Edicola – Opinioni

Fingere di tagliare aumentando le spese

Fingere di tagliare aumentando le spese

Mario Baldassarri – Panorama

Firmando la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def), Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno onestamente detto quattro verità. La prima verità è che il maggiore Pil stimato dall’Istat, che aveva indotto qualche buontempone a parlare di «maggiori margini di manovra», ha un peso del tutto irrilevante. Affiancato alla revisione al ribasso, sia della crescita che dell’inflazione, l’effetto Istat si esaurisce subito e dal 2016 in poi l’andamento del Pil è «inferiore» a quello previsto prima della rivalutazione.

La seconda è forse una verità contabile, che però pone domande e attende spiegazioni. Rispetto al Def di aprile, nella Nota di aggiornamento di settembre i dati del 2013 della spesa e delle entrate pubbliche sono stati cambiati in misura rilevante. Ad aprile il consuntivo per lo scorso anno riportava una spesa pubblica totale pari a 799 miliardi di euro balzata a 827 a settembre, con un aumento di 28 miliardi. Il totale delle entrate era pari a 752 miliardi balzato a 782, con un aumento di 30 miliardi. Senza la rivalutazione Istat del Pil la spesa sarebbe volata oltre il 52 per cento e le entrate avrebbero sfiorato il 50 per cento. I 28 miliardi di maggiori spese sono dovuti per 17 miliardi a spesa corrente al netto degli interessi, per 4 miliardi a minori spese per interessi e per 15 miliardi a maggiore spesa in conto capitale. I 17 miliardi in più di spesa corrente al netto degli interessi risultano per 15 miliardi alla voce «altre spese correnti» (?) che, per lo stesso anno 2013, passa da 61 a 76 miliardi di euro.I 15 miliardi in più delle spese in conto capitale sono dovuti per 11 miliardi a investimenti fissi lordi (nel 2013 abbiamo fatto più investimenti di quelli che risultavano a consuntivo ad aprile!) e 4 miliardi a contributi in conto capitale (abbiamo cioè erogato più fondi perduti?). I 30 miliardi in più di entrate risultano provenire per 18 miliardi da quelle tributarie (più 4 dalle dirette e più 14 dalle indirette) e per 12 miliardi da «altre entrate» (ma cosa sono le altre entrate?). In sintesi, abbiamo scoperto a settembre che, nel 2013, abbiamo avuto più Pil, più spesa pubblica e più tasse! Certo, ci potranno essere ragioni «tecnico-contabili», ma che queste spostino i numeri in modo così rilevante merita certamente «spiegazioni e approfondimenti».

La terza verità conferma la mistificatoria metodologia che si applica in Italia da oltre trent’anni quando si parla di tagli alle spese. Infatti, come si dimostra in tutti i Def, quando si parla di tagli alle spese ci si riferisce ai dati «tendenziali previsti» per gli anni futuri e scritti sulla carta. Non si fa cioè riferimento alla spesa storica e vera di quest’anno che è effettivamente «entrata» nell’economia. Pertanto, se quest’anno ho speso 100 euro, i tagli non sono riferiti a questi 100 euro, bensì alla previsione di spesa per il prossimo anno che magari è «stimata» (come? da chi?) pari a 130 euro. Allora se si propone un taglio di 20 euro rispetto a quei teorici 130, si sta riducendo l’aumento di spesa «previsto» di 30 euro, ma di fatto si aumenta la spesa da 100 a 110 euro!

La controprova di questo è data dagli stessi numeri della Nota di aggiornamento. Infatti, nel 2018 rispetto al 2013, la spesa totale «aumenta» di 69 miliardi (se ci si riferisce al dato del Def di aprile), e 41 miliardi (se ci si riferisce al dato di settembre), con dentro una spesa corrente al netto degli interessi che aumenta di 63 o 46 miliardi nei due casi. Quest’ultima differenza è tutta dovuta ai 15 miliardi di maggiori «altre spese correnti» scoperte per il 2013 tra aprile e settembre. Queste «altre spese correnti» rappresentano un calderone ignoto e intonso che cresce nei prossimi anni fino a poco meno di 80 miliardi all’anno. Cosa c’e dentro? Per contro, le entrate totali «aumentano» di 102 miliardi sempre in riferimento ai dati di aprile e di 72 miliardi rispetto a quelli di settembre. In sintesi, da qui al 2018, avremo più tasse, più spesa corrente, minori investimenti, nonostante la minore spesa di interessi sul debito.

Per questo è facile spiegare la quarta verità. In queste condizioni, è corretta e onesta la stima degli effetti della politica economica che vengono indicati in una tabella della Nota di aggiornamento (tav. II. 4 a pagina 18). Stima, però, talmente prudente e oggettiva da rappresentare quasi una dichiarazione di impotenza. Nella suddetta tabella si indica che:
– il bonus degli 80 euro (stimato a 7 miliardi invece dei precedenti 10) aumenterà il Pil dello 0,1 per cento all’anno fino al 2017 e zero nel 2018;
– la riduzione fiscale per le imprese determinerà un aumento di Pil dello 0,1 nel 2015 e nel 2016 e zero negli anni successivi;
– il resto della legge di stabilità ridurrà il Pil dello 0,1 per cento l’anno prossimo e avrà effetto zero sugli anni successivi;
– le quattro riforme «strutturali» (giustizia, pubblica amministrazione, competitività, Jobs act) avranno effetto zero nel 2015, attiveranno un aumento di Pil dello 0,2 nel 2016 e dello 0,4 dal 2017 in poi;
– nella stessa tabella, viene reiterata la famigerata clausola di salvaguardia, di tremontiana invenzione. Ma che cos’è? Semplice, ci si impegna, se i conti non tornano, a far scattare automaticamente una riduzione delle detrazioni e deduzioni fiscali. Si chiama «tax expenditure», ma i comuni mortali capiscono che, se le detrazioni si riducono, si pagheranno più tasse. Ebbene, questa clausola di salvaguardia, già incorporata nelle stime, riduce il Pil del 2016 dello 0,2 per cento, quello del 2017 dello 0,3 e quello del 2018 dello 0,2. Ecco allora che gli effetti della politica economica vengono indicati in una maggiore crescita del Pil dello 0,1 per cento nel 2015 e dello 0,2 negli anni successivi. Come direbbero gli anglofoni di casa nostra… peanuts, cioè bruscolini!

Questi sono i dati «ufficiali» scritti nero su bianco dal governo dieci giorni fa. Poi ci sono i numeri sparati come fuochi artificiali nelle conferenze stampa: una legge di stabilità di 30 miliardi, tagli di spesa per 16 miliardi, tagli di tasse per 18 miliardi ecc.. Ma questi numeri sono riferiti alle previsioni future o ai dati storici del 2013? Sono tutti in un anno o sono la somma dei prossimi tre o quattro anni? Solo con il testo finale della legge di bilancio sarà possibile avere una risposta. Nel frattempo… incrociamo le dita!

L’austerità sta fregando l’Europa

L’austerità sta fregando l’Europa

Gaetano Pedullà – La Notizia

Nella legge di stabilità varata ieri dal Governo c’è più benzina di quanta se ne sia vista nelle manovre degli ultimi tre anni tutte insieme. Dagli sgravi fiscali per chi assume al taglio dell’Irap, dalla conferma degli 80 euro al Tfr in busta paga, il piano è promettente e ambizioso. Naturale che a Bruxelles ce lo bocceranno. Il problema dell’economia in Europa è infatti l’Europa stessa, con questa maledetta politica dell’austerità che ieri ha presentato ancora una volta il conto. La Grecia fatica a rientrare del suo debito e con questa scusa i mercati hanno ricominciato a speculare e scommettere sul ribasso dei corsi obbligazionari e azionari. Gli spread sono ripartiti e le piazze finanziarie del vecchio continente hanno bruciato in una sola seduta 276 miliardi. Gli Stati Uniti, che ieri hanno visto Wall Street in calo ma che sono ormai da cinque anni consecutivi in crescita (nonostante la crisi finanziaria sia opera loro), se la ridono. Qui la Merkel ci impone politiche di rigore e la Bce continua a curarci con l’aspirina. Così siamo condannati a star sempre peggio. Qualunque siano le mosse di Palazzo Chigi.

Un passo avanti positivo ma attenzione ai tagli

Un passo avanti positivo ma attenzione ai tagli

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

Questa volta il governo ha smentito gli scettici: non c’è dubbio che la legge di stabilità sia un passo avanti importante con varie novità positive. Il governo ha scelto bene le priorità e sta attuando una strategia di politica economica che, nei limiti del possibile, spinge l’economia italiana verso la crescita.

Innanzitutto, l’impostazione generale è espansiva: seppur nel rispetto del vincolo del 3%, il pareggio del bilancio strutturale è rinviato al 2017 per evitare provvedimenti prociclici. Sommato agli effetti della revisione del Pil annunciata a fine settembre, si ha un effettivo ampliamento del disavanzo di quasi l’1% del Pil rispetto al tendenziale. Non è poco, ma è giusto che sia così. Se la Commissione Europea trovasse qualcosa da ridire su questo punto, dimostrerebbe miopia e stupidità.

Secondo, si affronta il nodo della competitività. Tra la nascita dell’euro e il 2008, il costo del lavoro per unità di prodotto è salito in Italia di circa il 30% più che in Germania. Da allora il divario è aumentato ancora, per via dell’andamento prociclico della produttività. Ciò è insostenibile ed è uno dei fattori alla base dell’attuale crisi economica. Prima con la riforma dell’articolo 18, ora con l’abolizione dell’Irap sul lavoro e gli sgravi contributivi sui neo-assunti, si pongono finalmente le basi per riacquistare competitività e aumentare la domanda di lavoro regolare.

Terzo, scende la pressione fiscale, perché gli sgravi fiscali su imprese e famiglie sono coperti da tagli di spesa. Anche questa è una svolta essenziale per promuovere la crescita e ridare fiducia. Sarà importante, ma non scontato, evitare che questo aspetto della manovra venga stravolta durante l’esame parlamentare.

Quarto, ma più controverso, anche la possibilità per il lavoratore di chiedere il rimborso anticipato del Tfr merita un giudizio positivo. Già oggi, a certe condizioni, i lavoratori possono incassare anticipatamente il Tfr versato, e un numero rilevante di lavoratori si avvale di questa facoltà. Ciò non sorprende, perché la crisi e la stretta creditizia impongono vincoli di liquidità stringenti su molte famiglie. Allentare questi vincoli non solo è efficiente per i diretti interessati, ma sostiene anche la domanda interna. L’obiezione che in questo modo si creano problemi alle piccole e medie imprese (o che si costringe lo Stato a dare garanzie implicite sul Tfr) è sbagliata, sia perché la legge di stabilità ha escogitato un modo per far affluire comunque liquidità alle imprese che la chiedono, sia perché non vi è una valida ragione per sussidiare le imprese piccole con i soldi dei loro dipendenti, sia infine perché l’Inps già oggi assicura il Tfr contro il rischio di fallimento dell’impresa. Più rilevante è l’obiezione che in questo modo si ostacola lo sviluppo della previdenza integrativa; ma anche questo argomento non è persuasivo, sia perché la legge di stabilità non prevede un incentivo fiscale alla riscossione anticipata, ma soprattutto perché non è questo il momento di costringere le famiglie a risparmiare.

Non illudiamoci che il più sia stato fatto, tuttavia. I principali interrogativi riguardano la natura dei tagli di spesa. La legge di stabilità riduce i trasferimenti a regioni e enti locali per circa 6,2 miliardi, senza però intervenire sulle prestazioni e sui programmi di spesa che queste amministrazioni sono tenute ad elargire (l’80% delle uscite delle regioni sono in spesa sanitaria). Riusciranno davvero questi enti decentrati a ridurre le uscite, oppure vedremo solo uno spostamento del carico fiscale dal centro alla periferia, o peggio ancora uno spostamento delle spese fuori bilancio? Preoccupazioni analoghe riguardano i tagli alla spesa dei ministeri (4 miliardi). Per ridurre in modo permanente la spesa pubblica non basta la lotta agli sprechi, occorre anche intervenire sui grandi programmi di spesa, riducendo le prestazioni offerte sotto costo ai cittadini, o tagliando il pubblico impiego. Forse ora non ci sono le condizioni politiche ed economiche per farlo. Ma se non ora, dovremo farlo nei prossimi anni, altrimenti la spesa pubblica riprenderà a salire.

Anche per la competitività resta molto da fare. La riforma dell’articolo 18 andrà estesa anche ai lavoratori del pubblico impiego (non c’è alcuna ragione per discriminare a loro favore). Inoltre il regime di contrattazione dovrebbe essere rivisto, per dare più peso ai contratti aziendali e consentire deroghe alla contrattazione collettiva. Quanto al cuneo fiscale, la componente che grava sulle imprese rimane comunque molto più elevata rispetto agli altri paesi europei (per allinearci alla Germania, occorrerebbero sgravi contributivi per oltre 30 miliardi anche dopo l’abolizione dell’Irap).

Infine, un dubbio sull’azzeramento dei contributi sociali per tre anni sui neoassunti: sebbene l’intento di sostenere la domanda di lavoro sui nuovi contratti regolari sia condivisibile, cosa succederà allo scadere dei tre anni? Il provvedimento è una scommessa che per allora saremo usciti dalla stagnazione, altrimenti dal quarto anno in poi aspettiamoci licenziamenti per evitare l’impennata del costo del lavoro (in barba all’idea del contratto a tutele crescenti). Ma se davvero ci sarà la ripresa, la copertura richiesta per questo provvedimento potrebbe rivelarsi superiore alle stime del governo. Insomma, la strada per cambiare l’Italia è ancora lunga e difficile. Ma il governo l’ha imboccata, ed è la prima volta da tanto tempo che questo accade senza esservi costretto dall’emergenza finanziaria. Speriamo che ci sia tempo per percorrerla tutta, senza precipitare di nuovo nell’emergenza.

La grande minaccia è l’incertezza

La grande minaccia è l’incertezza

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

«Le banche sono il polmone del sistema economico: se gli si stringe troppo il collo, il polmone si ferma e tutto il sistema collassa». Più che uno scenario, per i banchieri è oggi una certezza: lo stallo dell’economia, il crollo delle Borse e l’avvitamento dei titoli bancari su tutti i grandi listini – e in particolare a Piazza Affari – hanno purtroppo radici comuni.Quali? Risposta scontata: il clima di incertezza che circonda le banche. Tesi di parte o autodifesa che sia, sta di fatto che il mercato finanziario sembra ormai confermare con i fatti quanto le banche paventavano da tempo: il rischio di soffocamento da «stretta regolatoria».

È difficile definire del resto una casualità il fatto che il crollo di Wall Street, Londra, Milano, Parigi o Francoforte sia cominciato proprio con la diffusione dei bilanci trimestrali delle grandi banche internazionali: per gli investitori, la redditività stagnante, il basso rendimento del capitale e quindi gli utili asfittici emersi dai conti dei colossi americani come JP Morgan, Wells Fargo o Citigroup sembrano rappresentare non solo la conferma di uno stallo globale della ripresa economica, ma soprattutto il segnale di una svolta strutturale nel ruolo-guida avuto finora dalle banche nella crescita dei mercati e degli indici azionari.

Per i banchieri non è una sorpresa: tassi di interesse ai minimi storici, economie ancora deboli, domanda di credito che non riparte e soprattutto l’incertezza creata dai crescenti requisiti di capitale e dagli eccessi regolatori si stanno combinando in una miscela esplosiva, pericolosa tanto per il credito quanto per le Borse e il risparmio investito. Se Wall Street è crollata infatti sui bilanci delle grandi banche sistemiche, le Borse europee stanno palesemente tremando sull’incertezza (e la durezza) creata dagli stress test dell’Eba. Il timore di un’ondata di ricapitalizzazioni forzate dopo la diffusione dei risultati il 26 ottobre è infatti generalizzato in tutta Europa, esasperando le illazioni sui sistemi nazionali e sulle banche che saranno più colpiti dall’esito dei test sui bilanci del 2013. Un importante contributo al crollo borsisitico delle banche italiane e quindi di Piazza Affari, per esempio, lo ha dato ieri uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi: sul sito online dello Spiegel è apparso infatti un articolo in cui si affermava che l’Italia è fra i paesi che avranno i risultati peggiori dagli stress test sulle banche disposti dalla Bce.

Lo Spiegel, citando fonti anonime «ma ben informate», ha preannunciato che per due-tre Paesi del Sud Europa i risultati saranno molto negativi: «Candidati bollenti – è scritto nell’articolo – sono Italia e Cipro». Risultato: il Banco Popolare ha ceduto l’8,09%, Mps il 7,63%, Bpm il 7,59%, Unicredit il 6,14%, Intesa il 5,85% e Mediobanca il 5,77%. Davanti alle illazioni e a un crollo di tale portata, persino il presidente dell’Abi Antonio Patuelli si è sentito in dovere di intervenire: «Spero che le nostre pagelle siano buone – ha detto Patuelli – ma il vero problema è quello delle regole, della rigidezza e della loro applicazione». Anche in questo caso si può obiettare che quella di Patuelli è solo un’auto-difesa d’ufficio, una posizione che cerca di nascondere le debolezze strutturali di un sistema bancario che non ha completato la pulizia dei bilanci e deve ancora affrontare un ineludibile processo di ristrutturazione. Ma l’analisi sarebbe riduttiva. I timori e le incertezze create dalla stretta regolatoria che rischia di soffocare le banche italiane sono gli stessi che gravano sui colossi globali del credito e soprattutto sulle cosiddette banche sistemiche, un gruppo in cui l’Italia è rappresentata solo da Unicredit.

Ebbene, le proposte di revisione dei requisiti di capitale in via di definizione da parte del Financial Stability Board e dal Comitato di Basilea sulla Supervisione bancaria sono talmente ampie e confuse da aver creato un destabilizzante clima di incertezza, tanto per le banche quanto per il mercato. Senza entrare troppo nel dettaglio, basti pensare che l’Fsb ha fatto circolare delle bozze in cui si ipotizza di elevare tra il 16% e il 20% il «core tier one» dei colossi del credito (è il cuscinetto di capitale necessario per assorbire perdite impreviste). Sembrano pochi punti, ma quando si parla di migliaia di miliardi il risultato finale cambia radicalmente: con la soglia del 20%, le banche globali avrebbero un deficit patrimoniale di 870 miliardi di dollari, con quella del 16% di 375 miliardi di dollari. Per i banchieri, come per gli investitori, la forbice dell’incertezza comincia qui. E da qui comincia la caduta dei mercati.

Obiettivo crescita: se non ora quando?

Obiettivo crescita: se non ora quando?

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

È certamente la conseguenza delle nuove incertezze sull’uscita della Grecia dalla crisi, forse c’entrano anche i dati negativi sulla congiuntura Usa, ma la spallata che ha coinvolto la Borsa e i titoli pubblici italiani è un monito per chiunque si fosse fatto illusioni sulla stabilità del titolo Italia sui mercati finanziari. L’Italia resta ancora un osservato molto speciale in Europa. Certo, la coincidenza temporale con l’approvazione della prima legge di stabilità del governo Renzi è del tutto casuale. Ma il segnale non poteva arrivare più chiaro: bene la manovra espansiva, ottima la riduzione delle tasse, ma attenzione alla solidità dei numeri e niente salti nel buio.

Detto questo, c’era una tassa odiosa e adesso non c’è più. Una tassa sull’occupazione, che prescindeva dall’andamento dell’impresa, e quella tassa è stata cancellata per un valore di 5-6,5 miliardi. Le imprese non pagheranno più un assurdo balzello sulla loro capacità di creare o difendere l’occupazione. Una misura che si accompagna all’azzeramento dei contributi nei primi tre anni per le assunzioni a tempo indeterminato. In questo modo, come dimostrato ieri da Giorgio Pogliotti sul Sole 24 Ore, il costo per l’azienda di un’assunzione stabile si ridurrà di quasi un terzo. Significa che assumere a tempo indeterminato potrebbe davvero diventare più conveniente rispetto ad altre formule contrattuali. Soprattutto se alle misure economiche si accompagnerà una vera riforma del mercato del lavoro, con un contratto a tutele crescenti che superi definitivamente le incongruenze e le vischiosità burocratico-giudiziarie dell’attuale articolo 18. Su questo qualunque passo indietro del governo è proibito.

Complessivamente la riduzione della pressione fiscale, tra imprese e famiglie, è significativa. E va anche riconosciuto lo sforzo di coprirla il più possibile con tagli di spesa per 15 miliardi (12 nuovi più 3 già previsti). È vero però che una quota della copertura arriva ancora una volta dalla stima del recupero dell’evasione (3,8 miliardi) e che i tagli di spesa – come ha giustamente osservato Luca Ricolfi sulla Stampa – vengono per una parte riassorbiti da nuove spese. Ma soprattutto c’è il rischio che i circa 6 miliardi di tagli che gravano su Regioni e Enti locali si possano tradurre in nuove tasse. Un rischio molto concreto se si considera che dal 2000 (ultimo anno prima del nuovo Titolo V) la pressione fiscale locale è aumentata dell’80%, cioè da 47 a oltre 81 miliardi.

Renzi comunque può dire a ragione di aver portato a casa una manovra (quasi) senza tasse (con l’eccezione dell’aumento di prelievo sui fondi pensione, sulle fondazioni bancarie e sulle polizze vita). Una manovra decisamente espansiva. Portare il rapporto deficit/Pil dal 2,2 tendenziale al 2,9% permette di investire 11 miliardi in sviluppo. Può essere una scelta ardita, ma se non ora quando? L’analisi con cui Moody’s ha confermato il rating all’Italia sottolinea che è il ritorno alla recessione il fattore che più pesa sui rischi di sostenibilità finanziaria. Lo stesso Fondo monetario, nel rapporto del 22 agosto, ha sottolineato che «il rilancio della crescita è essenziale per superare il pericolo di una crescita fuori controllo del debito».

L’Europa sarà sorda a queste buone ragioni? Sarebbe, va detto senza equivoci, un errore madornale. L’Italia rispetta il parametro del 3%, ha il più alto avanzo primario d’Europa e mantiene comunque un andamento in discesa del rapporto deficit/Pil. Fa tutto questo malgrado un Pil in discesa. E mette anche da parte – novità dell’ultima ora – una riserva da 3,4 miliardi per ogni eventualità. Che credibilità può avere una richiesta di Bruxelles di aumentare la correzione del deficit costringendoci a escludere diversi miliardi dal rilancio della crescita?

«Se non ora quando» vale anche per l’Europa. D’altra parte il giudizio che conta di più è quello che daranno da subito i mercati. Già stamattina la credibilità della manovra di Renzi sarà messa alla prova. Dopo la giornata di ieri c’è da tremare: la scelta della crescita attraverso il taglio delle tasse è la strada giusta, ma guai a perdere la consapevolezza di quanto la strada della stabilità finanziaria sia stretta e difficile. La giornata di ieri, se ne avevamo bisogno, ce lo ha ricordato.

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Intorno alle cifre imponenti della manovra di Renzi si discuterà a lungo: dal rapporto fra tagli di spesa e risorse in deficit alla verosimiglianza dell’intero pacchetto, fino alle effettive coperture. Che sia un progetto ambizioso, è chiaro a tutti. Che sia anche realistico, lo si vedrà presto.

Appare chiaro che il presidente del Consiglio gioca su due fronti. Quello europeo è evidente a tutti. Ma l’ambizione che traspare dai numeri va molto al di là del rigido rispetto dei parametri. Sulla carta il famoso tetto del 3 per cento di deficit è rispettato, ma si sono anche poste le premesse dello sfondamento, nel caso in cui i vari tasselli del mosaico non si collocassero tutti al loro posto: cioè se le maggiori spese non fossero compensate da tagli efficaci e soprattutto autentici. Quindi si coglie un rischio calcolato e persino temerario nelle cifre di Palazzo Chigi, anche se non proprio una sfida all’Unione. Ora spetterà alla Commissione di Bruxelles studiare la manovra nel merito, voce per voce, e giudicare la sua serietà. Non sarà, come tutti prevedono, un esame facile e il pericolo della bocciatura s’intravede sullo sfondo.

Tuttavia c’è anche il secondo fronte, a cui Renzi è particolarmente attento. Un secondo fronte che riguarda il rapporto fra il premier e l’opinione pubblica interna. Sotto questo aspetto la legge di stabilità del centrosinistra è una miscela ben congegnata per piacere al maggior numero possibile di italiani. I miliardi destinati ad abbassare le tasse delle imprese servono, almeno nelle intenzoni, a conquistare il mondo produttivo. Al tempo stesso, gli 80 euro confermati nelle buste paga vogliono rendere più solido il patto politico con i bassi redditi.

È chiaro che l’operazione è tutt’altro che banale. Non è una mera ricerca di consenso; al contrario è soprattutto il tentativo di imprimere una spinta significativa a un’economia che non esce dalla recessione: con un Pil tornato ai livelli di quattordici anni fa, cioè al 2000. Ma in ogni caso è anche una legge molto “politica”, nel senso che Renzi l’ha modellata sull’Italia che ha in mente: da un lato, il paese di chi produce e compete sui mercati eppure si sente soffocato; dall’altro, la platea di chi – singoli o famiglie – ha pagato fin qui il prezzo più salato alla crisi. Tale profilo politico della manovra è stato tratteggiato pensando al possibile «blocco sociale» che il premier ha in mente. Quindi è un errore limitarsi a dire che si tratta di una legge scritta pensando alle elezioni anticipate. Anche perché al momento il voto non è vicino, come non è vicina la riforma elettorale maggioritaria che Renzi considera l’indispensabile lasciapassare per le urne.

Detto questo, è certo che si tratti di un passaggio verso il consolidamento del consenso “renziano” nel paese. Consenso che ha bisogno di mettere radici nell’Italia profonda. Poi, una volta rafforzate le radici, il premier potrà giocare con maggiore sicurezza le sue carte. E magari immaginare quel ricorso alle urne che oggi è prematuro. Del resto, è chiaro che una manovra del genere “lacrime e sangue” oggi non sarebbe praticabile in una nazione stremata. Mentre una legge di stabilità come l’attuale permette di tenere in tasca, fin quando non sarà utile, la carta dello scioglimento del Parlamento. E c’è da credere che al momento opportuno, non sappiamo quando, Renzi vorrà giocarla.

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Marcello Sorgi – La Stampa

Convocato nel mercoledì nero del crollo delle borse, con Milano che ha toccato il picco della negatività in Europa, il Consiglio dei ministri ha licenziato la legge di stabilità in un clima diverso da quello di svolta che Renzi avrebbe voluto, e che comunque s’è sforzato di costruire, presentando in serata nei dettagli la manovra da trentasei miliardi, «con il più grande taglio di tasse della storia della Repubblica». In sintesi, Renzi tende a dare un valore contingente al terremoto di ieri sui mercati e a prevedere risultati molto più immediati delle misure appena varate, sia in termini di rilancio dell’occupazione, grazie al drastico taglio dell’Irap e del costo del lavoro, sia in fatto di ripresa dei consumi e di crescita complessiva. Si tratta, com’è evidente, di una visione ottimistica del percorso che l’Italia ha di fronte. Renzi però sostiene che non c’è altra strada.

Qualificati osservatori economici, tuttavia, di quel che è accaduto ieri e del trend delle ultime settimane tratteggiano un quadro diverso e arrivano a conclusioni più preoccupate. L’alibi della Grecia in cui il governo Samaras spingerebbe per liberarsi in anticipo dei vincoli della Trojka non può bastare a spiegare la fuga degli investitori negli ultimi giorni dalla Borsa italiana e il brusco rialzo dello spread, che ieri ha toccato di nuovo quota 170 per assestarsi poi solo qualche punto più sotto. Il ritardo con cui l’agenzia Moodys ha consegnato il suo periodico rapporto (per la verità più positivo, o se si preferisce meno allarmato, del previsto) può aver determinato un’ondata di vendite, ma non fino al punto da provocare un crollo come quello che s’è avuto.

La verità, come ha ricordato giorni fa il presidente della Bce Draghi, è che la crescita globale nell’insieme sta rallentando, e in tale ambito la stagnazione europea non dà segni di movimento e la stessa Germania comincia a mostrare qualche segno di affaticamento. È in questa cornice che la Commissione europea – quella uscente presieduta da Barroso, che ha già spiegato come sia difficile fare sconti, e la nuova guidata da Juncker, con cui Renzi ha avuto una telefonata non del tutto rasserenante martedì – deve decidere se promuovere l’Italia e la manovra varata da Palazzo Chigi, accettando l’ottimismo della volontà di Renzi, o se rimandarla o addirittura bocciarla, abbandonandosi al pessimismo della ragione.

Sulla spesa il fronte più difficile

Sulla spesa il fronte più difficile

Stefano Lepri – La Stampa

La questione non è più tanto se la Commissione europea accetterà questi numeri, quanto se li considererà verosimili. Gli obiettivi che il governo si pone con la legge di stabilità approvata ieri sera appaiono validi. Le risorse per raggiungerli non è chiarissimo come saranno trovate; 3,8 miliardi dalla lotta dell’evasione fiscale e 15 da tagli alle spese sono cifre di grande ambizione. Matteo Renzi l’ha definita una manovra di bilancio «anticiclica», ossia, in gergo economico, volta a rilanciare l’economia. Non è esattamente così. Nelle grandi cifre, è grosso modo neutrale; scelta corretta rispetto all’intervento ulteriormente recessivo che sarebbe risultato da una applicazione schematica delle regole europee. Potrà essere espansiva se sarà costruita bene, sostituendo soldi ben spesi a soldi mal spesi. Al calo del prelievo fiscale, 8 miliardi aggiuntivi ai 10 già promessi, dovrebbe accompagnarsi una vera riduzione di spese poco utili. Potrà esserlo se le grandi riforme, come spera Piercarlo Padoan, avranno effetti pronti sulla fiducia di chi lavora e di chi investe.

Tre ipotesi sono possibili. Primo, gli interventi sulla spesa saranno maldestri; l’esperienza passata sui «tagli lineari» ci dice che cambiano poco e per di più non durano. Secondo, i tagli sono fittizi e il deficit 2015 oltrepasserà la soglia del 3%, con rialzo dei tassi sul debito e sanzioni europee. Terzo, i tagli saranno ben concepiti, e proprio per questo solleveranno una tempesta di resistenze. Purtroppo incidere sulle cattive erogazioni di denaro pubblico per una cifra così grande, 12,3 miliardi aggiuntivi rispetto alle misure già in corso, richiede che si colpiscano interessi costituiti ben capaci di difendersi. È già partita al contrattacco la politica locale, dove gli sprechi sono assai diffusi. Vedremo nelle prossime ore chi altri alzerà le barricate.

Solo riforme efficaci e un uso migliore delle risorse possono azzittire chi in Europa vorrebbe costringerci a una regola – quella dell’«obiettivo di medio termine» – sorpassata dall’evolversi della crisi. L’Italia l’aveva fatta propria, inserendola anche nella Costituzione, dopo gli enormi rischi corsi nel 2011; rispettarla quest’anno significherebbe altri posti di lavoro in meno. Tutta l’economia mondiale non riesce ad uscire appieno dalle difficoltà, come mostrano anche i dati giunti ieri dagli Stati Uniti; il ribasso del greggio segnala timori di recessione. E’ assurdo dare la colpa di tutto all’austerità nell’area euro, visto che anche Svezia e Svizzera sono in deflazione; varie sono le cause se anche la gran parte dei Paesi emergenti rallenta. In passato, il vincolo delle regole esterne ha fatto solo bene all’Italia, ponendo freni alla cattiva politica. Ora una azione di rilancio spetterebbe alla Germania, che ha i bilanci in ordine. Non lo vuole fare, per una debolezza politica interna che ributtata all’esterno sembra forza; e allora il male di gran lunga minore è che l’Italia temporaneamente vi si sottragga.

I rischi ci sono. Lo mostra la Grecia, che nell’attuale fase di calma dei mercati finanziari progettava di sottrarsi in anticipo alla sorveglianza della troika (Commissione europea, Bce, Fmi). Meglio che non lo faccia – si vede in queste ore – soprattutto perché politicamente non è stabile, elezioni anticipate non possono essere escluse, con una vittoria dell’estrema sinistra. L’Italia non è né fragile come la Grecia né altrettanto malmessa; però è anche otto volte più grande. Per questo gli altri Paesi dell’area euro diffidano di noi. Dobbiamo loro chiarezza di propositi; e, magari, anche la lucidità di indicare verso quali regole migliori potremmo muoverci tutti insieme.

C’è anche chi non cerca lavoro

C’è anche chi non cerca lavoro

Michele Tiraboschi – Italia Oggi

I dati del mercato del lavoro e i principali indicatori economici dell’arco temporale 2007-2013 forniscono una fotografia della crisi molto diversa da quelle che sono le principali notazione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione. È vero che si segnala un raddoppio del tasso di disoccupazione dal 6% a 12%, sia per l’intera popolazione che per i giovani, per i quali il tasso ha superato il 40%. È anche vero che il tema centrale non è solo il lavoro precario, che occupa gran parte dei dibattiti, visto che lavoro temporaneo in Italia è ancora al di sotto del 15%.

I veri problemi
Dall’analisi degli indicatori economici diffusi dall’Eurostat altri sono i problemi principali del nostro mercato del lavoro, primo tra tutti il bassissimo tasso di occupazione regolare, quindi l’ampio numero non solo persone che non hanno un lavoro ma anche di coloro che non lo cercano e che non sono quindi considerati nel numero dei disoccupati.

I numeri
Tre cifre ci aiutano a dipingere la situazione italiana in modo chiaro: in una popolazione di 60 milioni, tra cui una potenziale forza-lavoro di 39 milioni, solo 25 milioni hanno un impiego effettivo o cercano lavoro. Questo spiega tutto, con una popolazione lavorativa sotto i 25 milioni, una persona deve lavorare per sé e per altri due, il vero problema è quindi l’inattività.

Le donne
Questo è evidente guardando la popolazione femminile, inchiodata da trent’anni sotto il 50%, una su due non lavora e se lavora è in nero, in mezzogiorno solo una su quattro. Un ulteriore problema è certamente il tasso di disoccupazione giovanile superiore al 40%, ma più preoccupante è il dato dell’occupazione dei giovani che non supera il 16%. La grande maggioranza quindi non ha un lavoro e non lo cerca.

Gli over 50
È invece significativo il fatto che durante crisi vi sia stato un notevole incremento degli occupati over 50, se ai tempi della Legge Biagi erano uno su tre, oggi siamo a 50%, con 50 italiani su 100 obbligati a lavorare dalla morsa della crisi. Anche in questo caso, oltre agli effetti della riforma Fornero delle pensioni, incide il fatto che molti over 50 sono costretti a lavorare per mantenere quell’ampia fetta di popolazione, soprattutto di giovani, che non lavora e non cerca lavoro.

Conclusione
La semplice lettura di questi dati ci conduce quindi ad ampliare le nostre analisi consuete e a leggerle da un punto di vista differente, con un occhio sì attento alla crisi, ma che guarda anche auna condizione storica del me

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

È una proposta non nuova per gli italiani. Negli ultimi anni diverse forze politiche hanno proposto l’azzeramento dei contributi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. La peggiore recessione del secondo dopoguerra abbinata alla deflazione e accompagnata da un cuneo fiscale che scoraggerebbe perfino la voglia di fare impresa dei tedeschi hanno prodotto il record italiano della disoccupazione giovanile: +44,2%. Ovvio che un premier di attacco, quale Matteo Renzi sicuramente è, non poteva restare fermo ai soli annunci. Non sorprende, quindi, la sua decisione di varare nella nuova legge di Stabilità la decontribuzione triennale al 100% sui contratti a tempo indeterminato. Decisione, peraltro, accompagnata dall’eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap. Una scossa vera, dunque, al cuneo fiscale italico che punta al cuore delle aspettative di imprenditori e manager per farle girare verso il quadrante positivo della congiuntura economica.

Oggettivamente si tratta di decisioni sempre promesse dal duo Berlusconi-Tremonti e mai realizzate in tanti anni di governo. Renzi con la nuova legge di Stabilità completa l’opa ostile, iniziata con gli 80 euro e il primo taglio dell’Irap del 10%, sull’elettorato un tempo del Cavaliere e indossa, senza se e senza ma, i panni della socialdemocrazia riformista tedesca. Il pericolo per il premier a questo punto è soltanto uno: quello incarnato dalla burocrazia italiana oggettivamente inadeguata a rendere operative rapidamente le politiche anticicliche adottate dai governi. I ministeri fanno marcire nei cassetti le norme pro sviluppo e pro occupazione e quando, dopo vari anni dalla pubblicazione in G.U. del dl che le conteneva, le rendono operative non servono praticamente più a raggiungere lo scopo per cui erano state varate.

Il caso del Mise e del cosiddetto bonus fiscale per le assunzioni altamente qualificate è esemplare. Introdotto con decreto dal governo Monti nel giugno del 2012 è diventato operativo solo il 15 settembre del 2014 (solo per le assunzioni del 2012 ovviamente; quelle fatte quest’anno saranno incentivate nel 2016!). Chi assume un PhD nel 2012 per avere un credito di imposta nel 2015? In pratica nessuna impresa, come ora certificano i dati della stessa procedura. Dei 25 milioni di euro messi a disposizione dal Mise per il 2012, ben 20.125.982, cioè più dell’80%, sono ancora disponibili dopo un mese dall’avvio del clickday. Trattandosi di assunzioni relative al 2012 possiamo già considerare chiusa la procedura. Morale: quando la burocrazia impiega ben 27 mesi per rendere operativa una norma anticiclica ne uccide la capacità di incidere. La vera nemica del riformismo di Renzi, oggi, è proprio questa pubblica amministrazione da terzo mondo.