda televisiva di Stato è la rappresentazione più macroscopica di una maniera tutta italiana d’intendere le cose, la quale continua a confidare nel debito, rinviare le scelte, anteporre il privilegio garantito a qualcuno oggi invece che il riconoscimento dei diritti di tutti in un domani da conquistare. In questa Italia il premier attuale ha costruito le sue fortune. Farà di tutto per difenderla.
PAPER/ L’evoluzione della tassazione sul risparmio

PAPER/ L’evoluzione della tassazione sul risparmio

Secondo le più recenti rilevazioni di Banca d’Italia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale, che potrebbe proseguire nel futuro prossimo colpendo anche le rivalutazioni sugli strumenti della previdenza complementare. La stretta fiscale ha assunto forme diverse: in prima istanza, l’incremento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, più che raddoppiate – salvo eccezioni – tra la fine del 2011 e la metà del 2014; in secondo luogo, l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin Tax) a partire dal marzo 2013; infine, la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale (che grava anche su conti deposito e altri strumenti finanziari), introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni. Nell’immaginario collettivo persiste ancora lo spettro di un possibile e improvviso prelievo forzoso sulle attività finanziarie, come quello del 6 per mille operato sui conti correnti dal Governo Amato nel 1992; in realtà, tale intervento peserebbe oggi sulle tasche degli italiani per circa 3 miliardi di euro una tantum, mentre l’incremento della fiscalità ordinaria sul risparmio delle famiglie ha già assunto, in pochi anni e nel suo complesso, dimensioni ben più rilevanti. Secondo le nostre ricerche, infatti, ciò corrisponderebbe a un incremento di 9 miliardi annui (corrispondente al +130%) per il periodo 2011-2015, e si dovrebbe per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale, e per 0,3 miliardi alla Tobin Tax. Secondo le stime, basate su dati e indici Banca d’Italia, ABI, MEF e Fideuram, il prelievo complessivo passerebbe quindi dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 attesi per il 2015. L’incremento appare vertigiinoso anche in considerazione del drastico calo della redditività, sia dei titoli di stato che dei depositi bancari. Se ciò non bastasse, per il futuro prossimo circola l’ipotesi di un giro di vite fiscale anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali, e trattamento di fine rapporto. Lo studio mostra che un incremento delle aliquote sui fondi pensione al 17% potrebbe ridurre il montante contributivo atteso (e quindi la pensione) dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 3,3% ed il 5,7%, mentre un aumento al 26% lo ridurrebbe fino al 14,6%. Considerazioni analoghe di possono esprimere sia sulle casse previdenziali che sul TFR: con un aumento dall’11% al 17% i giovani lavoratori potrebbero subire una decurtazione della liquidazione di fine rapporto compresa tra il 3,6% ed il 6,2%. Tornando alle rendite finanziarie in generale, lo studio evidenzia che le varie riforme succedutesi in questi anni non hanno provveduto a risolvere alcune delle criticità intrinseche alla normativa, quali la doppia tassazione degli utili distribuiti sotto forma di dividendi, il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite. Si è rilevata anche la complessità dei calcoli di convenienza relativi alle opzioni di affrancamento concesse dal legislatore al momento degli aumenti fiscali. Vi è inoltre l’aspetto relativo alla tassazione di favore concessa ai titoli di stato rispetto ai titoli emessi da banche e imprese, a partire dal 2012. Le famiglie italiane potrebbero consolidare le tendenze riscontrate nel periodo 2011-2013, con la riduzione in misura lieve dell’impiego diretto nei titoli di stato (-1,3%), e un forte incremento di quello indiretto costituito da fondi comuni (+30,7%) e polizze vita (+9,5%), che godono di un’aliquota intermedia determinata dal peso della componente investita nel debito pubblico.
1. Introduzione
I risparmi delle famiglie italiane depositati o investiti sotto varie forme di attività finanziarie superano, secondo le stime più attendibili di Banca d’Italia, i 3.800 miliardi.
Su questa tipologia di attivi, e sui relativi frutti, si è registrato in Italia a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale, apparentemente destinato a continuare con nuove misure che potrebbero coinvolgere in modo rilevante anche il settore della previdenza complementare.
La stretta fiscale posta in essere ha assunto in questo lasso di tempo forme diverse: dall’innalzamento della principale aliquota sui guadagni di natura finanziaria (più che raddoppiata tra la fine del 2011 ed il secondo semestre del 2014), all’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (la cosiddetta Tobin Tax, in vigore dal 2013), fino all’istituzione di una vera e propria tassa patrimoniale (l’imposta di bollo) che grava su depositi e strumenti finanziari di varia natura.
Nell’immaginario collettivo persiste lo spettro di un possibile e improvviso prelievo forzoso sulle attività finanziarie, come quello del 6 per mille operato sui conti correnti dal Governo Amato nel 1992. In realtà l’incremento della fiscalità ordinaria sul risparmio ha già assunto, in pochi anni e nel suo complesso, dimensioni ben più rilevanti di quelli che avrebbe una ripetizione di tale misura.
Nel paragrafo 2 di questo paper si propone una sintesi della normativa in essere, con l’analisi della sua recente evoluzione e dei possibili futuri aggravi sugli strumenti di previdenza. Viene sottolineata anche la mancata risoluzione di alcune criticità individuabili nell’impianto normativo vigente.
Nel paragrafo 3 si propone una stima dell’incremento complessivo del prelievo fiscale a carico dei risparmiatori italiani sotto le diverse forme previste dalla legge.
2. La tassazione del risparmio in Italia: recenti tendenze
2.1 Le imposte sulle rendite finanziarie
Con la riforma del 1997, nel nostro ordinamento si è tentato di razionalizzare l’imposizione fiscale sui guadagni di tipo finanziario, che da allora vengono classificati in due tipi:
– i redditi di capitale: ad esempio, gli interessi sui depositi bancari e sulle obbligazioni e titoli di stato, i dividendi percepiti sui titoli azionari.
– i redditi diversi: in particolare, i guadagni in conto capitale, e cioè l’eventuale differenza positiva tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto, sui titoli azionari ed obbligazionari.
La stessa riforma ha delineato tre distinti regimi operanti nel trattamento fiscale, tuttora in vigore:
– il regime dichiarativo, nel quale la tassazione viene applicata al contribuente al momento in cui egli provvede a presentarla in sede di dichiarazione fiscale;
– il regime del risparmio amministrato, quello comunemente utilizzato dai piccoli risparmiatori, nel quale l’intermediario finanziario funge da sostituto d’imposta e applica il prelievo ai guadagni di volta in volta realizzati dai propri clienti;
– il regime del risparmio gestito, applicabile esclusivamente a fronte di un mandato di gestione (individuale o collettiva): è il caso per esempio dell’investimento in fondi comuni, in gestioni patrimoniali in valori mobiliari, etc.
Salvo alcune limitate eccezioni (è il caso per esempio dei proventi derivanti da partecipazioni qualificate), i redditi di natura finanziaria sono sottoposti ad aliquote sostitutive, identiche per tutti e tre i regimi e quindi valide anche nel caso in cui il risparmiatore si avvalga del regime dichiarativo, che vengono applicate in luogo dell’imposta sui redditi (l’IRPEF).
Tipicamente, e salvo il caso in cui decidano di aderire a gestioni patrimoniali, i risparmiatori propendono comunque per il regime del risparmio amministrato, che gli intermediari finanziari applicano automaticamente a ciascun rapporto salvo richiesta scritta del cliente, e che presenta alcune determinate caratteristiche:
– tra i vantaggi, vi è l’esonero del cliente da ogni formalità e adempimento fiscale per tutti i redditi di natura finanziaria: tutti i calcoli e gli addebiti dell’imposta sono effettuati automaticamente dall’intermediario finanziario e nessun’altra azione è richiesta al contribuente;
– tra gli svantaggi, il principale è senza dubbio quello relativo alla limitata e spesso cervellotica possibilità di compensazione tra guadagni e perdite di natura diversa (per esempio, tra i guadagni derivanti da fondi comuni e perdite su titoli azionari).
Di norma, il presupposto per la determinazione dell’imposta è quello della percezione di un provento (per esempio, l’incasso di una cedola di un titolo obbligazionario, oppure di un dividendo distribuito da una società), oppure quello della vendita o rimborso di un’attività finanziaria (e cioè di un suo disinvestimento, anche parziale), ad un prezzo superiore a quello pagato per il suo acquisto o sottoscrizione. In questo caso la tassazione è applicata quindi sui guadagni effettivamente realizzati.
Va tuttavia citata, per inciso, la peculiarità del regime del risparmio gestito, che prevede la cosiddetta tassazione del reddito maturato (anziché del realizzato), e cioè di tutti i risultati osservabili al termine di un periodo di tempo predefinito, indipendentemente dal fatto che essi si siano effettivamente materializzati o consolidati.
Si pensi, soprattutto, alla volatilità intrinseca dei corsi azionari: nel regime del risparmio gestito, a scadenze prefissate l’imposta si calcolerà su tutti i guadagni risultanti dai prezzi correnti dei titoli detenuti, indipendentemente dal fatto che essi siano effettivamente destinati a realizzarsi, e nonostante il rischio concreto che essi si riducano o che si trasformino addirittura in perdite.
Dal punto di vista dell’intensità del prelievo, le aliquote previste nella riforma del 1997 sono rimaste tali, di fatto, fino agli interventi legislativi del 2011, e corrispondevano, salvo le eccezioni di cui tratteremo in seguito, al 12,5% sui redditi di natura finanziaria derivanti da tutte le attività che non fossero riconducibili a conti correnti, depositi, nonché titoli di durata inferiore ai 18 mesi (per queste categorie infatti si applicava il 27%).
A partire dal 1° gennaio 2012, invece, una prima riforma della fiscalità attuata in seguito all’esplosione della crisi dei debiti sovrani, ha portato l’aliquota principale al 20%, eliminando la precedente disparità a sfavore di depositi e titoli a breve, ma introducendone nel contempo un’altra a favore dei titoli di stato (ed equiparati) italiani o di paesi cosiddetti “white list” (ai quali è rimasta applicabile l’aliquota del 12,5%).
L’intervento normativo del 2011, entrato in vigore dall’anno successivo, ha quindi in sostanza:
– ridotto la tassazione sugli interessi corrisposti sui conti correnti e depositi bancari, oltre che sui titoli a breve termine, equiparandola a quella sui titoli obbligazionari emessi da banche e imprese;
– reso più favorevole l’investimento in titoli governativi (italiani ed esteri), oppure emessi da grandi istituzioni o agenzie sovranazionali, rispetto a quelli emessi da banche e imprese (indipendentemente dalla loro nazionalità).
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A partire dal 1° luglio 2014, per effetto delle disposizioni contenute nel decreto legge 66/2014, l’aliquota del 20% relativa a depositi e titoli non governativi è stata innalzata al 26%, aumentando il gap rispetto all’aliquota più favorevole, rimasta immutata al 12,5%.
Sin dalla riforma del 2012 si è previsto che gli strumenti di investimento diversificati come fondi comuni d’investimento e gestioni assicurative (soggetti che si definiscono “lordisti”), che possono investire anche in titoli sottoposti al prelievo agevolato, l’aliquota da applicarsi risulta dalla media ponderata degli attivi, e sarà tanto più vicina al 12,5% quanto più elevata risulterà la quota di titoli di stato o assimilati utilizzati nella gestione, e tanto più vicina all’aliquota più elevata viceversa.
2.2 L’imposta di bollo: la patrimoniale sui conti correnti e sulle attività finanziarie
Originariamente prevista in misura fissa annua ed esclusivamente su alcune tipologie di rapporto bancario (come gli estratti conto del conto corrente e del deposito titoli), a partire dal 2011 l’imposta di bollo ha subito una profonda revisione, estendendosi ora alla totalità delle attività finanziarie (salvo rare eccezioni) e applicandosi in modo proporzionale al loro valore.
Fino al 2011, la legge ha previsto l’applicazione dell’imposta sia sugli estratti conto del conto corrente che del deposito titoli secondo questa misura:
– € 34,20 annui se a carico di persone fisiche (importo più volte aumentato rispetto alle originarie Lit. 33.000);
– € 73,80 annui se a carico di persone giuridiche (importo più volte aumentato rispetto alle originarie Lit. 72.000).
Nei casi in cui la rendicontazione avvenisse con periodicità superiore all’anno, la legge prevede che l’importo sia applicato pro-quota (ad esempio, € 8,55 e € 18,45 rispettivamente per persone fisiche e giuridiche, nel caso di estratti conto trimestrali)
Sugli estratti conto degli eventuali altri depositi (sempreché superiori a € 77,47), fino al 2011 si applicava unicamente l’imposta di € 1,81, che nella prassi, peraltro, gli intermediari creditizi usualmente si accollavano a beneficio dei depositanti.
Sui conti correnti la principale riforma è avvenuta con il decreto “Salva-Italia” di fine 2011, per effetto del quale l’imposta si è confermata a € 34,20 per le persone fisiche, ma con l’esenzione totale per i rapporti che presentano una giacenza media inferiore a € 5.000. L’ambito di applicazione, nel contempo, si è comunque esteso anche ai libretti di risparmio bancario o postale, che prima ne erano esentati (il limite di giacenza applicabile ai fini dell’esenzione, è stato precisato, va considerato unitariamente ai rapporti identicamente intestati intrattenuti con il medesimo intermediario).
Per le persone giuridiche invece, la riforma ha previsto l’incremento dell’imposta a € 100,00 annui per ciascun rapporto, senza possibilità di esenzione alcuna. La misura colpisce peraltro non solo le imprese commerciali ma anche altri enti come i condomini e le associazioni.
Sul deposito titoli (e su tutti gli strumenti finanziari, anche se non soggetti all’obbligo di deposito), le modifiche sono state ancor più numerose e rilevanti.
Nel luglio del 2011, innanzitutto, è stata introdotta per la prima volta una tassazione a scaglioni, pari a:
– € 34,20 sui depositi titoli fino a 50mila euro;
– € 70,00 sui depositi titoli fino a 150mila euro;
– € 240,00 sui depositi titoli fino a 500mila euro;
– € 680,00 sui depositi titoli oltre i 500mila euro.
L’applicazione di tale misura è durata, di fatto, meno di un semestre, poiché l’imposta è stata oggetto di riforma nel già citato decreto “Salva-Italia” (entrata in vigore dal 1° gennaio 2012), con l’applicazione di un’aliquota proporzionale (inizialmente pari allo 0,1%), identica per persone fisiche e giuridiche, calcolata sul valore complessivo di mercato dei titoli depositati.
L’imposta è stata in quella sede estesa anche ai prodotti e strumenti finanziari non soggetti all’obbligo di deposito, come i fondi comuni d’investimento e le polizze vita di ramo III e V (unit o index linked), con le sole eccezioni dei fondi pensione e sanitari, delle polizze vita di ramo I (le tradizionali rivalutabili) e delle forme individuali pensionistiche, mentre un trattamento particolare (e per certi versi più favorevole) è stato riservato ai buoni fruttiferi postali cartacei emessi prima del 2009. L’imposta di bollo così riformata è stata però estesa anche ai depositi bancari e postali (diversi dai conti correnti e libretti di risparmio).
L’estensione dell’ambito di applicazione ha snaturato il significato originario che all’imposta era stato attribuito: da bollo applicabile agli estratti conto effettivamente prodotti dagli intermediari finanziari, a vera e propria patrimoniale che opera, per espresso richiamo legislativo (Articolo 19 del DL 201/2011 “Salva Italia”), persino in assenza di una periodica rendicontazione relativa allo strumento finanziario.
Per l’anno 2012 il bollo ha previsto un’aliquota dello 0,1% con un minimo di € 34,20 ed un massimo di € 1.200,00; per l’anno 2013, sulla base delle disposizioni già approvate nel Salva-Italia, l’aliquota è aumentata allo 0,15%, mantenendo il minimo di € 34,20 e portando il massimo a € 4.500,00 (limite valido solamente per i soggetti diversi dalle persone fisiche).
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Da più parti è stato evidenziato che il minimo di legge risultava in una vera e propria stortura a danno dei risparmiatori più piccoli, determinando addirittura la regressività della tassa in rapporto al controvalore di mercato delle attività finanziarie detenute e pertanto della ricchezza del patrimonio dell’investitore.
In altre parole, il mantenimento di un importo minimo dell’imposta produceva un aggravio della stessa ben rilevante nei portafogli di minori dimensioni: il bollo sulle attività finanziarie ha inciso, nel 2013, per l’1,71% su un portafoglio di 2mila euro; lo 0,68% su un portafoglio da 5mila euro; lo 0,23% in un portafoglio da 15mila euro e solo lo 0,15% su tutti i portafogli superiori 22mila 800 euro.
Probabilmente sulla base di queste considerazioni, il legislatore ha deciso di eliminare tale minimo, con la legge di stabilità 2014, che in cambio ha comunque previsto un ulteriore incremento sia nell’aliquota (0,2%) che nel limite massimo per i soggetti diversi da persone fisiche (€ 14.000,00).
Va infine citato che a partire dal 2011 è stata istituita anche l’Ivafe, l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero, che è applicabile esclusivamente alle persone fisiche e che segue nella sostanza regole analoghe a quelle appena descritte per l’imposta di bollo sui conti correnti, depositi nonché attività finanziarie detenute in Italia.
La complicazione essenziale legata all’Ivafe è naturalmente il calcolo e determinazione dell’imposta, oltreché della sua dichiarazione e versamento, che segue modalità analoghe a quelle dell’Irpef, e da cui non è possibile essere esonerati (del resto, gli intermediari presso cui sono detenuti o depositati tali valori mobiliari sono collocati al di fuori dei confini nazionali e pertanto non possono fungere da sostituto d’imposta per l’erario italiano).
2.3 L’imposta sulle transazioni finanziarie: la Tobin Tax
A partire dal marzo 2013, è stata introdotta in Italia una nuova imposizione fiscale su alcuni tipi di transazioni finanziarie legate ai mercati finanziari. Tale tassa prende il nome di Tobin Tax, dal nome dell’economista statunitense premio Nobel che sul piano accademico l’ha ideata.
La tassa reintroduce di fatto in Italia una sorta di “imposta di bollo” sulle transazioni singole realizzate sui mercati finanziari, originariamente prevista dal nostro ordinamento, e storicamente legata al documento che raccoglie l’esito dell’ordine di compravendita sui mercati eseguito dall’intermediario (non a caso tuttora denominato “fissato bollato”).
La tanto discussa Tobin Tax, destinata ad entrare in vigore a livello europeo in una versione più estesa a partire dal 2016, prevede nella sua versione italiana un prelievo pari allo 0,1% del controvalore di determinate transazioni finanziarie effettuate in Italia oppure su strumenti finanziari italiani (in particolare, titoli azionari).
Si tratta di un’imposta più volte criticata, anche perché nella sua attuale veste colpisce un numero ristretto di transazioni mentre ne esclude un numero ben superiore e dall’aspetto più prettamente speculativo, come quelle che si concludono nel corso della stessa giornata borsistica (il cosiddetto trading intraday).
Tale previsione pertanto, produce l’effetto di una maggiore imposizione sulle transazioni effettuate dai piccoli risparmiatori non spiccatamente dediti al trading di brevissimo periodo, ma detentori di portafogli azionari anche di piccole dimensioni, per esempio perché legati a strategie di investimento di più ampio respiro.
Inoltre, come si vedrà in seguito, le stime sulle entrate tributarie legate alla Tobin Tax sono risultate molto ottimistiche mentre il gettito effettivo è risultato ben inferiore; diverse analisi riconducono tale risultato negativo al conseguente sensibile decremento delle transazioni operate da intermediari e clienti sui titoli oggetto di imposizione.
Va infatti evidenziato che nell’ambito dei mercati finanziari, già dal recepimento della direttiva Mifid, è caduto l’obbligo alla concentrazione degli scambi, ed inoltre è sempre più complesso da parte delle istituzioni finanziarie monitorare e impedire, se ritenuto necessario, il trasferimento in sedi estere (più convenienti) di operazioni finanziarie su titoli.
2.4 Le tasse sugli strumenti di previdenza: fondi pensione, casse previdenziali, TFR
In considerazione dello sviluppo demografico atteso per il nostro paese e delle riforme sulle pensioni che hanno, in un arco di tempo corrispondente ad almeno due decenni, gradualmente portato il sistema previdenziale dal metodo retributivo a quello contributivo, acquisisce una sempre maggior rilevanza, in Italia, l’aspetto relativo all’accantonamento dei redditi da lavoro ai fini di una pensione integrativa.
In base alla più recente riforma dei fondi pensione, entrata in vigore a partire dal 2007, l’adesione agli strumenti di previdenza complementare quali i fondi pensione chiusi e aperti, oltre che le forme individuali pensionistiche, consente ai risparmiatori i seguenti benefici fiscali:
– deducibilità ai fini IRPEF degli importi versati nelle forme di previdenza complementare fino a € 5.164,57 annui;
– tassazione agevolata al 15% sulle prestazioni future, con uno sconto dello 0,3% per ogni anno di permanenza nella forma di previdenza complementare a partire dal quindicesimo anno, e fino a un minimo del 9%;
– tassazione agevolata sui rendimenti delle forme di previdenza complementare, inizialmente fissata nell’11% ed incrementata, dal luglio 2014, all’11,5%.
Si prospetta, all’interno dell’imminente Legge di Stabilità, l’ipotesi di un ulteriore aggravio delle aliquote fiscali sui rendimenti delle forme di previdenza integrativa, fino al 20% (con assoggettamento al 12,5% per la componente legata ai titoli di stato), rispetto all’11,5% correntemente applicato.
Tale aggravio inoltre colpirebbe le diverse forme pensionistiche complementari tout-court, penalizzando chiunque ne abbia sottoscritto una in passato scegliendo anche sulla base delle più favorevoli aliquote applicate.
Al contrario dei depositi bancari, dei fondi comuni e dell’investimento in titoli azionari e obbligazionari, le forme previdenziali non consentono il disinvestimento in tempi brevi e di fatto costringono i titolari a non poter modificare la propria strategia di investimento in rapporto alle intervenute modifiche fiscali.
Dall’altro canto, la ripercussione più evidente e negativa di tale intervento si avrebbe sui montanti contributivi a fine carriera dei singoli risparmiatori che ora si ritrovano più lontani dalla pensione: l’impatto negativo che si produrrebbe in futuro sugli assegni integrativi potrebbe stimarsi oggi in una perdita fino al 14,6% in termini reali.
Si consideri infatti la seguente tabella, che illustra la perdita sul montante contributivo a fine carriera di un lavoratore che versa un importo costante (al netto dell’inflazione) per 35 anni, sulla base di tre diverse ipotesi di rendimento medio annuo composto della forma previdenziale prescelta (3%, 4% oppure 5%) e di diverse ipotesi di prelievo fiscale sui guadagni del fondo rispetto all’aliquota in vigore a inizio 2014 (11,0%).
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Come si osserva dalla tabella, il passaggio dall’11,0% all’11,5% dell’aliquota sui rendimenti dei fondi pensione (già avvenuto) determina una riduzione compresa tra lo 0,3% e lo 0,5% del montante contributivo atteso a fine carriera di un giovane lavoratore; un incremento a una tassazione media del 17% produrrebbe un’ulteriore perdita compresa tra il 3,3% ed il 5,7%, a seconda dei rendimenti medi annui realizzati dal fondo, mentre più rilevanti ancora sarebbero gli effetti in caso di tassazione al 20% oppure al 26% (caso più grave con riduzione dei montanti attesi compresa tra l’8,6% e il 14,6%).
Un ragionamento analogo si può applicare alle casse previdenziali, i cui rendimenti sono ora soggetti al prelievo del 20% ma che, secondo le ipotesi che passeranno al vaglio del parlamento, potrebbero vedersi aumentare l’imposta al 26%: anche i nuovi iscritti a tali casse, che adottano in misura sempre maggiore metodologie di tipo contributivo, potrebbero subire per tali ragioni un decremento cospicuo del proprio montante atteso e quindi un decremento dell’assegno pensionistico loro destinato a fine carriera lavorativa.
Ulteriormente, perfino la rivalutazione del trattamento di fine rapporto, ora tassata all’11%, sembra essere destinata a un incremento, che secondo alcune fonti potrebbe arrivare al 17%. La rivalutazione annua del TFR determinata per legge nell’1,5% oltre ai tre quarti dell’inflazione, sarebbe quindi soggetta a una tassazione più elevata che diminuirebbe concretamente la liquidazione incassata dal lavoratore.
Sia per il TFR che per il montante nelle casse previdenziali, i calcoli sono analoghi a quelli mostrati in tabella per i fondi pensione. Ad esempio, in caso di aumento dell’aliquota sul TFR dall’11% al 17%, un ipotetico rapporto di lavoro dipendente che inizia oggi e dura per 35 anni potrebbe concludersi con una liquidazione inferiore per una percentuale compresa tra il 3,6% ed il 6,2%, in base alle diverse ipotesi di rivalutazione.
2.5 Alcune criticità legate ai meccanismi di tassazione dei redditi di natura finanziaria
Nonostante i vari interventi attuati in questi anni recenti e illustrati nei paragrafi precedenti, il legislatore non ha ancora risolto alcuna delle seguenti criticità identificabili nel meccanismo di tassazione dei proventi di natura finanziaria, che in questo contesto si portano ad esempio:
– la doppia tassazione di dividendi e altri redditi già sottoposti a prelievo impositivo;
– il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite fiscali nel regime del risparmio amministrato;
– la complessità dei calcoli di convenienza relativi all’esercizio delle opzioni di affrancamento riservate agli investitori all’atto dell’incremento delle aliquote.
Per quanto concerne il primo punto, va sottolineato che, limitatamente ad alcuni casi, l’imposizione sui guadagni di natura fiscale costituisce a tutti gli effetti un doppio prelievo: è la fattispecie tipica, infatti, degli utili realizzati dalle società di capitali, che vengono tassati una prima volta a titolo di imposta sui redditi delle società (IRES), ed una seconda volta nel momento in cui vengono distribuiti ai detentori delle quote.
Non è solamente il caso delle cosiddette partecipazioni rilevanti, riferibili agli imprenditori e ai soci soci che nell’impresa detengono una quota di capitale (o di diritti di voto) superiore a determinate soglie individuate dalla legge: nel qual caso, dopo aver subito il prelievo IRES, gli utili distribuiti saranno sottoposti al prelievo IRPEF in capo al socio, seppur con una base imponibile ridotta (attualmente pari al 49,72%; era il 40% fino al 2008).
Anche il piccolo risparmiatore infatti, soggetto alle imposte sostitutive illustrate in precedenza (e ora pari al 26%), paga su tutto il dividendo (frutto di utili già tassati) questa sorta di seconda imposizione.
I dividendi inoltre, come tutti i redditi di capitale, costituiscono redditi non compensabili nel regime del risparmio amministrato e pertanto sono soggetti a tassazione anche in presenza di perdite pregresse o contestuali.
Le norme sulla tassazione delle rendite finanziarie infatti non prevedono la possibilità di compensare redditi di capitale con minusvalenze pregresse, persino se realizzate anche sui medesimi titoli da cui deriva il provento. La compensazione è possibile solamente per i redditi diversi, su perdite realizzate all’interno di specifici limiti temporali (quattro anni solari oltre quello in cui si sono materializzate) e dimensionali (le minusvalenze realizzate prima del 2012 sono utilizzabili al 48,07% del loro ammontare; quelle prima del luglio 2014 fino al 76,92%).
Il meccanismo produce delle vere e proprie distorsioni, tali, il più delle volte, da incrementare il gettito fiscale in maniera iniqua rispetto al reale profitto complessivo ottenuto dall’investitore, e ad applicarlo anche nei casi in cui il complesso degli investimenti si chiuda in perdita.
Si pensi ad esempio al piccolo investitore che ottiene un modesto guadagno dall’investimento in un fondo comune dopo aver realizzato delle gravi e più cospicue perdite su un singolo titolo azionario: rappresentando un reddito di capitale, il guadagno nel fondo, seppur di entità inferiore, sarà tassato senza possibilità di compensazione alcuna ed il risparmiatore subirà il prelievo pur in presenza di un risultato finanziario complessivamente negativo.
E’ ancor più controintuitivo il caso di un investitore che acquista un’azione, la quale distribuisce un dividendo e in conseguenza di ciò vede diminuirsi il proprio prezzo di mercato. Il risparmiatore pagherà le tasse al 26% sul dividendo anche se dovesse rivendere il titolo subito dopo ad un prezzo diminuito per un importo uguale al dividendo lordo percepito, chiudendo l’investimento senza alcun guadagno effettivo.
Una fattispecie del tutto simile è costituita dall’investimento in titoli obbligazionari quotati sopra la pari: le cedole (interessi) saranno sottoposte ad imposizione anche se il titolo sarà rimborsato per un importo inferiore a quello di acquisto. Le relative minusvalenze, in entrambi i casi, potranno essere portate a compensazione solamente di eventuali guadagni futuri e nei limiti temporali e dimensionali sopra citati.
L’analisi della fiscalità delle rendite finanziarie dei singoli risparmiatori risulta oggettivamente complessa ma certamente molto rilevante, e tale da rendere più o meno conveniente una scelta di investimento che altrimenti non lo sarebbe.
L’apice della complessità fiscale è forse raggiunto dalle opzioni di affrancamento, concesse dal legislatore sia nel primo trimestre del 2012 (in seguito alla riforma delle aliquote con il passaggio al 20% per numerosi strumenti finanziari), sia nel terzo trimestre del 2014 (in seguito all’aumento al 26%).
Tali opzioni infatti consentivano ai singoli risparmiatori (sui loro singoli depositi) di affrancare i valori dei singoli titoli o strumenti finanziari alla data di riferimento, versando le eventuali imposte risultanti a quella data sulla base delle aliquote (più convenienti) in vigore in precedenza.
Le opzioni in nessun caso sono risultate (per costruzione intrinseca) sempre convenienti per il risparmiatore. Il calcolo di convenienza, anzi, andava effettuato valutando attentamente almeno tre ordini diversi di variabili:
– l’importo delle minusvalenze realizzate in precedenza e caricate sul relativo deposito titoli; l’entità delle plusvalenze e minusvalenze latenti alla data di riferimento;
– le aspettative di rendimento futuro dei singoli titoli o strumenti finanziari interessati, l’eventuale oscillazione del prezzo dei titoli alla data di affrancamento, la previsione del realizzo di minusvalenze successivamente a tale data;
– i costi di transazione (praticati dall’intermediario) sui singoli titoli o strumenti finanziari, l’eventuale costo-opportunità del capitale necessario alla liquidazione dell’imposta.
3. La crescita delle imposte sul risparmio
3.1 L’allocazione della ricchezza delle famiglie italiane
In base alle rilevazioni statistiche di Banca d’Italia, pubblicate con cadenza annuale, è stato possibile ricostruire l’allocazione della ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, che nel 2013 è arrivata a superare, secondo questi dati, i 3.800 miliardi di euro.
Dal punto di vista del trend evolutivo, le voci in incremento riguardano soprattutto il contante (+7,2% rispetto al 2011 e ben +42,5% rispetto al 2007), le altre azioni e partecipazioni (+35,9% rispetto al 2011), nonché i fondi comuni (+30,7%) e le polizze vita (+9,5%).
Il ricorso ai fondi pensione risulta ancora limitato (231,7 miliardi), mentre supera i 508 miliardi la liquidità disponibile sui conti correnti.
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La quota di titoli di stato in mano ai risparmiatori dimiunisce a 180,7 miliardi (-1,3%), nonostante la maggior convenienza fiscale instaurata dalla riforma a partire dal 2012.
Diminuisce anche la quota di titoli esteri in portafoglio (-22,3%) e le obbligazioni bancarie (-13,1%), penalizzate dal decreto “Salva-Italia” in favore dei conti deposito (+13,87%).
C’è da dire a tal riguardo che tra il 1995 ed il 2004, proprio in seguito a una prima riforma che diede maggiore convenienza fiscale ai titoli a lungo rispetto ai depositi, le obbligazioni bancarie crebbero di oltre 8 volte in termini nominali, a discapito dei depositi che nello stesso periodo fecero registrare un -14%.
E’ possibile quindi che in futuro si consolidi una tendenza ad un maggior ricorso ai titoli di stato o equiparabili (in modo diretto oppure indiretto attraverso le riserve assicurative e i fondi comuni d’investimento, oltre ai fondi pensione), a discapito dei titoli obbligazionari emessi dalle banche, meno convenienti sotto il profilo fiscale.
3.2 La crescita del gettito fiscale nel periodo 2011-2015
Nonostante l’attualità del tema e le ricadute che la tassazione delle rendite può avere sul risparmio delle nostre famiglie, la quantificazione delle imposte complessivamente applicate sul risparmio e gli investimenti non è immediata e si può stimare in base ai dati desumibili dai rapporti Banca d’Italia e ABI (soprattutto per le consistenze dei vari asset e i rendimenti medi delle attività sottostanti), nonché del Ministero dell’Economia e delle Finanze (per quanto concerne il gettito fiscale).
Abbandonando per semplicità le implicazioni relative alla tempistica del versamento delle imposte (ed in particolare, degli acconti su quelle non ancora riscosse cui sono tenuti gli intermediari finanziari), abbiamo cercato di dare un quadro sintetico ma completo per il periodo 2011-2015, basato su criteri di “competenza”.
La stima dell’imposta di bollo sui conti correnti tiene conto del numero di rapporti intestati a persone fisiche (40 milioni secondo le stime dell’ABI) e di una percentuale di rapporti esenti (quelli con giacenze medie inferiori a 5.000 euro) stimata a paritre dal 2012 nel 60%.
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Per quanto concerne invece l’imposta di bollo sui titoli e strumenti finanziari, abbiamo preso in considerazione per il 2011 una stima su base dati ABI di circa 10 milioni di dossier titoli, mentre per il 2012-2013 le consistenze di titoli e depositi soggetti all’imposta sulla base delle rilevazioni Banca d’Italia. Per il 2014 e il 2015 abbiamo supposto che la consistenza rimanesse uguale al 2013.
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Uno dei tributi più discussi negli ultimi anni, la Tobin Tax è stata da più osservatori definita un flop per lo scarso gettito prodotto rispetto alle attese (e peraltro, secondo alcune analisi, inferiore al danno commerciale complessivamente prodotto in termini di minori scambi sui mercati italiani). In questo caso le stime si basano sui dati puntuali comunicati dal Ministero per l’Economia e le Finanze.
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Per quanto concerne infine l’imposta sostitutiva sui redditi di capitale e diversi di natura finanziaria, i calcoli sono più complessi e prendono in considerazione da un lato l’allocazione del risparmio delle famiglie italiane (Banca d’Italia) e dall’altro i rendimenti medi osservati sul mercato e pubblicati dall’ABI (specie per quanto concerne gli interessi medi sui conti correnti e depositi, nonché sulle obbligazioni bancarie e sulla raccolta postale) e da Banca d’Italia (per quanto concerne i rendimenti dei titoli di stato). Il rendimento medio di fondi comuni e polizze risulta dalle performance medie dell’indice Fideuram Generale. Il dato riscontrato, che riflette una composizione prudente del portafoglio delle famiglie italiane, si ritiene possa essere esteso anche alle riserve assicurative nonostante le diverse modalità di calcolo e distribuzione dei rendimenti.
L’analisi non considera le imposte sulla rivalutazione di fondi pensione e forme individuali pensionistiche, del TFR e sui rendimenti delle casse previdenziali.
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Come si nota, l’incremento più elevato dell’imposta sostitutiva sui redditi finanziari si stima tra il 2011 ed il 2012, quando oltre che l’incremento delle aliquote sugli investimenti diversi dai titoli di stato, si è avuto anche l’aumento dei rendimenti nei depositi bancari (sebbene sottoposti, a partire da quell’anno, a una tassazione inferiore).
L’aumento delle aliquote nel luglio 2014 avrebbe prodotto secondo le nostre stime un maggiore gettito per soli 0,6 miliardi, poiché compensato da minori rendimenti medi su depositi e titoli di stato, mentre prevediamo che nel 2015 esso produca un ulteriore incremento di 1,3 miliardi, salvo variazioni nei rendimenti delle attività considerate.
Nel complesso, in base ai nostri calcoli, le imposte stimate su depositi, transazioni e reddito derivante dagli investimenti (esclusi il bollo sui conti correnti, la rivalutazione degli strumenti di previdenza e le altre attività finanziarie non soggette ad aliquota sostitutiva), sono aumentate dai 6,9 miliardi del 2011 ai 14,6 miliardi del 2014, con un probabile incremento fino a 15,9 miliardi nel 2015.
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4. Conclusioni
L’analisi della normativa sulla tassazione delle rendite e i risparmi delle famiglie italiane nella sua recente evoluzione condotta nel presente paper ha permesso di evidenziare:
– l’incremento della tassazione sui guadagni derivanti dall’investimento in titoli non governativi e altri strumenti finanziari operato in un primo momento a partire dal 1° gennaio 2012 e in un secondo momento dal 1° luglio 2014. Tale incremento, nel suo complesso, corrisponde a una maggiorazione a oltre il doppio dell’aliquota precedentemente in vigore (dal 12,5% al 26%);
– la riforma di fine 2011 ha eliminato l’imposizione fiscale più sfavorevole sugli interessi di depositi e conti correnti, e nel contempo introdotto una distinzione tra le aliquote (più convenienti) riservate ai titoli di stato e assimilati rispetto agli altri titoli e strumenti finanziari;
– l’introduzione di una vera e propria patrimoniale su depositi e attività finanziarie (l’imposta di bollo), proporzionale al loro valore, incrementata dall’1 per mille (con minimo e massimo prefissato) applicato per la prima volta nel 2012 al 2 per mille del 2104;
– l’introduzione, dal marzo del 2013, di una “Tobin Tax” su alcune transazioni finanziarie (in particolare, la compravendita di titoli azionari italiani), da più parti criticata.
Si sono ulteriormente analizzate le ipotesi di incremento della tassazione sulla rivalutazione di strumenti previdenziali quali i fondi pensione, le casse previdenziali nonché del trattamento di fine rapporto. E’ emerso che un incremento delle aliquote applicate sui fondi pensione al 17% potrebbe ridurre il montante contributivo atteso dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 3,3% ed il 5,7%, mentre un eventuale aumento al 26% lo ridurrebbe di un importo tra l’8,6% ed il 14,6%.
Considerazioni analoghe si possono esprimere su casse previdenziali (ora soggette al prelievo del 20% sui risultati) e trattamento di fine rapporto (attualmente tassato all’11% sulla sua rivalutazione).
Nonostante le varie riforme intervenute di recente soprattutto in favore di un incremento generalizzato delle aliquote, si rileva che nel sistema della fiscalità sui guadagni di tipo finanziario permangono alcune criticità intrinseche, che il legislatore non ha inteso risolvere. E’ il caso, ad esempio:
– della doppia tassazione degli utili delle società di capitali distribuiti sotto forma di dividendi;
– del complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite nel regime del risparmio amministrato;
– della complessità dei calcoli di convenienza relativi all’esercizio delle opzioni di affrancamento concesse dal legislatore all’atto dell’incremento delle aliquote.
Nell’ambito della presente ricerca si è cercato di stimare anche l’impatto complessivo delle riforme sulle tasche dei risparmiatori italiani. La stima, condotta sulla base di dati e indici Banca d’Italia, ABI, MEF e Fideuram, ha portato ad evidenziare un incremento del prelievo fiscale legato al risparmio dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 miliardi attesi per il 2015.
Su tale incremento pesa, in prima battuta, l’incremento delle imposte sui rendimenti, che si prevede consentiranno un gettito pari a 11,2 miliardi nel 2015 a fronte dei 6,5 stimati per il 2011, nonostante la riduzione dei rendimenti medi di titoli di stato e di conti correnti e depositi bancari e postali.
L’imposta di bollo, applicabile su quasi 2.200 miliardi di controvalore di attività finanziarie e depositi, dovrebbe pesare per oltre 4,4 miliardi nelle tasche degli italiani con un incremento di 4 miliardi rispetto al 2011.
La Tobin Tax, applicata dal marzo 2013, fornisce un prelievo marginale che non supera alcune centinaia di milioni l’anno, tanto da non superare, secondo alcune analisi, i costi commerciali derivanti dalla riduzione degli scambi di attività realizzati sui mercati italiani.
A questo computo si aggiunga la stima del gettito sui conti correnti che continua a pesare sui risparmiatori persone fisiche nel caso di giacenze medie superiori a 5mila euro (soglia di esenzione), che risulta pari a circa 0,6 miliardi annui.
Nonostante questo, le più recenti rilevazioni statistiche condotte da Banca d’Italia dimostrano un incremento delle attività finanziarie detenute dalle famiglie italiane a oltre 3.800 miliardi di euro (dati riferiti al 2013), con un maggiore ricorso al risparmio gestito (+30,7% in fondi comuni e +9,5% in polizze vita rispetto al 2011), una leggera diminuzione dei titoli di stato (180,7 miliardi, -1,3% rispetto al 2011), e una notevole diminuzione delle obbligazioni bancarie (-13,1%), penalizzate a partire dal decreto “Salva-Italia” in favore dei conti deposito (+13,9%).
E’ possibile che in futuro si consolidi una tendenza ad un maggior ricorso ai titoli di stato o equiparabili (in modo diretto oppure indiretto attraverso le riserve assicurative e i fondi comuni d’investimento, oltre ai fondi pensione), a discapito dei titoli obbligazionari emessi dalle banche, resi meno convenienti sotto il profilo fiscale.