Edicola – Opinioni

Il “salva Italia” del fisco poliziotto

Il “salva Italia” del fisco poliziotto

Francesco Forte – Il Giornale

In Italia il Fisco dispone già di 129 banche dati. Ma non gli basta. Ora chiede a tutte le banche e agli altri intermediari finanziari, comprese assicurazioni e fondi pensione, di trasmettere entro il 28 febbraio all’Agenzia delle entrate tutti i dati del 2013 di movimentazione di conti correnti, depositi, carte di credito, portafogli di titoli, accessi a cassette di sicurezza, premi assicurativi e contributi versati. Il fisco dovrà altresì riceverei dati sugli acquisti di oro e preziosi. Entro il 29 maggio dovranno esser inviate le stesse informazioni per il 2014. Una indigestione di dati, con molti effetti negativi.

Il principale è l’incentivo che essa dà a svicolare dalle operazioni bancarie il più possibile e a pagare in contante, aumentando le evasioni fiscali. La motivazione di ciò, genuina o di comodo, sarà che non si vogliono far conoscere al fisco i propri affari personali, che in uno Stato basato sulla libertà personale, dovrebbero essere protetti dalla privacy. Se si paga l’albergo con la carta di credito, il fisco può vedere dove uno va durante le trasferte fuori sede e dall’ammontare che spende può desumere se era solo o accompagnato. Il regalo di un gioiello, anche di modico valore, indica una possibile relazione con la persona a cui si è fatto il regalo. Gli studi sull’evasione mostrano che in genere le imposte vengono pagate in modo più fedele là dove il fisco è cortese e non vessatorio. È vero che le norme della legge «Salva Italia» del governo Monti, da cui questi obblighi derivano e i decreti di attuazione del governo attuale, che li applicano in modo estensivo anziché restrittivo, prescrivono che solo un particolare gruppo di funzionari fiscali può avere accesso a queste informazioni. Ma le fughe di notizie riservate è più la regola che l’eccezione. D’altro canto se il fisco ha troppi dati, l’eccesso di informazioni accresce la difficoltà della loro utilizzazione. Se si appesantisce il loro utilizzo informatico, aumenta la possibilità di errori.

Ci sono vari effetti negativi a carico del sistema bancario e previdenziale. Aumenteranno gli esodi di capitali verso l’estero. Comunque, c’è un nuovo disincentivo a dotarsi di un conto e di una carta di credito per gli italiani sopra i 16 anni che attualmente ne sono privi. Un altro effetto negativo riguarderà l’ ammontare dei conti bancari, dato il disincentivo a servirsene e la preferenza per il contante, mentre sarebbe desiderabile che accadesse l’opposto, per accrescere gli attivi degli istituti di credito. C’è anche un disincentivo ai fondi pensione, alle assicurazioni sulla vita, alle altre forme di risparmio, che possono essere interpretati come indice di ricchezza. Va notato che una parte dei personali redditi è tassato con cedolari secche e metodi catastali e quindi non risulta al fisco. Inoltre ci sono spese a carico del patrimonio e non del reddito. Ma il fisco, sulla base di questi indici di investimento finanziario, apparentemente eccessivi rispetto al reddito dichiarato, potrebbe fare partire degli accertamenti a campione torchiano contribuenti in regola, con controlli che destano sempre timore. E per le banche queste nuove incombenze per centinaia di milioni di conti comportano un costo, di cui esse si rivarranno sui clienti. Un lavorio enorme, per schedarci in ogni atto della nostra vita privata, che ci dobbiamo anche pagare. Il bello è che si chiama «Salva Italia».

Quel baluardo così fragile delle banche greche

Quel baluardo così fragile delle banche greche

Fabio Pavesi – Il Sole 24 Ore

Nel delicato (e pericoloso) gioco a scacchi tra la Troika e il Governo di Alexis Tsipras le prime a rischiare sono le banche greche. Un’eventuale rottura nel difficile negoziato si propagherebbe come un uragano sul sistema creditizio, primo fragile baluardo della zoppicante economia ellenica. Le profonde oscillazioni dei titoli bancari che avvengono pressoché giornalmente ne sono la prova più evidente. Certo le condizioni di base non sono quelle della prima crisi di Atene che diede vita a una fuga eclatante dei depositanti che sono culminati nel settembre 2012 in una emorragia di ben 90 miliardi di soldi sottratti dai conti correnti, oltre il 30% dello stock totale. Da allora il sistema si è stabilizzato ma non ripreso. I volumi dei depositi sono risaliti da allora di soli 15 miliardi. E la nuova fiammata di tensione ha fatto uscire dai conti correnti almeno 3 miliardi in pochi giorni. Se le cose dovessero precipitare la fuga dalle banche potrebbe riprendere vigorosamente corpo, facendo ricollassare l’intero Paese.

Gli effetti di quella fuga mai colmata sono stati devastanti. Le pericolanti banche greche non solo hanno dovuto attingere ai rubinetti della Bce per ben 160 miliardi per sopravvivere, ma hanno dovuto drasticamente tagliare gli impieghi per un centinaio di miliardi. Ecco il cortocircuito che ha aggravato la già traballante economia ellenica. Ora il fabbisogno da Francoforte è sceso a 60 miliardi e le banche greche hanno ricominciato a approvvigionarsi sul mercato interbancario. Ma basterebbe molto poco, un passo falso di troppo per far riesplodere il bubbone. Nuova potente fuga dai conti, mercato interbancario di nuovo congelato e nuova richiesta di assistenza. Una via oggi difficilmente ripercorribile come allora. Ma non solo. Le banche greche sono solo apparentemente sicure: nonostante il taglio dei prestiti, la recessione ha portato un fardello enorme nei conti. Solo le quattro principali banche hanno in pancia tuttora sofferenze pari in media al 30% del totale degli impieghi. Difficile credere che ci possa essere un prodigioso rientro dei crediti inesigibili da molti anni nel breve termine. E allora quei bilanci andranno incontro nei prossimi mesi a nuove perdite per le rettifiche sempre rimandate, ma prima o poi da effettuare. Ecco perché la partita a scacchi di Tsipras vede come epicentro di un’eventuale nuova devastante crisi proprio il sistema creditizio. Il primo baluardo che cadrebbe in un attimo se la trattativa dovesse naufragare in malo modo.

Bad & Bank

Bad & Bank

Davide Giacalone – Libero

Alleggerire i bilanci delle banche dal peso dei crediti sofferenti e incagliati è utile. Trasferirli al contribuente non è solo inaccettabile, ma anche pericoloso. Siccome andiamo verso la creazione di un contenitore dove scaricarli, che lo si chiami Bad Bank o meno, e siccome in quello avrà un ruolo lo Stato, quindi i contribuenti, meglio fissare dei paletti e rendere comprensibile a tutti la faccenda, senza inutili tecnicismi.

Le banche sono imprese il cui mestiere consiste nel raccogliere il denaro e darlo in prestito. Se lo prestano a soggetti sbagliati, talché non ne ricevono indietro il giusto guadagno, o, addirittura, non rivedono più i quattrini, è segno che fanno male il loro mestiere. Quindi è bene che falliscano. Se questa è la regola generale si deve anche aggiungere, però, che dopo tre anni di recessione e quattro lustri di perdita di competitività, molti crediti si sono deteriorati non per colpa delle banche, ma perché i debitori non sono stati più nelle condizioni di pagare. Così come si deve aggiungere che, fin qui, l’Italia ha speso poco e niente per aiutare le proprie banche mentre tedeschi, francesi e inglesi (per citare solo i più grossi) hanno già abbondantemente messo mano al portafoglio pubblico.

Posto ciò, se lo strumento per raccogliere i crediti deteriorati (circa 300 miliardi, di cui più di 180 sulla soglia dei soldi persi) fosse un consorzio fra banche, quindi tutto privato, il compito pubblico sarebbe solo quello di verificarne la trasparenza e affidabilità. Per il resto: affari loro e del mercato. Ma non andrà cosi, perché non solo si parla di intervento pubblico, ma il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha detto di averne parlato con la Commissione europea e di avere chiarito che non si tratterebbe di aiuti di Stato (che sono proibiti). Se il dubbio c’è vuol dire che il problema sussiste. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha detto che l’intervento pubblico può configurarsi in due modi: a. prestando garanzia; b. defiscalizzando l’operazione. Nel primo caso ci si appoggia ai soldi pubblici, nel secondo si rinuncia al gettito. ln tutti e due si fa riferimento ai soldi dei contribuenti, senza contare che è in discussione anche l’ipotesi di finanziare direttamente il fondo. Si deve fare? A quali condizioni? E che altro è bene fare?

Togliere quei pesi dai bilanci bancari serve a rendere maggiormente possibile l’erogazione di credito verso il sistema produttivo. Sì, si deve fare. Facendolo, però, si alleggeriscono le banche anche dai loro errori. Il che è distorcente e corruttivo, quindi si mettano delle condizioni: a. l’intervento deve essere temporaneo; b. le cartolarizzazioni devono essere negoziabili e le perdite, alla fine, devono essere ripartite per quota fra chi le ha generate; c. nel corso di questa operazione, per tutta la sua durata, ciascuna banca che avrà crediti sgravati nel fondo (a partecipazione o garanzia pubblica, diverso se privato) non potrà pagare un solo centesimo di premi ai propri dirigenti. Il premio, semmai, dovrebbero darlo ai contribuenti. In altre parole: il ricorso alla garanzia pubblica deve essere possibile, ma disincentivato. Il tutto senza dimenticare che il nostro è un sistema esasperatamente bancocentrico. Siccome non siamo geneticamente diversi da paesi dove la realta è più equilibrata, la ragione va cercata in un fisco satanico, nemico dell’impresa, e in una burocrazia stregonesca. Mali per curare i quali non servono i soldi del contribuente, ma serve prendergliene di meno e ridurre o cancellare superfetazioni inutili e dannose.

La doppia morale di Tsipras

La doppia morale di Tsipras

Alberto Mingardi – La Stampa

Ci sono diversi modi per raccontare la crisi greca. Uno, molto semplice, punta l’attenzione su un dato di fatto. Per certo, sappiamo che una delle parti in trattativa è il governo, piaccia o non piaccia, democraticamente eletto (quand’anche con poco più di un terzo dei suffragi) dal popolo greco. Chi sia la controparte è meno chiaro. C’è la Banca centrale europea, monumento di sapienza tecnocratica che suscita sospetto e diffidenza. C’è il Fondo monetario internazionale. E poi la Commissione europea: non c’è un solo europeo che si senta «rappresentato» da questo esecutivo continentale, che non si capisce bene cosa faccia né tantomeno a chi risponda. Sono della partita anche i governi nazionali: Matteo Renzi ha chiuso la porta a soluzioni «creative» del problema greco, non prima di aver regalato una cravatta ad Alexis Tsipras. I governi nazionali temono una Grecia insolvente, perché essi stessi le hanno prestato quattrini. Sui giornali sono apparse le simulazioni del costo pro capite di un default di Atene, per gli altri cittadini europei. La gente, però, presta poca attenzione. Sono decisioni che sente lontane. Alzi la mano chi, alle scorse elezioni europee, ha votato pensando non a vaghi ragionamenti sulla «austerità» ma alle concrete modalità di funzionamento dei meccanismi anti-crisi.

La narrazione, lo storytelling, democrazia contro tecnocrazia è appassionante. Ecco perché ci sta investendo proprio Tsipras, il cui motto è «democrazia dappertutto». Nel suo discorso al Parlamento, ha rinnovato gli impegni elettorali: aumenterà il salario minimo, fermerà le privatizzazioni, alzerà la soglia della no tax area. Un programma centrato su un aumento di spesa pubblica, senz’altro non bilanciato dalla riduzione del 50% del parco macchine blu e neppure dalle sforbiciate ai costi della politica o dalla lotta all’evasione. Auguri ai greci, ma almeno in Italia sembra il solito libro dei sogni delle coperture. Secondo Tsipras, «l’austerità non ha soltanto impoverito il nostro popolo ma lo ha privato del diritto di decidere». Decidere, ma coi soldi di chi? Nello storytelling democrazia contro tecnocrazia, il «diritto di decidere» viene sottratto ai popoli per la vendetta di entità misteriose, i «mercati», che si divertirebbero a calpestarne le prerogative. A questi «mercati», gli Stati, fra cui la Grecia, hanno per anni chiesto prestiti: che per definizione a un bel momento devono essere ripagati. Questi prestiti li hanno chiesti per «decidere», direbbe Tsipras. Decidere stanziamenti, programmi, sussidi.

Indebitarsi non è mai stato obbligatorio. Se uno Stato vuole fare più cose, può sempre aumentare le tasse. In questo caso, la popolazione si accorge immediatamente del costo di «solidarietà», «investimenti» e «Stato sociale». Accorgendosene, potrebbe pensare che è meglio vivere in un Paese dove la spesa pubblica è un po’ meno generosa, ma le persone possono decidere da sé che fare di una quota maggiore dei propri redditi. Se lo Stato s’indebita, il problema non si pone: qualcuno un bel giorno il conto lo dovrà pagare, ma non gli elettori che votano alle prossime elezioni. La classe politica promette allegramente: nel lungo periodo, saremo tutti morti. Non ha torto chi ricorda che gli Stati hanno sempre disposto dei loro debiti in modo diverso dalle famiglie o dai comuni cittadini: cioè che hanno sempre evitato, quando possibile, di onorarli. Il ricorso alla svalutazione li aiutava a diluirne il peso. Grazie all’odiata Troika, la Grecia di Tsipras oggi ha un avanzo primario e potrebbe, nel breve, continuare a pagare gli stipendi. Nel medio periodo, farebbe fatica a chiedere nuovi prestiti, come qualsiasi debitore insolvente.

Diceva Adam Smith: «Ciò che è saggezza nella gestione di ogni privata famiglia, difficilmente può risultare follia nel governo di un grande regno». La questione è tutta qui. È giusto che ci sia una «doppia morale»? Gli Stati già fanno cose che nessun altro può fare: se vengo fermato dopo aver rapinato una banca, ho un bel dire alla polizia che volevo soltanto ridurre le diseguaglianze. È auspicabile che gli Stati possano considerare i loro debiti carta straccia? Se così fosse, non si capirebbe perché qualcuno debba prestar loro dei soldi: e non solo alla Grecia. Tanto peggiore è la reputazione dei governi, tanto più alti sono gli interessi che dovranno corrispondere, per avere credito. E perché di uno Stato che non paga i suoi debiti i cittadini dovrebbero fidarsi quando promette loro la pensione, quando giura che non abuserà dei dati confidenziali in suo possesso, quando dice la sua verità alle famiglie delle vittime di un dirottamento aereo? Dove passa il confine fra le bugie lecite e quelle illecite? Per «decidere» Tsipras intende: scegliere senza subire le conseguenze delle proprie scelte. È un diritto che tutti sogniamo, ma che nessuno dovrebbe avere.

Non è tempo di agenti provocatori sul debito

Non è tempo di agenti provocatori sul debito

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Forse, evocando il rischio bancarotta dell’Italia, Yanis Varoufakis sperava di stornare l’attenzione dai guai in cui le sue acrobazie economico-finanziarie stanno cacciando la Grecia che pure, dopo sei anni di recessione, di sacrifici e sofferenze anche eccessive, finalmente vede un po’ di luce: nel 2015 crescerà del 2,5% e poi del 3,6 per cento. Forse ha provato a fare di tutta l’erba (del debito) un fascio scommettendo sull’effetto “mal comune mezzo gaudio”, illudendosi di procurarsi con la “forza” quella solidarietà che con i sorrisi non ha trovato a Roma e, peraltro, neanche a Parigi. Per non dire altrove. O forse ha semplicemente voluto strafare e ha compiuto un passo falso di cui potrebbe presto pentirsi amaramente. Il suo ruolo di agente provocatore che sobilla i mercati e tenta di diffondere il contagio della destabilizzazione nella moneta unica, mentre rifiuta di rispettare i patti che la Grecia ha sottoscritto, non lo aiuterà infatti nei negoziati con Eurogruppo, Bce e Fmi. La cui priorità assoluta è la garanzia della stabilità e della coesione del club.

Le azioni di disturbo da parte di chi è scampato al default – vero – grazie agli aiuti europei ma ora pretende di ignorarne le condizioni e, ciò nonostante, vuole ottenere nuove concessioni, cioè pescare di nuovo nelle tasche dei contribuenti europei, non sono certo accolte di buon occhio. Come non lo sono la pretesa mano libera su rigore e riforme nè un generoso rinegoziato sul debito che passi per lo stop all’attuale programma di assistenza euro-internazionale per elaborarne un altro, con prestito-ponte nell’attesa. Una cosa per ora appare certa: l’attacco del ministro delle Finanze greco al debito italiano appare la carta della disperazione perché dà l’esatta misura dell’isolamento nel quale si trova la Grecia dopo il clamoroso fallimento della tournée europea del premier Alexis Tzipras e di Varoufakis che invece speravano di conquistare alleati nell’eurozona soprattutto, per ragioni di bandiera politica, tra i Governi socialisti di casa a Roma e Parigi.

L’incidente si è chiuso ieri dopo il chiarimento con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Che ha dovuto precisare l’ovvio. Il parallelismo tra Grecia e Italia non regge. E per vari motivi. Anche se per dimensioni quello nostrano (come del resto il nostro Pil) è quasi sette volte quello greco, il debito italiano è sostenibile al contrario di quello di Atene che, senza aiuti, esploderebbe. I mercati lo sanno tanto bene che ieri lo spread Btp-bund non si è sostanzialmente mosso. Se Grexit resta uno scenario assolutamente non auspicabile ma possibile per la taglia ridotta dell’economia, del debito (2 e 3% del totale eurozona) e dell’interdipendenza bancaria scesa negli ultimi tre anni, un “Itexit” non viene nemmeno preso in considerazione perché il divorzio dalla terza economia dell’euro non sarebbe sostenibile per nessuno. Sarebbe la fine della moneta unica. Esattamente come nel caso di una fuga della Francia.

C’è infine un altro particolare non trascurabile: l’Italia oggi è anche il terzo creditore della Grecia. Siamo esposti per circa 40 miliardi: volenti o nolenti, dunque, qualsiasi “regalo” ad Atene sarà in un modo o nell’altro pagato dal contribuente italiano. Il default greco sarebbe quindi un disastro e un salasso proibitivo, da evitare per il bene dei nostri conti pubblici e delle regole del patto di stabilità. Comunque anche un’operazione soft come il riscadenziamento del debito con tassi di interesse ridotti avrebbe un costo, più contenuto, ma sempre un costo. Per l’Italia come per tutti i creditori euro. Nell’interesse della Grecia e dell’intera eurozona, dunque, le passeggiate nell’economia e nella politica dell’irrealtà oggi sono altamente sconsigliabili. Alla fine rischiano di far avverare Grexit, un lusso che nessuno si può permettere. Meno che mai l’apprendista stregone di Atene che forse alza la posta e la confusione per saggiare i punti di resistenza dei partner e poi cominciare a negoziare seriamente. Senza accorgersi che in questo modo può spezzare la corda usurata che lega il suo paese all’euro.

Oggi l’imperativo collettivo della crescita, il rigore esagerato e anche controproducente imposto per troppi anni ai greci , le pressioni internazionali perché l’Eurozona esca dal torpore ed eviti strappi interni sono tutti fattori che aiutano la causa della Grecia. Purché smetta di menare fendenti al vento e cominci ad aiutare l’Europa ad aiutarla. Ma forse non ci si improvvisa statisti né è scontato che un brillante economista diventi un buon ministro delle Finanze. O forse sì?

Così il Piano Juncker può  sbloccare la trattativa Ue-Tsipras

Così il Piano Juncker può sbloccare la trattativa Ue-Tsipras

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La prima notizia è senza dubbio buona: il tanto temuto “mal di Grecia”, ossia il contagio della crisi finanziaria ed economica greca, al resto dell’eurozona, non avverrà – oppure se ci sarà, sarà in forma molto limitata blanda e l’Italia non ne sarà, come si era temuto, il vettore. I mercati internazionali hanno reagito con calma e souplesse alle richieste ad alta voce del nuovo Governo della Repubblica ellenica, anche a quelle del pittoresco ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. E, soprattutto, la Banca centrale europea ha detto chiaro e tondo a tutti che “misure monetarie straordinarie” non vuole dire accettare in garanzia, per nuovi prestiti, titoli che domani possono essere carta straccia.

La seconda notizia è abbastanza buona. I nuovi governanti della Repubblica ellenica hanno iniziato la trattativa con quello che, in termini di “teoria dei giochi”, si chiama un gioco a ultimatum: un duello in cui una delle due parti deve soccombere (quale quello tra Don Giovanni e il Commendatore nelle varie versioni del mito del burlador de Sevilla). Ma appena la Bce ha mostrato non un bazooka ma un regolamento (e una dose di buon senso) hanno fatto marcia indietro, nonostante ad Atene (e non solo) le piazze si agitassero. Ciò vuol dire che si sta aprendo un negoziato che verosimilmente sarà lungo e difficile.

Le parti in causa sono numerose: i 19 Stati membri dell’eurozona, gli altri dieci dell’Unione europea, la Commissione europea, la Bce, il Fondo monetario internazionale e il resto del mondo in trepida e nervosa attesa. Ciascuna parte deve massimizzare due obiettivi: “la reputazione”, nel senso del rispetto delle regole nei confronti di tutti gli altri, e “la popolarità” nei confronti del proprio elettorato. Il Prof. Pier Carlo Padoan, attualmente ministro dell’Economia e delle Finanze dell’Italia, è un maestro di “teoria dei giochi multipli a più livelli” e potrebbe dare lezioni in materia. Potrebbe anche avere un ruolo centrale nella trattativa. Tuttavia, le divergenze tra gli obiettivi sono tali e tanti che è arduo prevedere che venga svolta unicamente sulla base della logica economica.

La terza notizia non è affatto buona. L’affaire Grecia ha scoperchiato la pentola di tutte le contraddizioni di un’unione monetaria (l’unica che io rammenti) effettuata non come conseguenza di un’unione politica, anche solamente confederale, ma come disegno puramente a tavolino tra Governanti di Paesi con storie, tradizioni, culture, strutture economiche profondamente differenti nella speranza che il resto arrivi come conseguenza del Trattato di Maastricht e degli accordi intergovernativi a esso successivi.

Gli esiti sono stati tali che ne sono nati movimenti che guardano con diffidenza (per parlare in toni gentili) alla moneta unica. La ripresa in atto nel Nord America e l’andamento abbastanza buono dell’economia mondiale mostrano che l’eurozona è il “grande malato” e che dal 2010 le difficoltà in cui versa non possono essere attribuite alla crisi dei mutui subprime venuta dagli Stati Uniti, ma, come ha chiaramente scritto la Banca d’Italia, a “una crisi del debito sovrano europeo”. Per risolverla, sarebbe auspicabile una conferenza dei debitori (numerosi) e dei creditori (pochi) e un metodo condiviso per procedere. È difficile pensare che un’assise del genere possa essere convocata in tempi brevi, anche e soprattutto poiché manca un metodo condiviso.

Nel breve periodo preverrà un approccio multi-bilaterale, termine elegante per dire di fare sì che tutti “salvino la faccia”, senza incorrere in costi eccessivi, quali il Piano Marshall per la Grecia che qualche anima bella ogni tanto evoca. Una soluzione potrebbe essere quella di allungare le scadenze del debito greco e dare un’allocazione speciale degli investimenti del “piano Juncker” alla Repubblica ellenica. Il prolungamento delle scadenza pare, in ogni caso, necessario per evitare un vero e proprio default: i greci lo presenterebbero al loro pubblico come una riduzione del debito (in sostanza lo è), i “duri e puri” direbbero ai loro elettori che non si è fatto alcun taglio ma soltanto somministrato un dosaggio di vitamine e antibiotici, le anime belle (poche e dubbiose come le vergini nelle processioni delle Pasque greche e non solo) inneggerebbero (a torto) alla flessibilità.

Un’allocazione straordinaria del “piano Juncker” non danneggia alcun partner della Grecia (principalmente poiché il pipeline di progetti di qualità ed effettivamente cantierabili non è affatto pieno) e permetterebbe al Governo greco di annunciare di avere portato fresh money a casa. Nel complesso si metterebbe una pezza. Sempre che non ci sia l’intenzione di acquistare un nuovo paio di pantaloni.

Riscoprire la cultura del lavoro

Riscoprire la cultura del lavoro

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Per il mercato del lavoro italiano il 2015 potrebbe davvero essere l’anno di svolta. Grazie alla ripresa dell’economia, le imprese dovrebbero tornare ad assumere. E il Jobs act le incentiverà a offrire occupazione stabile, disciplinata dal nuovo contratto a tutele crescenti. Secondo gli esperti, entro la fine dell’anno questo tipo di contratto sarà adottato per circa la metà delle nuove assunzioni. Non si tratterà solo di un cambiamento di regole. Gradualmente si affermerà una nuova logica di rapporti fra imprese, lavoratori e Stato: più simile a quella degli altri Paesi europei, più efficace e inclusiva. È una grande scommessa, che sarà vinta solo nella misura in cui ciascuno capirà qual è la posta in gioco e come interpretare bene la propria parte. Per le imprese, tornare ad assumere in forma stabile significa recuperare la cultura del lavoro (quello dei propri dipendenti) come investimento, come un fattore produttivo che va coltivato dall’interno.

Le statistiche segnalano che negli ultimi vent’anni in Italia non si sono registrati molti progressi, ad esempio, in termini di addestramento on the job o di formazione permanente. I dipendenti precari sono stati poi relegati su binari secondari, spesso utilizzati come risorsa «usa e getta». Non è un caso che i lavoratori italiani si sentano molto meno impegnati e coinvolti nell’organizzazione aziendale rispetto ai loro colleghi Ue. Lo scarso successo (sinora) dell’apprendistato e di tutte le forme di raccordo fra scuola e imprese è, almeno in parte, un segnale di poca attenzione per l’insostituibile ruolo che i datori di lavoro devono giocare nel contesto educativo e culturale dal quale reclutano il proprio capitale umano.

Anche per i lavoratori è necessario un cambiamento di mentalità. Veniamo da una tradizione in cui il posto fisso a vita è stato per generazioni l’obiettivo più ambito. Ancora oggi, a dispetto del precariato, l’Italia è il Paese Ue in cui la durata media del rapporto di lavoro è più lunga (15 anni) e in cui il numero di impieghi nel corso della vita è il più basso: due, rispetto ai quattro della Francia e ai cinque della Danimarca. Si tratta di una media che sconta l’inamovibilità del nostro pubblico impiego e l’onda lunga dell’articolo 18. Ma l’aspettativa del tempo indeterminato a vita è ancora molto radicata, anche fra i giovani. Contrariamente a quanto è successo nei Paesi nord europei, l’avvento della flessibilità in Italia ha coinciso con la precarizzazione, ossia uno stato di perenne insicurezza, frequenti interruzioni di reddito, «intrappolamento» nei settori meno qualificati del mercato del lavoro. Non sarà facile recuperare il significato positivo della parola flessibilità e convincere i giovani che – se si svolgono in contesti adeguati – la mobilità territoriale, il cambiamento del posto di lavoro o delle mansioni non sono un dramma e anzi possono diventare un’occasione di crescita. Senza questo salto culturale, le nuove logiche occupazionali sottese al Jobs act non potranno dare i frutti sperati. Per ottenere effetti virtuosi dalla riforma deve cambiare soprattutto lo Stato. Non so se il governo Renzi ne sia pienamente consapevole, ma la sfida è enorme.

La flessibilità non degenera in precarietà solo se l’amministrazione pubblica è in grado di fornire efficienti servizi di ricollocazione e formazione. Il nostro deficit inizia dalle scuole: la metà degli studenti italiani dichiara di non aver ricevuto alcun consiglio e consulenza mirata sui percorsi lavorativi post licenza e sulle proprie potenzialità. Negli altri Paesi questa è la norma per la quasi totalità degli allievi. La metà, di nuovo, dei lavoratori italiani dichiara che, in caso di perdita del posto di lavoro, la probabilità di trovarne un altro è molto bassa. Il dato medio Ue è inferiore di venti punti. Il segnale è chiaro: i servizi per l’impiego sono totalmente inadeguati rispetto alle esigenze di un mercato del lavoro flessibile. Difficile pensare di poterci allineare in tempi rapidi ai modelli nordici. Ma è urgente avviare un processo di riforma almeno simile a quello seguito da Francia e (soprattutto) Germania.

Qualche settimana fa l’Economist ha aperto una discussione sulla crescente diffusione del «lavoro a rubinetto»: la produzione di servizi in forma completamente decentrata da parte di mini-imprese capaci di sfruttare app, cellulari e tecnologia. Sarebbe la fine del lavoro dipendente come l’abbiamo conosciuto finora. È uno scenario futuribile da rivista settimanale, ma anche un segnale di quanto rapidamente l’economia stia cambiando grazie al progresso delle conoscenze. Vista dall’Italia, l’epoca del lavoro a rubinetto sembra un film di fantascienza. Ma non possiamo tirarci indietro rispetto alle concrete sfide di adattamento che oggi ci si pongono davanti. Rimbocchiamoci le maniche e facciamo uno sforzo collettivo per oltrepassare la soglia della flexicurity. Sarebbe un grande successo, e basterebbe per almeno una generazione.

I segnali di una ripresa con i piedi d’argilla

I segnali di una ripresa con i piedi d’argilla

Stefano Manzocchi – Il Sole 24 Ore

Nel districarci tra le recenti previsioni economiche per il nostro Paese, e parafrasando Mao Tze Tung, potremmo dire: grande è la confusione sotto il cielo, speriamo che la situazione divenga eccellente. Nelle ultime settimane si sono susseguiti molti aggiornamenti delle stime del Pil italiano nel 2015/16, accompagnati da interpretazioni e comunicazioni che talvolta sono apparse piuttosto discordanti. Il mestiere del previsore economico di questi tempi è arduo: per anni le stime della crescita italiana (e in generale europea) sono state riviste al ribasso trimestre dopo trimestre. La crisi finanziaria, il lento deleveraging, la brusca contrazione del commercio mondiale nel 2009, e poi le difficoltà ancora irrisolte dell’Eurozona e delle sue politiche economiche che ci hanno condotto in deflazione.

Tutto ha contribuito a frustrare le aspettative (le speranze?) di una ripresa sostenuta e generalizzata. Per comprendere le pene del previsore, occorre tener conto di almeno tre aspetti. In primo luogo, il potenziale di crescita dell’Italia e dell’Europa appare modesto rispetto a qualche decennio fa, e inferiore a quello di altre macro-aree mondiali. La crescita potenziale è quella che si stima quando c’è pieno impiego dei fattori produttivi, e dipende dalla crescita degli input e della loro produttività. Ci si riferisce qui alla cosiddetta Produttività Totale dei Fattori (PTF), che in Italia ristagna da molto tempo: nei 12 anni prima della crisi è diminuita dello 0,14% in media annua, mentre aumentava anche di 2 o 3 punti l’anno in tutti gli altri Paesi Ue eccezion fatta per la Spagna (-0,18%).

L’aumento della PTF è favorito da molti elementi, ad esempio innovazione, progresso tecnico, introduzione di nuovi beni e servizi, buone istituzioni e giusti incentivi per gli attori economici. Rilevano a tal proposito la qualità del capitale umano, lo sviluppo del sistema finanziario locale, le infrastrutture di trasporto che ad esempio sembrano dar conto di circa il 10% della dinamica della competitività manifatturiera in Italia.

Ma le stime della crescita potenziale sono di scarso aiuto quando si tratta di fare previsioni a medio termine per un Paese, o un Continente, dove l’output gap (scostamento del Pil effettivo da quello potenziale) è così pronunciato come in questa fase. L’Italia è sotto di un decimo rispetto al Pil degli anni pre-crisi, e di un quarto se consideriamo la produzione industriale, secondo le valutazioni più accreditate. Quanto di tale scostamento dipende dal vuoto di domanda generatosi dopo la crisi, o invece dagli “shock strutturali” che hanno investito la nostra economia rendendo meno competitive le nostre risorse strumentali ed umane? Tra questi shock, non possiamo trascurare l’avvento della moneta unica che ha cristallizzato l’enorme surplus commerciale tedesco che grava tuttora sui destini dell’Eurozona, nonostante i proclami della Commissione Ue di sanzionarlo.

L’ulteriore difficoltà per il previsore è che la crescita potenziale e i divari di competitività sono interconnessi: la stasi della nostra PTF dal 1995 ha deteriorato nel profondo la competitività dell’industria italiana che all’esplodere della crisi globale si è scoperta più vulnerabile di altre. E sarebbe illusorio immaginare che il mercato interno da solo possa nel medio termine sostenere l’industria: remano contro la nostra demografia, tecnologia e distribuzione del reddito.

Stretto tra tendenze della crescita potenziale, output gap e divari di competitività, il previsore economico ha spesso un compito difficile. Anche gli sviluppi recenti, come il crollo del prezzo del petrolio, si possono leggere in modo opposto: come stimolo alla crescita per la maggior competitività delle imprese importatrici di energia e per la spinta ai consumi per via dell’aumento del potere d’acquisto; oppure come ulteriore tassello di un quadro deflazionistico assai preoccupante per un’economia che “danza” su oltre 2000 miliardi di debito pubblico (si veda la nota di Nomisma del 16 gennaio 2015 – Insidie petrolifere). Gli spunti di ripresa sembrano tuttavia confermati dalla batteria di indicatori che Il Sole 24 Ore pubblica in questo numero e che provengono da fonti diverse, anche se non mancano come sempre segnali discordanti. La sensazione complessiva è che molte condizioni sistemiche per un’inversione di tendenza della congiuntura si siano materializzate, come confermano i principali istituti di ricerca italiani e internazionali. Ma la fragilità dell’Eurozona ha radici profonde, e senza nuovi sviluppi istituzionali e una diversa rotta delle politiche comunitarie, le prospettive economiche sono tuttora esposte a molte incertezze che possono minare la fiducia degli operatori.

Enel, è vera privatizzazione?

Enel, è vera privatizzazione?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Se le cose vanno come desiderato al Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) ed a Palazzo Chigi, la vendita del 3-6% di quote Enel potrebbe essere presentato come ‘il fiore all’occhiello’ delle privatizzazioni. Verrebbe effettuata in tempi brevi: il collocamento inizierebbe la settimana del 9 febbraio e verrebbe completato entro la fine del mese, anche in quanto ci sarebbero investitori internazionali interessati all’acquisto. Il provvedimento porterebbe “cassa” (si stima sino a due miliardi di euro) senza fare perdere allo Stato il controllo di quello che è, in sostanza, il protagonista della produzione dell’energia elettrica. Al termine della cessione il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), oggi azionista con il 31,2%, si troverebbe a scendere al 25% circa. Il secondo azionista di peso, dopo l’azionista pubblico, resterebbe People’s Bank of China con una quota del 2 per cento.

Più importati dei due miliardi (eventuali), che appena scalfirebbero l’irta montagna del debito pubblico, la misura sarebbe una prova concreta che il governo intende andare avanti seriamente con il piano di privatizzazioni (di fatto fermo da circa tre anni) almeno per quanto nelle competenze dello Stato centrale. La cessione di quote Enel arriva, inoltre, in un momento particolarmente propizio: in una fase in cui il calo domanda pesa sui ricavi (per ben 75,8 miliardi), l’Ebitda è in linea con gli obiettivi, e soprattutto l’indebitamento scende a 38 miliardi da 44,57 in settembre, nonostante i maggiori investimenti. Ciò indica che il management è stato in grado di cogliere le opportunità del ribasso internazionale ed europeo dei tassi d’interesse e d’effettuare buone operazioni di rifinanziamento, oltre che di portare a termine cessioni di controllate all’estero (Egp France e le attività in El Salvador). Un terzo elemento è il desiderio di numerosi investitori, piccoli e grandi, di porre i propri risparmi in collocamenti a lungo termini con poco rischio, rendimenti non elevati ma con caratteristiche di permettere di dormire tra due cuscini: i risparmi delle famiglie italiane sono arrivati a 3800 miliardi nonostante la tassazione sia cresciuta, secondo il Centro Studi “ImpresaLavoro” da 6,9 miliardi nel 2011 a 15,9 miliardi stimati nei documenti di finanza pubblica per il 2015, e l’investimento nell’attore principale di un mercato oligopolista pare avere le caratteristiche appropriate.

Il 26 gennaio al ministero dell’Economia e delle Finanze si è tenuta una riunione con il comitato per le privatizzazioni e gli advisor (Equita e Clifford Chance) per mettere a punto la strategia. In allerta sarebbero anche le banche già individuate per il consorzio di collocamento, una decina in tutto, tra i maggiori player internazionali e italiani, incluse Banca Imi e Unicredit. L’operazione dovrebbe prendere forma in tempi brevi. La tipologia di operazione su cui si sta lavorando è quella di un book building accelerato, che consentirebbe la realizzazione di un collocamento lampo da chiudere nel giro di alcune ore. Nell’ottica di chi ritiene che le privatizzazioni non debbano essere solamente o principalmente uno strumento di breve periodo per “fare cassa”, ed innescare energie nuove nell’azionariato oggi e domani anche nel gruppo dirigente, è doveroso chiedersi perché il Mef non abbia colto questa occasione per cominciare a mettere ordine in un mercato caratterizzato da liberalizzazioni incompiute, molteplicità di attori pubblici e privati, nonché nazionali ed europei, ed una regolamentazione incompleta ed in cui vari aspetto si accavallano.

In Italia, abbiamo l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas, Terna (proprietario della rete e responsabile della trasmissione e del dispacciamento di energia elettrica, il Gestore dei servizi energetici, principalmente per gli incentivi alle fonti rinnovabili), l’Acquirente unico, garante di ultima istanza della fornitura alle famiglie ed alle piccole imprese. A livello europeo per l’Agenzia per la cooperazione tra i regolatori nazionali, in cui concorrono autorità statali incorporate nel processo regolatorio europeo. In breve, un vero e proprio labirinto. Una guida efficace sono i 22 saggi raccolti nel volume a cura di Alberto Clò, Stefano Clò e Federico Botta “Riforme elettriche tra efficienza ed equità”, Bologna Il Mulino, 2014. Ha pienamente ragione Sabino Cassese nel sottolineare che siamo in una fase di transizione, con un mercato che continua ad essere oligopolistico, con molte e complesse nuove regole. Ciò non vuol dire che il riassetto del settore (eliminando ad esempio duplicazioni ed accavallamenti), debba essere simultaneo alla cessione di quote, ma dovrebbe, per mostrare un nesso, avvenire nei prossimi mesi. Allora sarebbe una ‘vera’ privatizzazione con una ricaduta istituzionale sul funzionamento del mercato.

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Yanis Varoufakis. Chi è costui? A volte bastano poche parole, per capire chi si ha di fronte. E la descrizione di se stesso fatta nel suo profilo Twitter ci dice chi è il nuovo ministro delle Finanze greco: «Economista, ho scritto testi accademici per anni senza che nessuno si accorgesse di me, fino a che non sono stato spinto nella scena pubblica dall’incapacità dell’Europa di gestire una crisi inevitabile». E noi diciamo, sempre con poche parole: per salvare la Grecia servono 10-15 miliardi. Così come ne bastavano 50 nel 2010, e la storia avrebbe avuto un corso diverso. Ma oggi gli effetti di scelte sbagliate da parte dell’Europa potrebbero avere effetti ancor peggiori di quelli che abbiamo visto negli anni della crisi, perché ai problemi economici e finanziari si aggiungono possibili guerre molto vicine a noi, dall’Ucraina alla Serbia, fino alla minaccia dell’Isis.

Oggi il nuovo governo greco illustrerà il suo programma al Parlamento. L’Europa, ancora tedesca, chiede che sia diverso da quello con cui Tsipras ha vinto le ultime elezioni. Come può un premier appena eletto seguire un programma diverso? Da quello che Tsipras dirà oggi dipenderanno le decisioni dell’Eurogruppo di martedì e del Consiglio europeo di mercoledì. L’Europa si trova a un punto di svolta. Viva l’euro, viva l’Europa. Ma quella amata dai suoi cittadini, non temuta. Non l’Europa emotiva, della deterrenza, dei drammi (anche solo minacciati) o delle costrizioni ma l’Europa solidale, coesa, unita. Non si pone, almeno per ora, il tema dell’uscita della Grecia dall’euro, ma non per questo non bisogna parlarne né sapere come si fa. Finora ha prevalso la vulgata per cui dall’euro non si può uscire, o salta tutto. Invece basta solo attuare bene la procedura, con i tempi necessari. Senza drammi dalla moneta unica si può uscire. E anche la reazione dei mercati può essere meno dura di quanto si immagini.

Lo prevede l’articolo 50 del Trattato, che rimanda, per la procedura puntuale, all’articolo 218. Una procedura tutta burocratica, di ping pong tra le istituzioni europee, che dura 2 anni. Ma lo Stato che ne fa richiesta è considerato fuori dall’Unione da subito, anche nel periodo in cui la procedura è ancora in corso. Amen. Si può uscire dall’euro restando nell’Unione? La dottrina dice che si può. Ci sono 4 vie alternative: referendum sull’euro; uscita unilaterale mediante modifica dei Trattati; recesso dall’Eurozona in base agli articoli 139 e 140 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue); recesso dai Trattati europei secondo il Diritto internazionale. Quest’ultima è la strada più facile, e basta addurre come unica motivazione il cambiamento delle condizioni economiche e politiche rispetto al momento in cui il Trattato era stato firmato. La Gran Bretagna non ha l’euro ma ha indetto per il 2017 un referendum per uscire anche dall’Unione. Non è escluso, pertanto: che si possa uscire dall’Unione senza uscire dall’euro; che si possa uscire dall’euro senza uscire dall’Unione; che si possa uscire contemporaneamente dall’Unione e dall’euro. È un atto di sovranità che, conformemente alle proprie regole costituzionali, ciascuno Stato può fare. Senza drammi.

Azzardiamo con qualche perversa malizia un’ipotesi che potrebbe avere più fondamento di quanto sembra. E se Stati con monete diverse dall’euro (si pensi alla Cina, al Giappone, ma soprattutto agli Stati Uniti d’America, in perenne conflitto con la Germania) decidessero di «appoggiare» l’uscita di uno dei paesi dell’Eurozona dalla moneta unica? Chi ci dice che non riuscirebbero a mantenere calmi i mercati? Poniamo, poi, che questo Stato sia la Grecia, presa da noi ad esempio in quanto molto chiacchierata nelle ultime settimane: se Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis dimostrano che uscire dall’euro si può, e che in due, tre anni il paese ricomincia a prosperare grazie a una moneta diversa e senza aver subito traumi, che posizione prenderanno i partiti degli altri paesi dell’Eurozona chiamati a votare, magari nel 2018, come l’Italia?

Avevamo accennato ai Trattati. L’articolo 50 del Tfue recita testualmente: «1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49».

Chiaro. E l’articolo 218 lo è ancor di più. Ne riportiamo solo stralci: «(…) Il Consiglio autorizza l’avvio dei negoziati, definisce le direttive di negoziato, autorizza la firma e conclude gli accordi. (…) La Commissione (…) presenta raccomandazioni al Consiglio, il quale adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione. (…) Il Consiglio (…) adotta la decisione di conclusione dell’accordo: a) previa approvazione del Parlamento europeo (…) ovvero b) previa consultazione del Parlamento europeo. (…). Uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte, l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati».

Ecco come si esce dall’Unione europea e, perché no, dall’euro. È scritto nei Trattati. Basta applicarli, se si vuole. E se si è forti/credibili abbastanza per farlo. La decisione è tutta politica. Quanto alla Grecia, siamo sicuri che tutto questo non accadrà. Il «problema» greco è oggi, ancora una volta, drammatizzato in termini di immagine, ma è contenuto nella sostanza dei numeri. Il punto è uno e uno solo: l’Europa non deve di nuovo sbagliare. Non c’è tempo da perdere. Si affronti la questione, con freddezza, subito. O sfuggirà nuovamente di mano. In questo caso il precedente c’è: a ottobre 2009, quando è emerso il buco dei conti pubblici di Atene sarebbero bastati poco più di 50 miliardi per risolvere l’emergenza. Invece sappiamo tutti com’è andata.

Errare è umano, con quel che segue. L’Europa oggi è a un punto di svolta. Non si può più insistere con la filosofia (sbagliata) dei compiti a casa. L’Europa oggi deve cogliere l’occasione per cambiare se stessa, realizzando quelle riforme da anni ormai annunciate, ma ferme al palo: l’unione economica, l’unione politica, l’unione bancaria e l’unione di bilancio. Argomenti che si trascinano stancamente a causa delle resistenze sempre dei soliti paesi. E deve cambiare la mission della Bce, oggi anch’essa troppo condizionata dagli interessi dei partner più forti (leggi: Bundesbank), affinché diventi una vera banca centrale (che funga, cioè, da prestatore di ultima istanza per gli Stati), al pari di tutte le altre principali banche centrali mondiali. E smettiamola, una volta per tutte, di farci del male.