Edicola – Opinioni

Lo scambio utile con Pechino

Lo scambio utile con Pechino

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Li Keqiang compie molto più di una visita di cortesia nel l’Italia del vertice Asem. Il suo arrivo rafforza un’operazione di shopping portata avanti dalle imprese (di Stato) dell’ex Impero di mezzo. Ma non solo. Le recenti acquisizioni di quote minoritarie (2%), ma in valore assoluto importanti, di Telecom, Enel, Eni devono essere interpretate in una logica di diversificazione del portafoglio di investimento dei cinesi e in ambiti ritenuti a basso rischio.

Se consideriamo che fino a un paio di anni fa l’Italia era fuori dal radar degli investimenti della Cina, l’iniezione di capitali da un Paese in possesso di enorme liquidità è benvenuta. L’Italia deve trasformare l’interesse che proviene dalla seconda economia più importante del pianeta e dal suo immenso mercato in un’opportunità per le nostre imprese. Lo può e lo deve fare giocando al meglio e in modo sistematico la partita di questa relazione con le sue carte migliori: i tesori di famiglia, le complementarità che sussistono tra i due Paesi, un portato di valori e di qualità della vita che interessa oggi più che mai alla Cina, la capacità di innovazione. Carte che consentono un gioco ben più ambizioso di quello che ci colloca, ora ,al 21° posto tra i partner commerciali in ingresso e al 25° tra quelli in uscita del Dragone. Per quanto il nostro sistema agroalimentare e il sistema moda/alto di gamma rappresentino l’eccellenza italiana, quasi il 40% dei circa 19 miliardi di nostre esportazioni in Cina sono dovute a: meccanica di precisione, macchinari per l’industria, veicoli industriali e sistemi dell’automazione. Prodotti e tecnologie di grande interesse per il tessuto industriale cinese con il quale sviluppare innovazione.

La seconda carta è la complementarietà nel modo di fare business. La Cina è un Paese a forte vocazione dirigista, e con una capacità unica al mondo di sviluppare specializzazione verticale, sfruttare opportunità puntuali di mercato e sviluppare campioni nazionali e colossi internazionali. Ha tuttavia, per fattori dimensionali e culturali, meno efficacia nella diversificazione e nell’innovazione creativa. Mentre noi siamo la patria delle Pmi di eccellenza, di un’imprenditoria abituata a fare di necessità virtù e a conseguire risultati straordinari con risorse limitate; un’imprenditoria che ha però conosciuto fenomeni di scarsa managerializzazione che ne hanno limitato la crescita e condannato alcuni comparti a un nanismo limitante di fronte a mercati sconfinati come quelli asiatici. Cina e Italia hanno l’opportunità di compendiare i rispettivi punti di forza e superare i reciproci punti di debolezza.

C’è poi un asso: la nostra eccellenza in ambiti di primario interesse per lo sviluppo cinese. Proprio sul Sole 24 Ore, il premier Li ha delineato ambiti di collaborazione nell’agricoltura, nell’aerospaziale, nello urban planning, nelle tecnologie ambientali e nella sanità. Non solo settori dell’eccellenza italiana, ma segmenti costitutivi di uno stile di vita italiano affermatosi in Cina e nel mondo. Infine la percezione della qualità delle nostre marche: dai beni di largo consumo fino al tessile (oltre 4 miliardi di export in Cina nel 2013). Un’immagine positiva fondamentale per le imprese cinesi che vogliono affermarsi in un mercato interno che non associa ai produttori cinesi, in comparti delicati come i prodotti per l’infanzia e l’agroalimentare, standard di qualità di cui potersi pienamente fidare e che può abilitare la diffusione di tecnologie innovative made in China nel mondo. E in questo periodo storico, lo sviluppo di innovazione di successo è il vero mantra per l’economia cinese.

Abbiamo una chance straordinaria davanti a noi: rendere sistematico un dialogo strategico con l’ex Impero di mezzo di cui entrambe le parti potrebbero giovarsi. Mettendo in campo una discontinuità nel metodo e nei contenuti. Nel metodo, con la definizione di un progetto-Paese rispetto alla Cina, una strategia propositiva che, grazie al coinvolgimento di università e del mondo delle imprese, con la regia del Governo, dia continuità al processo di internazionalizzazione avviato. Nel merito, è importante tener conto dell’orizzonte plurale dei prodotti industriali italiani: non solo il made in Italy, che pure fa brillare la stella della nostra immagine nel mondo ma anche le eccellenze tecnologiche che contraddistinguono larga parte del nostro manifatturiero, eccellenze importanti per i cinesi e che dobbiamo saper proporre affermando la logica dello scambio del nostro know-how con l’accesso al loro mercato. Se questa sarà la direzione, i bilaterali di questi giorni e il Forum per l’Innovazione, che Milano e il suo Politecnico ospitano, possono far splendere il sole di questa relazione. La Cina porterebbe alla qualità italiana i numeri del mercato e del buon investimento che caratterizzano la sua grandezza. La forza di un fare mercato insieme potrebbe contribuire a dinamiche più profonde. Per quanto la storia non si ripeta e la Cina sia – come è giusto che sia – quel che decide di essere, il mercato potrebbe far nascere una nuova Cina della società civile.

Ridare fiducia a imprese e famiglie

Ridare fiducia a imprese e famiglie

Vincenzo Chierchia – Il Sole 24 Ore

Si allunga l’ombra dello spettro della deflazione, ossia del calo generalizzato dei prezzi al consumo, scenario che suscita non pochi grattacapi, per l’effetto deprimente su consumi interni già ai minimi e per i contraccolpi negativi sulle attese degli operatori economici. Si rafforzano dunque le richieste al Governo di interventi a sostegno della domanda interna mentre le imprese chiedono sostegni agli investimenti. L’obiettivo è quello di spezzare quel circolo vizioso all’interno del quale ci stiamo lentamente avvitando: prezzi in calo, domanda debole, attese sempre più negative sulle opportunità offerte alle imprese e sulle prospettive di reddito delle famiglie.

Certo, non va dimenticato che il dato sull’inflazione di settembre è stato condizionato dalla flessione dei beni energetici e delle comunicazioni. Restano invece in tensione, sia pure con incrementi da prefisso telefonico, i prezzi rilevati dall’Istat per capitoli importanti come istruzione e ristorazione (compresi i servizi ricettivi). Gli alimentari scontano qualche tensione dovuta al maltempo che ha interessato soprattutto i prodotti freschi. Il punto è che ci avviciniamo sempre più all’inflazione zero, se guardiamo al dato di fondo (core), ossia alla dinamica dei prezzi al consumo depurata da componenti più volatili come l’energia. Un obiettivo agognato in Italia negli anni dei prezzi galoppanti, della sindrome sudamericana peraltro molto cavalcata all’epoca dalla politica. Oggi ci fa più paura la deflazione perché è sintomo di paralisi del sistema economico, sempre più immobilizzato nelle spire di una stagnazione che si sta rivelando quasi endemica.

Cosa fare allora? Dobbiamo spezzare le catene e dare una scossa al sistema, ma non basta. Dobbiamo ridare fiato alle aspettative, ma ci vogliono interventi su più fronti. Gli operatori commerciali lamentano appunto che i prezzi scendono ma i carrelli sono vuoti. Beni e servizi costano meno in media, è vero, ma il punto è che le famiglie non se ne accorgono o quasi. I depositi in banca aumentano ma certo non per far salire la quota di consumo. Ci può forse consolare il fatto che la stagnazione investe anche il resto d’Europa? Che i nostri cari amici tedeschi soffrano anche loro? Che i nostri cugini francesi abbiano più o meno le nostre stesse difficoltà? La Banca centrale europea sta cercando di intervenire in maniera massiccia per immettere benzina nel sistema economico continentale facendo tra l’altro leva sul fatto che l’obiettivo di inflazione è più lontano. Ma finora non c’è stata una reazione forte. Serve tempo si dirà. Se Francoforte da un lato e i Governi nazionali ci si mettono d’impegno dall’altro la ripresa non può tardare. A quel punto però conteranno le riforme strutturali dei vari sistemi nazionali. È questa la scossa da dare. Occorre far capire che si sta intervenendo nel profondo e che si aprono nuovi spazi a una maggior fiducia sulle prospettive del Paese e così dell’intera Ue.

La scatola nera dell’economia tedesca

La scatola nera dell’economia tedesca

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Bisogna grattare la superficie dell’economia tedesca per capire come sia possibile che questa macchina potente, lanciata a piena velocità a inizio anno, si sia piantata nel corso del secondo e del terzo trimestre. Ufficialmente la responsabilità viene attribuita alla cattiva congiuntura nei Paesi partner: la crisi tra Russia e Ucraina ha avuto ripercussioni immediate sul commercio con la Germania; la Cina che conta per il 10% dell’export tedesco sta operando una trasformazione strutturale del proprio modello economico e punta più di prima sulla domanda interna; intanto l’area euro che ha sempre accolto almeno il 40% delle esportazioni tedesche è scesa al 35,5%. Per la prima volta da molti anni, il commercio estero sta dando un contributo netto negativo alla crescita tedesca.

Ma come è possibile che questo effetto si sia tradotto di colpo in una recessione tecnica negli ultimi due trimestri? L’incertezza che ha colpito le esportazioni del Mittelstand, il settore delle medie imprese con scarsa propensione all’apertura del capitale, si è ripercossa sul proprio primario canale di finanziamento, quello che passa dalle Sparkassen, le Casse di risparmio, fino alle Landesbanken. Si tratta degli stessi istituti di credito dai quali in passato era originato l’accumulo di attività tossiche nel sistema bancario tedesco, addirittura precedente alla crisi di Lehman. Per anni, per tutelare questi istituti poco trasparenti, Berlino ha frenato ogni accordo con i partner sui sistemi di supervisione e risoluzione comune delle banche europee. Da allora le Sparkassen sono rimaste una “scatola nera” legata non solo alle imprese, ma attraverso le Landesbanken anche al sistema dei partiti e dei governi regionali.

La scatola è rimasta nera anche con l’avvio dell’unione bancaria visto che il governo tedesco è riuscito a escludere quasi tutte le casse di risparmio dalla supervisione comune, assicurando a esse il proprio sostegno fiscale in caso di crisi. Ora che l’economia si è fermata, in ampi settori del credito tedesco si è posto il problema del l’incerta capitalizzazione di istituti che si affidano a un sistema oscuro di riserve silenziose. L’incertezza, partita dalle esportazioni, si è ripercossa così al cuore di tutto il sistema finanziario tedesco. La difficoltà è aggravata dall’impossibilità per le casse e per le compagnie di assicurazione di rimanere profittevoli investendo in titoli pubblici ora che i rendimenti dei bund sono vicini a zero. Non a caso le associazioni bancarie tedesche, spalleggiate dalla Bundesbank, attaccano la Bce per la politica dei tassi bassi definendola cosmesi finanziaria a favore dei paesi deboli. In realtà, secondo la Bundesbank, senza rendimenti più alti dei titoli pubblici un terzo delle compagnie di assicurazione tedesche potrebbe sparire nel giro di dieci anni. Le prestazioni pensionistiche che esse si sono già impegnate a versare nel futuro sono troppo alte per la loro capacità di fare profitti. Le famiglie tedesche vedono così le proprie pensioni in pericolo e questo frena la loro volontà di spesa, comprimendo anche la domanda interna oltre a quella estera.

Da qui lo stallo di tutta l’economia. Improvvisamente, le difficoltà delle banche regionali – da sempre la mucca da latte della politica locale tedesca – stanno trovando ascolto nei politici a capo dei Laender. Per la prima volta da anni nel Partito socialdemocratico si risente la voce di chi chiede alla Grande coalizione di rimettere come priorità il rilancio della crescita. Ma la stessa urgenza è stata condivisa vivacemente dal capo dei conservatori bavaresi e trova eco in un numero crescente di cristiano-democratici. Perfino la cancelliera Merkel pare irritata dallo sbarramento che la Bundesbank sta opponendo ai tentativi di soluzione proposti dalla Bce.

In mezzo a questo ingranaggio si è incastrato il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Il ministro ha fatto del surplus del bilancio pubblico il proprio obiettivo politico per il 2014. Si tratta di un traguardo storico che in Germania manca dal 1969. In tal modo però si è precluso la possibilità di contrastare con spesa pubblica il rallentamento della macchina tedesca. Il governo si nasconde dietro alle previsioni ufficiali sulla crescita che rimangono molto vicine al tasso di crescita potenziale. Chi guarda dietro le cifre tuttavia nutre dei dubbi: la crescita del 2014 è sostenuta dall’arrivo di 50mila lavoratori immigrati, ma ogni anno la forza lavoro tedesca diminuisce di 200mila unità. L’introduzione del salario minimo dal 2017 non avrà effetto a Ovest ma si farà sentire sul costo del lavoro dei nuovi Laender. La politica energetica infine sta creando costi gravosi a carico delle imprese manifatturiere che spesso infatti preferiscono non investire in Germania, bensì oltre Oceano. Per la prima volta, l’intransigenza fiscale di Schaeuble appare come un puro obiettivo politico a scapito della convenienza economica. Le critiche raccolte dal ministro a Washington nell’ultima visita sono state vigorose e Merkel nutre il timore di passare alla storia come il cancelliere che ha affossato l’Europa. Forse per questo insieme di ragioni a Berlino si fa largo l’idea di non insistere troppo nel criticare la Francia per lo stimolo fiscale che vuole dare alla propria economia e indirettamente a quella tedesca.

Il vero peso delle misure in arrivo

Il vero peso delle misure in arrivo

Luca Ricolfi – La Stampa

Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista». Ma in che cosa consiste la manovra? Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo. Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti. Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili. Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi. Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro). Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.

Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima). Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni? Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? È realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato?

Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale. Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili. Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future. Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato.

Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra? Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni.

La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.

La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).

È proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato. Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.

Scoperto il tesoro italiano

Scoperto il tesoro italiano

Salvatore Tramontano – Il Giornale

A leggerla così viene quasi da ridere: gli italiani sono i terzi al mondo per ricchezza mediana. Almeno così assicura uno studio di Credit Suisse. Le statistiche, si sa dai tempi di Trilussa, non bisogna proprio prenderle alla lettera. È vero, però, che qualcosa raccontano, soprattutto se si incrociano con altri dati. Questa lunga crisi, per esempio, ha colpito consumi e investimenti. È una lunga litania di segni meno marchiati di rosso. Eppure un’analisi di Unimprese, con numeri di Bankitalia, certifica che questa curva in discesa non vale per i depositi bancari. I soldi nei conti correnti sono aumentati. Sembra un paradosso, ma non lo è.

La recessione e una brutta bestia. Non solo perché ti scarnifica il portafoglio, fa chiudere aziende e manda a casa i lavoratori. La recessione genera paura. Fa paura perché toglie la speranza. Tanti non spendono perché non hanno i soldi, perché il secondo lunedì del mese sono in bolletta, ma altri (e non sono pochi) ci pensano quattro volte prima di acquistare qualcosa perché non si sa mai. E allora i soldi li mettono in banca. Risparmiano. Non rischiano. È normale. È la parte più profonda e a lungo termine di ogni crisi economica, soprattutto di quelle disperate come quella che stiamo vivendo.

Gli italiani sono un popolo di risparmiatori, ma nella loro storia sanno anche costruire ricchezza. Sono riusciti a risollevarsi da momenti bui, scommettendoci, credendoci. Quello che registra Credit Suisse è che questo Paese ha grossi problemi di debito pubblico, ma gli italiani non sono ancora a terra, sconfitti, incapaci di rialzarsi. È un popolo che sa resistere, faticando ogni giorno. Non siamo i pezzenti dell’Europa. L’Italia non è la nazione stracciona che deve andare dai burocrati di Bruxelles a chiedere l’elemosina. Non dobbiamo vergognarci davanti all’arroganza tedesca. Non ci sono lezioni da prendere e sentirci ogni volta ripetere che non abbiamo fatto i compiti a casa. Forse la classe dirigente ha qualcosa da farsi perdonare, ma gli italiani sono ancora ricchi di idee e di risparmi per finanziare quelle idee. Quello che ci sta macerando l’anima è la paura. Questa maledetta paura che l’Europa, ossessiva e apocalittica, continua a scaricarci addosso. L’Europa che boccia tutto e si incazza se il governo prova ad abbassare le tasse.

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Quelle uniche 24 ore alla macchina utensile sono costate al generoso imprenditore 400 euro (sì, quattrocento euro), tra apertura e chiusura della posizione, contributi, dichiarazioni e bolli vari. L’episodio rivela quanto ormai sia urgente abbassare le tasse sull’occupazione e sulle aziende che la creano e quanto ogni passo falso del premier Renzi su una materia così verrà considerato una colossale presa in giro.

Questo è il paese dove viviamo: troppe tasse, troppa spesa improduttiva, troppe carte, poca certezza del diritto, poca fiducia. Serve una scossa più che una scommessa. E se il governo riuscirà nell’impresa titanica di far rialzare la testa a un’Italia impaurita e perduta grazie ad una legge di stabilità di 30 miliardi di euro che dà e non toglie, non ci sarà che esserne felici. L’impresa, a dire il vero e leggendo dati economici e prescrizioni contabili europee, sembra quasi disperata, ma una cosa il presidente del consiglio sembra averla capita bene: ogni euro di risorsa trovata nelle pieghe di bilancio, frutto della spending review, della riduzione dell’avanzo primario che farà aumentare il deficit di 11 miliardi o di qualche spremitura del settore dei giochi, deve andare a sostenere il lavoro che c’è ancora e a promuovere quello che manca. Per questo, almeno sulla carta, in attesa di vedere l’andamento delle legge finanziaria in Parlamento e di ascoltare le immancabili raccomandazioni della commissione europea (che non è detto debba per forza bocciare questa manovra italiana, vista la tempistica del passaggio di consegne tra Barroso e Juncker), sembra obbligata la strada intrapresa dall’esecutivo: l’azzeramento dei contributi per tre anni per le assunzioni a tempo indeterminato, il taglio da 6,5 miliardi di euro dell’imponibile Irap legato al costo del lavoro, la conferma del bonus da 80 euro e la possibilità di utilizzare il Tfr in busta paga, vanno tutte nello stesso verso di rilanciare il fatturato e il bilancio di famiglie e imprese. E c’è da chiedersi che effetti si sarebbero potuti ottenere già dal 2012 con una politica economica del genere, invece di sospendere per un anno l’Imu, tornata più alta e complicata di prima nel 2014. Probabilmente, ci sarebbero più soldi in cascina e nei salvadanai, perché quella misura del governo Letta si è rivelata un terribile boomerang.

La formula meno tasse, più lavoro, più consumi, più crescita, sulla carta può quindi funzionare; nella pratica, date le condizioni oggettive dell’economia e della finanza pubblica e la vigenza delle norme del fiscal compact (che si fa finta siano state sospese, ma così non è), appare per ora un numero da novelli Houdini delle regole di bilancio più che da Keynes del XXI secolo. Può andare a buon fine ma anche avere effetti mortali se il Pil non riprenderà a marciare. Anzi, Renzi potrebbe meritarsi addirittura il Nobel quanto meno del coraggio, con questa manovra da 30 miliardi quasi tutta finanziata con nuova spesa e per l’altra metà coperta da una mostruosa operazione di revisione della stessa. Un premio che Bruxelles e Berlino non hanno però alcuna intenzione di conferire a scatola chiusa all’ex sindaco, perché sanno bene che il nostro paese è attanagliato da decenni di immobilismo, strangolato da un debito monstre, soverchiato da uno stato pachiderma, offeso da 120 miliardi di evasione annua. Troppo per sperare di farcela da soli, così, nel giro di due settimane. Ma sperare è lecito, provarci doveroso. Come auspicabile è augurarsi che la riduzione della spesa, dopo l’addio di Cottarelli, non si riduca in tagli lineari che altro non faranno che contrarre i servizi e magari gli stanziamenti agli agonizzanti enti locali. Per una volta, forse l’ultima, possiamo dimostrare ad altri paesi che stanno peggio ma vincono i veri premi di Stoccolma, che un’altra Italia è possibile e che quei 400 euro possono essere restituiti all’imprenditore, abbassando le tasse e migliorando i servizi.

Stato imprenditore nella Silicon Valley

Stato imprenditore nella Silicon Valley

Edoardo Segantini – Corriere della Sera

Capita spesso di ascoltare opinioni autorevolmente superficiali sull’innovazione tecnologica «made in Usa», giudizi che sembrano attribuirne il successo a un’ondata recente di imprenditori geniali. È questo un quadro pop fatto di distruzione creativa, sregolatezza regolata e start-up rivoluzionarie. E lo Stato? Non esiste. Dalla nuova retorica non è rimasto immune neppure il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al suo ritorno dalla California. Chi conosce quei posti sa bene invece che le cose non stanno così. La Silicon Valley, cuore dell’innovazione americana, è ben altro: nasce da settant’anni di investimenti pubblici e militari nella tecnologia. Trae origine da una politica industriale lungimirante, concepita da uomini come il presidente Franklin Delano Roosevelt, Vannevar Bush e Jcr Licklider. Ora, negli Stati Uniti, esce un bel libro di Walter Isaacson, l’autore della biografia di Steve Jobs, tradotta da Mondadori nel 2011, che ha il merito di spiegare l’«innesto» degli innovatori di oggi nell’albero degli innovatori di ieri. Si intitola, per l’appunto, The Innovators.

Gli eroi di questa storia, esaltante e attuale, sono personaggi straordinari come il Nobel Jack Kilby, autore del primo circuito integrato con Robert Noyce, William Shockley, protagonista dello sviluppo del transistor, e Alan Turing, il leggendario crittografo e informatico inglese del progetto Enigma, che morì suicida. Ma emergono anche altre figure come Doug Engelbart, pioniere dell’interazione uomo-macchina, e Stewart Brand, il futurologo che fece i primi esperimenti con l’Lsd e contribuì a iniettare nella Silicon Valley quella cultura hippie che l’ha resa famosa. Le stelle di oggi – da Page a Bezos, da Jimmy Wales (Wikipedia) a Evan Williams, cofondatore di Twitter – possono brillare, oltre che per indiscussi meriti propri, grazie alla potente luce accesa anni fa da uomini come Fred Terman, il «padre» della Silicon Valley insieme a Shockley, e Vannevar Bush. Quest’ultimo svolse un ruolo chiave nel sistema innovativo a stelle e strisce. Un sistema in cui il talento individuale trova un terreno fertilissimo negli investimenti pubblici e militari in ricerca, nella finanza e nella politica industriale. Direttore del Mit di Boston negli anni Trenta, Vannevar Bush durante la Seconda guerra mondiale è messo da Roosevelt a capo dell’Office of Scientific and Research Development (Osrd) per coordinare seimila scienziati nello sforzo bellico.

Il «trasferimento tecnologico», quel nastro veloce che trasporta il sapere dai laboratori fino alle applicazioni, nasce da uomini e da istituzioni come questi, e sarà, da allora in poi, alla base della potenza innovativa – militare e civile – dell’America. Ed è a una nuova agenzia pilotata da Bush – il National Defense Research Committee – che verrà assegnato il compito di far lavorare insieme il governo, le forze armate, le aziende e le università. Una sinergia che verrà resa permanente con risultati formidabili. L’innovazione «Made in Usa» ha poi un altro, illustre antenato nel National Inventors Council, istituito con l’obiettivo di raccogliere e selezionare le invenzioni utili per la difesa nazionale. L’agenzia è voluta, ancora una volta, dal presidente Roosevelt che ne affida la responsabilità a Charles Kettering, direttore della ricerca alla General Motors, uno dei più eminenti inventori del ventesimo secolo, cui si devono l’invenzione del motorino di avviamento e del frigorifero elettrico. Il ruolo degli investimenti pubblici e militari resta fondamentale anche oggi, in piena epoca di app, accanto a quello delle imprese e del capitale finanziario. Non ci sarebbero gli innovatori di oggi senza i loro antenati di ieri, nei laboratori e nelle aziende, ma anche al Pentagono e alla Casa Bianca. Crearono un «tavolo» in cui i singoli talenti diedero – danno – luogo a un sistema Paese, coordinato dalla politica. I politici di oggi dovrebbero ricordarsene.

Mai prima d’ora

Mai prima d’ora

Davide Giacalone – Libero

Va di moda il “non si era mai fatto prima”. Si è passati dal cronoprogramma sincopato alla più lunga maratona dei mille giorni, passo dopo passo. Il che potrebbe essere salutato come un approdo al realismo, se non fosse che ad ogni passo ci viene chiesto di credere che “non si era mai fatto prima”. E neanche mi preoccupa la pretesa, in sé infantile, ma che molti, specialmente fra i politici teleparlanti, mostrino di crederci. O addirittura ci credano. Perché questa non è semplice mancanza di memoria, ma ignoranza allo stato brado.

Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, ebbe a dire che i suoi governi avevano realizzato più cose di tutti quelli precedenti, dalla nascita della Repubblica a quel momento. Boom! La sparata era talmente tonante che non sarebbe neanche stato necessario metterla in dubbio, eppure non passava giorno, anzi non passava ora senza che si sostenesse e facesse valere, su ogni mezzo di comunicazione, una corbelleria eguale e contraria: non ha fatto nulla e nulla sta facendo. Salvo gli affari suoi, naturalmente, perché questo voleva e vuole la vulgata luogocomunista. Insomma: Berlusconi non era certo immune dal dirle tonde, ma cadevano su un terreno vaccinato, se non prevenuto. Ora mi preoccupa una certa predisposizione al contagio della balloneria.

Mai prima d’ora si erano fatti sgravi fiscali. No, se ne sono fatti diversi. Se proprio serve indicarne uno: la cancellazione dell’Ici sulla prima casa, poi replicata con l’Imu, sotto il governo Letta. Ed era appena ieri. Solo che gli sgravi si sono fatti, ma la pressione fiscale continuava a crescere, come ora. Mai prima d’ora s’era messo mano alla Costituzione. No, lo si è fatto un sacco di volte. Purtroppo. Ma mai prima d’ora s’erano diminuiti i parlamentari. Certo che lo si è fatto, solo che il partito il cui segretario oggi crede d’essere il primo, il Pd, allora volle un referendum per cancellare la diminuzione. Lo stesso referendum che servì a far cadere la riforma della pessima riforma del Titolo quinto della Costituzione, che ora è condannata da chi la votò, mentre è reclamata la riforma da chi la affossò. Già, ma mai prima d’ora ci si era dedicati al bicameralismo paritario. Eccome, tanto che nella Costituzione del 1948 non c’era. Solo che a difenderlo era quella sinistra che ora crede d’essere la prima a detestarlo. Mai prima d’ora s’erano messi dei soldi nelle tasche degli italiani. Certo che lo si fece, ad esempio con la social card (osservo che la criticai per la stessa ragione per cui ho criticato gli 80 euro, il che dimostra che non solo non è la prima volta, ma facciamo le stesse cose da troppo tempo). Mai prima d’ora s’è pensato di rivoluzionare la scuola e la giustizia. Ci hanno pensato tutti, fin troppo spesso, solitamente con idee più chiare di quelle fin qui presentateci dai primatisti. Mai prima d’ora s’era messo in discussione l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ne parliamo da quaranta d’anni ed è stato riformato due anni addietro, mentre la delega alla riforma è vuota.

Potrei continuare, ma temo di arrivare ad essere contagiato anch’io, concludendo che: mai prima d’ora si sono detti tanti sfondoni. Me lo risparmio, perché sarebbe una bella gara. Faccio solo osservare che le non raffinate menti di quelli che guardano alla sostanza, nonché i grossolani figuri della Commissione europea tendono ad attenersi alle regola di Totò: è la somma che fa il totale. E se fra di addendi ci si mette i proventi della lotta all’evasione fiscale, pretendendo che sia la prima volta nella storia, va a finire che si ricordano d’averla già sentita. Così che se si dice di voler diminuire i premi delle lotterie, va a finire che qualcuno s’accorge che trattasi di prelievo fiscale. E presto gli sovverrà che non è la prima volta, ma l’ennesima.

In compenso ora, per la prima volta, leggeremo il testo della legge di stabilità, non dovendola desumere da un fiume d’interviste contraddittorie. La studieremo senza prevenzione alcuna. Se conterrà cose mai viste prima, ne daremo atto. Se ci vedremo conti che tornano sopravvalutando le entrate e sottovalutando le uscite, rimandando tutto alla prima trimestrale di cassa, a tutto penseremo, tranne che alle novità.

L’imposta più odiata

L’imposta più odiata

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

L’Irap, sin dalla sua nascita, si porta dietro la sgradevole immagine di “tassa ingiusta”. Tasse simpatiche non se ne conoscono, d’accordo. Ma una tassa che colpisce il lavoro e che si paga anche quando i bilanci chiudono in perdita è qualcosa davvero difficile da farsi piacere. Economisti, giuristi e politici si confrontano da sempre sulla coerenza di un prelievo così congegnato e anche segnato da innumerevoli promesse di soppressione, puntualmente disattese. Anche per questo, l’annuncio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di voler azzerare la componente del costo del lavoro dall’Irap rappresenta una svolta di grande rilievo. E non solo perché in questo modo il prelievo sulle attività produttive sarà alleggerito di circa 6,5 miliardi all’anno.

L’intervento sull’Irap annunciato dal premier va nella direzione giusta anche per altri motivi. E risponde alla priorità di avviare una reale riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Un intervento così congegnato, infatti, andrà a premiare le imprese che danno più lavoro, le attività labour intensive. Una misura di questo tipo appare più efficace del taglio lineare dell’aliquota (come è stato fatto sempre dal governo Renzi poco prima dell’estate), che produrrebbe una riduzione del prelievo “democratica” – ovvero uguale per tutti – ma forse poco lungimirante nella fase attuale, nella quale il lavoro ha bisogno di essere sostenuto. Spostare tutto, come intende fare il governo sul costo del lavoro, risponde così all’esigenza di rendere più competitive le imprese, visto che proprio la componente Irap gioca in questo senso un ruolo decisamente negativo. Un ruolo anche poco comprensibile all’estero, tanto che – per fare un esempio – le statistiche internazionali sul costo del lavoro redatte dall’Ocse non includono per l’Italia la componente Irap, facendo apparire il nostro cuneo fiscale non così diverso da quello degli altri paesi, cosa che ovviamente non è.

Certo, rispetto al 1997 – anno dei primi pagamenti dell’Irap – molte correzioni, semplificazioni e riduzioni del prelievo sono arrivate. Talvolta lo si è fatto per adeguarsi o per rimediare alle sentenze delle Corti, dalla Cassazione alla Corte costituzionale; altre volte per rispondere – ancorché parzialmente – all’allarme del mondo produttivo sugli effetti devastanti di questa imposta. Nel corso degli anni, solo per citare alcune misure volte a ridurre l’impatto dell’imposta, sono arrivate detrazioni fisse dalla base imponibile e detrazioni legate in modo specifico al costo del lavoro che hanno escluso dall’imposta moltissimi soggetti economici di piccole dimensioni. Un segnale è giunto anche con l’introduzione della possibilità di dedurre dall’Ires una quota dell’Irap pagata. Non c’è dubbio, però, che la misura ora annunciata dal governo rappresenti una scossa, che non può essere paragonata agli interventi del passato.

Proprio qualche giorno fa il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, ha parlato delle necessità di un fisco che favorisca lo sviluppo. E ha lanciato l’idea di un nuovo “patto” di fiducia con le imprese e i professionisti. Ecco, questa può essere, anzi, questa deve essere la direzione da seguire. Perché, come si è detto sul Sole 24 Ore di sabato scorso, in un paese come l’Italia che ha una pressione fiscale a livelli insostenibili, il “patto” sul fisco richiede in primo luogo uno sforzo nella direzione della riduzione del prelievo. Dal governo sta per arrivare una prima, importante, risposta. Che pone le basi per costruire davvero un nuovo rapporto tra fisco e contribuenti.

La partita italiana nel gioco globale

La partita italiana nel gioco globale

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

L’allargamento al mercato cinese può essere per l’Italia di oggi dello stesso segno e importanza di quello che fu l’allargamento dell’Italia di ieri al mercato europeo e americano. Questa è la grande occasione che non possiamo permetterci di sprecare oggi. Dipende, in gran parte, da noi. Questa almeno è la sensazione che si ricava dalla lettura dell’articolo («L’albero sempreverde dell’amicizia tra Cina e Italia») che il premier cinese, Li Keqiang, ha voluto riservare al Sole 24 Ore di ieri come presentazione della sua missione nel nostro Paese.

Ci è sembrata un’apertura interessante perché parte dall’Italia storica ma arriva in fretta a quella attuale. Ci sono il Colosseo e il Pantheon, per intenderci l’inchino alla bellezza cosmopolita italiana che viene dal suo passato, ma ci sono, soprattutto, un riconoscimento diretto all’Italia imprenditoriale come “leader mondiale nell’innovazione e nel design” e l’indicazione operativa di un’alleanza strategica per potenziare gli investimenti cinesi in Italia, favorire gli investimenti nostri in Cina e sviluppare “nuovi prodotti di marca progettati e realizzati da Cina e Italia” destinati ai mercati globali.

Il pragmatismo che spinge a indicare una per una, dall’energia ai macchinari, le aree di intervento, gli accordi di peso in via di imminente sottoscrizione tra Cassa depositi e prestiti e China development bank per fare crescere insieme le imprese italiane e cinesi sui mercati globali e quelli in dirittura d’arrivo tra il Fondo strategico italiano e il Fondo sovrano cinese, si propongono di consegnare al nostro Paese carente di risorse una dote di capitali preziosa perché indirizzata all’innovazione e attratta dalla calamita della creatività, del saper fare e di tutto ciò che appartiene a quell’unicum italiano, manifatturiero e di servizi, che vale ancora oggi 400 miliardi di esportazioni e un surplus di 100.

Abbiamo ancora un deficit di interscambio bilaterale molto alto e questo ci dice che non bastano i nostri imprenditori dinamici (meno male che esistono) e bisogna fare in modo che la dimensione delle nostre aziende cresca e la rete di intelligenze tra territori, imprese, scuola e università diventi, anzi torni ad essere, una realtà. Se le imprese tedesche vendono in Cina macchine per fare pane e prodotti da forno tre o quattro volte più di noi, vuol dire che il modello organizzativo italiano non consente di arrivare dove meritiamo di essere. Vuol dire che le imprese italiane devono fare la loro parte fino in fondo e il sistema Paese deve essere in grado, alla voce fatti, di azzerare i vincoli burocratici, ridurre il carico fiscale e contributivo, promuovere l’internazionalizzazione.

L’allargamento al mercato cinese, in un quadro geopolitico complicato, può consentirci di fare un ulteriore, significativo passo in avanti sui mercati esteri. Non siamo, ovviamente, indifferenti al tema dei diritti umani e al futuro di democrazia che la Cina deve riuscire, nel suo interesse, a costruire. Siamo, però, altrettanto certi che proprio queste aperture economiche e la scelta strategica di partnership mirate, aiutino la Cina ad adeguarsi alle regole condivise dei brevetti e della proprietà intellettuale del mondo occidentale, aumentino la consapevolezza dello spirito della concorrenza globale e dei principi del mercato. Siamo certi che passi per la via economica la crescita del tasso di apertura verso un futuro democratico della Cina e sappiamo bene quanto ciò sia importante per loro e per il mondo. Se la Merkel almeno due volte all’anno è in visita a Pechino per consolidare le alleanze e stringere accordi commerciali, altrettanto (anzi, di più) dobbiamo fare noi. I rapporti politici, da sempre, hanno un peso nella costruzione della pace e della democrazia, ma anche nell’economia. Soprattutto se l’integrazione tra capitale umano e finanziario, può far crescere l’innovazione e valorizzare il talento italiano.