Corriere della Sera

Riforme economiche a passo di carica

Riforme economiche a passo di carica

Stefano Micossi – Corriere della Sera

Caro direttore, è chiaro a tutti che l’agenda del governo debba ora concentrarsi sulla realizzazione dell’ambizioso programma di riforme economiche annunciato al momento della sua costituzione – si può sperare, con lo stesso passo di carica adottato per le riforme costituzionali in Senato. La partita si vince o si perde con la nuova Legge di stabilità (il bilancio 2015-2017) e i1 Jobs Act. Su questo, la discussione in corso non mi sembra sempre sufficientemente lucida.

In primo luogo, meglio prendere atto che non vi sono margini nel bilancio pubblico per un sostegno significativo della domanda; continuare a parlarne è una perdita di tempo. Va anche ricordato, però, che il bonus in busta di 80 euro, le misure già adottate per sbloccare i pagamenti arretrati delle amministrazioni pubbliche e quelle in gestazione per sbloccare i cantieri, spendendo quel che già è stato stanziato, implicano una spinta notevole all’economia, che certamente inizierà a manifestarsi con intensità crescente a partire dall’autunno.

In secondo luogo, la discussione sulla Legge di stabilità dovrebbe riferirsi ai dati reali: i tagli di spesa programmati, o sperati, dalla spending review – per ricordare, 17 miliardi entro il 2015, 34 miliardi a regime – sono già quasi interamente impegnati. Infatti, il govemo eredita dai predecessori circa 16 miliardi di aumenti di spese e riduzioni di entrata non coperti, ai quali occorre aggiungerne altri dieci per la copertura permanente del bonus e, con ogni probabilità, qualche altro millardo per restituire la Robin tax tremontiana sui petrolieri (che la Corte costituzionale si appresta a dichiarare contraria alla Costituzione). Quel poco che avanza, andrà destinato al miglioramento del saldo strutturale di bilancio. Dunque, da qui non può venire neanche un penny per abbattere il cuneo fiscale: la spending review non libera risorse, serve solo per evitare maggiori tasse per risorse già distribuite.

Le risorse per ridurre il cuneo fiscale nella misura necessaria – due punti percentuali di Pil, come recentemente suggerito anclie sulle colonne del Corriere – non possono allora che venire da una riforma fiscale che sposti i carichi d’imposta verso le imposte indirette, attraverso la graduale convergenza (su un arco pluriennale) di tutte le aliquote dell’Iva verso l’aliquota ordinaria (22 per cento). Essa richiede, naturalmente, di cornpensare i nuclei famigliari meno abbienti con trasferimenti diretti di reddito i quali, trattandosi di persone che non compilano la dichiarazione dei redditi, possono essere realizzati attraverso l’lnps. L’aumento dell’lva produrrà due ulteriori effetti benefici: farà salire l’inflazione, pericolosamente vicina allo zero, e migliorerà la competitiviltà di prezzo dei nostri prodotti sul mercato domestico (una specie di svalutazione fiscale). Si tratta di una delle riforme che le istituzioni europee ci chiedono da tempo; la Legge di stabilità è lo strumento giusto per realizzarla.

Poi viene il Jobs Act. Con le regole attuali, assumere, gestire il rapporto di lavoro e licenziare è troppo complicato; il precariato e i bassi tassi di occupazione ne sono la diretta conseguenza. Serve un contratto di lavoro nuovo, molto libero a meno di poche garanzie fondamentali, nel quale durata e principali condizioni siano fissate liberamente tra le parti. L’idea che la riforma si risolva in una vacanza temporanea dalle regole attuali è stupida e autolesionistica. Inoltre, la riforma sarebbe monca se non si accelerasse la piena attuazione al meccanismo dell’Aspi, introdotto dal governo Monti, e non si iniziasse fin d’ora ad utilizzare i contratti di ricollocamento per superare il barocco sistema della cassa integrazione straordinaria e in deroga e muovere con decisione verso il nuovo sistema di flexi-security. Anche qui servono risorse, forse fino a due punti percentuali di Pil: possono venire in parte dallo smantellamento dei sostegni attuali alla disoccupazjone, in parte dai fondi strutturali, come da ternpo va suggerendo anche Tito Boeri.

Ecco, questo è il carnet impegnativo, ma non impossibile, con il quale il presidente del Consiglio potrebbe presentarsi in Europa quest’autunno: argomentando, allora sì con credibilità, che di nuove manovre correttive non se ne parla, né per il disavanzo né per il rientro dal debito, fino a che l’economia non avrà ripreso a crescere.

Imu, Tasi e Tari: il percorso (impossibile) delle tasse sulla casa

Imu, Tasi e Tari: il percorso (impossibile) delle tasse sulla casa

Gino Pagliuca – Corriere della Sera

È cominciato l’autunno delle tasse sulla casa. Da qui a metà dicembre infatti il calendario è punteggiato di appuntamenti che riguarderanno in pratica tutti coloro che occupano un’abitazione. Tre sono i tributi che incombono: la Tasi, a carico del proprietario se la casa non è locata, altrimenti va suddivisa tra proprietario (che deve pagare tra il 70 e il 90%) e l’inquilino; la Tari (tassa sui rifiuti) dovuta da chi occupa l’immobile; l’Imu, sempre a carico del proprietario. Oltre al danno c’è spesso la beffa: oltre a dover pagare, molti contribuenti dovranno farlo in tempi stretti perché le amministrazioni comunali se la stanno prendendo comoda con le delibere delle tariffe. Dal data base presente sul sito del ministero delle Finanze ieri risultava infatti che su un complesso di 8.057 Comuni italiani sono state pubblicate 3.243 delibere Imu, 4.567 delibere Tasi e 2.982 delibere Tari. Ma vediamo che cosa succederà nei prossimi mesi tributo per tributo.

Tasi: il rebus di acconti e saldi
E cominciamo dalla Tasi, la nuova tassa sui servizi indivisibili. Per i tempi di pagamento bisogna tener conto dell’epoca della pubblicazione della delibera sul sito www.finanze.it. Nei circa duemila Comuni in cui le amministrazioni sono riuscite a pubblicare entro fine maggio e che non abbiano deciso tempistiche diverse, i contribuenti hanno già pagato la prima rata entro il 16 giugno e dovranno versare il saldo entro il 16 dicembre. Nei Comuni che avranno deliberato le aliquote tra inizio giugno e il 10 settembre, con pubblicazione entro il 18 settembre, i contribuenti dovranno versare la prima rata entro il 16 ottobre e il saldo il 16 dicembre. In questa situazione si trovano, tra gli altri, i proprietari di casa di Milano e di Roma. Ci sono però ancora circa 3.500 amministrazioni che hanno solo poco più di due settimane di tempo per deliberare. Nei Comuni che infine non pubblicassero entro il 18 settembre la delibera, si pagherà tutto a saldo il 16 dicembre: i proprietari di abitazione principale dovranno pagare sulla base dell’aliquota dello 0,1%; sugli immobili diversi dall’abitazione principale invece si pagherà lo 0,1% solo se l’aliquota Imu non supera lo 0,96%, altrimenti si pagherà un’aliquota che sommata a quella dell’Imu arrivi all’1,06% (esempio se l’aliquota Imu 1,03%, la Tasi sarà allo 0,03%). Siccome si parla tanto in questi mesi di semplificazioni diciamo che in questo campo c’è molto spazio per esercitarsi. La base imponibile della Tasi è la stessa dell’Imu ma il meccanismo delle detrazioni per la prima casa è diverso da quello del vecchio tributo perché i Comuni hanno un’ampia discrezionalità nel determinare le agevolazioni. Per questo se si vuol fare da sé (i comuni non mandano infatti i modelli F24 precompilati) è necessario leggere attentamente la delibera sul sito del ministero. Da mesi infuria la polemica se la Tasi sulla prima casa sia più cara rispetto all’Imu. Una risposta univoca, basata su medie alla Trilussa, non sarebbe attendibile. Rimane però chiaro che il meccanismo della Tasi è più «regressivo» rispetto a quelle dell’Imu, nel senso che favorisce i proprietari di immobili di alto valore fiscale e penalizza le case piccole. Nella tabella che abbiamo elaborato si evidenzia, ad esempio, che una casa civile di 70 metri quadrati a Milano paga 228 euro, 63 in più rispetto all’Imu 2012; un’abitazione medio signorile di 120 metri, invece, paga 530 euro, con un risparmio di 118 rispetto a due anni fa. A Roma, dove l’aliquota Imu era dello 0,5%, si risparmia praticamente sempre. Tra le città da noi considerate il peggiore aggravio l’avrà Frosinone: per la casa da 70 metri nel 2012 il proprietario non pagava e ora dovrà sborsare 121 euro.

Tari: la caccia alla posizione tributaria
Minori incombenze per la Tari, nuove denominazione della tassa sui rifiuti. Per pagare bisogna infatti aspettare la richiesta del Comune: di norma viene calcolata una prima parte in acconto sulla base della tariffa del 2013 e il saldo a conguaglio sulla base della tariffa nuova. Ai Comuni è lasciata anche per quest’anno la facoltà di usare, adeguandole, le vecchie tariffe Tarsu ma la maggior parte delle amministrazioni già lo scorso anno aveva adottato un sistema di determinazione dei costi per il residenziale basato sull’incrocio tra numerosità del nucleo familiare e superficie dell’alloggio. Il calcolo, una volta che si disponga della delibera, non è particolarmente complesso ma farselo non servirebbe a nulla. Per pagare infatti è necessario indicare nel modello F24 il numero della posizione tributaria di cui evidentemente non si dispone. Nei Comuni che non hanno variato metodologia di calcolo la tariffa è rimasta simile a quelle del 2013. Da un’analisi di Federconsumatori emerge che una famiglia con tre persone in una casa di 100 metri quadrati a Milano quest’anno risparmierà 7 euro, a Roma pagherà lo stesso e a Lodi spenderà 49 euro in più. Al saldo della tassa del 2013, però, si era pagato un contributo fisso (pari a 0,30 centesimi per metro quadrato) a titolo di contributo per i servizi indivisibili, ora è assorbito dalla Tasi.

Imu: percorso collaudato
Nessuna novità infine per l’Imu, che si paga ancora per le abitazioni principali di categoria A/1, A/8 e A/9 e per tutti gli immobili diversi dalla abitazioni principali. Nelle grandi città l’aliquota era già al massimo nel 2013 e non potrà aumentare. Se il Comune non delibera si paga sulla base dell’aliquota 2013. La prima rata è stata versata il 16 giugno, la scadenza del saldo è fissata per il 16 dicembre. Chi possiede un’abitazione non affittata nello stesso comune in cui ha anche l’abitazione principale dovrà pagare anche l’Irpef sul 50% del valore catastale dell’immobile a disposizione. Per il saldo però potrà aspettare la liquidazione dell’Unico o del 730, a giugno 2015.

I conti di Cottarelli: nel 2015 mezzo miliardo di risparmio dalle partecipate

I conti di Cottarelli: nel 2015 mezzo miliardo di risparmio dalle partecipate

Andrea Ducci – Corriere della Sera

Una ricetta che nel 2015 può valere mezzo miliardo di risparmi. La condizione per raggiungere l’obiettivo è eliminare almeno 2.000 società partecipate dagli enti locali. Il suggerimento arriva dal commissario straordinario alla spending review, Carlo Cottarelli, illustrando il programma di razionalizzazione delle aziende partecipate da Comuni, Province e Regioni. Il documento è quello reso noto all’inizio di agosto, ma ieri Cottarelli ha voluto spiegarne il principio ispiratore. Quel «sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000 le municipalizzate», scandito per la prima volta dal premier, Matteo Renzi, lo scorso aprile. Le misure, illustrate da Cottarelli, che si è tenuto alla larga dal fornire chiarimenti su una sua permanenza, ormai ballerina, nell’incarico di commissario straordinario, puntano, perciò, a tagliare 7.000 partecipate pubbliche. Una maxi sforbiciata che dovrebbe tradursi nell’arco di 3-4 anni in un risparmio stimato di 2-3 miliardi di euro.

Tra la teoria e la pratica resta la necessità di fissare, nella legge di Stabilità, norme e sanzioni certe per imporre agli enti locali le dismissioni e le chiusure di una moltitudine di carrozzoni. A precisarlo è lo stesso Cottarelli, tenuto conto che già la legge finanziaria del 2008 vieta la creazione di società partecipate che non abbiano a che fare con le finalità istituzionali dell’ente di appartenenza. La norma stabilisce, tra l’altro, la vendita o la chiusura delle aziende fuori regola. Nei fatti il divieto è stato ignorato o trascurato, e, a detta del commissario, la misura «non è efficace perché la valutazione è lasciata all’amministrazione partecipante». Il risultato è una giungla di aziendine e società locali, il cui esatto numero resta indefinito. Secondo la banca dati del ministero dell’Economia sarebbero 7.726, ma la banca dati della presidenza del Consiglio ne rileva circa 10.000. Cottarelli e i suoi tecnici stimano quest’ultima cifra la più veritiera.

Il piano del commissario straordinario riporta anche i costi delle inefficienze e degli sprechi. Le perdite palesi nel 2012 hanno raggiunto quota 1,2 miliardi di euro, a cui vanno aggiunte le perdite celate da contratti di servizio e trasferimenti in conto corrente per aggiustare bilanci altrimenti pericolanti. L’aggravio finale è rappresentato dai costi pagati dai cittadini per servizi che potrebbero essere più economici ed efficienti. Totale, insomma, i circa 3 miliardi che lo studio fissa come obiettivo di risparmio.

Nel documento è ribadito anche il principio a cui ancorare il mantenimento di una società in mano pubblica. «Il campo di azione delle partecipate deve essere strettamente limitato ai compiti istituzionali dell’ente di controllo, che non includono la produzione di beni e servizi che possono essere forniti dal settore privato». Basta, insomma, a società comunali o regionali che producono «uova piuttosto che prosciutti», dice Cottarelli. E poco importa se quelle società realizzano profitti. Sul piatto vanno infatti considerati altri fattori: il rischio di alterare il corretto funzionamento del mercato, il rischio di creare perdite a carico della collettività, la necessità di monitorare le partecipate pubbliche, sottraendo così risorse umane alle finalità e ai compiti istituzionali dell’ente. Non a caso, lo studio sulla spending review delle partecipate suggerisce l’introduzione di alcuni paletti: il limite alle partecipazioni indirette e di secondo grado, il limite alla detenzione di partecipate da parte di piccoli comuni, l’uscita da quote di minoranza (ci sono 1.400 società in cui la quota azionaria pubblica si ferma al 5%, e 2.500 casi in cui non va oltre il 20%), e, infine, la chiusura delle scatole vuote (sono 3.000 le aziende con meno di 6 dipendenti).

Un’ultima riflessione la merita il numero delle cariche di vertice. Il meccanismo dei poltronifici pubblici ha prodotto 37.000 incarichi nei consigli di amministrazione e circa 26.500 amministratori. Il costo pro quota di questa proliferazione di posti è circa 450 milioni di euro. L’imperativo è disboscare.  

Una commedia degli equivoci

Una commedia degli equivoci

Danilo Taino – Corriere della Sera

Certe volte, sempre più spesso, l’Europa è il palcoscenico di una commedia degli equivoci. Di fronte alla disoccupazione alta, alla stagnazione dell’economia, al pericolo della deflazione, gli equivoci non dovrebbero però essere ammessi: l’eurozona è tornata a vivere una stagione di crisi e le ambiguità politiche e interpretative la rendono drammatica. 

La telefonata di ieri di Angela Merkel a Mario Draghi andrebbe catalogata tra gli scambi di valutazioni tra leader di fronte all’emergenza – non diversamente dall’incontro in Umbria di Matteo Renzi con il presidente della Bce una decina di giorni fa. La famosa frase di Draghi che bloccò la crisi del 2012 – la Banca centrale avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per evitare la rottura dell‘euro – fu, per dire, preceduta da una conversazione tra il presidente della Bce e la cancelliera tedesca. Invece, oggi, si tende a verdere ovunque scontro e divisione. Non dovrebbe essere così. 

La gravità della situazione nell’area euro – l’unica al mondo che non riesce a togliersi di dosso i postumi della crisi e sembra immobilizzata –  è chiara a tutti. E i governi sanno che vanno messe in opera tutte le azioni – riforme, politiche di bilancio, politiche monetarie – capaci di scuotere la situazione, di dare una svolta. Significa che i governi nazionali devono fare quelle riforme finalizzate a rendere efficienti le economie: erano il presupposto della creazione della moneta unica europea, 15 anni fa, e molti Paesi non le hanno fatte. Significa che spese produttive e riduzioni del peso fiscale vanno messe in campo per stimolare le economie. Significa che la Banca centrale europea deve fare tutto ciò che può per evitare la spirale della deflazione e per favorire il credito all’economia. Il fatto è che tutto è chiaro, non ci sono misteri. Ma ci sono gli equivoci. 

Al seminario dei banchieri centrali di fine agosto a Jackson Hole, Wyoming, Draghi ha sostenuto che «nessuna quantità di aggiustamenti fiscali o monetari può sostituire la necessità di riforme strutturali: la disoccupazione strutturale era già molto alta nella zona euro prima della crisi». Senza riforme strutturali, più spesa pubblica e una politica monetaria espansiva semplicemente non funzionano, perché si perdono nelle sabbie di economie inefficienti. Qualche media internazionale ha invece dato una lettura del discorso di Draghi a Jackson Hole come un ripudio delle politiche seguite finora dall’eurozona, volute soprattutto dalla Germania. Commentatori e mercati sono entrati in confusione e, probabilmente, così qualche governante. In realtà, la posizione di Draghi – nota non da ora – è che si tratta di fare riforme che mettano i Paesi in grado di beneficiare di ogni azione espansiva possibile, di spesa o monetaria che sia. Non c’è equivoco, se non lo si crea.

L’impresa di resistere in un paese stanco

L’impresa di resistere in un paese stanco

Claudio Magris – Corriere della Sera

Nel Tramonto dell’Occidente – libro che negli anni Venti ebbe un enorme successo per il suo pathos epocale e il suo miscuglio di intuizioni geniali ed enfasi apocalittica zeppa di strafalcioni logici – Spengler annunciava che la civiltà occidentale – per lui sostanzialmente germanica – esaurito il suo slancio faustiano di espansione e di conquista sarebbe presto morta. Il suo ultimo stadio sarebbe stata una sua pallida ed esangue copia collocata vagamente in Oriente, fra la Vistola e l’Amur, presto destinata a spegnersi. Non è il caso di lasciarsi affascinare dai bagliori della decadenza – già la musica e il suono della parola «Occidente» hanno una seduzione di declino – né dai profeti quasi sempre soddisfatti di proclamare sventure e impermaliti, come Giona, quando tali sventure non si avverano. Se la nostra civiltà occidentale ha certo le sue gravi difficoltà, nelle altre parti del mondo e nelle altre culture non si sta molto bene.

È innegabile tuttavia che la descrizione di quella civiltà spenta e opaca, priva di passioni, che Spengler situa in un’Europa orientale semiasiatica, assomiglia all’atmosfera che, da non molto tempo ma sempre più diffusamente, si è creata nel nostro Paese. La crisi economica sembra provocare non tanto una lotta per la sopravvivenza, quanto una fiacca rassegnazione. Certamente vi sono molti individui che lottano, con le unghie e con i denti, per la loro esistenza e per la dignità della loro esistenza. Sono essi i protagonisti, i combattenti di questa difficile battaglia. Quello che resiste è il più autentico capitalismo legato ancora all’iniziativa individuale, al rapporto diretto tra il lavoro e il profitto, alla piccola attività ed impresa, mentre il grande capitalismo dei tronfi ed inetti signori del mondo, sempre più anonimi e scissi dalla dura realtà del lavoro, è spesso largamente, talvolta criminosamente colpevole della crisi.

Ma la nostra società sembra aver perso, in generale, mordente, slancio, capacità di progetto e di protesta, passione. Ciò che manca, da qualche tempo, è soprattutto la passione politica, che ha contrassegnato – con le sue lotte, i suoi furori, le sue faziosità, i suoi ideali – la vita del Paese dal Dopoguerra (l’antifascismo e i diversi antifascismi, lo scontro tra comunismo e democrazia liberale, la tumultuosa crescita economica che portava con sé tensioni, entusiasmi e progressi sociali) agli anni dei governi Berlusconi, che scatenavano ancora amori e odi. L’ultima fiammata di irruente accensione degli animi è stato il Movimento 5 Stelle, che tuttavia non solo sembra affievolirsi, ma che non pare essere stato, a differenza di altre formazioni pur tendenti all’estremismo, una componente organica del Paese.

L’Italia sembra vivere stanca, depressa ma senza drammi, indifferente alla politica ovvero al proprio destino, giacché la politica è la vita della Polis, della comunità. Un Paese senza. Fra i negozi vuoti spiccano le trattorie e i ristoranti, decisamente più frequentati; la gola è l’ultimo appetito a morire, resiste alla depressione e alla mancanza di senso più del sesso. Speriamo di non essere alle soglie di un abisso, come negli anni Venti; in ogni caso, manca quella frenesia trasgressiva e disperata di vita che c’era in quegli anni sciagurati ma vivi e che risuona nelle canzoni di Brecht o nelle musiche di Cabaret. La nostra esistenza assomiglia piuttosto a quella di un personaggio di Gozzano, Totò Merùmeni: «E vive. Un giorno è nato, un giorno morirà».

Quei dubbi di Marchionne

Quei dubbi di Marchionne

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Anche Sergio Marchionne comincia ad avere qualche dubbio. In questi mesi l’amministratore delegato della Fiat, quando ha potuto, non ha mancato di far sentire il suo appoggio a Matteo Renzi, in pubblicoe in privato. Solo per ricordare un episodio vale la pena tornare a Trento, al festival dell’Economia di inizio giugno, quando Marchionne si era disciplinatamente seduto ad ascoltare e ad applaudire l’intervista-fiume del premier con Enrico Mentana. Ieri invece dal palco di un’altra manifestazione, il meeting di Rimini, i toni sono stati differenti. Quegli accenni agli scarsi risultati ottenuti dal governo e ai tanti compromessi ai quali ha dovuto soggiacere segnano sicuramente uno slittamento di opinione. Un giudizio sui provvedimenti e le amnesie che vale molto di più dei commenti che pure Marchionne ha elargito sulle strategie di comunicazione. Anche a lui la copertina dell’Economist non è piaciuta neanche un po’ ma non avrebbe replicato – ha chiosato -, avrebbe fatto a meno di organizzare la gag con il gelato e il carretto.

Prima di Marchionne a prendere le distanze da Renzi era stato un altro protagonista della vita economica italiana, che pure aveva guardato con favore al nuovo governo e al protagonismo del giovane Matteo, Diego Della Valle. In pieno agosto quando il governo combatteva in Senato per far passare il provvedimento di revisione Mister Tod’s aveva rivolto un inusitato appello al capo dello Stato chiedendogli di evitare che a cambiare la Costituzione fosse «l’ultimo arrivato, seduto in un bar con un gelato in mano a decidere cosa fare». Non sapremo mai con certezza se la direzione dell’Economist abbia rubato a Della Valle l’immagine del giovane premier con il gelato ma alla fine è andata così. E comunque quella presa di distanza da Renzi, che l’imprenditore marchigiano aveva seguito con attenzione sin dai suoi primi passi da sindaco, ha generato comunque sensazione.

Marchionne e Della Valle oltre ad essere due esponenti di primo piano dell’industria italiana ne rappresentano anche la parte che più si confronta con la concorrenza, che non vive di tariffe e riconoscimenti governativi e quindi è più libera ed esplicita nella formulazione dei giudizi. Pro o contro che siano. Ma quale orientamento prenderà Giorgio Squinzi che gli imprenditori li rappresenta tutti, quelli globali e quelli non, e che aveva contribuito a dare una spallata al governo Letta? Il presidente della Confindustria ha parlato anche lui a Rimini, appena 24 ore prima di Marchionne: non ha mai citato Renzi e il suo governo ma ha usato parole dure come pietre. Con riferimento alla sostenibilità del welfare ha scandito che «il nostro Paese ha tenuto finora un tenore di vita che non si può più permettere». Ha chiesto poi «provvedimenti straordinari a costo dell’impopolarità» ma soprattutto ha fatto capire che a questo punto si aspetta che l’esecutivo espliciti un disegno strategico, delinei un orizzonte per il Paese e non viva alla giornata. Squinzi parlerà anche stasera alla Festa nazionale dell’Unità a Bologna, da ospite sarà molto attento a calibrare le critiche verso i padroni di casa ma un giudizio netto sullo sblocca Italia probabilmente lo emetterà e sarà drastico: alla fine non c’è un euro in più di investimento pubblico.

Se questo è il catalogo delle disillusioni imprenditoriali e delle critiche (di merito) confindustriali, in attesa delle decisioni di Andrea Guerra in uscita da Luxottica, sono due i capi-azienda che sembrano conservare intatta la loro stima verso Renzi. Il primo è Oscar Farinetti di Eataly secondo il quale il governo «ha fatto 3-4 mosse giuste» e anzi a questo punto dovrebbe dare altre «due bastonate» imponendo, ad esempio, un tetto massimo di 3 mila euro alle pensioni. L’altro è Pier Silvio Berlusconi, che prima dell’estate aveva esplicitamente dichiarato di tifare per Renzi e nei giorni scorsi, con il conforto di Fedele Confalonieri e Ennio Doris, ha ribadito a papà Silvio la sua assoluta fiducia nell’inquilino di Palazzo Chigi.

L’economia criminale vale 170 miliardi e non sente la crisi

L’economia criminale vale 170 miliardi e non sente la crisi

Gabriele Dossena – Corriere della Sera

C’è anche un’economia che non va mai in crisi. Anzi, è in continua crescita. Solo negli ultimi cinque anni ha fatto registrare un’impennata del 212%. Tanto da far stimare – per difetto – un «giro d’affari» che ha raggiunto i 170 miliardi di euro l’anno. Questo il valore dell’economia criminale: una sorta di «Pil» malavitoso, che deriva da attività illegali, i cui proventi illeciti si riversano poi – come reinvestimento – nell’economia legale, con il risultato di inquinare e stravolgere il mercato.

L’escalation delle attività che fanno capo alle organizzazioni criminali, emerge dal crescente numero di segnalazioni che sono pervenute all’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia. Si tratta in pratica di tutte quelle operazioni sospette «denunciate» alla Uif da parte di intermediari finanziari: da banche nell’80% dei casi, ma anche uffici postali, società finanziarie o compagnie di assicurazione.

Se nel 2009 le segnalazioni pervenute all’istituto di via Nazionale sono state 20.660, lo scorso anno si è registrato un exploit a 64.415 (anche se la punta record è stata raggiunta nel 2012, con 66.855 segnalazioni). L’ufficio studi della Cgia di Mestre ha rielaborato a livello regionale il numero delle segnalazioni di riciclaggio avvenute nel 2013: la Lombardia risulta la regione più colpita (11.575), seguita da Lazio (9.188), Campania (7.174), Veneto (4.959) ed Emilia Romagna (4.947). Quasi il 60% delle segnalazioni di attività criminali registrate a livello nazionale è concentrata in queste cinque regioni.

Va comunque precisato che i dati prodotti dalla Uif non includono i reati violenti, come furti, rapine, usura ed estorsioni, ma solo le transazioni illecite concordate tra il venditore e l’acquirente, come il contrabbando, traffico d’armi, smaltimento illegale di rifiuti, gioco d’azzardo, ricettazione, prostituzione e traffico di stupefacenti. Solo una parte, quindi. Che però vale, da sola, 170 miliardi di euro l’anno. E che è pari al Pil di una regione come il Lazio.

A passettini sparsi

A passettini sparsi

Dario Di Vico – Corriere della Sera

La gradualità ha dunque preso il sopravvento sulla velocità fine a se stessa. Con la parola d’ordine del «passo dopo passo» il premier Renzi sembra aver preso atto, almeno a livello di comunicazione, che nell’azione di governo c’è bisogno di meno foga e più raziocinio. Da sprinter di valore intermedio il presidente si candida ora a diventare un buon mezzofondista. Confidiamo, di conseguenza, che da oggi in poi i provvedimenti siano ben scritti, che i decreti attuativi seguano per tempo e che l’implementazione delle norme non resti impigliata nelle trappole tese, più o meno ad arte, dalla burocrazia.

Peccato però che questa svolta all’insegna del buon senso si sia confusa ieri con un piccolo show di cui avremmo fatto volentieri a meno. Il presidente del Consiglio che gusta polemicamente un gelato nel cortile di Palazzo Chigi per replicare a una pessima copertina dell’Economist non è certo un’immagine destinata ad aiutare la nostra credibilità internazionale, si presenta invece come una scelta assai discutibile di marketing politico. Onestamente non ci viene in mente un altro grande leader europeo in carica che avrebbe dato vita alla stessa performance. Quantomeno qualcuno a lui vicino avrebbe avuto il fegato per fermarlo in tempo.

Guardando alla sostanza delle scelte del Consiglio dei ministri di ieri si può dire che dalla riunione è uscito un film ricco di abbondante trama e di altrettanti annunci. Insieme al tema della giustizia il nocciolo è rappresentato dal provvedimento sblocca Italia che, pur sceso dai 43 miliardi sbandierati fino a qualche giorno fa a numeri più realistici, si compone di almeno tre parti. La prima è un elenco di opere pubbliche che a detta di Renzi e del ministro competente Maurizio Lupi saranno rese cantierabili entro il 2015, la seconda è uno scambio (che farà discutere a Roma come a Bruxelles) tra il governo e le società autostradali che si impegnano a investire e incassano la proroga delle concessioni, la terza – infine – è la tranche autenticamente liberale che promette di semplificare le ristrutturazioni degli appartamenti e abbassa il tetto per le defiscalizzazioni delle piccole opere.

Rinviata in extremis, invece, l’idea di incentivare fiscalmente l’affitto delle abitazioni. Le tre parti, a un primo esame e in base alle cose che sappiamo finora, non appaiono però in equilibrio tra loro, i passettini prevalgono sui passi. Ed è la lunga lista delle infrastrutture da realizzare ad avere nettamente la meglio con qualche scelta che ha del sorprendente, come l’alta velocità/alta capacità sulla tratta ferroviaria Palermo-Messina-Catania. Una priorità che darà adito ai maliziosi di formulare un cattivo pensiero: quello di un premier che coltiva segretamente l’ipotesi di andare nel 2015 a elezioni anticipate. Senza però volersi lanciare nelle previsioni sull’esito della legislatura e solo attenendosi agli annunci, lo step successivo consisterà nel verificare opera per opera le ipotesi di copertura e i meccanismi di finanziamento di lavori che, giova ricordarlo, interessano alla fine almeno una dozzina di Regioni. Già in passato altri governi avevano giocato con gli annunci del varo di grandi opere spostando e mescolando impegni già presi con pure intenzioni, vecchie risorse con nuovi piccoli stanziamenti. È uno di quei famosi casi in cui il diavolo ha da sempre la capacità di nascondersi nei dettagli.

Dove Matteo Renzi sembra essersi arreso, almeno in questa fase, è il disboscamento della giungla delle municipalizzate. Dopo tante parole spese nelle settimane e nei giorni precedenti, il decisionismo del presidente del Consiglio si è fermato davanti alle remore dei sindaci e così il socialismo municipale italiano è riuscito ancora una volta a evitare la rottamazione. Per una misura che alla fine è mancata all’appello ne va segnalata un’altra che invece è sicuramente positiva e riguarda la ratifica del piano straordinario per accrescere il numero delle aziende italiane che esportano con continuità, predisposto da tempo dal viceministro Carlo Calenda. In materia di competitività delle imprese, Renzi ha riproposto anche ieri nella conferenza stampa l’idea che ha maturato sull’evoluzione del costo del lavoro nella manifattura. Per difendere la scelta – peraltro giusta – di mettere 80 euro in più in busta paga, il premier, fresco dell’incontro con il leader della Fiom Maurizio Landini, ha sostenuto che l’Italia deve puntare sull’industria di qualità e sugli alti salari. In linea di principio niente da obiettare solo che se si vuole difendere l’occupazione sarà forse meglio adottare come Paese una strategia più articolata. Perché ci sono settori e aziende sicuramente in grado di creare una quota significativa di valore aggiunto e di ridistribuirlo ai propri dipendenti – come ha fatto di recente la Ferrero – ma ci sono anche settori labour intensive come elettrodomestici e auto nei quali la competizione internazionale si gioca anche sui costi della manodopera. Ignorarlo vuol dire rassegnarsi presto o tardi a veder emigrare questo tipo di lavorazioni oppure a sussidiarle con vagonate di cassa integrazione e provvedimenti ad hoc di decontribuzione. È bene saperlo.

La cessione di Eni-Enel e i paletti antiscalata

La cessione di Eni-Enel e i paletti antiscalata

Andrea Ducci – Corriere della Sera

Vendere, incassare circa 5 miliardi di euro e mantenere la presa pubblica sul controllo delle società di Smto. La cessione di un consistente pacchetto di azioni di Eni (il 4,34%) ed Enel (il 5%) da parte del ministero dell’Economia, al di là dell’immagine di un Paese che fa cassa vendendo un pezzo dei gioielli della corona, non espone le due aziende a rischi di scalate. La privatizzazione a cui sta lavorando il ministero di via XX Settembre prefigura, del resto, la discesa da parte dell’azionista pubblico al di sotto della fatidica soglia del 30% del capitale, ossia la quota azionaria che preclude la possibilità di rastrellamenti ostili e forestieri per conquistarne il controllo. A meno che non sia lanciata una cosiddetta offerta pubblica di acquisto (Opa). Regola che tuttavia non vale per Eni ed Enel, poiché gli statuti delle due società contengono una clausola di garanzia a tutela dell’azionista pubblico. 

Una misura, insomma, che ne blinda il controllo. A prevederla è una legge del 1994, predisposta alla vigilia delle grandi privatizzazioni di Stato. Il dispositivo è semplice e stabilisce che i titolari di quote azionarie esercitano il loro diritto di voto fino al 3% del capitale posseduto. In pratica ogni azione eccedente la soglia del 3% viene «sterilizzata» e non consente di esercitare votazioni in assemblea. Il limite può essere aggirato modificando lo statuto con una delibera assembleare che rappresenti almeno il 75% del capitale Un obiettivo che però resta un miraggio se il ministero dell’Economia mantiene una quota superiore al 25%. 

Un’operazione di privatizzazione in corso prevede che i pacchetti Eni ed Enel in mano allo Stato siano venduti entro l’autunno. E una volta avvenuta la cessione ai fondi istituzionali, vale ricordare che al ministero resterà una quota del 26,24% di Enel e del 25,76% di Eni (detenuto attraverso Cassa Depositi e Prestiti). In queste ore, agli osservatori più critici e alle speculazioni politiche che lamentano l’ennesimo arretramento in asset strategici per il sistema Paese, è stato fatto osservare che per Eni esiste un’ulteriore clausola di salvaguardia degli interessi nazionali. Si tratta dei golden power inseriti al secondo comma dell’articolo 6 dello statuto. In sintesi, grazie a una legge del 2003 al ministero dell’Economia e al ministero dello Sviluppo economico sono riservati alcuni «poteri speciali», a presidio e tutela di Eni. In tutto sono quattro i golden power e permettono allo Stato di opporsi sia all’assunzione di pacchetti rilevanti sia alla formazione di patti o accordi che raccolgano oltre il 3% del capitale. Il terzo potere riservato all’azionista pubblico è il veto a delibere di scioglimento, trasferimento della sede all’estero, fusione e scissione. L’ultimo grimaldello antiscalata è rappresentato dalla nomina di un amministratore senza diritto di voto all’interno del board. 

Gli statuti di Eni ed Enel non hanno finora adottato l’ulteriore facoltà del voto plurimo. Il meccanismo cioè che prevede di maggiorare il diritto di voto, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione detenuta. L’introduzione del voto plurimo, sovvertendo il principio anglosassone del one share one vote, consente a un azionista di valere in sede di votazione più del capitale effettivamente detenuto. In soldoni con il voto plurimo lo Stato potrebbe controllare poco più del 25% dei voti possedendo una quota di capitale del 12,5%. Tradotto significa che potrebbe riservarsi di vendere un’altra bella fetta di Eni, Enel, Finmeccanica, ma pure delle quotande Poste, Enav e Sace senza mollare la presa.

Quattro mosse per una politica industriale

Quattro mosse per una politica industriale

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Il tormentone d’agosto su stime di crescita infinitesime – + 0,10 -0,1 per cento di Prodotto interno lordo? – , in un Paese con un debito pubblico superiore al 130% del reddito nazionale, può andare bene per un tweet, ma non è una cosa seria. A meno che non si voglia ragionare di politica industriale. Ma parlare di industria in Italia è al tempo stesso una necessità e un paradosso. Una necessità, perché la nostra economia trova ancora nella manifattura la sua principale ragion d’essere, non essendo stata in grado di competere sui piani della finanza e dei servizi a elevato valore aggiunto. Un paradosso, perché continuiamo ad inseguire un campionato già perso, invece di prepararci a una competizione completamente nuova. 

La politica industriale è il frutto della collaborazione tra istituzioni e grandi imprese capaci di influenzare standard di produzione e concorrenza internazionale. È sempre stato così. La storia dell’industria ha proceduto per paradigmi tecnologici: la macchina a vapore, il motore a scoppio, l’elettricità, la petrolchimica. E l’Italia, sia pure con qualche affanno, questi paradigmi li ha agganciati tutti. Nel solo 1918 vennero prodotti 6.523 aerei e 14.820 motori; negli Anni 60 l’Olivetti sviluppò e costruì nel Canavese i grandi calcolatori elettronici, i mainframe. L’invenzione del polipropilene – con il premio Nobel a Giulio Natta – fu il prodotto del lavoro della Montecatini. Sarebbe un lungo elenco. 

Cos’è successo da allora? Semplice: il paradigma tecnologico è cambiato – si è affermato quello della microelettronica e delle telecomunicazioni – , ma il nostro sistema industriale non è stato in grado di catturarlo. Al di là di altre spiegazioni, molte certamente corrette, originano da qui il ritardo e il declino strutturali della manifattura italiana. Ed ecco il paradosso: il ritardo non è, di fatto, colmabile. La politica industriale non può più dare molto in questo senso e non è nemmeno detto che sia sensato sprecare risorse per provarci. La corsa della tecnologia è troppo veloce per chi non si è mosso dall’inizio, e le grandi imprese italiane che (forse) potrebbero ancora farcela sono ormai troppo poche e isolate a livello internazionale. Il tempo è andato, gli asset adeguati pure.

Tutto perduto dunque? Niente affatto. Ma ci vuole il coraggio di fare quattro cose. Non sono molte, ma vanno fatte bene, con convinzione e continuità. La prima. Identificare quali settori potranno contribuire allo sviluppo del Paese (non crescita, ma sviluppo: che è molto di più!) e sostenerli, anche finanziariamente, nei loro processi di modernizzazione ed internazionalizzazione. Serve riconoscere che non tutte le industrie sono meritevoli di essere supportate alla stessa maniera, specie quando le risorse pubbliche sono scarse. Sarà la concorrenza a decidere la loro sorte. La seconda: definire il livello desiderato di competizione per i settori ritenuti cruciali, non lasciando in questi casi tutto il potere al mercato. Perché non sempre più concorrenza significa maggiore competitività e quindi efficienza: specialmente in industrie ad alta intensità di capitale dove contano la dimensione globale e il presidio della domanda interna. La terza: puntare sul paradigma tecnologico di domani, non su quello che domina l’oggi, investendo – e facendo investire le imprese – massicciamente negli enti che sviluppano adesso la tecnologia che sarà industria domani. Ce ne sono tanti e di valore in italia: l’Istituto italiano di tecnologia, i Politecnici, la Normale di Pisa… La quarta: spingere realmente le imprese medie a integrarsi tra loro e a capitalizzarsi, utilizzando le leve fiscali disponibili (c’è l’imbarazzo della scelta!) tanto importante e strutturale è l’obiettivo. Solo con dimensioni accresciute e un solido patrimonio tecnologico le imprese italiane riusciranno a diventare «strumenti attivi» di politica industriale, con obiettivi ambiziosi e raggiungibili.

Bisogna, infine, avere il coraggio di costruire una politica industriale nazionale. Non possiamo attenderci nulla dall’Europa, la struttura delle cui imprese viene organizzata dai «grandi gruppi dei vari Paesi spalleggiati vigorosamente dai propri governi», come metteva in guardia Marcello De Cecco già nel 1988… Loro lo hanno fatto e continuano a farlo ogni giorno. Noi no. Non nascondiamoci in modo ipocrita dietro il concetto – pericolosissimo per l’Italia – della politica industriale europea. Difendiamo ciò che abbiamo, d’accordo, ma smettiamo di inseguire i decimali e prepariamo il futuro: se investiremo su uno sviluppo di medio periodo solido e sostenibile pagheremo il debito con i nostri nonni e i nostri nipoti ci ringrazieranno.