Corriere della Sera

Il sospetto ricorrente

Il sospetto ricorrente

Sergio Romano – Corriere della Sera

Fra i dati sull’Italia, elaborati periodicamente dall’Istat e da Eurostat, manca quello sulla fiducia. Se esistesse, scopriremmo che i nostri partner, indipendentemente dalle pubbliche dichiarazioni dei loro governi e dai comunicati ufficiali alla fine di un incontro bilaterale, non credono nel nostro Paese. Alcune ragioni sono storiche: le guerre fatte a metà, i cambiamenti di campo, il continuo divario fra il Nord e il Sud, gli impegni non rispettati, il familismo amorale, la giungla burocratica, la democrazia clientelare, il peso della criminalità organizzata sulla vita politica e sociale. Altre sono più recenti e più importanti. Come tutti i membri dell’Unione europea, l’Italia è passata attraverso le crisi della modernità, da quella sociale e generazionale del ’68 a quella delle nuove tecnologie, dal ritorno ai mercati dopo il declino dello Stato assistenziale negli anni Ottanta alla crisi del credito nel primo decennio del nuovo secolo.

Gli italiani, a tutta prima, sembrano consapevoli della necessità di cambiare, ma il loro sistema politico, a differenza di quelli dei partner maggiori, ritarda i mutamenti o finisce per annegarli in un diluvio di norme insufficienti e contraddittorie. Le Commissioni bicamerali per una nuova Costituzione muoiono senza avere prodotto alcun risultato. Berlusconi fa promesse che non verranno mantenute. Ogni riforma, da quella del lavoro a quella della giustizia, trova sulla sua strada un partito della contro-riforma, composto da corporazioni che difendono i loro privilegi chiamandoli ampollosamente «diritti acquisiti». Le leggi, quando vengono approvate, sono redatte in modo da produrre risultati parziali e mediocri. Da Tangentopoli a oggi sono passati ventidue anni: una generazione perduta.

Vi sono momenti in cui i nostri partner sarebbero felici di credere nell’Italia. Mario Monti è stato accolto entusiasticamente. Enrico Letta, agli inizi del suo governo, godeva di molte simpatie e di grande comprensione. Ma la rapidità con cui entrambi sono stati espulsi dal sistema politico trasforma il credito iniziale in nuovo pessimismo e in più radicale sfiducia. Matteo Renzi ha acceso qualche nuova speranza, ma il modo in cui saltella da un annuncio all’altro e sembra essere continuamente alla ricerca di un nuovo obiettivo, a maggiore portata di mano, comincia a creare diffidenza e scetticismo anche negli ambienti che lo avevano salutato come il Tony Blair italiano.

Niente è irreparabile. In un libro recente, apparso in Italia presso il Mulino e in Inghilterra presso la Oxford University Press, un economista, Gianni Toniolo, dimostra che l’Italia è quasi costantemente cresciuta dagli anni Novanta dell?Ottocento agli anni Novanta del Novecento. Ma non si cresce, nel mondo d’oggi, senza la fiducia dei mercati internazionali e i capitali degli investitori stranieri. E non si crea fiducia se il governo non riesce a sconfiggere con qualche cambiamento reale e immediatamente visibile, quei partiti della contro-riforma che sono da troppo tempo i veri padroni dell’Italia.  

Per gli orari dei negozi la marcia indietro sulla liberalizzazione

Per gli orari dei negozi la marcia indietro sulla liberalizzazione

Corriere della Sera

Negozi chiusi nei giorni di festa. Due anni e mezzo fa il Salva Italia del governo Monti ha cancellato in un sol colpo tutte le chiusure obbligatorie. Oggi si va verso una retromarcia. Più rapida del previsto. Già la settimana prossima il disegno di legge che reintroduce 12 festività con le saracinesche abbassate arriverà alla commissione Attività produttive della Camera. L’obiettivo è portare il testo in aula entro i primi di ottobre

Ad agosto sono stati depositati oltre 150 emendamenti «Ma una base di condivisione della proposta esiste. Certo, con alcune correzioni», assicura il relatore del disegno di legge, Angelo Senaldi, Pd. Sul piano politico l’obiettivo è di quelli ambiziosi: tenere insieme i partiti della maggioranza con il M5S. Non sarà facile. Il movimento di Beppe Grillo è favorevole al ripristino delle chiusure. Mentre nella maggioranza Scelta Civica difende a oltranza la liberalizzazione. Da notare che nel Pd (e anche in Forza Italia) esistono posizioni spesso opposte. «Faremo passi sia interni al Pd sia nella maggioranza e con il govemo per arrivare a una sintesi condivisa», prepara il terreno Senaldi.

Nel Pd la maggioranza renziana si è sempre detta favorevole alle liberalizzazioni. Ma le associazioni del piccolo commercio hanno argomenti convincenti, anche sul piano del consenso. Intanto la distribuzione organizzata promette battaglia. «Con questa controriforma non si tutelano gli imprenditori deboli,come dice qualcuno, ma quelli marginali – attacca Mario Resca, presidente di Confimprese -. I partiti si prestano al gioco delle lobby corporative. Proprio mentre una nuova classe di imprenditori giovani sta cambiando il commercio». Dal canto suo Federdistribuzione fa notare che 13 pronunce della Corte costituzionale hanno ribadito la legittimità delle liberalizzazioni. Secondo l’associazione, con le 12 giornate di chiusura obbligatoria si perderebbero 7-8.000 posti di lavoro. «Ora il problema è politico. Non esiste una giustificazione economica a una marcia indietro sul Salva Italia – analizza Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione -. Assurdo sarebbe che a seguire questa strada fosse un governo che ha fatto della semplificazione la sua bandiera».

La burocrazia costa alle imprese 30 miliardi l’anno

La burocrazia costa alle imprese 30 miliardi l’anno

Luigi Offeddu – Corriere della Sera

Qui non ci sono grandi misteri: se in Finlandia il 5% delle imprese ha difficoltà nell’ottenere il credito delle banche, se in Germania la percentuale sale al 10%, e se in Italia raddoppia e più toccando il 25%, chi avrà più difficoltà a stare sul mercato? Oppure: se un piccolo o medio imprenditore impegna 269 ore in un anno a mettere insieme la sua cartella delle tasse, a verificarla, e poi a pagarla, sarà o più o meno competitivo di uno che di ore ne impiega la metà, o un terzo? Domanda oziosa. E risposta scontata. Una delle tante risposte, raccolte dagli esperti della Commissione Europea, che spiegano il crollo della produttività italiana: è italiano, infatti, il primo imprenditore preso in esame, e le tasse divorano il 65,8% dei suoi profitti totali; ben più del 41,3% certificato in media per gli altri Paesi europei, dall’organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo.

Ogni anno, dopo l’estate, la Commissione presenta un paio di rapporti sulla competitività dei vari Paesi Ue. Quest’anno li ha illustrati Ferdinando Nelli Feroci, il commissario italiano all’industria e imprenditoria, e da quei numeri è emerso come i segni di una ripresa, per quanto fragile, continuino a manifestarsi qua e là. Ma dietro, ci sono le ombre della recessione. Dal 2007 al 2012 l’industria tedesca ha creato 50mila posti in più, mentre la Francia ne ha perso 350mila e l’Italia circa 550 mila. La nostra potenza manifatturiera è scesa in media del 15% rispetto alla situazione di prima della crisi ,anzi il declino è arrivato al 20% in almeno 14 settori su 22: una slavina. La produzione automobilistica ha battuto anche le peggiori previsioni: meno 40%. Ma del resto, il panorama è ugualmente nero in tutta l’Europa: 3,5 milioni i posti di lavoro persi in tutto nel manifatturiero. E per tornare all’Italia, chi ha provato ad affrontare la crisi chiedendo aiuto là dov’era più logico chiederlo, cioè negli istituti di credito, ha picchiato il naso sul tronco di una quercia: in media, per i nuovi prestiti, sempre secondo i dati della Commissione Europea, i tassi italiani si aggirerebbero intorno al 3,6%, circa 150 punti in più di quanto venga chiesto agli sportelli delle banche tedesche e francesi. 

Per quanto riguarda le «pagelle» compilate sull’efficienza dei governi, la Finlandia è salita da una quota indicativa 1,9 (nel 2008) a quota 2,3 (2013); l’Italia da 0,2 a 0,4, ma a tutt’oggi prevale soltanto sulla Grecia, la Bulgaria, la Romania. In compenso, pesano le formalità burocratiche imposte dallo Stato alle piccole e medie imprese: 30,9 miliardi in un anno. Nelle tabelle di Bruxelles, con i dati forniti dal governo italiano, vi sono anche squarci consolanti, come quelli che calcolano in pochi giorni il tempo necessario per avviare un’azienda; ma sono dati «benauguranti», cioè proiettati sulle raffiche di riforme appena fatte o annunciate, e in attesa della verifica del tempo.  

Promesse finite, il tempo scade

Promesse finite, il tempo scade

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Matteo Renzi ha avuto una buona intuizione convocando un Consiglio europeo dedicato alla crescita nella prima settimana di ottobre, alla vigilia della presentazione delle leggi di Stabilità da parte dei Paesi della Ue. In questo modo quelle leggi verranno valutate dalla Commissione europea – che deve esprimere un giudizio su ciascuna di esse – alla luce delle indicazioni che emergeranno in quella riunione. Il bollettino mensile della Banca centrale europea (Bce), diffuso ieri, sottolinea che in Italia la mancata crescita potrebbe essere, quest’anno, peggiore del previsto. Abbiamo più volte suggerito – non solo noi in realtà, ad esempio anche Guido Tabellini su Il Sole 24Ore – che per far riprendere lo sviluppo nei Paesi dell’euro sarebbe necessario un taglio delle imposte coordinato fra tutte le nazioni e finanziato tramite acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Programmi di investimenti pubblici – come i 300 miliardi di spese in infrastrutture proposti dal nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker – possono aiutare nel medio periodo ma, dati i tempi necessari per avviare questi progetti, servono a poco nell’immediato. Per far ripartire in tempi brevi la domanda c’è un solo modo: ridurre permanentemente la pressione fiscale.

È però difficile che nel Consiglio di ottobre si trovi un accordo per una politica coordinata di riduzione delle imposte. La Bce, dal canto suo, nelle scorse settimane ha fatto tutto ciò che poteva senza violare il suo statuto e senza perdere la fiducia dei Paesi del Nord. Il risultato di quelle misure è stato un significativo deprezzamento dell’euro sul dollaro (da oltre 1,39 in primavera a meno di 1,29 oggi) che aiuterà le esportazioni. È difficile aspettarsi di più dalla politica monetaria. Ora tocca ai governi agire. Con il medesimo senso di urgenza che ha guidato le decisioni della Bce. Ma se non si troverà un accordo per un’azione coordinata, ciascun Paese dovrà agire da solo.

Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai? Il presidente del Consiglio ha spiegato che le riforme vanno fatte bene, senza fretta. Ha detto che saranno necessari mille giorni per rilanciare l’Italia. Ha ragione, ma solo in parte. È vero che alcune riforme, come quella del sistema fiscale, della giustizia e della pubblica amministrazione, richiedono tempo. Ma su altre scelte che il governo è chiamato a fare, Renzi non ha né mille, né cento giorni: ha tre settimane, da oggi al Consiglio di ottobre. Non ci si può illudere che senza interventi concreti miracolosamente si riavvii la crescita.

Al Consiglio europeo – a maggior ragione avendolo convocato lui – Renzi deve arrivare avendo fatto tre cose. Primo, una riduzione aggressiva delle imposte: da un lato aumentando e rendendo permanenti gli 80 euro di maggio, ed estendendo la platea di cittadini che ne beneficiano; dall’altro, riducendo le tasse sul lavoro. Un complessivo taglio della pressione fiscale pari a circa 30 miliardi. Secondo, tagli di spesa per la medesima cifra, alcuni da attuare contestualmente alla riduzione delle tasse (10 miliardi), il resto nei 2-3 anni a seguire. Nell’arco di un triennio la riduzione del carico fiscale sarà così interamente finanziata. Ridurre da subito le spese di 10 miliardi non è impossibile: si può iniziare dalle proposte del commissario Carlo Cottarelli. È un piano che porterebbe il nostro deficit oltre la soglia del 3% per un triennio. Non saremmo soli. Francia e Spagna sono già oltre quel limite: sopra il 4 la Francia, 5 la Spagna. Ma se facessimo solo questo, sfondando il limite del 3% senza fare altro, non solo saremmo soggetti alle sanzioni di Bruxelles, rischieremmo di allarmare i mercati e far ripartire lo spread. È necessario un terzo passo che dimostri come la flessibilità che chiediamo non è un modo, l’ennesimo, per evitare di fare riforme da troppo tempo già rinviate.

Il capitolo da affrontare è il mercato del lavoro, perché è una delle riforme più importanti, ma anche perché è sostanzialmente pronta e serve solo la volontà politica di andare avanti. Il via libera del Parlamento alla legge-delega sul lavoro (verrà votata in commissione al Senato la settimana prossima) deve però accompagnarsi, entro l’inizio di ottobre, al varo di alcuni decreti che, disegnando le nuove norme, in primis quelle che introdurranno il «contratto unico a tutele crescenti», spieghino in che modo il governo intenda attuare la delega.

Una simile strategia – riforme accompagnate da un temporaneo periodo di maggior flessibilità – ha un precedente illustre. Nel 2003, quando era la Germania «il malato d’Europa», il cancelliere tedesco Gerhard Schröder introdusse importanti riforme nel mercato del lavoro (le celebri norme Hartz) e allo stesso tempo chiese di poter superare per qualche anno il limite del 3% nel rapporto deficit-Pil. Fu l’inizio della riscossa tedesca. Il presidente del Consiglio e il governo devono avere ben chiaro che a preoccupare cittadini, imprese e investitori è oggi soprattutto la mancata crescita, che è il motivo per cui il nostro rapporto debito-Pil continua a salire. Gli operatori internazionali detengono circa un terzo del nostro debito pubblico. Per continuare a farlo si aspettano un segnale forte sullo sviluppo. E loro, come il Paese, se lo aspettano subito.  

Per estendere il bonus e ridurre l’Irap servirebbero oltre 6 miliardi di fondi

Per estendere il bonus e ridurre l’Irap servirebbero oltre 6 miliardi di fondi

Enrico Marro – Corriere della Sera

Allargare la platea dei beneficiari del bonus da 80 euro al mese agli «incapienti» costerebbe quasi 4 miliardi. Gli incapienti, cioè coloro che hanno un reddito annuo inferiore a 8 mila euro e che ora sono esclusi dal bonus, sono infatti 4 milioni. Dare a tutti costoro (dipendenti, autonomi, pensionati) 960 euro l’anno significherebbe sborsare, appunto, 3 miliardi e 840 milioni. Aumentare il taglio dell’Irap a favore delle imprese, già ridotta quest’anno del 10%, costerebbe circa 2 miliardi e mezzo per ogni ulteriori 10 punti di riduzione del prelievo. Numeri importanti che giustificano la cautela del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha spiegato ieri in tv, a Porta a Porta, che spera di allargare la platea, ma ancora non è in grado di garantirlo. Del resto, il primo impegno, ribadito anche ieri sera, è quello di confermare il bonus per chi già ce l’ha, cioè i lavoratori dipendenti con un reddito tra 8 mila e 26 mila euro l’anno, circa 10 milioni di contribuenti. E solo per questo ci vogliono 10 miliardi di euro.

Ma vediamo perché costerebbe così tanto allargare la platea e perché, probabilmente, non ci sarà un’estensione meccanica degli 80 euro, bensì quel «segnale di attenzione» di cui aveva già parlato il governo in occasione del decreto sul bonus, lo scorso aprile. Allora, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, spiegò al Corriere che intervenire anche a favore degli incapienti sarebbe costato «almeno un miliardo in più». Ma l’ipotesi sulla quale si era ragionato prevedeva di dare qualcosa, ma non certo 80 euro, considerando, per esempio, che una parte di coloro che non arrivano a 8mila euro di redditi sono i poveri assistiti con la social card. Per questi ora il governo sta lavorando a un potenziamento del sussidio utilizzando i fondi europei. Delrio, che ha la delega in materia, insieme con Poletti sta studiando la messa a regime e il rafforzamento del Sia, il sostegno all’inclusione attiva avviato dal predecessore di Poletti, Enrico Giovannini, che prevede percorsi personalizzati di inserimento sociale e lavorativo su misura per le famiglie povere e un assegno che può arrivare fino a 400 euro. Sui poveri quindi il governo potrebbe intervenire potenziando questi strumenti.

Non a caso, parlando di un’eventuale estensione del bonus, Renzi si è riferito piuttosto ai pensionati e alle partite Iva. Ma anche qui i numeri sono importanti. I pensionati con un reddito previdenziale tra mille e duemila euro al mese, cioè che grossomodo potrebbero rientrare in una ipotetica estensione del bonus, sono circa 6 milioni e mezzo. Le partite Iva individuali sono 3 milioni e mezzo, con un reddito medio di circa 15 mila euro lordi, secondo una ricerca della Cgil. Anche in questo caso dare 80 euro al mese costerebbe troppo. Ecco perché l’ipotesi di allargamento del bonus che finora è sembrata più realistica è quella, allo studio dei tecnici del governo, che prevede un aumento delle soglie di reddito per le famiglie numerose con un solo stipendio. La soglia per ottenere gli 80 euro potrebbe salire da 26 mila a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. Una mini-estensione del bonus che costerebbe alle casse pubbliche non più di 200-300 milioni di euro l’anno. Fattibile. Così come appare possibile un nuovo sconto sull’Irap o comunque un taglio del carico fiscale per le imprese rimaste deluse dal mini taglio Irap di aprile.

Andare oltre diventa molto più difficile perché, come ha ammesso Renzi, quest’anno il prodotto interno lordo resterà intorno a zero. E per rispettare il tetto del deficit del 3% bisognerà fare i salti mortali, nonostante la rivalutazione dello stesso Pil che l’Istat ha in corso. Senza contare che il premier, ieri sera, ha aperto alla possibilità di rimuovere il blocco degli stipendi pubblici. Anche qui, però, più che a un rinnovo pieno dei contratti per 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici, che costerebbe 2,1 miliardi solo nel 2015, bisogna pensare a misure limitate (sblocco dei premi, incentivi alla produttività).

Non trattateci come sudditi

Non trattateci come sudditi

Angelo Panebianco – Corriere della Sera

È solo un paradosso apparente che i sondaggi mostrino il sostegno degli italiani per Matteo Renzi (raggiunge il 64 per cento dei consensi nel sondaggio di cui ha dato conto il Corriere domenica, e in nessun altra rilevazione scende sotto il 50), unito però a un diffuso scetticismo sulle misure del governo. Non c’è nulla di irrazionale. Anzi, il pubblico si mostra giudizioso. Si affida a Renzi perché lo riconosce come l’uomo forte del momento, colui che domina la politica e dice di sapere che cosa occorra fare per portarci fuori dai guai. In situazioni tribolate non è insensato affidarsi (provvisoriamente) all’uomo forte disponibile. Ma, al tempo stesso, gli italiani non si mostrano stupidi, non si fanno prendere in giro. Fino ad oggi il governo non è risultato molto convincente nella sua azione e i sondaggi lo registrano.

Proviamo a domandarci che cosa ci sia di poco convincente. Detto in modo enfatico e (non troppo) esagerato, di poco convincente c’è il fatto che non si è visto fin qui nessun provvedimento volto a restituire agli italiani i diritti di cittadinanza, nessun provvedimento che dia l’impressione di volerli trasformare da sudditi, quali per molti versi sono, in cittadini. Alcuni anni fa l’economista Nicola Rossi scrisse un bel libro (Sudditi , Istituto Bruno Leoni) che documentava il modo in cui politica e amministrazione avevano ridotto alla stato di sudditanza gli italiani, che pure, stando alla Costituzione, dovrebbero essere cittadini. Nel periodo intercorso non è cambiato nulla. E nemmeno Renzi finora ha fatto granché. Il caso della Tasi è esemplare. Come documentavano, sul Corriere di ieri, Fracaro e Saldutti, a meno di un mese dalla scadenza, più di 3.000 Comuni su 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota che dovrà essere versata. Una grande quantità di italiani continua ad ignorare quanto dovrà pagare. Il governo Renzi, sulla scia di Letta, ha ripetuto l’errore fatto a suo tempo dal governo Monti con l’Imu.

Ma perché mai dovrebbero ripartire i consumi se si impongono tasse e poi si lasciano passare mesi e mesi prima che i cittadini (pardon: i sudditi) possano conoscerne l’entità? Eppure sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato stabilire che le inefficienze dell’amministrazione sono a carico solo dell’amministrazione. Sarebbe bastato decidere che i Comuni avevano tempo, poniamo, fino al maggio 2014 per stabilire l’ammontare dell’aliquota. Dopo di che, avrebbero perso il diritto di esigere il pagamento della tassa.

Sbaglia chi crede che perché ci sia crescita economica occorra che la politica sia «amichevole verso il mercato». Occorre invece che sia amichevole verso i diritti di cittadinanza. L’orientamento pro-mercato ne è soltanto una conseguenza. Chi, ad esempio, oggi vuol fare impresa è sottoposto alla tagliola e al ricatto delle autorizzazioni che l’amministrazione rilascerà a suo comodo, quando vorrà. Anche qui basterebbe poco per ristabilire il diritto di cittadinanza: il silenzio-assenso. Se l’autorizzazione esplicita non arriva entro un termine preciso, si dà per acquisita. E i funzionari che non se ne sono occupati nel tempo previsto saranno civilmente e penalmente corresponsabili di eventuali abusi. Se il governo cominciasse ad «elargire» agli italiani diritti di cittadinanza avrebbe forse più successo di quello fin qui ottenuto con gli ottanta euro, riuscirebbe a fare ripartire l’economia. E forse i consensi di cui Renzi gode oggi nel Paese non risulterebbero effimeri, passeggeri.

Casa, tassati e maltrattati

Casa, tassati e maltrattati

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Benjamin Franklin, inventore del parafulmine e uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, considerava le tasse come una delle due cose inesorabili della vita. Da noi, quando si parla di tasse, c’è una terza cosa a cui sembra quasi impossibile sottrarsi: la complicazione per pagarle. I cittadini (non i sudditi, come spesso sono considerati) avrebbero sempre il diritto di sapere l’entità delle imposte da versare. E di conoscere questo dato in tempo sufficiente per poter programmare come distribuire i propri redditi tra i consumi, il risparmio, il rispetto dei doveri verso lo Stato e i Comuni.

Nel caso delle imposte sulla casa di questa pratica, che dovrebbe essere di ordinaria amministrazione in un Paese con rapporti equilibrati tra Fisco e cittadini-contribuenti, sembriamo essercene dimenticati. È successo per l’Imu nel 2012 e nel 2013. È successo per la Tasi – la tassa sui servizi comunali alla collettività nel suo insieme – nell’estate scorsa e sta succedendo anche adesso, alla vigilia dell’autunno. E se tre indizi fanno una prova come diceva Agatha Christie… A meno di un mese dalla scadenza, 3.100 Comuni su oltre 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota della nuova tassa dovuta dai proprietari immobiliari e, in qualche caso, dagli inquilini. La scadenza per decidere è fissata per domani, mentre la delibera comunale dovrà essere pubblicata sul sito del ministero delle Finanze entro il 18 settembre. Se la delibera viene pubblicata in tempo utile, la prima rata della Tasi andrà versata entro il 16 ottobre (e il saldo a dicembre). Se il Comune non fa in tempo, allora i cittadini interessati dovranno passare alla cassa direttamente a dicembre e pagheranno le aliquote standard e la Tasi in unica soluzione. Ma non è finita. Perché alcuni sindaci, virtuosi, avevano già chiuso la pratica Tasi a maggio e hanno già incassato la prima rata a giugno (a dicembre incamereranno la seconda). Insomma un ginepraio di regole e di scadenze che finisce per disorientare. Un’incertezza tributaria che frena i consumi e fa aumentare il risparmio improduttivo. Per non parlare, poi, della difficoltà di reperire, sul sito delle Finanze, l’aliquota Tasi, considerato il tono burocratico delle delibere. E la loro mole. Quella del Comune di Milano, relativa a tutte le tasse locali, è di 63 pagine.

Certo anche per i Comuni, alle prese con difficoltà di bilancio, non dev’essere stato facile impostare la politica fiscale, stabilire quali categorie esentare o quali detrazioni immaginare, ma i cittadini non si meritano di dover vivere in una simile Babele delle imposte in versione federal-comunale. Altro che bollettini precompilati, come promesso. Si è sempre sostenuto che, avvicinando le tasse e gli enti impositori ai cittadini, le cose sarebbero migliorate e la trasparenza complessiva sarebbe aumentata. Purtroppo non sembra sia andata così, almeno finora.

Complicato anche fare i confronti tra Tasi e Imu. E rispondere alla domanda che interessa tutti: pagherò di più? La sensazione è che la Tasi finirà per essere una tassa regressiva: inciderà, in proporzione, di più sugli immobili di minor valore e sulle famiglie con i redditi più bassi perché le detrazioni non sono paragonabili a quelle in vigore con l’Imu. La tassa regressiva, probabilmente, neanche l’eccelsa mente di Franklin sarebbe riuscito a inventarla.

Risparmiare è un bene, non può diventare il paracadute della paura

Risparmiare è un bene, non può diventare il paracadute della paura

Daniele Manca – Corriere Economia

L’Italia ha una grande fortuna. Si chiama risparmio. Per Kenneth Rogoff, uno dei maggiori studiosi al mondo di debiti sovrani, che lo raccontava al Corriere lo scorso sabato, è il motivo che rende più sopportabile e gestibile persino l’enorme indebitamento pubblico del Paese. Le famiglie non hanno perso la propensione a mettere da parte e a investire i propri soldi. E quando è accaduto, è stato solo perché la crisi o le tasse glielo hanno imposto. Ma anche in questi difficili momenti, l’atteggiamento non è cambiato.

Secondo Assogestioni nei primi sei mesi di quest’anno ai fondi sono arrivati circa 60 miliardi: la stessa cifra dell’intero 2013. Anche la consueta indagine della Coop sul consumi nota questa aumentata propensione al risparmio (per chi può permetterselo). Il segnale ha sicuramente un aspetto positivo che è quello di continuare a far affluire denaro (soprattutto attraverso una gestione professionale) al sistema economico. L’elemento che impensierisce è che questo risparmio contenga in sé la preoccupazione per il futuro. Che si tratti cioè di denaro accantonato per costituirsi delle riserve per fare fronte o a maggiori tasse o a maggiori spese dovute al cattivo stato dei conti pubblici. In poche parole un paracadute della paura.

Con le mosse e le dichiarazioni di Mario Draghi, presidente della Bce, c’è in Europa chi sta lavorando per rafforzare la ripresa fragile del Vecchio Continente. E allora da che cosa nascono queste preoccupazioni? Si sa che le aspettative di famiglie e imprese giocano un ruolo decisivo nell’andamento di un Paese. Se il quadro politico e incerto, se le riforme delle quali si parla stentano a decollare, se l’attività economica viene continuamente ostacolata e non agevolata, se crescita e sviluppo non sono la prima priorità, è difficile che le aspettative diventino positive.

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Probabilmente quello di ieri sarà ricordato come il discorso delle Isole Tonga per l’affermazione, paradossale ma non troppo, che è più facile fare impresa in Polinesia che in Italia. Sergio Marchionne dopo il meeting di Rimini ha voluto marcare la sua presenza anche a Cernobbio e ha fatto l’en plein. E non solo per la lunga ovazione che ha salutato la fine del suo intervento. Innanzitutto ha dato sostanza e adrenalina a un’edizione del workshop Ambrosetti che rischiava di passare agli annali esclusivamente per le polemiche a distanza con il premier Matteo Renzi e le rubinetterie bresciane. Poi l’amministratore delegato della Fiat Chrysler ha avuto anche la capacità di riportare al centro della riflessione di Villa d’Este l’economia reale, laddove nei giorni precedenti avevano dominato ancora una volta gli economisti-scenaristi e gli eurocrati di Bruxelles, entrambi restii ad appassionarsi di fabbriche e di tecnologie. Mancava la voce degli imprenditori e con Marchionne è finalmente arrivata, senza lesinare sui decibel. Per completare il quadro varrà la pena ricordare che in questo settembre 2014 si discuterà in Italia di riforma del lavoro, mezza Europa vigilerà sui tempi dell’approvazione parlamentare del Jobs act e Marchionne ha detto la sua. Ha invitato la politica a ripensare profondamente il rapporto tra Stato, lavoratore e imprese senza dover per forza importare questo o quel modello straniero ma tentando di costruire una via italiana alla flexicurity.



Per tentare di capire ancora meglio l’affondo di Marchionne può avere un senso ricordare come diversi imprenditori in questo periodo cerchino di attirare l’attenzione sui mutamenti dei cicli economici dopo la Grande crisi. Mi è capitato di leggere di recente un’intervista al capo-azienda di una delle nostre multinazionali tascabili che raccontava in maniera efficace di “aziende stressate, ordini che arrivano all’ultimo o che all’ultimo vengono cancellati, continue modifiche tecniche, nuovi mercati che esplodono all’improvviso costringendoci a rivedere le strategie”. È questo in sostanza l’ambiente economico in cui si andrà operare e quand’anche la ripresa sarà arrivata avrà comunque queste caratteristiche. I cicli lunghi ce li possiamo scordare e come ieri ha sintetizzato il ministro Federica Guidi, anche lei presente a Cernobbio: «Le aziende non hanno più un portafoglio ordini a sei mesi ma a sei giorni».

Ma ci sono oggi le condizioni per una riflessione di così ampia portata, come quella delineata da Marchionne? E il governo Renzi se ne farà davvero carico a costo di aprire un nuovo fronte polemico dentro il Pd e con la Cgil? Il top manager Fiat evidentemente pensa di sì, spiega che non bisogna privilegiare la difesa statica del singolo posto di lavoro ma la persona favorendone la mobilità sociale e la formazione perché – sia chiaro a tutti – «noi non vogliamo lavoratori usa-e-getta ma persone coinvolte». Tutti concetti che ricordano molto da vicino le eresie del giuslavorista Pietro Ichino, spesso sottovalutate dal mondo confindustriale. E non a caso l’amministratore delegato di Fiat Chrysler ha voluto ancora una volta ricordare come «pur di riconquistare una libertà di contrattazione» con i propri dipendenti l’azienda avesse deciso a suo tempo di uscire da Confindustria. Chiudendo Marchionne ha aggiunto che da sei anni le attività italiane sono in perdita e nonostante ciò non è stato chiuso nessuno stabilimento o licenziato nessuno e il motivo primo è che «siamo fondamentalmente italiani». Una frase che i suoi avversari non gli abboneranno facilmente. A cominciare da Roberto Maroni che ieri sull’italianità della Fiat è stato più caustico dei sindacalisti.