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L’Italia è il peggior pagatore Ue

L’Italia è il peggior pagatore Ue

Antonio Signorini – Il Giornale

Lo Stato italiano è ancora un pessimo pagatore. Sui debiti della Pubblica amministrazione verso i privati, l’Italia resta in cima a tutte le classifiche internazionali e i tempi in cui enti ed uffici saldano le fatture restano i più lunghi d’Europa. Il tema dei debiti della Pa è un po’ uscito dall’attualità rispetto a due anni fa, quando il premier Matteo Renzi promise di andare a piedi a monte Senario se non li avesse estinti, ma il problema è lì. A ricordarlo è Bankitalia nella Relazione annuale, in un capitolo dedicato ai «debiti commerciali» delle amministrazioni pubbliche. Stime fatte direttamente da Palazzo Koch, visto che mancano dati ufficiali.

In media nel 2015 la Pa ha chiuso i suoi pagamenti verso i privati che hanno fornito beni e servizi in 115 giorni. Erano 120 nel 2014. Un miglioramento quindi c’è stato, ma l’Italia resta fuorilegge, visto che una direttiva europea (fortemente voluta dall’allora vicepresidente della Commissione Antonio Tajani oggi vicepresidente dell’Europarlamento) prevede che i pagamenti avvengano entro 30 giorni, al massimo 60 in casi particolari. Lo stock del vecchio debito è a 65 miliardi. Nel 2014, ai tempi della promessa di Renzi, erano 70. Problema non risolto, quindi. Il livello, osserva Bankitalia, «resta notevolmente superiore a quello che sarebbe fisiologico». Lontano dai tempi di pagamento fissati dalle parti, ma anche rispetto alla direttiva europea che è stata recepita dall’Italia.

Sul tema ieri è intervenuto anche il centro studi ImpresaLavoro, che ieri ha stimato il totale dei debiti dello Stato verso imprese, professionisti e privati in genere a 61,1 miliardi. Dato del dicembre scorso, in calo rispetto ai 67,1 miliardi dello stesso mese 2014. I vecchi debiti della Pa sono stati sostituiti da nuovi, «si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Liquidare (e solo in parte) i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione» rileva Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro e imprenditore. Il centro studi fornisce anche un dato inedito. Nel solo 2015 il ritardo nei pagamenti da parte degli enti pubblici è costato alle imprese 5,4 miliardi di euro, in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014. A pesare sulle imprese sono infatti anche i costi del credito concesso dalle banche. «Le nostre imprese continuano a essere taglieggiate dallo Stato, caricate di tasse e balzelli, e al tempo stesso ignorate quando questo deve far fronte ai suoi obblighi contrattuali. In queste condizioni, quale ripresa economica possiamo attenderci?», commenta Blasoni.

I leggeri miglioramenti da quando il problema è entrato nell’agenda della politica, ormai cinque anni fa, non sottraggono l’Italia dalle prime posizioni nella lista degli stati con debiti commerciali più alti. Bankitalia nella relazione annuale ricorda che lo stock di debito rispetto al Pil in Italia è più alto di tutti i Paesi europei. Sui tempi, Impresa Lavoro cita le stime dell’European payment report, secondo le quali i ritardi medi nei pagamenti del pubblico al privato, in Italia si attestano a 131 giorni. I Greci devono aspettare 16 giorni meno di noi. I tedeschi 116 giorni. Questo significa che in Germania i pagamenti arrivano in soli 15 giorni. Il vantaggio competitivo di avere uno stato efficiente.

Aggredire la spesa pubblica si può. Il saggio di Pennisi e Maiolo

Aggredire la spesa pubblica si può. Il saggio di Pennisi e Maiolo

di Daniele Capezzone – Giuditta’s Files

Tutto come previsto. Dopo il sostanziale via libera da parte della Commissione Ue sui conti dell’Italia (sia pure con doppia riserva: sul deficit e sul debito), il Governo si è lasciato andare a un trionfalismo francamente fuori luogo. Primo: perché i 14 miliardi di margine concessi andranno pari pari a disinnescare le clausole di salvaguardia (aumenti Iva) che altrimenti scatterebbero alla fine di quest’anno (quindi, per tagliare un euro di tasse, non si potrà contare su quel margine, ma occorrerà tagliare davvero un po’ di spesa). Secondo: perché, come ripeto da tempo, l’Italia si sta contendendo un’umiliante “maglia nera” della crescita europea con Grecia e Finlandia. E non mi sembra un motivo per caroselli e festeggiamenti: non dispiaccia al nocciolo etrusco che guida l’Esecutivo.

Comunque, a questo punto,almeno per 48-72 ore il reality-tv show della politica italiana fingerà di occuparsi del taglio della spesa pubblica: il Governo, per dire che sta già facendo una serissima spending review (il che, purtroppo, non è vero, avendo Renzi-Padoan respinto nelle ultime due leggi di stabilità emendamenti per un simultaneo taglio di spesa e tasse di 48 miliardi); le forze di opposizione, per dire in modo stentoreo ciò che andrebbe realizzato, ma dimenticando di non averlo fatto negli anni in cui erano in maggioranza.

Logomachie (e batracomiomachie…) a parte, per chi invece fosse davvero interessato al tema e alle soluzioni (non alle slides e agli alibi), una lettura obbligata è il recente bel saggio (per la Biblioteca del Centro Studi Impresa Lavoro) curato da Giuseppe Pennisi con Stefano Maiolo, dal titolo La buona spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review. Guida operativa . Giuseppe Pennisi non ha davvero bisogno di presentazioni: dalla Banca Mondiale alle sue docenze italiane, dalla sua attività di saggista agli interventi sulla carta stampata, da decenni offre soluzioni concrete ispirate a limpidi principi liberali e pro-mercato.

Stavolta, insieme a Maiolo, Pennisi ha scelto di realizzare una vera e propria guida operativa, che ha come interlocutori ideali i dirigenti delle amministrazioni dello Stato, delle Regioni, degli altri enti locali, indicando in dettaglio metodi e tecniche per la valutazione della spesa e delle opere pubbliche. Dall’analisi dei costi e dei benefici (imposta nel 1981 da Reagan a tutti i settori del governo e a tutte le agenzie pubbliche, prima di varare qualunque intervento di spesa) alla valutazione degli impatti, dall’analisi del rischio in fasi di incertezza in contesti dinamici al valore della comunicazione (quindi, la procedura di valutazione come un approccio sistematico di informazione e di decisione informata), il volume di Pennisi e Maiolo è davvero uno strumento di lavoro, per chi questo lavoro voglia intraprenderlo sul serio…

Badate. Non si tratta di un’opera per “ragionieri”, per aridi contabili, o per freddi tagliatori di spesa sociale. C’è, al fondo, un punto di assoluto rilievo umano, e – vorrei dire- di profonda etica della responsabilità. Pennisi sottolinea che troppe volte, nelle decisioni politiche di spesa, si privilegiano gli interessi delle generazioni correnti (legittimi, per carità) rispetto a quelli delle generazioni future. Il piccolo “dettaglio” è che le generazioni future, per evidenti ragioni, sono senza voce, perché – oggi – non votano, non scioperano, non vanno nei talk show. C’è qualcuno disponibile a una battaglia politica in nome di chi oggi non ha diritto di parola? Pennisi e Maiolo citano un’eloquente (e direi terrificante) analisi di uno dei maggiori specialisti Usa di finanza pubblica, Alan Auerbach: per conservare intatto l’attuale livello di stato sociale italiano (quindi: ammortizzatori, sanità, pensioni, ecc), la prossima generazione dovrebbe pagare, nella propria vita, tasse e imposte pari a cinque volte quelle pagate dalla generazione oggi anziana. Ogni commento è superfluo.

Come fare il tagliando alla spesa pubblica

Come fare il tagliando alla spesa pubblica

Marco Girardo – Avvenire

La spesa pubblica oggi è pari al 51% del Pil. Senza una sua riduzione, sarà impossibile raggiungere i parametri europei in materia di debito. E anche se il Patto di Stabilità venisse modificato, sarebbero comunque prima o poi i mercati a punirci. I tentativi di fare un “tagliando” alla spesa si susseguono oramai da decenni. Con il medesimo – e mai centrato – obiettivo: mantenere quella di alta utilità e ridurre quella inefficiente e cioè gli sprechi. Al Tesoro la sfida è stata affrontata prima dalla Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, fra il 1986 e il 2005, e poi, per due anni, dalla Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica. Entrambe sono state disciolte e i risultati sono stati inferiori alle aspettative: l’irresistibile ascesa della spesa pubblica soprattutto di parte corrente è proseguita. È iniziata quindi la stagione dei “commissari”, ma gli esiti- quelli visibili, almeno – non sono stati migliori. È solo colpa dei politici?

Il libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo «La Buona Spesa: Dalle Opere Pubbliche alla Spending Review – Una Guida Operativa» (Centro Studi Impresa Lavoro, 2016) prova a fornire una risposta e suggerire una terapia. In primo luogo, nei Paesi dove la spending review è stata efficace (Usa, Gran Bretagna, Francia), la “revisione” non si presentava come compito ad hoc di breve respiro, ma quale principale attività istituzionale – permanente, quindi – dell’organo dello Stato incaricato della formazione, della valutazione e del monitoraggio del bilancio (in Italia la Ragioneria Generale). In secondo luogo, dove funziona, la revisione si basa su metodologie standardizzate adottate a livello internazionale. Da un lato figlie di una teoria economica forte, dall’altro facilmente comprensibili non solo ai tecnici ma anche all’uomo della strada. In terzo luogo, la revisione deve essere partecipativa: i cittadini, le famiglie, le imprese devono essere in grado di comprendere perché si vuole ridurre una voce di spesa o accentuarne un’altra. Per questo motivo, la Guida è redatta in una prosa accessibile a chi abbia i rudimenti di economia domestica e include un capitolo dedicato al come comunicare le valutazioni sulla spesa pubblica.

Libertà fiscale, la Svizzera primeggia

Libertà fiscale, la Svizzera primeggia

Corriere del Ticino

Il fattore fiscale sta diventando una componente sempre più fondamentale della competitività di un Paese, importantissimo per attirare investimenti e per promuovere la crescita economica. Su questo tema il Centro Studi ImpresaLavoro di Udine ha pubblicato uno studio nel quale, con la collaborazione di ricercatori di dieci Paesi europei (fra cui il Liberales Institut di Zurigo), ha calcolato un Indice della libertà fiscale 2016, che tiene conto di sette diversi indicatori per valutare il «peso», non solo finanziario, della fiscalità nei 28 Paesi dell’UE e in Svizzera. Lo studio è stato ripreso dal sito Internet italiano ilgiornale.it.

Il risultato è lusinghiero per il nostro Paese: la Svizzera figura in prima posizione, con un indice di libertà fiscale pari a 75 punti, mentre in ultima posizione c’è l’Italia, con un indice di 39 punti. La classifica si basa come detto su fattori che cercano di tenere conto di tutti i costi generati dal sistema fiscale, e non solo di quelli diretti. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore.

I primi due indicatori, relativi al numero di procedure e al numero di ore necessarie a pagare le tasse, si riferiscono al carico burocratico che le imprese devono sostenere per essere in regola con il fisco. Notiamo che in Svizzera il fisco occupa un’impresa per 63 ore l’anno, contro le 269 ore dell’Italia. Il terzo indicatore analizza il tasso di imposizione sugli utili cui sono sottoposte le imprese. In Svizzera è del 28,8%, mentre in Italia è più del doppio, ossia il 64,8% (tasso più alto in Europa). Il quarto indicatore stima quanto una media impresa debba spendere in procedure burocratiche per essere in regola con il fisco: si tratta di una sorta di tassa sulle tasse.

In questo ambito la Svizzera è abbastanza cara, visto il costo del lavoro, con 2.602 euro (metà classifica). In Italia occorrono 7.559 euro. Il quinto fattore, ossia la pressione fiscale sul PIL, vede la Svizzera col tasso minore in Europa, ossia il 27,1%, contro il 43,6% dell’Italia. Infine c’è l’indicatore sulla variazione della pressione fiscale dal 2000 al 2014 (Svizzera -0,4%, Italia +3,6%), e la pressione fiscale sui redditi delle famiglie (Svizzera 13,47%, Italia 28,28%). Il contributo del Liberales Institut di Zurigo mostra che grazie al meccanismo del freno all’indebitamento (approvato nel 2001) la Svizzera è stata una delle poche nazioni che ha potuto mantenere o migliorare la sua posizione finanziaria anche durante la crisi finanziaria del 2008, con un debito pubblico complessivo di 36,4% sul PIL.

Svizzera: prima in Europa perché meno tassata

Svizzera: prima in Europa perché meno tassata

Carlo Lottieri – Corriere del Ticino

Da sempre il destino delle comunità è legato a quello dell’imposizione fiscale. Come mostrò alcuni anni fa Charles Adams in un formidabile saggio dal titolo “For Good and Evil. L’influsso della tassazione nella storia dell’umanità” (la versione italiana è stata pubblicata da Liberilibri), esperienze che erano state di grandi successo per secoli e secoli sono  crollate, nel passato, proprio a seguito di imposizioni tributarie eccessive. Oltre a ciò, hanno spesso avuto una matrice fiscale anche le rivoluzioni moderne: in Inghilterra come in America, come in Francia.

Sotto tanti punti di vista è difficile capire qualcosa della stessa crisi che l’Europa sta conoscendo se non si considera che mai come oggi gli apparati pubblici del Vecchio Continente hanno colpito in maniera tanto massiccia i redditi di lavoratori, imprese e famiglie. Ed è quindi motivo di soddisfazione rilevare, secondo quanto afferma una recente ricerca del centro studi Impresa Lavoro di Udine, che entro il quadro europeo la Svizzera si trova al primo posto in quanto a “libertà fiscale”.

L’indice considera i ventotto Paesi dell’Unione più la Svizzera e prende in esame cinque aspetti: il numero delle procedure necessarie a pagare le imposte; il tempo da destinare a ciò; il tax rate sulle imprese; il miglioramento del livello tributario complessivo nel periodo 2000-2014; e soprattutto (ed è questo il dato che pesa di più, ovviamente) la percentuale complessiva dei tributi in rapporto all’economia. Soprattutto grazie a quest’ultimo dato, la Svizzera si rileva meno oppressiva di ogni altro Paese, superando – anche se non di molto – l’Irlanda.

Va aggiunto che la Svizzera primeggia in questa classifica nonostante due voci che la penalizzano: il numero delle procedure (relativamente alto, com’è inevitabile in un Paese a struttura federale) e il cambiamento rispetto al 2000. In un quindicennio la Svezia ha ridotto del 5,9% la pressione fiscale, ma in Svizzera questo exploit non è stato possibile, considerando l’alta tassazione da cui si partiva.

Tutto bene? Non proprio. Il quadro generale – come si è detto – è quello di un’Europa schiacciata da debiti e alta tassazione al tempo stesso: e in questo quadro è difficile pensare che la piccola Svizzera non paghi conseguenze negative. Quando i tuoi clienti, i tuoi fornitori, i tuoi partner, i tuoi risparmiatori ecc. conoscono difficoltà, anche tu difficilmente avrai prospettive esaltanti.

In questo contesto è importante essere ancora più virtuosi ed evitare la tendenza, che pure è fortissima, a considerarsi tanto bravi solo perché si fa meglio di altri. Essere i primi in una classe di somari non significa necessariamente essere ottimi studenti. Fuor di metafora, è cruciale che si risvegli lo spirito di resistenza che lungo i secoli ha portato le popolazioni elvetiche a resistere di fronte alle pretese di quanto inventano nuove imposte e moltiplicano i tributi. Se si vogliono finanziare spese e progetti, è sempre bene esplorare la strada di tagli di bilancio: riducendo le uscite invece che aumentando le entrate.

Si tratta di avere una visione complessiva in grado di assicurare un futuro di prosperità: evitando ogni “normalizzazione” e scongiurando il rischio di una Svizzera sempre più simile alla Francia o alla Germania. Ma oltre a ciò, quando si assume come proprio principio ispiratore una sana diffidenza di fronte a ogni imposta, si sceglie di essere fedeli all’istituto cardine di ogni società civile: la proprietà.

Rispettare quanto più è possibile la proprietà significa, in poche parole, rispettare l’altro: il suo lavoro, il suo risparmio, quello dei suoi genitori. In questo come in altri casi (si pensi ai contratti), la difesa di solidi principi di giustizia comporta rilevanti conseguenze economiche. Una società che cerca di essere giusta e quindi non consegna una quota crescente delle ricchezze nelle mani dell’apparato politico e burocratico, alla fine è anche una società di successo.

Almeno in parte, questo è quanto la Svizzera ha saputo fare nel corso dei secoli: ha contenuto tassazione e regolazione, ha protetto la proprietà, ha tutelato i contratti, ha limitato (anche grazie alla concorrenza istituzionale e quindi al federalismo) il potere dei governanti, e tutto questo l’ha premiata.

È bene allora che non venga meno questa vigilanza di fronte alle buone ragioni del diritto, che si esprime anche in una resistenza di fronte a imposte eccessive e ingiustificate. E non solo per mantenere quel primo posto in classifica che pure tanti benefici assicura (basti pensare alla limitata disoccupazione) alla popolazione svizzera.

 

Quanto ci sono costate le banche

Quanto ci sono costate le banche

Nicola Porro – Il Giornale

La crisi delle banche italiane è costata la bellezza di 210 miliardi di euro. Avete letto bene. I calcoli li ha fatti il centro studi ImpresaLavoro, ma i numeri, pur essendo sotto gli occhi di tutti, sono invisibili, mentre il peso si fa sentire chiaramente nei portafogli di molti italiani.

Vediamo di mettere in fila i dati e tirare qualche somma. In un solo fine settimana di novembre dell’anno scorso con un intervento di Banca d’Italia e governo sono stati fucilati i risparmi di coloro che avevano investito nelle quattro etrurie, le banche locali commissariate. Il conto è presto fatto: si tratta di 3,1 miliardi in azioni e circa 800 milioni in obbligazioni subordinate. Molte di queste ultime erano state vendute con contratti che non prevedevano la loro cancellazione in caso di fallimento. Ma questo è un altro discorso: al dunque la somma totale fa 3,9 miliardi.

Ci spostiamo in Veneto e di qualche mese e scoppia il clamoroso flop di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. In questo caso il rosso è più che doppio: si parla di 8,2 miliardi di euro. Il calcolo è fatto prendendo il valore delle azioni che era stato stabilito dagli istituti creditizi in perfetta autonomia (le azioni vicentine non erano infatti quotate); forse si esagera, ma molti dei soci avevano in effetti comprato azioni PopVicenza a 62,5 euro, contro i dieci centesimi, che molto formalmente varrebbero oggi.

Sia chiaro, fino a questo punto stiamo parlando di perdite effettive subite dai risparmiatori. Non ragioniamo minimamente sulle devastanti conseguenze che si verificheranno nel tessuto economico e produttivo legato al sistema delle banche, di fatto, saltate. Arriviamo, fino a questo punto, ad un rosso di circa 13 miliardi di euro. Una manovra finanziaria da lacrime e sangue, ma ancora lontana dai 210 miliardi annunciati.

Gli analisti di ImpresaLavoro però non sbagliano nell’andare a vedere cosa è invece successo nelle 17 banche quotate in Borsa: i nomi più importanti. In cui ci sono migliaia di piccoli risparmiatori italiani, sia direttamente, sia attraverso fondi di investimento. E qui i numeri sono da brivido. Dal 2007 (anno dell’inizio della crisi finanziaria) ad oggi le loro capitalizzazioni di Borsa (che si possono leggere tutti i giorni sui terminali) sono scese di circa 150 miliardi. Ma non basta. Le stesse banche nell’ultimo decennio hanno chiesto al mercato, cioè ai risparmiatori di credere in loro, e di fornire nuovi mezzi attraverso aumenti di capitale: si tratta di ulteriori 50 miliardi.

Ricapitolando, le sole 17 banche quotate a Piazza Affari, tra perdite di valore in Borsa ed aumenti di capitale, hanno bruciato circa 200 miliardi di euro. Parallelamente lo hanno fatto i loro investitori privati. Non sono tutti piccoli azionisti, ma una gran parte sì. Si deve sempre credere che il prezzo di un’azione possa risalire. Non è escluso, ma oggi vista la situazione, non sembra così probabile.

La foto scattata oggi resta, dunque, devastante: in un decennio si sono volatilizzati 210 miliardi di valore del settore bancario. È come se per due lustri i risparmiatori italiani (quelli che in qualche modo avevano titoli del comparto) hanno subito una seconda finanziaria. Quella del governo che gli aumentava le tasse e quella dei banchieri che gli bruciava i risparmi.

È vero, e lo abbiamo scritto tante volte, che chi compra un titolo azionario si assume dei rischi e ne deve essere consapevole. Ma è cosa buona e giusta anche sapere che la classe dirigente del settore, come quella politica, non ha saputo reggere l’impatto della crisi finanziaria. E che non può sfuggire alle responsabilità di un flop così clamoroso.

Italia ultima per libertà fiscale, siamo massacrati dalle tasse

Italia ultima per libertà fiscale, siamo massacrati dalle tasse

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Nel campionato europeo delle tasse l’Italia occupa l’ultima posizione. La classifica è stata stilata dal Centro studi ImpresaLavoro che ha pubblicato la seconda edizione dell’Indice della libertà fiscale, un monitor che consente di paragonare tra loro i 28 Paesi dell’Unione europea più la Svizzera quanto a invadenza dello stato nelle attività economiche dei cittadini e delle imprese attraverso la leva del fisco.

L’indice è stato elaborato sulla base dei dati Eurostat e del rapporto Doing Business della Banca mondiale e analizza sette diversi indicatori, ciascuno dei quali comporta l’assegnazione di un punteggio. La somma delle valutazioni ricevute in ogni categoria restituisce la classifica finale che vede l’Italia tristemente ultima con 39 punti. Nell’area dei Paesi fiscalmente oppressi – con un punteggio inferiore a 50 – si ritrovano anche Danimarca (49), Grecia (48), Austria (45), Francia (44) e Belgio (41). La prima impressione che se ne ricava, dunque, è che i Paesi nell’area euro, indipendentemente dalla loro collocazione tra i «buoni» o i «cattivi» siano più in difficoltà rispetto al resto del Vecchio Continente. Prova ne è che anche Germania (52), Spagna (54) e Olanda (56) non stiano messi molto meglio. In cima alla classifica, infatti, troneggiano economie sviluppate che non hanno perso la propria sovranità monetaria. Svizzera (75), Regno Unito (65) e Svezia (60) figurano tra le nazioni fiscalmente più libere. Le eccezioni dell’area euro sono, invece, rappresentate da Paesi che hanno una fiscalità meno esosa proprio per attrarre imprese e, soprattutto, patrimoni, come Irlanda (74) e Lussemburgo (68).

Resta da chiedersi, comunque, il perché di questo specifico tutto italiano. La particolarità dell’analisi effettuata dal Centro studi ImpresaLavoro è, infatti, nel non essere basata su luoghi comuni (ricreati ad arte tramite statistiche) né su eccessi di idealismo. Non si vagheggia un sistema fiscale perfetto ma si individuano, appunto, sette parametri o benchmark. Se ben sette Stati tra i quali Svizzera, Lussemburgo, Croazia e Irlanda riescono a tenere la tassazione delle imprese sotto il 30%, allora questo obiettivo non è irrealizzabile. E se non è irrealizzabile, è lecito chiedersi perché l’Italia continui a vessare gli imprenditori con un tax rate del 64,8% che non invoglia certo a fare business. E soprattutto viene da chiedersi perché l’Italia sia ultima per costi degli adempimenti burocratici per pagare le tasse (7.559 euro) staccando pure la Germania (7mila euro circa) e il Belgio (6.295 euro). A questi costi si aggiunge la perdita di tempo (e di danaro) per pagare le tasse (269 ore annue): solo in Europa dell’Est le procedure sono più farraginose delle nostre. E se si mettono questi risultati assieme alla pressione fiscale complessiva sul Pil (43,6% nel 2014) si osserva come solo la Francia e il Belgio siano messi peggio. L’insieme di questi dati finora osservati non è solo un termometro dell’invasività fiscale, ma una spia della perdita di competitività generale del nostro Paese. Un’Italia che dal 2000 al 2014 ha visto l’incidenza delle tasse sul prodotto interno lordo aumentare di 3,6 punti percentuali regalando agli altri partner europei un vantaggio di cui hanno saputo approfittare. Con buona pace di Renzi.

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Italia, il peggior fisco d’Europa

Italia, il peggior fisco d’Europa

Cristina Bartelli – Italia Oggi

Italiani schiavi del fisco. Nell’indice della libertà fiscale 2016, redatto dal centro studi Impresalavoro, l’Italia risulta essere all’ultimo posto nella classifica finale dei 29 paesi analizzati nella loro libertà impositiva. Davanti a tutti i paesi dell’area Euro, più la Svizzera, incoronata regina della libertà fiscale.

L’indice, scrive il centro studi fondato dall’imprenditore Massimo Blasoni, è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali «analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale». Sono presi in esame il numero di procedure necessarie per pagare le tasse, il numero di ore necessarie per pagare le tasse, il total tax rate sulle imprese, i costi per pagare le tasse, la pressione fiscale sul Pil, la variazione della pressione fiscale dal 2000 al 2014 e il tax rate delle famiglie. Le banche dati a cui il centro studi ha attinto, rielaborando le informazioni, sono quelle di Eurostat e Doing business (Banca mondiale). L’Italia con 14 procedure per pagare le tasse, 11 giorni dedicati agli adempimenti e 7.600 euro di costi per la burocrazia fiscale occupa se non gli ultimi, tutti i posti di coda di ciascuna delle tabelle dei singoli indicatori.

Le procedure necessarie per pagare le tasse. È la Svezia a essere sul podio come paese con il più alto livello di semplificazione: sono sei gli appuntamenti con la cassa fiscale dei contribuenti svedesi. L’Italia ne ha 14 come la Romania, ma fanno peggio la Croazia (19), la Svizzera (19), il Lussemburgo (23) e Cipro (27).

Il numero di ore necessarie per pagare le tasse. I consulenti e i contribuenti lussemburghesi dedicano «solo» 55 ore, poco più di due giorni, allo smaltimento degli adempimenti tributari. L’Italia è in fondo alla classifica: richiede ai suoi professionisti e volenterosi dell’adempimento 269 ore annue, pari a 11 giorni e 2 ore. Peggio fanno la Polonia con 271 ore, il Portogallo con 275 ore, l’Ungheria con 277 ore, la Repubblica Ceca, 405 ore e la Bulgaria con 423 ore (17 giorni dedicati allo smaltimento delle scartoffie fiscali).

Total tax rate sulle imprese. Con questo indicatore nello studio si identifica la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo Stato sotto forma di tasse e contributi sociali. La Croazia, a pari merito con il Lussemburgo, sono i due Stati che impattano di meno nei conti delle azienda. Il peso è del 20%. L’Italia, in questa categoria arriva ultima con un peso pari al 64,8%. Non sono messe meglio comunque la Francia coni il 62,7% e il Belgio con il 58,4%.

Costo per pagare le tasse. Altra maglia nera per l’Italia in questa categoria. Il nostro paese fa pagare il prezzo più elevato in procedure burocratiche per essere in regola con il fisco. Una sorta, la definisce lo studio, di tassa sulle tasse. Si parla cioè di 7.559 euro annui che si perdono nei rivoli della burocrazia. In questo caso, in compagnia dell’Italia, agli ultimi posti c’è la Germania con 7.020 euro, seguita dal Belgio con 6.295 euro. In Romania, invece, l’esborso si ferma a 795 euro.

Pressione fiscale sul pil. Per il calcolo dell’indice è l’indicatore di maggior rilievo, quello che misura le dimensioni della tassazione complessiva sulla ricchezza prodotta da un paese. In questa classifica l’Italia si ferma al 43,6%. Il paese con la pressione fiscale più alta è la Danimarca, al 50,7%. Al primo posto la Svizzera con il 27,1%.

Variazione pressione fiscale dal 2000 al 2014. In questo caso peggio dell’Italia fanno solo Grecia, Malta e Cipro,

Tax rate sulle famiglie. Anche sulla pressione fiscale delle famiglie l’Italia è nelle ultime posizioni con un’incidenza del 28,28%. Peggio fanno l’Austria, la Grecia, la Germania, la Danimarca e il Belgio, che risulta essere il paese più «ostile» con una incidenza del 36,88%.

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Pensioni, c’è un effetto livella

Pensioni, c’è un effetto livella

Paolo Ermano – Italia Oggi*

Sembra quasi un risultato inaspettato, ma il sistema pensionistico disegnato dalle recenti riforme, in particolare quelle dell’ultimo governo Berlusconi e della Legge Fornero, hanno di fatto reso le pensioni, più o meno volutamente, uno strumento di riduzione delle diseguaglianze. Contrariamente a quanto altri hanno evidenziato, e un po’ al senso comune, le recenti modifiche normative hanno infatti reso la popolazione dei pensionati più omogenea dal punto di vista del reddito. Sia ben chiaro: una popolazione che si trova in una situazione di maggior equità non è necessariamente una popolazione che vede il proprio benessere aumentare. Di fatto, però, il recente aumento dell’assegno medio per le pensioni di anzianità e vecchiaia, unito alla diminuzione dell’Indice di Gini, descrive una situazione di maggior benessere sia per il singolo pensionato, sia per la popolazione dei pensionati.

Il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato il database della Banca d’Italia sulle indagini sui bilanci delle famiglie italiane dal 1977 al 2014. Grazie a questa serie di dati, è possibile indagare per ogni anno il confronto fra l’Indice di Gini relativo al reddito disponibile netto e il reddito da pensione (vecchiaia, anzianità e reversibilità), dividendo il campione anche per sesso e ripartizione geografica. Il valore dell’Indice di Gini misurato sul reddito delle due popolazioni, lavoratori e pensionati, evidenzia un percorso che dal 1977 al 2014 vede la popolazione dei pensionati ridurre il grado di diseguaglianza interna, passando da un valore di 0,40 a 0,30, contrariamente a quanto accade all’altra popolazione, quella dei lavoratori, per i quali l’indice cresce lievemente da 0,34 a 0,37. Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziato con la riforma Dini del 1995, non sembra aver modificato sigificativamente la distribuzione dei redditi dei pensionati: dal 1995 a oggi l’Indice di Gini non segnala particolari movimenti, se non dopo 2010. Stando ai dati sulla spesa pensionistica forniti dall’Istat, dal 2010 l’importo medio annuo degli assegni di vecchiaia è cresciuto (2011-2013: +3%) per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, riducendo così le differenze fra le pensioni più modeste e quelle più elevate. 

Questa progressione dell’importo versato ai pensionati può essere un indizio per giustificare una riduzione dell’ineguaglianza in questa popolazione. Se questo andamento continuerà, l’effetto redistributivo del passaggio dall’essere lavoratore all’essere pensionato sarà maggiore. Inoltre, da questo punto di vista, il passaggio dal contributivo al retributivo non sembra aver influenzato particolarmente la distribuzione del reddito fra i pensionati. Nel dettaglio dell’indice suddiviso per sesso troviamo una sostanziale parità di genere. L’Indice di Gini, invariante per trasformazioni omogenee, non permette di evidenziare la differenza di importo fra uomo e donna: per quanto l’indice di diseguaglianza abbia valori molto simili fra i due sessi è il caso di ricordare che nel 2013 l’assegno di vecchiaia per le donne era pari in media al 60% dell’assegno per gli uomini, segnalando un’evidente disparità nei redditi percepiti.

Per valutare eventuali differenze territoriali è stato possibile computare l’Indice di Gini per tre specifiche aree, seguendo la divisione usuale per l`Italia come previsto nel database originale: Nord, Centro e Sud+Isole. Per quanto l’evoluzione dell’indice nelle tre aree sia simile, come ci si aspetterebbe da un sistema pubblico che cerca di smorzare le differenze fra diverse aree economiche, appare chiaro che delle differenze esistono. Stranamente, il Sud e il Nord sembrano muoversi in parallelo fino a metà anni ’90, quando il Nord ottiene un grado di equità fra i pensionati più elevato, come confermano anche diversi studi che analizzano l’intera popolazione nazionale.

Molto più erratico sembra il comportamento dei pensionati residenti in centro Italia, che sembra muoversi in senso opposto rispetto alle altre aree del Paese. Entrando nel dettaglio degli ultimi 20 anni, osserviamo come fosse il Nord l’area con il minor grado di diseguaglianza. Non sembra esserci alcun congruenza fra l’andamento dell’Indice di Gini per aree geografiche fino al 2010, quando tutte e tre le aree vedono sia una discesa dell’indice, segno di maggior eguaglianza, sia una convergenza verso un medesimo valore, 0,30. E sembra proprio questo, dal punto di vista dell’equità, la cifra più importante delle riforme del sistema pensionistico nell’ultimo anno.

*Docente di Economia internazionale al’Università di Udine e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

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Blasoni: Difendere la proprietà è difendere il lavoro

Blasoni: Difendere la proprietà è difendere il lavoro

di Massimo Blasoni

Pubblichiamo la prefazione di Massimo Blasoni, Presidente del Centro studi ImpresaLavoro, a “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri, libro della collana “Fuori dal coro” in edicola con Il Giornale.

lottieri“Proprietà”, per alcuni, è un termine che identifica diseguaglianze ed egoismi, riecheggiando prevaricazioni antiche. “La proprietà è un furto”, diceva Proudhon. Per altri, e per fortuna sono i più, la proprietà privata è espressione del lavoro e della libertà.

Nella mia memoria, la proprietà è l’appartamentino comprato da mio padre e la sensazione di emancipazione che questo acquisto gli dava. Se vogliamo, tanto la nostra libertà trova un limite nella libertà altrui, altrettanto la proprietà rappresenta il confine che opponiamo agli altri. Un confine naturale, facendo eco a John Locke e Frédéric Bastiat, che ognuno ha diritto di difendere come la sua libertà e la sua persona. “Non è perché ci sono leggi che ci sono le proprietà, ma è perché ci sono le proprietà che ci sono le leggi”. E questo confine viene colto da molti di noi soprattutto come prodotto del lavoro. La proprietà scaturisce dal lavoro, ne è un’estensione e non è ovviamente il privilegio di un’oligarchia; anzi è la sua larga diffusione che ulteriormente la legittima e, oltre che naturale, la rende democratica.

Nel nostro Paese la proprietà non è particolarmente tutelata e indubbiamente è fortemente tassata. Questo soprattutto per la ridondante presenza della politica nelle nostre vite che trae potere dalla propria capacità di spesa. Peraltro il retaggio di una cultura di sinistra che poneva, e forse pone, al centro lo Stato è rilevante, nella storia recente del nostro Paese, sin dalla Costituente.

Certo è che nell’ultima edizione dell’Index of Economic Freedom, realizzato dal Wall Street Journal e da Heritage Foundation, alla voce “diritti di proprietà” l’Italia ha un punteggio di 50 su 100. È insomma una sorta di Paese “parzialmente represso” e si piazza mestamente in 57esima posizione dietro Paesi come Qatar, Giordania, India e Malesia.

Il livello di tassazione sulla proprietà ha raggiunto da noi livelli difficilmente accettabili. La tassazione sulla casa e quella sul risparmio sono cresciute in maniera esponenziale negli ultimi anni. E, ricordiamolo, le imposte sulla proprietà sono tasse sulle tasse, nel senso che al prelievo sul nostro reddito da lavoro si aggiunge quello sui nostri acquisti. Eppure dovrebbe essere chiaro che lo Stato è un gestore poco efficiente e, mentre tassa la case degli italiani, utilizza senza criterio il proprio patrimonio: 530.000 unità e 760.000 terreni in parte liberi, in parte affittati male.

Diversamente, è chiaro, si comporta il padre di famiglia con la sua abitazione come già Aristotele rilevava nella Politica: “Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno perché gli uomini badano soprattutto alla proprietà loro”.