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Imu terreni, ora lo stato deve restituire 128 milioni ai Comuni

Imu terreni, ora lo stato deve restituire 128 milioni ai Comuni

Matteo Barbero – Italia Oggi

La parziale vittoria nella vicenda dell’Imu sui terreni montani porterà nelle casse dei Comuni un assegno da 128 milioni di euro. È questa la cifra dei rimborsi che lo stato deve erogare ai sindaci, in base a quanto previsto dal dl 4/2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 19 del 24 gennaio 2015). Quest’ultimo, come noto, ha stabilito che, per distinguere i terreni soggetti all’imposta da quelli esenti, fa fede solo la classificazione Istat. Quindi, sono stati definitivamente abbandonati il criterio altimetrico e la divisione in tre fasce operata dal dm 28 novembre 2014. La decisione del governo accoglie solo in parte le richieste dei Comuni: questi, se da un lato avevano chiesto la revisione dei parametri, dall’altro speravano nella cancellazione dell’obbligo di pagamento relativo al 2014, con conseguente azzeramento dei tagli subiti sul fondo di solidarietà comunale.

In base alle nuove regole, sono esenti dall’Imu: a) i terreni ubicati nei Comuni classificati totalmente montani; b) i terreni ubicati nei Comuni classificati parzialmente montani, se posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali; C) i terreni ubicati nei Comuni parzialmente montani, posseduti da coltivatori diretti e iap e da essi concessi in comodato o in affitto ad altri coltivatori diretti e iap. Per il solo anno 2014, non è comunque dovuta l’Imu per i terreni esenti in virtù del citato dm e che, invece, risultano imponibili per effetto dell’applicazione dei nuovi criteri. Per esempio, in un Comune collocato a 300 metri di altitudine, ma non riconosciuto come montano o parzialmente montano dall’Istat, coltivatori diretti e iap non dovranno pagare sui propri terreni l’Imu 2014, perché essi sarebbero stati esenti in base a quanto stabilito dal dm 28 novembre 2014: essi dovranno versare, pero, l’Imu 2015.

Il dl 4 disciplina anche le regolazioni finanziarie conseguenti alla nuova mappa delle esenzioni. Nell’allegato A sono riportate le variazioni compensative di risorse relative al 2015 (quindi alla situazione a regime), che saranno operate sul fondo di solidarietà, per i Comuni delle regioni ordinarie, Sicilia e Sardegna, sulle compartecipazioni ai tributi erariali per le altre regioni speciali. Il totale di questo allegato, ossia la stima di maggior gettito a favore dei Comuni, vale 268.652.847,44. L’allegato al dm 28 novembre 2014, invece, 359.540.308,25, per cui la nuova classificazione costa a regime circa 90 milioni al bilancio dello Stato. Nell’allegato B, sono riportate le variazioni compensative di risorse relative al 2014, che riflettono una situazione parzialmente diversa da quella a regime, visto che per il 2014 rimangono in vita alcune esenzioni previste dal dm 28 novembre 2014, poi cancellate dal dl 4. Infatti, il totale complessivo è più basso di quello indicato nell’allegato A.

Nell’allegato C, infine, troviamo i rimborsi ai Comuni, che ovviamente riguardano l’anno 2014. In pratica, si tratta delle somme decurtate dal fondo o dalle compartecipazioni in vista di un maggiore gettito che non si verificherà in quanto riguardante fattispecie che restano esenti. Il totale, come detto, è di circa 128 milioni.In base agli importi indicati nell’allegato C, i Comuni sono autorizzati a rettificare gli accertamenti del bilancio 2014 relativi al fondo di solidarietà e all’Imu. Essi, pertanto, dovranno ridurre l’accertamento convenzionale Imu effettuato in base al dm 28 novembre 2014, incrementando della stessa cifra quello relativo al fondo.

Rimane il problema del restante gettito (circa 270 milioni) che i Comuni dovrebbero incassare entro il nuovo termine del 10 febbraio: come ricorda una nota della Fondazione commercialisti i terreni assoggettati al prelievo sono collocati in prevalenza in collina ed in montagna e spesso risultano incolti con reddito dominicale assolutamente scarso, per cui l’importo dovuto risulta il più delle volte irrisorio ed in taluni casi anche al di sotto della soglia minima prevista per il versamento.

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La riforma del Senato – la riforma Renzi – che supera, sia pure con affanno, il primo passaggio parlamentare. Mario Draghi che indica i ritardi nelle riforme strutturali dell’economia e accenna a “cessioni di sovranità”. I dipendenti Alitalia che si astengono in massa dal lavoro recapitando certificati medici di comodo. L’Italia di oggi è racchiusa drammaticamente in queste tre foto.

Nonostante le apparenze, c’è un filo che lega questi tre momenti diversi fra loro. La riforma del Senato, a cui Renzi ha legato fin troppo la sua immagine, simboleggia lo sforzo generoso di puntare sul riassetto istituzionale (insieme al Titolo V e alla giustizia) come biglietto da visita della nuova Italia giovane e dinamica. Ottimo proposito, magari anche vincente nel lungo periodo, ma dagli esiti pratici per adesso poco significativi. Anche perché il cammino di queste riforme non sarà breve.

Il premier ritiene giustamente che nel progetto innovatore ci sia un dividendo psicologico da incassare subito, trasmettendo agli italiani l’idea di una marcia inarrestabile. È vero, quasi sempre il messaggio efficace è quello che incrocia la psicologia di massa e Renzi nei suoi primi mesi si è rivelato un maestro nel suscitare speranza. Adesso però il quadro si è ribaltato e la stessa riforma del Senato arriva con qualche giorno di ritardo. Si è detto che i dati sulla recessione segnano la rivincita dei realisti sui sognatori. Se è così, Renzi non ha altra strada se non diventare ancora più sognatore e mostrarsi altrettanto determinato a procedere sulla via delle riforme. Ogni altra scelta apparirebbe una resa.

Il problema è che l’immagine del riformatore adesso è scalfita da un senso di impotenza, anche per la debolezza del disegno complessivo. Prendersela con il giovane premier sta diventando uno sport nazionale, secondo un costume molto italiano. Peraltro i fatti dicono che forse era sbagliata la scala delle priorità. E qui si inserisce l’intervento di Draghi, giudicato come uno spietato richiamo alla realtà, cioè alle vere riforme che dovrebbero essere al centro dell’azione di governo. Ieri sera alla “Sette” il premier è stato lesto a dichiararsi d’accordo con il presidente della Bce: è la mia linea, ha detto, anch’io voglio più riforme e più incisive. Reazione politica ovvia, ma dietro la quale s’intravede il secondo livello della crisi. Se l’Italia non riesce a sollevarsi da sola, l’Europa non permetterà che vada alla deriva e gli interventi potrebbero essere molto decisi. Certo, come osserva Renzi, Draghi non ha citato l’Italia quando ha evocato la «cessione di sovranità». Ma tutti quelli che dovevano capire hanno capito.

Infine c’è la terza istantanea: la più inquietante, se non la più tragica. Quei certificati di malattia presentati in massa dai dipendenti dell’Alitalia, grazie alla complicità di medici meritevoli di una rapida inchiesta, sono anch’essi un simbolo, al pari delle valigie abbandonate di chi non riesce a partire o arrivare. È il simbolo di un’Italia ottusa che si è già estraniata dal mondo.

Contro questa Italia chiusa nel suo micro-corporativismo non c’è argomento che tenga. Né il riformismo solitario e magari un po’ velleitario di Renzi, né il richiamo severo di Draghi alla dimensione europea. Non vale la politica-spettacolo che si attira tante critiche, ma almeno prova a comunicare con i cittadini, sia pure attraverso un codice populista. Tanto meno vale l’analisi delle cifre o l’appello alla verità austera dei numeri. Ai sanfedisti dell’Alitalia è inutile proporre la distinzione fra sognatori e realisti. Il loro disprezzo per le regole della vita civile è palese e coincide con il disprezzo verso i viaggiatori. È un segmento d’Italia che crede di essere più forte, come pensavano di esserlo i controllori di volo messi alla porta da Reagan.

Senza un lavoro più flessibile la ripresa resta un miraggio

Senza un lavoro più flessibile la ripresa resta un miraggio

Francesco Forte – Il Giornale

Silvio Berlusconi ha ragione a dire che il programma di Renzi per quanto innovatore non basta. In esso infatti non c’è abbastanza libertà economica e ciò incide sulla crescita italiana, minuscola, solo per lo 0,2-0,3% del Pil quest’anno, che diverge da quella europea.

Sono emblematici di questa mancanza di libertà economica l’accordo Alitalia-Etihad bloccato da veti sindacali fra loro contrastanti e la paralisi, per scioperi ad oltranza del Teatro dell’Opera di Roma, che rischia la chiusura definitiva.

Entrambi questi eventi mortificano la nostra società, facendo degradare Roma a unica capitale senza Teatro e l’Italia a unico Stato senza una compagnia aerea nazionale e incidono sul nostro sviluppo economico negativamente. Infatti ne soffrono turismo, cultura e trasporti che sono motori di crescita e occupazione. È di questi giorni l’impietosa analisi del Fondo monetario che per l’Italia prevede, per il 2014, solo una crescita dello 0,3% del Pil contro l’1,1 dell’Eurozona, l’1,9 della Germania e l’1,2 della Spagna. Solo la Francia, fra gli Stati importanti, cresce meno dell’1%. Ma la previsione per essa è comunque dello 0,7. Il Markit Pmi Index dell’industria manifatturiera (un indice del Centro internazionale Markit di Londra) per luglio è a livello 51,9%: il più alto da due mesi; quello tedesco 52,9%, il più alto da tre mesi. Quello francese a 47,6 è il più basso da otto mesi.

Il Wall Street Journal osserva che l’Unione europea ha un trend di crescita modesto doppiamente divergente. Nell’Eurozona Germania e Spagna sono notevolmente sopra la media, Francia e Italia arrancano sotto. Oltre a questa divergenza, entro la moneta unica, ce ne è un’altra fra questa e l’Unione europea fuori euro: Regno Unito e paesi dell’Est europeo crescono di più. È il diverso modello economico, con meno potere di veto dei sindacati, meno regole, meno tasse, che spiega la divergenza. Il Wall Street Journal osserva giustamente che l’assicurazione di Draghi che la Bce farà di tutto per impedire che la moneta unica crolli non può bastare e che i paesi dell’euro fanno troppo affidamento sulla Bce. Occorrono le riforme, aggiunge il giornale dal suo osservatorio indipendente e con ciò allude soprattutto a quella del mercato del lavoro e a quella fiscale. Si può, ovviamente, osservare che una delle ragioni per cui l’Italia arranca è che le nostre imprese perdono colpi nel mercato internazionale, perché il credito è caro e limitato e perché il cambio dell’euro è artificialmente elevato (penso che la sopravvalutazione sia attorno al 10%, circa 13 punti).

L’espansione del credito che Draghi aveva messo in cantiere per la primavera è posticipata a ottobre, perché la Germania l’ha frenata, ma la Bce avrebbe potuto superare il veto tedesco, se noi avessimo attuato la riforma del mercato del lavoro, nel senso della flessibilità che la stessa Bce oltre che Bruxelles da tempi ci richiede. E resta il fatto che la Spagna, con il suo mercato del lavoro flessibili cresce più di noi, perché ha incrementato l’export di più, nonostante abbia un’industria molto meno avanzata. Ma in Spagna il costo del lavoro per unità di prodotto dal 2010 è sceso del 7%, in Italia è aumentato del 4,3. È un miracolo, dovuto alla ingegnosità delle nostre imprese se siamo riusciti a fra crescere l’export di 2 punti sul Pil, portandole al 30,4%.

Ci si lamenta che il Meridione, come segnala la Confindustria, ha una situazione dell’industria e dell’occupazione molto peggiore di quella media nazionale. Ma come fa il nostro Sud a competere con la concorrenza internazionale senza la possibilità di adottare i contratti aziendali flessibili e della legge Biagi aboliti dalla Fornero? Quando sarà possibile per le imprese firmare contratti aziendali con chi ci sta, senza bisogno di subire i veti di Susanna Camusso della Cgil, le bizze della Uil e gli ondeggiamenti della Cisl e delle nuove sigle e la minaccia di scioperi a oltranza?

Le minoranze che soffocano i cambiamenti

Le minoranze che soffocano i cambiamenti

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia è il Paese bloccato dalle minoranze. Ma non nel senso che le minoranze fanno il loro mestiere opponendosi alla maggioranza a colpi di idee e progetti migliori e alternativi. No, ci mancherebbe. Nel senso che le minoranze si rifiutano di accettare l’a,b,c del funzionamento democratico, e cioè che la maggioranza debba, a un certo punto, esercitare il suo diritto a decidere. Per le opposizioni questo è un atto di lesa maestà. Con l’aggiunta della solita tripletta: illiberale, autoritario, un golpe. Tre storie di questi giorni ci dicono la stessa cosa. Il Senato, l’Alitalia e il Teatro dell’Opera di Roma. Non proprio tre cosette da poco, ma tre settori strategici: politica, lavoro, cultura. Il messaggio è il medesimo: meglio il fallimento piuttosto che cambiare.

Alitalia. Dopo sette mesi di trattative per salvare un’azienda sull’orlo del baratro, l’accordo con Ethiad viene di nuovo messo in discussione. Nel momento in cui gli azionisti votavano la ricapitalizzazione, il referendum tra i lavoratori rischiava di bloccare tutto. L’80% dei votanti ha detto sì all’accordo, ma secondo la Uiltrasporti non solo la consultazione non è valida perché non è stato raggiunto il quorum, ma non sarebbe valido nemmeno l’accordo con Ethiad, che a questo punto andrebbe rinegoziato. E conta poco che la maggioranza del sindacato, Cgil, Cisl e Ugl, che rappresentano il 65% dei lavoratori, la pensi in modo contrario; la minoranza, forte dei cavilli offerti dal Tu sulla rappresentanza, chiede che si torni alla casella di partenza. Nel frattempo gli emiri stanno per alzarsi e scappare via, mentre noi continuiamo a ripeterci che il problema più grosso del nostro Paese è che gli investitori stranieri non ci considerano più.

Il Teatro dell’Opera. Dopo ben 19 incontri con la Cgil e gli autonomi della Fials, anche la terza recita della Bohème salta e si va verso la liquidazione coatta dell’ente. Anche qui non è sufficiente che il 70% dei lavoratori abbia accettato il piano di risanamento, che non prevede né licenziamenti né mobilità, ma semmai un aumento della produttività in linea con l’Europa. Le minoranze riottose hanno deciso di scioperare e di far saltare tutto. Reclamando addirittura ampliamenti dell’organico che nello stato di indebitamento dell’ente vuole dire: mandiamo tutto a catafascio.

E poi c’è il Senato. Fino ad oggi la sbandierata volontà di superare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari è sempre stata contraddetta, nei fatti, per oltre vent’anni, dalla silenziosa resistenza corporativa di quasi tutto il ceto politico. Il rottamatore ha travolto quel tipo di resistenza e rotto l’incantesimo. Una larga maggioranza di forze politiche dell’establishment ha preso atto che si deve cambiare ed è pronta a mozzarsi un braccio (del Parlamento). Paradossalmente però ora sono proprio i castigatori della casta a mettersi di traverso, insieme ad alcuni eredi del Pci (fieramente monocameralista) e una variopinta compagine di sedicenti protettori della Costituzione. Anche in questo caso le minoranze che si oppongono pretendono non solo di avere una sede istituzionale in cui esporre le loro opinioni, ma di rinviare sine die le decisioni. Chiunque capisce che nelle oltre cinque ore disponibili per i loro interventi i grillini (nella nuova versione salva-casta) avranno tutto il tempo necessario per esporre le loro ragioni. Per quale motivo l’aula del senato dovrebbe essere impegnata ad libitum come teatrino o sfogatoio? Che c’entra questo con la democrazia? Il contingentamento dei tempi, di fronte al palese ostruzionismo di una minoranza, è un dispositivo previsto ovunque, incluso il regolamento del Senato.

In Italia dunque si continua a giocare col fuoco. Ci si attacca a tutto, formalismi, bizantinismi e microemendamenti, pur di rimanere fermi. Meglio se immobili. Peccato però che dall’altra parte i cittadini aspettino riforme e cambiamento. Da 30 anni si sentono dire che si fanno le riforme istituzionali e siamo ancora il Paese in cui è il Parlamento stesso a bloccare tutto e non c’è una legge elettorale decente. Siamo il Paese con più disoccupati in Europa, ma soluzioni ragionevoli con sacrifici tollerabili in fondo non vanno bene, meglio tornarci sopra e aprire infiniti tavoli di discussione. E il Paese in cui per la terza volta si dice al pubblico, scusate questa sera lo spettacolo salta. Statevene a casa. E a forza di blocchi, resistenze e paralisi non rimarrà che stare a casa veramente. A guardare l’inesorabile declino di un Paese che non si muove più.

Conquistateci tutti!

Conquistateci tutti!

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

«Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. (…) Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutit i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale». Tutto vero, solo che con gran dispiacere dello stesso Karl Marx – che questo scriveva nel 1848 – la “presa di coscienza del proletariato” non ha distrutto l’economia di mercato. Resta dunque intatto, a quasi due secoli di distanza, l’effetto trasformativo del capitalismo globalizzato, magistralmente descritto dal filosofo di Treviri, e restano gli annessi sentimenti e le resistenze di stampo “reazionario”. Lo dimostra, periodicamente, l’atteggiamento allarmistico di pezzi dell’establishment e della stampa nazionale di fronte agli investimenti esteri in Italia. Gli emiratini di Etihad mettono sul piatto 1,2 miliardi (tra capitale e investimenti) per resuscitare Alitalia, compagnia di bandiera ridotta prima a carrozzone pubblico e poi di nuovo tramortita dalla gestione privata dei “capitani coraggiosi” col passaporto italiano? Allora ecco che arriva la minaccia di veto della Cgil che non accetta esuberi di sorta (980 su oltre 12mila dipendenti) dettati dal conquistatore straniero. La scorsa settimana Indesit, azienda di elettrodomestici, viene acquistata dalla statunitense Whirlpool? Apriti cielo, ecco pronta da pubblicare la lista dei marchi che “scappano” all’estero. Al punto che il presidente del Consiglio Matteo Renzi, steccando rispetto al coro lagnoso, ha detto al Corriere della Sera: «La considero un’operazione fantastica. Perché non si attraggono gli investimenti e poi si grida “al lupo”, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata».

I “reazionari” però insistono. Perché gli investimenti esteri, escludendo i casi in cui assumono le sembianze della cannibalizzazione utile solo a preservare monopoli altrui, hanno conseguenze perfino più profonde e innovatrici di quelle solitamente messe in conto, cioè Pil e posti di lavoro aggiuntivi. Che pure, in un paese a crescita anemica e col debito pubblico in aumento – ieri è stato raggiunto il record di 2.166,20 miliardi – non sarebbe poca cosa. Gli investitori esteri, in Italia, spesso portano infatti con sé sistemi produttivi più efficienti della media nazionale, modalità di gestione d’azienda che fanno più volentieri ricorso al capitale proprio e generano maggiore redditività, per non dire dello svecchiamento delle relazioni industriali. Capitalismo e concorrenza, dunque, fuori da certi canoni cui una parte del mondo produttivo italiano si è abituata.

«Dell’investimento estero tendiamo a offrire sempre e comunque un’immagine catastrofica – dice al Foglio Giorgio Barba Navaretti, ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Milano, autore per il Mulino di “Fiat Chrysler Automobiles – Così guardiamo con sospetto sia la Fiat che si espande all’estero e diventa Fiat-Chrysler, sia l’italiana Indesit che viene comprata dall’americana Whirpool». Fenomeno curioso che secondo Navaretti è dovuto al fatto che «non abbiamo un’idea chiara di cosa voglia dire “competere” oggi. Diventare globali, infatti, è parte di un processo ormai normale. Piuttosto dovremmo ragionare sul fatto che le nostre aziende, per una struttura di governance che non riesce a trasformarsi da “familiare” a “manageriale”, faticano a espandersi e quindi a emanciparsi per esempio dal solo capitale bancario. Perciò tendiamo ad avere più “prede” che “predatori”».

C’era da attenderselo, in un paese che è al 65° posto su 189 nella classifica mondiale in quanto a facilità di fare impresa. Meglio di noi Spagna (52° posto), Francia (38°) e Germania (21°). Tra inefficienza del sistema giudiziario, fisco laborioso e asfissiante, burocrazia onnipervasiva gli autoctoni barcollano, figurarsi col fardello aggiuntivo della cattiva congiuntura. Gli stranieri, al netto di occasioni troppo ghiotte per rifiutarle, si tengono alla larga: comprano titoli di Stato se Mario Draghi garantisce «whatever it takes», ma poi negli ultimi vent’anni indirizzano nel nostro paese soltanto l’1,6 per cento di tutti gli investimenti esteri realizzati nel mondo, contro il 3,5 per cento della Spagna e il 5,5 per cento della Francia. E noi, quando gli investitori esteri ci sono, come li accogliamo? «Come fossero delle sanguisughe che nel migliore dei casi succhiano il nostro sangue per pagare all’estero meno tasse sugli utili», dice al Foglio l’economista industriale Riccardo Gallo. Idea sbagliata, spiega, perché «i dati raccolti da Mediobanca su un campione rappresentativo delle medie e grandi imprese a controllo estero presenti nel nostro paese dimostrano che queste imprese creano più valore aggiunto delle italiane, hanno nell’insieme una redditività positiva, hanno pagato oltre 40 miliardi di tasse negli ultimi 10 anni e continuano a rischiare più capitale proprio di quanto non facciano le concorrenti italiane. Altro che sanguisughe». E poi «basta con questo senso di avvilimento!» esclama Gallo. «È datata la visione delle multinazionali straniere che si contrappongono alle microimprese italiane. Il processo produttivo è diventato davvero globale. Oggi dunque anche una microimpresa italiana, se primeggia nel suo campo, si può aggiudicare un anello di una lunga catena di montaggio».

Nelle scorse settimane Paolo Ciocca, economista di Bnl-Bnp Paribas, ha pubblicato una ricerca sulle 13.527 imprese a controllo estero residenti al 2011 in Italia (escludendo attività finanziarie e assicurative). Ha scoperto che hanno una dimensione media maggiore di quelle nazionali: 88,6 addetti contro 3,5. Che ogni loro singolo addetto crea il doppio del valore aggiunto rispetto a un addetto di un’azienda tutta italiana, il 20 per cento in più se il confronto si limita alle medio-grandi. Queste imprese poi investono in media il doppio di quelle a controllo italiano, anche in ricerca e sviluppo. Più produttività e più ricerca, nemmeno a dirlo, generano in media una redditività maggiore. Obiettivo perseguito perfino a costo di scuotere la foresta pietrificata delle relazioni industriali. «C’è il caso di Ducati che, una volta acquisita dai tedeschi, ha importato un modello più partecipativo di relazioni coi sindacati, ma anche di maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro – dice al Foglio Paolo Tomassetti, ricercatore di Adapt. E c’è il caso di Fiat che, uscendo dal contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico in occasione della fusione con Chrysler, ha spinto tutto l’indotto ad adeguarsi alle nuove esigenze». Nello svecchiamento delle relazioni industriali di stampo concertativo tra sindacati e Confindustria, dunque, «un effetto emulazione rispetto agli investitori esteri è sicuramente possibile». Difficile stupirsi, in definitiva, se di fronte al borghese col passaporto straniero s’ode solo la lagna dei “reazionari”.