cernobbio

Cosa fare dopo Cernobbio

Cosa fare dopo Cernobbio

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il governo greco, soprattutto il ministro Yannis Varoufakis, ha dato prova di grande abilità nell’utilizzare il forum di Cernobbio per suscitare simpatie, proprio mentre è impegnato in un “gioco ad ultimatum” con le istituzione europee ed il Fondo monetario in cui rimette in ballo anche le riparazioni che la Repubblica Ellenica dovrebbe ricevere da Germania ed Austria per vicende inerenti la seconda guerra mondiale (vedi Formiche.net del 3 marzo) . Dal canto suo, il governo italiano, in particolare il ministro Pier Carlo Padoan, ha fatto bene nel frenare i fin troppo facili entusiasmi suscitati da alcuni barlumi di ripresa e della possibile fine della deflazione, evidenziati da alcuni indicatori mentre altri mostrano che la produzione industriale continua a crollare.

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Rottamare Cernobbio

Rottamare Cernobbio

Enrico Cisnetto – Il Foglio

C’è una relazione, e quale, tra il benservito di Marchionne a Montezemolo e quello di Del Vecchio a Guerra, con l’ostentato distacco di Renzi dai cosiddetti “poteri forti”, manifestato platealmente attraverso la scelta di non calcare le scene di Cernobbio, e dalle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, sindacati e Confindustria in testa? Direttamente no. La vicenda Ferrari è un regolamento di conti personali, in sospeso da molto tempo. Quello che si è svolto in casa Luxottica appartiene a un fenomeno in atto da qualche tempo nel capitalismo italiano e che potremmo definire la rivincita dei padroni sui manager, i primi stanchi di non comandare più come un tempo e i secondi rei di aver esagerato, nell’esercizio del potere aziendale, nell’esposizione mediatica e nel darsi gli emolumenti. Mentre quella di Renzi è una scelta politica con finalità di comunicazione punto e basta. Insomma, si tratta di episodi non solo slegati tra loro, ma pure di bassa cucina, privi di una cornice strategica in cui collocarli.

In realtà un sottile filo rosso che li lega c’è. Si tratta, infatti, di convergenti segnali del disfacimento del vecchio sistema paese, quell’insieme di ruoli, uomini, prassi, relazioni e abitudini, che hanno costituito l’intelaiatura su cui in Italia si è retta l’organizzazione della politica, dell’economia e della stessa società. Quando si dice che si è “chiusa un’epoca” parlando dei tanti anni in cui Montezemolo è stato a vario titolo un protagonista della galassia Fiat, in realtà si indica la “fine di un mondo” in un’accezione ben più larga del perimetro, pur significativo, dell’impero Agnelli. Qualcuno, addirittura, dice che è la “fine del mondo”: chi in chiave pessimistico-nostalgica, chi al contrario in chiave positiva, aggiungendoci un “finalmente”. In tutti i casi, si tratta di segnali inequivocabili del fatto che nulla sarà più come prima.

Chi legge da tempo le mie considerazioni, ora starà probabilmente pensando che sto per produrmi in un veemente j’accuse sul declino italiano, magari accompagnato da un bel “ve l’avevo detto”. Spiace deludere (forse anche me stesso), ma non è così. Sia chiaro: l’ltalia non solo è in pieno e prolungato declino, ma è entrata in una pericolosa fase di decadenza. Quella che con un ottimo articolo Fausto Bertinotti ha descritto ieri sul Garantista. Solo che io aggiungo: del vecchio sistema, ormai consunto, abbiamo comunque bisogno di liberarci. Non ha torto Renzi quando dice che la classe dirigente del paese ha la responsabilità di averlo portato al disastro, e che prima ce ne liberiamo e prima possiamo tentare di invertire la rotta. Sbaglia a delinirla “quella della Prima Repubblica”, e tanto più sbaglierebbe se intendesse riferirsi al più longevo di quella generazione, ancora in attività. La colpa è principalmente, se non unicamente, di quelli che hanno popolato i vent’anni della Seconda Repubblica, che sono appunto stati gli anni del progressivo e crescente declino. Nella politica come nell’economia, e nella vita civile c culturale. Ma al netto di questo errore, il fatto che Renzi abbia messo in moto la macchina della rottamazione è cosa buona e giusta.

Non è andato a Cernobbio? Ha fatto bene due volte: primo perché è un segnale che va nella direzione del cambiamento, e secondo perché da quel consesso non è mai uscito uno straccio d’idea utile al paese. Il problema, semmai, è un altro, per Renzi come per il capitalismo made in Italy: avere in testa come ricostruire. Non basta buttarsi alle spalle passato e presente, bisogna avere idea di come costruire il futuro. Altrimenti rimangono solo le macerie.

Per esempio: se, giusto o sbagliato che sia, i salotti (o tinelli) buoni, patti di sindacato e i tanti altri strumenti del cosiddetto capitalismo relazionale sono superati e desueti, è inutile accanirsi a difendere quel che ne rimane o versare lacrime di rimpianto auspicando che tornino; serve, invece, prenderne atto e però, nello stesso tempo, rendersi conto che un sistema industriale complesso non può essere semplicemente la somma delle imprese esistenti ma ha bisogno di fare sistema. Sarà un sistema diverso da quello del passato – ormai ridotto a un pollaio di galli spennacchiati che si beccano – ma pur sempre sistema il capitalismo deve fare.

Lo stesso discorso vale per la politica e le istituzioni, come ho scritto in questo spazio venerdì scorso: bene la parte destruens se contemporaneamente c’è quella construens, altrimenti resti sepolto sotto i detriti. Renzi fa bene a non andare a Cernobbio, ma non può cavarsela facendo visita a una fabbrica. Quello è populismo. Deve, invece, auspicare che la nuova classe dirigente di cui c’è bisogno – e quando dico “nuova” non mi riferisco solo all’anagrafe – costruisca delle Cernobbio capaci di far circolare idee, produrre progetti, selezionare persone. C’è bisogno di riprogettare tutto: il sistema politico e istituzionale, le imprese e le loro relazioni, la rappresentanza degli interessi, le dinamiche della vita sociale, la mentalità collettiva. Una sfida immane. Che non può ridursi a un regolamento di conti, per quanto sia necessario e opportuno regolarli.

C’è meno tempo

C’è meno tempo

Davide Giacalone – Libero

È tardi, è tardi”, ammoniva l’agitato coniglio bianco, in Alice nel paese delle meraviglie. Correre, muoversi, avverte il governatore della Banca d’Italia. C’è tempo, risponde il ministro dell’Economia. Intanto Maria Elena Boschi va a Cernobbio e si chiede, divertita, ma si può essere accusati d’andare troppo veloce e troppo piano allo stesso tempo? Non ha torto, infatti è un raggiro. Che ella contribuisce ad alimentare. Qui contano due cose: la direzione e il tempo di marcia. Dire di volere riscrivere lo statuto dei lavoratori per favorire sia la mobilità che la stabilità significa indicare direzioni opposte. Bloccare contratti statali e assumerne 190mila in più, sono direzioni opposte. Volere il merito e premiare le graduatorie sono cose opposte. E veniamo ai tempi, che sono una cosa seria.

Nessuno si faccia illusioni: le iniziative monetarie illustrate da Mario Draghi non aumentano il tempo a disposizione dei governi europei rimasti inerti, ma lo diminuiscono. C’è un colossale equivoco, su questo punto. Forse qualcuno pensa che il gioco funzioni come quando, nel luglio del 2012, il presidente della Banca centrale europea bloccò le speculazioni contro l’euro imbrigliandone il sintomo, ovvero la divaricazione esagerata degli spread. Lì si poteva essere beneficiati e immobili. Ora no. Ora non basta chiedere la grazia a santa Bce. Ora vale il diverso adagio: aiutati che Dio t’aiuta. E fai in fretta.

La riduzione del tasso d’interesse non ha effetti immediati sul sistema produttivo, né quel differenziale nel costo del denaro risulterà decisivo (si tenga presente che con il tasso Bce allo 0,15% i tassi reali, pagati dal sistema produttivo, oscillavano dal 4 al 9%). In quanto all’effetto riduttivo del cambio, avvantaggiandoci sul dollaro, ha effetti sicuramente positivi per le esportazioni, ma queste, importantissime, riguardano solo un pezzo del nostro mercato. Si avvantaggiano di più i tedeschi, se la mettiamo su questo piano. Iniziative come Tltro (rifinanziamento a lungo termine), ora targhettizzato sul sistema produttivo, non portano automaticamente i soldi dalle banche alle imprese. Non sono vasi immediatamente comunicanti. Serve che ci siano imprese intenzionate a chiedere credito per crescere ed espandersi, non solo per salvarsi e galleggiare. Tltro non sfiora i problemi di chi ha chiuso o si è trasferito. O si accinge a farlo. Se le aziende non assumono e licenziano non è solo perché il credito scarseggia, ma anche perché il fisco e la burocrazia abbondano e straripano. Gli stimoli monetari sono utili, ma da soli non producono effetti ragguardevoli. È un po’ come dare il Viagra a un paziente anestetizzato: se ne può anche (forse) propiziare la turgidezza, ma non ne può trarre alcun dinamico utile.

Il bello è che, tanto a Jackson Hole quanto nella conferenza stampa di Francoforte, Draghi lo ha detto e ripetuto chiaro e tondo: provo a fare la mia parte, ma senza riforme che fluidifichino i sistemi produttivi e li adeguino alla realtà della globalizzazione (le riforme definite “strutturali”, con una formula che più la si ripete e meno significa) e senza pulizia dei bilanci pubblici, non servirà a nulla. A questa evidenza dobbiamo aggiungere una postilla: la Bce parla dell’euroarea, giustamente, ma non sta scritto da nessuna parte che si muoverà tutta in modo omogeneo, anzi, sappiamo per certo che è avvenuto e avverrà il contrario. Questo significa che le iniziative Bce porteranno giovamento maggiore a chi si è mosso, minore a chi si muove in ritardo, nessuno a chi resta fermo. Possono anche mettere la stessa camicia, ma mentre il francese Manuel Valls (buttando fuori un ministro dell’economia che diceva di ispirarsi a Matteo Renzi) ha varato tagli per 50 miliardi, qui si cincischia su 20. Se continuiamo a parlare senza costrutto e senza concretezza, se continuiamo a biascicare gnagnere come “riforma degli ammortizzatori sociali” o “premio al merito”, “semplificazione” o “velocizzazione”, senza né dire che cosa significano, nello specifico, cosa comportano e come si ottengono, il solo effetto sarà l’aumento della distanza relativa fra l’Italia e gli europei che hanno capito.

A ciò aggiungete il peso e il costo del debito pubblico e avrete un risultato impressionante. La disputa sui tempi è surreale, se letta con i cronometri delle sceneggiate interne, mentre è decisiva se misurata con quelli delle opportunità da cogliere. La Bce ha prima conquistato e comprato tempo, favorendo anche chi era al volante ma faceva brum-brum con la bocca, ora passa a distribuir carburante, sicché i piloti immaginari resteranno al palo, mentre altri correranno altrove.

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Probabilmente quello di ieri sarà ricordato come il discorso delle Isole Tonga per l’affermazione, paradossale ma non troppo, che è più facile fare impresa in Polinesia che in Italia. Sergio Marchionne dopo il meeting di Rimini ha voluto marcare la sua presenza anche a Cernobbio e ha fatto l’en plein. E non solo per la lunga ovazione che ha salutato la fine del suo intervento. Innanzitutto ha dato sostanza e adrenalina a un’edizione del workshop Ambrosetti che rischiava di passare agli annali esclusivamente per le polemiche a distanza con il premier Matteo Renzi e le rubinetterie bresciane. Poi l’amministratore delegato della Fiat Chrysler ha avuto anche la capacità di riportare al centro della riflessione di Villa d’Este l’economia reale, laddove nei giorni precedenti avevano dominato ancora una volta gli economisti-scenaristi e gli eurocrati di Bruxelles, entrambi restii ad appassionarsi di fabbriche e di tecnologie. Mancava la voce degli imprenditori e con Marchionne è finalmente arrivata, senza lesinare sui decibel. Per completare il quadro varrà la pena ricordare che in questo settembre 2014 si discuterà in Italia di riforma del lavoro, mezza Europa vigilerà sui tempi dell’approvazione parlamentare del Jobs act e Marchionne ha detto la sua. Ha invitato la politica a ripensare profondamente il rapporto tra Stato, lavoratore e imprese senza dover per forza importare questo o quel modello straniero ma tentando di costruire una via italiana alla flexicurity.



Per tentare di capire ancora meglio l’affondo di Marchionne può avere un senso ricordare come diversi imprenditori in questo periodo cerchino di attirare l’attenzione sui mutamenti dei cicli economici dopo la Grande crisi. Mi è capitato di leggere di recente un’intervista al capo-azienda di una delle nostre multinazionali tascabili che raccontava in maniera efficace di “aziende stressate, ordini che arrivano all’ultimo o che all’ultimo vengono cancellati, continue modifiche tecniche, nuovi mercati che esplodono all’improvviso costringendoci a rivedere le strategie”. È questo in sostanza l’ambiente economico in cui si andrà operare e quand’anche la ripresa sarà arrivata avrà comunque queste caratteristiche. I cicli lunghi ce li possiamo scordare e come ieri ha sintetizzato il ministro Federica Guidi, anche lei presente a Cernobbio: «Le aziende non hanno più un portafoglio ordini a sei mesi ma a sei giorni».

Ma ci sono oggi le condizioni per una riflessione di così ampia portata, come quella delineata da Marchionne? E il governo Renzi se ne farà davvero carico a costo di aprire un nuovo fronte polemico dentro il Pd e con la Cgil? Il top manager Fiat evidentemente pensa di sì, spiega che non bisogna privilegiare la difesa statica del singolo posto di lavoro ma la persona favorendone la mobilità sociale e la formazione perché – sia chiaro a tutti – «noi non vogliamo lavoratori usa-e-getta ma persone coinvolte». Tutti concetti che ricordano molto da vicino le eresie del giuslavorista Pietro Ichino, spesso sottovalutate dal mondo confindustriale. E non a caso l’amministratore delegato di Fiat Chrysler ha voluto ancora una volta ricordare come «pur di riconquistare una libertà di contrattazione» con i propri dipendenti l’azienda avesse deciso a suo tempo di uscire da Confindustria. Chiudendo Marchionne ha aggiunto che da sei anni le attività italiane sono in perdita e nonostante ciò non è stato chiuso nessuno stabilimento o licenziato nessuno e il motivo primo è che «siamo fondamentalmente italiani». Una frase che i suoi avversari non gli abboneranno facilmente. A cominciare da Roberto Maroni che ieri sull’italianità della Fiat è stato più caustico dei sindacalisti.  

La solitudine di Renzi e le vedove inconsolabili

La solitudine di Renzi e le vedove inconsolabili

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Ha sbagliato Matteo Renzi a non andare a Cernobbio, dove il prestigioso Studio Ambrosetti ha organizzato, come ogni anno, il suo forum internazionale con inviti iper selezionati.

Ha sbagliato perché quel paesino sulle rive del lago di Como merita davvero, è uno degli angoli più belli al mondo e i saloni che ospitano gli incontri, quelli del Grand Hotel Villa d’Este, trasudano da un secolo dei sapori della mondanità più esclusiva. Poi uno legge i resoconti di inviati e cronisti e gli viene il dubbio. Piacere della vista a parte, perché mai Renzi dovrebbe mischiarsi con quella compagnia? Prendiamo ieri. A spiegare come gira, e come dovrebbe girare il mondo c’erano, nell’ordine; Jean Claude Trichet, predecessore di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea, cioè l’uomo che non si era accorto che stava per scoppiare la più grave crisi economica di sempre; José Barroso, presidente uscente dell’Europa, un quinquennio di disastri politici al servizio dell’asse Merkel-Sarkozy; Mario Monti, e non aggiungo altro (basta il nome); Romano Prodi, quello che poco più di un anno fa si era imbarcato su un aereo presidente della Repubblica ed era atterrato presidente dei trombati. All’ultimo ha dato forfait Enrico Letta. Peccato. Eravamo tutti ansiosi di ascoltarlo sul tema: come governare un paese a lungo e con Alfano.

Eppure sono tutti indignati che Renzi non si è presentato ad ascoltare e omaggiare tali maestri. Tutti lo vogliono, il premier. Ieri a piangere era anche il direttore del Fatto Quotidiano, l’amico Antonio Padellaro. Un intero fondo per lamentarsi che il Matteo non sarà alla festa del Fatto che è partita a Forte dei Marmi. Sdegno rafforzato da ben due pagine fitte fitte di Marco Travaglio sulle promesse tradite o rinviate dal suddetto premier.

Manco fosse una bella donna: da Cernobbio a Forte dei Marmi è tutto un lamentìo di sedotti e abbandonati da quel mascalzone fiorentino. Mi faccio due domande. Se l’uomo sta così sulle palle perché lo invitano? Ma soprattutto: che diavolo avrà mai da dire Renzi di così interessante che qui è tutto un disastro? E comunque, se queste devono essere le compagnie, meglio la solitudine, che porta consigli più utili di quelli di Monti e Travaglio, vedove inconsolabili in un fine estate da brivido dentro e appena fuori i nostri confini.

La rabbia del salotto buono snobbato dalla politica

La rabbia del salotto buono snobbato dalla politica

Carlo Lottieri – Il Giornale

La decisione di Matteo Renzi di non portare il proprio omaggio alla riunione di Cernobbio ha sollevato reazioni molto negative. In particolare, Alberto Bombassei – vicepresidente di Confindustria – ha sostenuto che con tale assenza il premier avrebbe dato l’impressione di ignorare le ragioni delle imprese e a chi lavora.

C’è molto di barocco e formalistico in questa polemica di fine estate. Ma davvero si può credere che qualche ora in una riunione di finanzieri e industriali possa aiutare a rimettere in piedi la società italiana? Nemmeno in presenza di una concentrazione di premi Nobel per l’economia si potrebbe pensare a tante virtù miracolistiche. Anche chi è assai critico nei riguardi della maggioranza di governo e del suo leader stavolta fatica a mettersi tra gli accusatori. Cosa mai ci sarà di tanto significativo da sentire nell’ennesimo incontro destinato a dare un po’ di visibilità a questo o a quello? Cosa potranno mai dire di diverso quei signori rispetto a quanto dichiarano ogni giorno a televisioni e giornali? E poi lo sappiamo bene che i problemi economici si risolverebbero – in estrema sintesi – con meno spesa, meno tasse, meno regole. Che si vada a Cernobbio o no. Ricordando che è bene evitare l’ipocrisia, va aggiunto che gli esponenti delle grandi imprese a cui Renzi avrebbe potuto stringere la mano sul lago di Como non sono marziani venuti da chissà dove. Per lo più, si tratta di persone ben note all’ex sindaco di Firenze: protagonisti di un mondo che in vario modo ha contribuito e contribuisce a mantenere il nostro primo ministro alla guida dell’Italia. Poteva incontrarli una volta di più, certo, ma se preferisce andare in una rubinetteria del Bresciano non si capisce perché ci si debba scandalizzare.

Da maestro di comunicazione, il Renzi che non va a Cernobbio gioca la carta del «lavoro vero» contro l’economia dei salotti buoni. Gioca anche la carta di quanti producono contro la corporazione confindustriale che invece fa politica con altri mezzi. Sul piano mediatico incassa qualche punto. È però egualmente vero che senza salotti buoni, da noi come altrove, non è certo facile «vincere e mantenere lo stato» (per usare le parole di un grande concittadino di Renzi, Niccolò Machiavelli). Renzi ne è consapevole e quindi se polemizza in pubblico, è egualmente certo che in privato continua a tenere solidi legami. Perché una cosa sono le polemiche sui giornali, e altra cosa le logiche di potere. E questo Renzi lo sa bene.