Corriere della Sera

I nostalgici del Novecento

Pierluigi Battista – Corriere della Sera

Ogni sterzata in senso riformista in Europa occidentale ha un prezzo: l’inasprirsi della guerra tra le due sinistre. Oggi è il turno della Francia e dell’Italia, le ultime trincee ideologiche di una sinistra immobilista e conservatrice che teme ogni cambiamento come una profanazione, se non un tradimento della propria identità, e nobilita ogni difesa corporativa con il richiamo rituale ai sacri princìpi violati dall’«usurpatore» di turno. I piloti dell’Air France che bloccano il Paese per protestare contro i piani di sviluppo della compagnia low cost controllata dal gruppo sono i cugini d’Oltralpe dei sacerdoti che si sentono chiamati alla missione di difendere il dogma dell’articolo 18: una clausola oramai sempre più sconosciuta nella realtà del lavoro, nell’orizzonte esistenziale dei giovani, dei lavoratori delle piccole imprese e del commercio, dei vecchi e nuovi precari, dei vecchi e nuovi disoccupati.

Le svolte riformiste comportano gravi prezzi di popolarità e di consenso. Tony Blair ingaggiò un’interminabile e spietata battaglia contro il potente ma oramai decrepito establishment del vecchio Labour e solo grazie a quella offensiva coraggiosa riuscì a sfidare con successo la lunga egemonia dei Tories thatcheriani. Nella Germania del 2003 l’allora leader socialdemocratico Gerhard Schröder fu molto baldanzoso ed esplicito nel presentare un progetto riformista sul mercato del lavoro: «Ridurremo le prestazioni sociali dello Stato, promuoveremo la responsabilità individuale ed esigeremo un maggior contributo da parte di ciascuno». Fu una ricetta dolorosissima per la sinistra tedesca, che si spaccò, erodendo la base dei Socialdemocratici, pagò un duro prezzo elettorale ma contribuì alle riforme di cui la Germania aveva bisogno e che oggi fanno la differenza con tante nazioni dell’Europa mediterranea e latina. Oggi è la volta della Francia e dell’Italia, la culla della sinistra «latina», fortemente segnata dalle sue tradizioni politiche e sindacali, arroccata nelle sue fortezze ideologiche. E anche qui la guerra tra le due sinistre si annuncia feroce e cruenta.

Alla Francia di Hollande non basta certo la testa dei tre ministri del governo Valls, e in particolare di quella del ministro dell’Economia Montebourg sostituito dal neoministro Macron, socialista certo ma con un passato di banchiere. Già con Mitterrand, il massimalismo ideologico della sinistra francese subì fortissimi colpi. Nel primo mitterrandismo la sinistra socialista pagò il prezzo della sua alleanza con il Pcf, ma quella fase si chiuse, con una rottura e una guerra tra le due sinistre che si esaurì provvisoriamente con la disfatta di quella più vecchia e conservatrice. In Italia la bandiera di un riformismo capace di sfidare i tabù e i veti di un sindacato impermeabile alle innovazioni più radicali nel mondo del lavoro venne dapprima impugnata da Massimo D’Alema: ma il braccio di ferro fu vigorosamente vinto dalla Cgil di Sergio Cofferati, che qualche anno dopo, riempiendo le piazze e trascinando l’intera sinistra politica di allora, sconfisse anche il tentativo di Berlusconi di modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Oggi Francia e Italia sono nuovamente di fronte a una biforcazione fatale: mettersi in gioco fino a sfidare tabù consolidati e apparentemente invincibili, oppure ripiegare su un minimalismo di compromesso che forse potrebbe salvare «l’anima» della sinistra antica ma farebbe fallire per l’ennesima volta l’ambizione di una sinistra moderna e non più prigioniera dei suoi schemi.

Il semaforo ideologico

Il semaforo ideologico

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Le riforme vanno fatte osservando i problemi concreti della società e non i semafori delle ideologie. E in politica chi strilla di più non merita necessariamente di ricevere maggiore attenzione. Queste celebri affermazioni di Tony Blair forniscono un’utile bussola per valutare ciò che sta accadendo in Italia sul fronte del lavoro. Giovedì scorso il Senato ha approvato in Commissione il disegno di legge delega noto come Jobs act . Gli obiettivi sono molteplici e ambiziosi: estensione e rafforzamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche per l’impiego, misure per l’occupazione femminile e la conciliazione vita-lavoro, semplificazioni di norme e adempimenti, anche al fine di attirare investimenti esteri. Il testo contiene inoltre una delega al governo per introdurre un nuovo «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» che superi l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Su quest’ultimo punto si è scatenata l’opposizione dei sindacati, Cgil in testa, e di una parte del Pd. In base a un riflesso quasi automatico, il semaforo ideologico della vecchia sinistra ha subito acceso la luce rossa. L’idea di ricalibrare le tutele per i nuovi assunti (senza toccare, si badi bene, i contratti in essere) è stata bollata come un inaccettabile attacco ai diritti fondamentali e alla stessa dignità dei lavoratori. I sistemi europei che non prevedono il reintegro in caso di licenziamento sono forse delle giungle? Tutti hanno ovviamente il diritto di esprimere (anche «strillando») la propria opinione. Per chi è interessato alle buone riforme, la domanda da porre è però molto semplice: il Jobs act affronta in modo serio i problemi concreti dell’economia e della società italiana di oggi? E fornisce risposte promettenti?

Com’è tristemente noto, il dramma del nostro mercato del lavoro riguarda soprattutto i giovani: due milioni e 300 mila senza occupazione e altrettanti «precari». Su cento fortunati che trovano un lavoro subordinato, meno di 50 hanno un contratto a tempo indeterminato: in Francia e Germania sono più di 60, nei Paesi nordici e in Gran Bretagna (dove ha governato la Thatcher) sono più di 70. La stragrande maggioranza del mondo giovanile non conosce né l’articolo 18 né la cassa integrazione. I contratti atipici hanno scarsissime tutele in caso di mancato rinnovo e conseguente disoccupazione. Meno di un quarto di chi ha un lavoro dipendente riceve formazione professionale: in Germania e in Gran Bretagna almeno la metà, in Danimarca il 75%. Non v’è da stupirsi se i sondaggi internazionali rivelano che i nostri giovani (soprattutto le donne) sono i più insicuri, i più scoraggiati e pessimisti rispetto alle chance di carriera, i più angosciati dal timore di perdere il posto e non trovarne un altro.

È a questi problemi concreti che guarda il Jobs act , con un duplice intento. Da un lato, fare in modo che le imprese tornino ad assumere con contratti «buoni», a tempo indeterminato, investendo sulla formazione dei giovani. Dall’altro lato, assicurare a tutti un pacchetto di sostegni in denaro e in servizi per far fronte agli eventuali periodi di disoccupazione. La sequenza virtuosa su cui scommette il Jobs act è questa: con un sistema di regole più semplici e flessibili, le imprese assumeranno di più, e con contratti molto più stabili di quelli attuali. Le tutele saranno estese e rafforzate, ma in forme compatibili con la flessibilità, anche in uscita: non riguarderanno più il singolo posto di lavoro, bensì la transizione da un posto ad un altro, come avviene in tutti i Paesi Ue. Se la sequenza si attiva, la riforma contribuirà a risolvere il problema economico-sociale più drammatico che il nostro Paese si trova ad affrontare dopo la ricostruzione post-bellica e la crisi degli anni Settanta.

Il Jobs act che andrà preso in votazione al Senato è lungi dall’essere perfetto. Per superare l’articolo 18 basta una norma, mentre per allargare le tutele occorre un lavoro difficile e paziente di progettazione istituzionale, finanziaria, organizzativa. Una sinistra pragmatica e responsabile incalzerebbe il governo su questo fronte, invece di arroccarsi a difesa dello status quo. D’altro canto, un mondo imprenditoriale che ha molto da guadagnare dalla riforma potrebbe ben dare qualche segnale positivo: ad esempio confermando pubblicamente che la scommessa del Jobs act non è un azzardo, che le imprese sono pronte a fare la loro parte. Ci aspettano settimane di turbolenza politica e sociale. Il governo ascolti tutti, anche chi strilla, e non esasperi lo scontro. Ma vada avanti per la sua strada: il semaforo che conta è quello delle buone soluzioni ai problemi reali degli italiani, non quello delle vecchie sirene ideologiche.

La beffa Tasi, più cara dell’Imu. Detrazioni solo in un comune su tre

La beffa Tasi, più cara dell’Imu. Detrazioni solo in un comune su tre

Mario Sensini – Corriere della Sera

Il termine è scaduto alla mezzanotte di ieri e i Comuni che non hanno deliberato in tempo le aliquote della nuova Tasi dovranno accontentarsi, a dicembre, di un incasso ridotto. Tutti gli altri sindaci possono sorridere, ed i loro cittadini preoccuparsi. Messe tutte le carte sul tavolo – le delibere comunali – l’imposta destinata a superare l’Imu rischia di essere ben più salata della progenitrice nella maggior parte dei Comuni per molte famiglie italiane, in particolare quelle più povere e quelle con i figli. E più leggera per chi sta meglio. L’Associazione dei Comuni dice che nei municipi dove le aliquote sono state già fissate a maggio, sulla prima casa, si è pagato il 30% in meno, ma i Caf e molti centri studi sono convinti che, alla fine, il conto complessivo sarà più salato dell’Imu 2012, che fu di 4,4 miliardi.

Sugli 8.057 Comuni italiani, quelli che hanno fissato le aliquote Tasi entro la scadenza definitiva sono stati 7.405. Nei poco più di 600 municipi che non hanno voluto o non sono stati in grado di decidere, la Tasi sulla prima casa si pagherà il 16 dicembre in una sola rata, con l’aliquota di base dell’1 per mille (applicata allo stesso imponibile della vecchia Imu: rendita catastale rivalutata del 5% e moltiplicata per 160). Negli altri Comuni la tassa sulla casa di abitazione, dovuta in due rate il 16 ottobre e il 16 dicembre, sarà ben più cara.

Secondo i calcoli del Caf si pagherà l’1,95 per mille, ma è una media di tutti i Comuni, piccoli e grandi: nelle città maggiori il conto sarà di sicuro più salato. Secondo il Servizio Politiche Territoriali della Uil, l’aliquota media deliberata dai municipi capoluogo di provincia è del 2,6%. La Cgia di Mestre sostiene che in un grande Comune su due la Tasi sarà più cara dell’Imu. Tra i capoluoghi di provincia, vale la pena di sottolineare, la Tasi non si paga solo a Olbia e a Ragusa. È tuttavia e soprattutto il meccanismo caotico delle detrazioni, più delle aliquote, a generare gli effetti meno gradevoli. Con l’Imu c’era una detrazione fissa di 200 euro, più 50 euro per ogni figlio a carico, mentre stavolta i sindaci sono stati lasciati liberi di scegliere, potendo applicare una maggiorazione dello 0,8 per mille proprio per finanziare le detrazioni, e si sono sbizzarriti con la fantasia. A conti fatti, però, le agevolazioni sono state drasticamente tagliate.

Solo il 35,9% dei Comuni ha previsto uno sconto. Il 15% ha optato per una detrazione fissa, il 19% le ha legate alla rendita catastale della casa, e solo il 13,3% del totale (appena 869 Comuni) le ha concesse per i figli a carico, e quasi in tutti i casi solo a partire dal terzo o quarto figlio. Uno sparuto gruppo di 37 Comuni ha tarato le agevolazioni sul reddito del proprietario, altri 173 si sono affidati all’Isee. Ma solo 179 hanno tenuto conto dei figli con handicap, e 146 hanno previsto sconti in base all’età dei proprietari. Premiando i più anziani, over 65 e over 70, quando uno degli effetti dell’Imu era quello di spostare il carico fiscale dalle nuove alle vecchie generazioni.

Quel poco di funzione redistributiva della vecchia Imu, in ogni caso, non c’è più. Un esempio di come sono destinate a cambiare le cose lo fa Paolo Conti, direttore generale del Caf Acli. Con la vecchia Imu del 2012 (nel 2013 è stata sospesa, e solo in alcuni Comuni si è pagato una quota minima) su una prima casa con valore catastale di 60 mila euro, tassata all’aliquota massima del 4 per mille, si pagavano 40 euro: 240 d’imposta meno i 200 della detrazione fissa. Se ci fosse stato anche solo un figlio, addirittura niente. In un Comune dove non sono previste detrazioni, e sono i due terzi del totale, con la Tasi al 2 per mille (il tetto massimo è il 2,5), quest’anno si pagheranno 120 euro. Al contrario, una casa di abitazione più lussuosa, con un valore di 150 mila euro, se pagava 400 euro di Imu (600 di imposta meno 200 di detrazione), domani pagherà 300 euro di Tasi.

Nei Comuni che hanno optato per le detrazioni è molto più difficile capire fin d’ora, basandosi sulle carte, come andrà a finire. Anche perché la maggiorazione poteva essere spalmata anche sulle seconde case, i terreni, gli esercizi commerciali, i capannoni industriali, dove la Tasi si somma all’Imu, e dove i sindaci, ad ogni buon conto, non hanno rinunciato a fare cassa. Là dove l’Imu non era già ai livelli massimi, e dunque si potevano alzare le tasse, in tanti ci hanno infilato anche la Tasi: metà dei Comuni ha «arrotondato» con la Tasi l’Imu sulle seconde e terze case, sugli esercizi commerciali e gli studi professionali, sulle aree edificabili, sugli immobili agricoli, sui capannoni industriali. Pochissimi, appena il 5%, hanno assimilato alla prima casa gli immobili concessi in comodato ai figli. La metà dei Comuni, piuttosto, ha imposto la Tasi anche sulle case affittate, colpendo anche gli inquilini. Pagheranno, in media, poco meno del 20%. Molti, tra l’altro, ne sono ignari. Ed è un’altra complicazione, perché inquilini e proprietari dovranno provvedere ciascuno per proprio conto ai calcoli e al pagamento della Tasi. Se l’inquilino non paga la sua quota, riceverà prima o poi una cartella esattoriale, ma dopo esser stata esclusa, ora è prevista la responsabilità solidale dei proprietari, che alla fine potranno esser chiamati a pagare.

La “pulizia” nel territorio dell’Iva e quei 72 sconti fiscali in un triennio

La “pulizia” nel territorio dell’Iva e quei 72 sconti fiscali in un triennio

Mario Sensini – Corriere della Sera

In vista della prossima legge di Stabilità «il governo sta valutando, oltre alla revisione delle detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali, anche la struttura delle aliquote agevolate dell’Iva» del 4 e del 10%. La possibilità di un nuovo intervento sulla tassa di consumo è stata avanzata ieri in Parlamento dal sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, quando solo due giorni fa il ministro Pier Carlo Padoan, in televisione a Porta a Porta, rispondendo ad una precisa domanda sull’Iva di Bruno Vespa, aveva detto che il governo «non ha intenzione di aumentare le tasse». Nella maggioranza il Nuovo Centrodestra, e Forza Italia, all’opposizione, sono subito scattate all’offensiva, come le associazioni dei consumatori.

Da quanto pare di capire, tuttavia, il governo non starebbe ipotizzando il semplice aumento delle aliquote Iva agevolate, ma la possibilità di una loro revisione e semplificazione, garantendo una sostanziale parità di gettito rispetto ad oggi. Il governo, piuttosto, sembra propenso a intervenire per sfoltire e, in questo caso, tagliare, la sterminata messe di regimi agevolati concessi a varie categorie di imprese per il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto che per inciso denota un indice di evasione molto elevato, sicuramente tra i più alti d’Europa, e che secondo alcune stime raggiungerebbe addirittura il 25%.

La “pulizia” nel territorio dell’Iva dovrebbe essere uno dei capitoli fondamentali della revisione di tutte le cosiddette “tax expenditures”, e cioè l’interminabile elenco di detrazioni, deduzioni, sconti e benefici fiscali esistenti nell’ordinamento, che sono più di 700 e costano circa 250 miliardi l’anno. Zanetti ha confermato che l’operazione, di cui si parla dal 2011, quando l’allora ministro Giulio Tremonti ne avviò la ricognizione, è allo studio. «Non ci sono ancora posizioni definite, ma si sta valutando. La questione fondamentale – ha detto Zanetti – è che le detrazioni che possono dare il maggior apporto sono anche quelle più sensibili». Ovvero, quelle politicamente più costose.

Gran parte delle detrazioni Irpef riguarda infatti il lavoro, le pensioni, i familiari a carico, la casa, le spese per la salute. Tutti ambiti molto difficili da aggredire, il che limita notevolmente la portata dell’operazione. Nel frattempo, da quando si è cominciato a parlare della loro razionalizzazione, gli “sconti” fiscali hanno continuato ad affastellarsi. Dal luglio del 2011 al giugno del 2014, ne sono stati varati altri 72, di vario genere, con una spesa di 16 miliardi di euro.

La modernità delle nuove partite Iva ma il legislatore se ne dimentica

La modernità delle nuove partite Iva ma il legislatore se ne dimentica

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Senza voler minimamente sottovalutare le novità contenute nel Jobs Act e le discontinuità che mette in moto, va detto che ancora una volta il lavoro autonomo è rimasto fuori dalla porta. Culturalmente il legislatore resta sempre ancorato alla vecchia diarchia del Novecento imperniata sul rapporto imprenditori-dipendenti, la società moderna invece non sta ferma e cammina assai più velocemente.

Le ristrutturazioni industriali legate alla Grande Crisi hanno portato ad esternalizzare molti servizi, le filiere si sono allungate e le relazioni di fornitura ampliate. Professioni, come quella dei giornalisti, che una volta erano totalmente strutturate nel rapporto di dipendenza vedono ormai una crescita esponenziale dei freelance. Il tutto avviene tra mille difficoltà legate alla stasi del mercato interno, alla contrazione dei compensi e anche al ritardo dei pagamenti laddove il committente è la pubblica amministrazione. Aggiungo che il trend in direzione del lavoro autonomo lo si riscontra ormai anche nella ricerca della prima occupazione; si può stimare che un giovane su quattro invece di mettersi in fila nei centri per l’impiego il lavoro se lo inventa o nei settori più tradizionali (commercio e ristorazione) oppure dando vita alle start up. L’apertura di nuove partite Iva va avanti, nonostante tutto, al ritmo di 40-50 mila al mese.

Insomma il lavoro autonomo non è un residuo storico che un giorno o l’altro verrà spazzato via ma diventa una delle forme della modernità perché socializza il rischio e la responsabilizzazione in un’epoca in cui Pantalone non paga più. Ed è lampante che si tratta di un mercato del lavoro irregolare dove il coinvolgimento individuale non è minimamente paragonabile alle tutele presenti e future. Anzi si riscontra la beffa di contribuzioni previdenziali più alte rispetto ai dipendenti con una scarsissima probabilità di avere, al termine della carriera, pensioni dignitose. Allora quando la politica tira in ballo la sacrosanta esigenza di rimodernare lo Statuto dei lavoratori non può cadere vittima di una clamorosa amnesia e dimenticare gli indipendenti.

Un errore non accettare l’aiuto della Bce

Un errore non accettare l’aiuto della Bce

Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Il mercato tende, per sua natura, a cercare rapidamente una spiegazione delle cose (inspiegabili) che accadono. Ieri era una giornata molto importante per capire quante possibilità ci sono di riuscire a combattere il calo dei prezzi (la deflazione), uno scenario di forte rallentamento dell’economia in Europa. E la Banca centrale europea ha messo in campo una delle armi più efficaci: la possibilità per le banche europee di finanziarsi a un tasso d’interesse molto basso, pari allo 0,15%.

Tanto per avere un’idea la media dei tassi di finanziamento per le imprese viaggia ancora intorno al 9%, quasi dieci volte di più. E che cosa è accaduto? Che gli istituti di credito hanno bussato alle porte di Francoforte chiedendo molti meno fondi di quanto non ci si aspettasse. Soltanto 82 miliardi di euro rispetto ai circa 150 miliardi previsti. Certo, molti analisti considerano che la data decisiva sarà quella dell’11 dicembre, nella quale si realizzerà il secondo round di questa operazione e soprattutto sarà già concluso l’esame sulla solidità banche, i cosiddetti stress test . Una valutazione che servirà a capire quali gruppi avranno bisogno di aumenti di capitale e quali no (si dice che almeno due gruppi italiani dovranno tornare sul mercato per chiedere fondi). Eppure questa spiegazione non basta. Si potrebbe pensare che le banche non abbiano chiesto le risorse perché in realtà la liquidità di cui dispongono è sufficiente. E allora perché questa situazioni di stretta creditizia? Nei mesi scorsi lo scontro tra banche e imprese non è stato morbido: da un lato le aziende hanno accusato gli istituti di credito di non erogare abbastanza finanziamenti, dall’altro le banche accusano le aziende di chiedere soprattutto mezzi finanziari per ristrutturare i loro vecchi debiti (spesso di scarsa qualità) invece di domandare prestiti per nuove iniziative e investimenti.

E forse il dato di ieri dice anche questo: tra banche e imprese si dev’essere rotto qualcosa anche nel meccanismo di dialogo. Una specie di corto circuito nel quale, come si dice, il «cavallo non beve» pur avendo molta sete. Una situazione che ha del paradossale soprattutto se le istituzioni, in questo caso la Bce, hanno ormai messo in campo molte delle loro possibilità. Con la doppia riduzione dei tassi d’interesse e l’annuncio di essere pronta a comprare anche i cosiddetti Abs (asset backed securities ), una sorta di titoli di debito che fanno capo direttamente alle aziende. Dopo quello che è accaduto ieri forse serve un altro passo: banche e imprese, a livello europeo, dovrebbero cominciare a capirsi di più.

E il semestre intanto passa

E il semestre intanto passa

Franco Venturini – Corriere della Sera

In Europa non dobbiamo avere paura di dire la nostra. Non deve farci sentire più insicuri un presidente del Consiglio che «ci mette la faccia» per chiedere a Bruxelles (pardon, a Berlino) più elasticità in un rigore che, almeno per quanto riguarda il deficit al 3% del Pil, il governo intende rispettare. E tuttavia, se per l’Italia è una conquista mostrarsi meno timida del solito, c’è modo e modo di farsi valere. E basta poco, anche con le migliori intenzioni, a spararsi sui piedi.

Matteo Renzi è pericolosamente vicino a questa dolorosa constatazione. Non gli manca di certo la capacità di comunicare, ma la consapevolezza di dover rendere l’Italia più credibile quando la si guarda dalle capitali europee che contano, quella sì sembra fargli difetto. Il suo linguaggio è spesso aggressivo verso «l’Europa da cambiare», obiettivo che condividiamo ma con altro stile. La sua sfida per imporre Federica Mogherini nel ruolo di Alto rappresentante per la politica estera è stata vinta, ma ha creato malumori, per l’eccesso di irruenza troppo diverso dalle paludate mediazioni cui è abituata la Ue. Quanto al semestre di presidenza italiana, era nato zoppo per il tempo che avrebbe richiesto il ricambio della Commissione. E comunque quando qualcosa si prova a fare siamo alle solite, come dimostra il poco rispettoso tira e molla sul vertice che si terrà l’8 ottobre a Milano per discutere di lavoro. Un errore di calcolo pare del resto emergere sull’effettiva consistenza dell’«asse» con la Francia che ha le stesse nostre rivendicazioni, ma che si guarda bene dall’irritare la Germania, debole com’è nelle sue alte sfere politiche. Germania che a sua volta lascia trapelare una certa insofferenza nei confronti di una Italia definita «inconcludente».

Per convincere e ottenere (forse), Renzi, oltre a cambiare l’Europa, doveva e deve cambiare l’Italia. Non può bastare il suo ottimo risultato elettorale alle Europee. Fiducia nell’Italia significa riforme fatte e rese operative senza arenarsi nella vergognosa montagna dei decreti attuativi che non hanno mai visto la luce, significa pochi annunci ma seguiti da riscontri, significa non avere un Parlamento bloccato dai regolamenti di conti interni ai partiti (e qui la colpa non è di Renzi, o non è soltanto sua).

Non vogliamo dire che il premier abbia fatto poco o nulla nei suoi primi mesi di governo. Non sarebbe nemmeno giusto liquidare ora i suoi «mille giorni». Ma un problema esiste, ed è di considerevole entità: se Renzi non capirà alla svelta che un certo atteggiamento retorico («se vogliono la guerra avranno la guerra», ecc.) risulta controproducente in Europa più che mai se non è puntellato da realizzazioni compiute, sarà il suo stesso progetto a finire contro un muro. Un muro che potrebbe chiamarsi Katainen prima ancora di chiamarsi Merkel.

Resta l’ipotesi che Renzi sia arrivato alla conclusione che le resistenze alle riforme siano troppo forti, che si debba andare alle elezioni nel 2015 portando in dote i tentativi riformisti (vani?) cui stiamo per assistere a cominciare dal decreto lavoro. Si capirebbe, allora, che nella sua strategia certi messaggi diretti all’opinione pubblica nazionale prevalgano oggi sulla moderazione dei comportamenti verso l’Europa. Si tratterebbe comunque di un errore, perché il danno fatto renderebbe ancor più difficile una risalita già molto ardua. Ricordate il Telemaco del primo discorso a Strasburgo? Era coraggioso e pieno di speranza. Ma se non cambierà anche lui, assieme all’Italia e all’Europa, Ulisse non riuscirà a trovarlo.

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Comparso quasi per caso 45 anni fa, l’articolo 18 ha resistito a tutti gli attacchi, compresi due tentativi di referendum: nel 2000, promosso dai Radicali per abrogarlo, e nel 2003 da Rifondazione comunista per estenderlo alle piccole imprese (entrambi falliti per mancato quorum dei votanti). Solo nel 2012, con l’Italia sull’orlo del commissariamento, la riforma Fornero ne ha attenuato il grado di protezione. Un tira e molla ultradecennale. Tra destra e sinistra, imprese e sindacati. E pensare che nel testo originale dello Statuto dei lavoratori l’articolo 18 neppure c’era.

La norma che vieta i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, non faceva parte del disegno di legge presentato il 24 giugno 1969 dall’allora ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, socialista, già vicesegretario della Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Il provvedimento sulle «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell?attività sindacale nei luoghi di lavoro» fu messo a punto dal giovane e brillante capo dell’ufficio legislativo di Brodolini, il giuslavorista Gino Giugni, di provata fede socialista anche lui. Il governo era guidato dal democristiano Mariano Rumor. In materia di reintegro nel posto di lavoro lo Statuto prevedeva solo l’articolo 10 che, richiamando l’articolo 4 della legge 604 del 1966 che stabiliva la nullità dei licenziamenti discriminatori (per ragioni di credo politico o fede religiosa, o per l’appartenenza al sindacato), aggiungeva «l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro».

L’estensione del diritto al reintegro ai casi di licenziamento senza giusta causa e giustificato motivo fu invece il frutto dei lavori in Senato e della pressione degli avvenimenti sociali, con l’escalation degli scioperi, spesso spontanei, cioè non controllati dalle centrali sindacali. Tanto che nella seduta di giovedì 11 dicembre 1969, nell’Aula di Palazzo Madama, il sottosegretario al Lavoro, Leandro Rampa, democristiano, dichiarava: «Il governo ha ritenuto di dovere presentare un emendamento sostitutivo dell’importante articolo 10, dopo aver riconsiderato, sulla scorta anche di indicazioni già emerse in commissione, alcune esigenze che ci sembravano essenziali allo scopo di garantire ulteriormente i diritti dei lavoratori nell’eventualità del licenziamento». In realtà il grosso del lavoro era stato fatto nella commissione presieduta da un altro socialista, Gaetano Mancini. Il diritto al reintegro (significa che il licenziamento è nullo dall’inizio) prendeva il posto della precedente disciplina (legge 604) che dava facoltà al datore di lavoro di riassumere il lavoratore (non gli paga però il dovuto per il periodo in cui è stato senza lavoro) o di versargli un’indennità.

La conquista era solo una delle tante e non apparve neppure tra le più importanti ai sindacati e ai lavoratori, che con lo Statuto ottenevano «l’effettivo ingresso nelle fabbriche dei diritti fondamentali della persona sanciti dalla Costituzione» (rappresentanze sindacali, diritto di opinione, di assemblea, permessi). Definizione questa che – molti si stupiranno – è di Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro del Pdl quando presentò il progetto di legge di «Statuto dei lavori», il progetto di riforma che si rifaceva ai documenti del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse nel 2002. Altri due socialisti di formazione, Sacconi e Biagi, convinti però che lo Statuto, e in particolare l’articolo 18, non fosse più utile né alle imprese né ai lavoratori di un’Italia che non era più quella delle grandi fabbriche del Nord, ma un’economia postindustriale e globalizzata.

Lo Statuto dei lavoratori giungeva al termine dell’autunno caldo del 1969, stagione di lotte sindacali, ma fuori dai cancelli delle fabbriche perché fino ad allora ai sindacati era impedito di entrarvi. Il conflitto imperversava. Quello sociale era sano, segno di crescita. Purtroppo era anche il tempo delle trame oscure: il 12 dicembre, il giorno dopo il via libera del Senato allo Statuto, l’Italia viveva una delle pagine più buie con la strage di piazza Fontana. Nei mesi successivi, alla Camera, l’articolo 18 non fu messo in discussione e lo Statuto, la legge 300 del 1970 passò il 14 maggio con 217 voti favorevoli (Dc, Psu, Pri, Pli), 10 contrari e 125 astensioni: Msi, ma anche il Pci e il Psiup. I comunisti ritenevano il testo squilibrato a favore delle imprese. La legge entrò in vigore il 20 maggio. A condurla in porto era stato un nuovo ministro del Lavoro, Carlo Donat Cattin, democristiano della sinistra sociale. Brodolini, già gravemente malato quando presentò il disegno di legge, morì poco dopo. Negli ultimi giorni, preoccupato per la piega che stava prendendo il dibattito, affidò a Giugni questo messaggio: «Fa in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi».

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Michele Salvati e Marco Leonardi – Corriere della Sera

Conosceremo presto la formulazione definitiva che il governo intende dare al suo progetto di riforma della legislazione del lavoro, quel Jobs Act che ha nella sua pancia il tormentone dell’articolo 18: i giornali danno per scontata l’ipotesi di un decreto, ma staremo a vedere. Il nostro articolo precedente (Corriere, 7 settembre) poteva aver lasciato l’impressione che l’attivismo riformistico del governo fosse soprattutto indirizzato a ottenere dalla Germania un allentamento delle condizioni di austerità cui siamo sottoposti: come rifiutarsi di allentarle se facciamo i nostri compiti a casa e attuiamo una riforma così importante secondo un modello uguale o molto simile a quello tedesco?

Vorremmo rettificare questa impressione, se c’è stata: il modello tedesco è opportuno nella sostanza e presentarlo presto in Europa sicuramente rafforza la nostra posizione contrattuale, ma dubitiamo che questa o altre riforme convincano i tedeschi a modificare in tempi brevi il loro atteggiamento. I difetti del sistema della moneta unica sono così profondi, e i vantaggi immediati che esso offre alla Germania sono così importanti, che è improbabile che essa voglia mutare le sue politiche interne e il suo atteggiamento nei confronti degli attuali assetti europei, quali che siano le «riforme strutturali» alle quali i Paesi deboli si sottomettono. Se è così, ristagno e dualismo sono destinati a permanere per un lungo periodo.

Ma allora perché il modello tedesco? O addirittura, perché una revisione profonda della legislazione del lavoro? Risposta: perché comunque ci conviene. Perché in ogni caso, sia che l’austerità europea si attenui sia che persista, e persino in presenza di forti turbolenze degli assetti istituzionali dell’Unione, avere un mercato del lavoro che funziona bene è meglio di averne uno che funziona male. In un contesto globalizzato, in cui tutti i Paesi avanzati sono comunque soggetti a forti pressioni competitive, tra i loro sistemi di legislazione del lavoro quello tedesco è un buon compromesso tra flessibilità e garanzie, tipico di un Paese dell’Europa continentale con un welfare sviluppato e con sindacati forti: difficilmente sistemi anglosassoni sarebbero applicabili da noi.

È un sistema che mantiene un filtro giudiziario al licenziamento, che però non interferisce con le motivazioni economiche addotte dall’imprenditore e solo opera, e può condurre al reintegro in casi estremi, se il lavoratore e i sindacati dimostrano che le motivazioni economiche sono un pretesto che nasconde motivazioni incostituzionali. È un sistema dove esiste una indennità automatica: all’atto del licenziamento l’impresa è tenuta a offrire una indennità di un mese di salario per ogni anno di lavoro e, se il lavoratore 1’accetta, perde il diritto di rivolgersi al giudice. Ed è un sistema dove i centri per l’impiego funzionano decentemente e dove all’indennità di disoccupazione – con durata e modalità non molto diverse dalla nostra Aspi – fanno seguito misure assistenziali, molto modeste, ma di durata indefinita. Tutto si tiene nel mercato del lavoro e una riforma del solo articolo 18 serve poco se non è accompagnata da una revisione di altre parti della legislazione del lavoro e del welfare.

Pochi i punti fermi. Il primo è che l’Italia ha un tasso di occupazione, in particolare quello femminile, troppo basso per permettersi un welfare generoso: il numero degli occupati è all’incirca uguale a quello degli inattivi o disoccupati e poi gli occupati hanno i pensionati sulle loro spalle. Il primo obiettivo è dunque quello di aumentare l’occupazione, con ogni mezzo. Il secondo punto fermo è che l’Italia ha un numero abnorme di occupati in lavori autonomi, il 23%, contro un 13% di Francia e Germania: il secondo obiettivo è dunque eliminare gli impedimenti che ostacolano il ricorso al lavoro dipendente. Oggi il problema non sono gli ostacoli contro i contratti a termine, dove siamo più o meno in linea con gli altri grandi Paesi europei, ed è la Spagna il caso abnorme. Da noi il grande problema è quello delle partite Iva fasulle. Sono loro la fonte dei veri precari del XXI secolo, senza diritti né minimi salariali, privi della possibilità di accumulare contributi pensionistici e spesso costretti all’evasione: è una piaga che dev’essere eliminata.

Il terzo punto fermo è che l’occupazione si favorisce più con le politiche salariali che con l’abolizione dell’articolo 18, pur necessaria. Quando arrivò la crisi del 2007-2009 la Germania si ritrovò con un sistema di relazioni industriali in cui la metà delle imprese e dei lavoratori contrattavano i loro salari al di fuori dei contratti nazionali di categoria e con un sistema di ammortizzatori sociali chiaro e ben funzionante. La combinazione di orari e salari flessibili, di un forte legame tra salari e produttività, ha fatto uscire dalla crisi il Paese meglio di come vi era entrato. Dunque, sarebbe opportuno che nella riforma fosse compresa anche la materia contrattuale.

Un’osservazione finale e di natura politica. In via generale i lavoratori non hanno «colpa» del fatto che il loro lavoro è poco produttivo e che l’occupazione scarseggia. Le colpe sono diffuse su altri soggetti: su imprese incapaci di innovare e organizzarsi in modo efficace, su un sistema fiscale che tassa troppo e male il lavoro e l’impresa, su uno Stato e su una pubblica amministrazione inefficienti e bizantini. Che le conseguenze di queste inefficienze altrui ricadano sul lavoro genera reazioni e resistenze, ed è comprensibile che così avvenga. Ma i costi salariali sono la trazione più importante del valore aggiunto e su di essi occorre incidere se si vogliono restaurare rapidamente condizioni di maggiore competitività. Una penosa bisogna, di cui il governo può essere perdonato solo se attacca con eguale determinazione gli altri segmenti del Sistema-Paese dai quali la nostra scarsa capacità di crescita dipende.

Orari dei negozi, l’Antitrust boccia le chiusure estive

Orari dei negozi, l’Antitrust boccia le chiusure estive

Corriere della Sera

L’autorità Antitrust ha bocciato con un’apposita segnalazione la proposta di legge Senaldi, elaborata nella commissione Attività produttive di Montecitorio, per ri-regolamentare l’apertura festiva dei negozi affidando maggiori poteri agli enti locali. Secondo il garante «la proposta viola la concorrenza» perché pone limiti all’esercizio di attività economiche «in evidente contrasto con le esigenze di liberalizzazione di cui è espressione l’articolo 31 del decreto Salva Italia» emanato a suo tempo dal governo Monti. Per di più il parere elaborato dall’Antitrust sottolinea il contrasto della proposta Senaldi con la normativa della Ue in quanto reintroduce significativi limiti concorrenziali «aboliti dal legislatore nazionale» proprio in attuazione del diritto comunitario.