Corriere della Sera

Tre buchi aperti dal Tfr in busta

Tre buchi aperti dal Tfr in busta

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

La liquidazione, per chi ancora ce l’ha, rappresenta da sempre per i lavoratori una retribuzione differita. Una sorta di polizza sul futuro da usare per comprare una casa per le vacanze, far studiare i figli, aiutarli a mettersi in proprio. Il governo, alle prese con la necessità di rilanciare la crescita, sta studiando la possibilità di anticipare l’utilizzo di questo risparmio e, dal primo gennaio 2015, restituirlo direttamente in busta paga (si parla al 50%, forse in via transitoria e per scelta volontaria).

Un cambiamento epocale, con l’obiettivo di rimettere in moto la macchina inceppata dei consumi. Una finalità senza dubbio condivisibile che però suscita alcuni dubbi, da dissolvere in fretta. La coperta del Tfr (Trattamento di fine rapporto o liquidazione) non può, infatti, bastare a servire due padroni: i consumi e i risparmi degli italiani. Addirittura tre se si considera che, in base alla legislazione attuale, il Tfr è considerato il principale strumento di finanziamento della previdenza integrativa. Pochi l’hanno utilizzato a questo scopo. Se il fine è quello di mettere più soldi in busta paga, la strada maestra resta quella di ridurre le tasse.

Il premier Matteo Renzi ha già chiarito che la riforma potrà partire solo dopo la firma di un protocollo tra l’Associazione bancaria (Abi), la Confindustria e il governo. Un accordo che dovrebbe garantire alle piccole imprese i finanziamenti necessari a coprire l’esborso. E qui si cominciano a delineare i primi ostacoli. Gli accantonamenti annuali per il Tfr ammontano a 25 miliardi, secondo i calcoli di Alberto Brambilla, l’autore della norma sul trasferimento del Tfr nei fondi pensione. Di questi, 5,2 confluiscono nella previdenza complementare, 6 vengono versati dalle imprese con più di 50 dipendenti all’Inps e ben 14 sono finanziamenti per le piccole imprese. Con quel Tfr si costruiscono capannoni, si fa ricerca.

Mettendo il Tfr in busta paga si aprirebbero, senza interventi compensativi, tre buchi: all’Inps verrebbero a mancare tre miliardi l’anno, i fondi pensione potrebbero contare su meno risorse e la previdenza integrativa continuerebbe ad avere vita stentata. E le aziende, all’improvviso, si vedrebbero private di una fonte di credito decisiva, proprio mentre la politica dei prestiti non è delle più agevoli. L’allarme dei piccoli c’è già, bisogna ascoltarli. Da chiarire anche quale sarà il trattamento fiscale di queste somme ricevute in anticipo. Dovrà essere analogo a quello attuale; la liquidazione non può fare cumulo con gli altri redditi, altrimenti l’unico a guadagnarci sarebbe il Fisco. Con buona pace dei consumi.

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Fino ad ora il governo non ha inserito nell’agenda delle sue priorità il lavoro autonomo e le partite Iva. Quando si è trattato di aumentare il reddito disponibile sono state privilegiate le fasce medio-basse del lavoro dipendente e il Jobs act ha come riferimento un laburismo tutto sommato tradizionale, anche se declinato in chiave di flexsecurity. Il tutto è stato gestito con lo strumento della legge delega che si sta rivelando un contenitore ipocrita: inizialmente appare utile per allargare lo spettro dell’azione di riforma senza generare conflitti, ma nel prosieguo mostra tutti i suoi limiti. Accumula contraddizioni e non è in grado di scioglierle se non con un atto d’imperio finale.

Qualcosa del genere rischia di accadere anche con la delega fiscale, lo strumento «largo» con il quale il governo pensa di riprendere a dialogare con gli autonomi. In linea di principio non si può che essere d’accordo con questo riallineamento di attenzioni perché il lavoro indipendente è destinato a crescere ed è la strada che prendono molti giovani in cerca di prima occupazione, di fatto costretti a «inventarsi» il proprio lavoro. Ma il famoso diavolo continua a nascondersi nei dettagli.

Vale la pena ricordare come l’apertura di nuove partite Iva resta sempre sostenuta, al ritmo di 40-50 mila al mese e la percentuale di quelle che mascherano un rapporto di lavoro dipendente si può stimare attorno al 15-20%. Non di più, come pure lasciano pensare i sindacati confederali che ne hanno fatto – come nel caso della Cisl – un punto focale di propaganda e comunicazione. Il guaio maggiore, caso mai, è che molte di queste nuove partite Iva chiudono la loro attività dopo qualche mese, come si può dedurre dalla dinamica delle cancellazioni che rimane sempre molto elevata (80 a 100 nel rapporto con le nuove iscrizioni) e da una rotazione molto frequente in alcune attività economiche giudicate a bassa barriera d’ingresso, segnatamente la ristorazione nei grandi centri urbani.

Detto questo, l’ipotesi di provvedimento che il ministero dell’Economia e finanze ha in gestazione per le mini-imprese (un milione di contribuenti) e che dovrebbe approdare nella delega fiscale appare, nelle intenzioni, ambiziosa perché punta a semplificare drasticamente le procedure, a limare la pressione fiscale e a introdurre nuovi criteri di equità tra i contribuenti di diverse fasce di ricavi. Tre obiettivi in uno, non facili da raggiungere in contemporanea perché da una parte il gettito che proviene da queste attività non può calare di brutto e nello stesso tempo bisogna dare un segnale di riduzione delle tasse. Come se non bastasse occorre affrontare anche alcune contraddizioni che si sono prodotte nel tempo come quella che, proprio a causa del regime forfettario, fa sì che le nuove imprese non siano incentivate a crescere per il rischio di dover pagare a caro prezzo (fiscale) le commesse aggiuntive conquistate. È giusto, quindi, affrontare le strozzature erariali e normative che oggi penalizzano le piccolissime imprese, ma non va sottovalutato il rischio che il messaggio possa non arrivare chiaro e limpido. Il governo, dunque, si occupi degli autonomi e delle partite Iva ma stia attento allo sperimentalismo fiscale. Le cavie potrebbero non gradire.

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele.

A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.

Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.

Lo strano caso di hostess e steward che vogliono restare cassintegrati

Lo strano caso di hostess e steward che vogliono restare cassintegrati

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

«Sindrome depressiva ansiosa reattiva»: richiamati al lavoro, uno steward e una hostess di Meridiana, invece di fare festa, giurano d’essere stati gettati nella più cupa depressione: preferivano la cassa integrazione. Così han fatto causa all’azienda chiedendo duecentomila euro di danni. Una storia piccola piccola. Ma che rivela in modo abbagliante i deliri di un sistema abnorme. Sia chiaro: il contesto è pesante. Con un braccio di ferro tra l’azienda e i sindacati che in questi giorni si è fatto durissimo.

Da una parte la compagnia fondata nel ‘63 dall’Aga Khan con il nome di Alisarda, la quale dice di non farcela più coi conti a causa di tragici errori di gestione del passato (esempio: otto tipi diversi di aerei su una flotta di 27 e cioè otto diversi stock di pezzi di ricambio, otto diversi gruppi di manutentori, otto diverse autorizzazioni…) e di un decreto del Tribunale che nel 2010 «impose l’assunzione di 600 persone stabilizzate dopo due stagioni di lavoro part-time» col risultato che, accusa l’amministratore delegato Roberto Scaramella, «lavoriamo con mille dipendenti e 1.600 sono in più». Dall’altra parte i sindacati che, accusati d’avere indetto nel 2014 «un’agitazione ogni tre settimane con due o otto dipendenti ufficialmente in sciopero e un diluvio di certificati medici», accusano a loro volta la società di «fare i soldi» con la «nuova» Air Italy (per la proprietà «più moderna, più competitiva, meno costosa») basata a Malpensa e di scaricare le perdite sulla «vecchia» Meridiana e sui lavoratori . Peggio: i vertici del gruppo si sarebbero arroccati al punto di «blindare la palazzina con filo spinato e lastre di acciaio». Uno scontro frontale. Sul quale stanno mediando la Regione Sardegna e i ministri del Lavoro e dei Trasporti, Giuliano Poletti e Maurizio Lupi. Che hanno strappato la revoca per 1.600 dipendenti della mobilità prevista a ottobre. Per ora. Poi si vedrà.

Va da sé che, in momenti così, ogni dettaglio dello scontro assume un valore decuplicato. Come, appunto, la causa giudiziaria di cui dicevamo. Partiamo dall’inizio. Maria e Donato, chiamiamoli così, vengono assunti da Eurofly, oggi Meridiana Fly, nel 1998. Ruolo: assistenti di volo. Dopo un po’ diventano rappresentanti dell’Usb, una delle dieci (dieci!) sigle sindacali della compagnia aerea. Nel giugno 2011, coi bilanci a picco, Meridiana, governo e sindacati (tranne l’Usb e i piloti) siglano un accordo che concede la Cigs, cioè la Cassa integrazione guadagni straordinaria, a zero ore volontaria. Maria e Donato, come scriveranno nel ricorso, accettano. Lei dal gennaio 2012, lui dall’aprile. Fino al 2015. Solo che qualche mese dopo i due, moglie e marito, «venivano richiamati in servizio (…) mentre si trovavano negli Usa alla ricerca di una nuova occupazione lavorativa, dopo aver ottenuto la Green Card all’esito di un dispendioso e snervante iter burocratico che ha coinvolto l’intera famiglia composta dagli stessi, quali coniugi, e dai tre figli minori». Convinti di esser stati richiamati a lavorare «senza alcuna reale e concreta necessità e solo per carattere punitivo, ritorsivo e illegittimo», i due erano dunque tornati ma, si legge nel ricorso, «al loro rientro in Italia si sono recati dal medico di base e successivamente presso il Policlinico Umberto I di Roma ove è stata loro diagnosticata una “sindrome depressivo ansiosa reattiva” alla quale è seguita la sospensione delle licenze di volo da parte dell’Istituto di medicina legale, con blocco lavorativo di quattro mesi, oltre al mese prescritto dal medico di base». Non bastasse, insisteva il ricorso, l’azienda aveva mandato per tre volte il medico fiscale a controllare il loro stato di salute. Chiedevano dunque al magistrato di dichiarare «la natura discriminatoria dei comportamenti descritti attuati dalla compagnia aerea nei loro confronti, con ordine di cessazione dei comportamenti antisindacali, discriminatori e vessatori» e il ritorno, «a chiusura della malattia», in cassa integrazione. Pari all’80% dell’ultimo stipendio. Che a volte, nei periodi di punta, grazie al numero di ore di volo, può schizzare fino a 4.000 euro.

Il giudice avrebbe dovuto dunque condannare l’azienda «al pagamento delle differenze retributive» pari per quei mesi a «4.000 euro e 4.800 euro, oltre a interessi legali» nonché «del danno biologico e da riduzione della capacità lavorativa sofferti rispettivamente per complessive 92.715,97 euro e 94.363,38 euro, o altra somma, tenuto conto del diniego di rinnovo della licenza di volo». Che loro stessi, peraltro, avevano forzato con la «sindrome depressiva ansiosa reattiva». Macché: il giudice del lavoro Francesca La Russa ha dato loro torto. Su tutto. Non solo era «legittimo il richiamo» al lavoro anche per le «positive ripercussioni sul piano sociale per i minori costi ricadenti sulla collettività», cioè per i cittadini italiani che stavano pagando alla famigliola il soggiorno in America. Non solo era insensata la lagna su questo ritorno al lavoro perché «semmai dovrebbero dolersi i lavoratori il cui rapporto di lavoro non viene ripristinato». Ma erano «pienamente legittime» le visite del medico fiscale «per la verifica della comune malattia dei ricorrenti». Risultato finale: ricorso respinto. Resta, a tutti gli italiani, una curiosità: esiste un altro Paese al mondo dove dei lavoratori possano pretendere di restare in cassa integrazione e chiedano i danni per il rientro al lavoro? O c’è, da noi, qualche regoletta eccentricamente mostruosa?

Per sei italiani su dieci il commercio è un male

Per sei italiani su dieci il commercio è un male

Danilo Taino – Corriere della Sera

C’è un recente sondaggio del centro di analisi americano Pew Research che dobbiamo sperare sia sbagliato. Parla di commercio internazionale e di investimenti tra un Paese e l’altro. E dice che il 59% degli italiani ritiene che il commercio distrugga posti di lavoro. Scioccante: 1’Italia è il Paese avanzato che è grazie alla sua apertura al mondo, all’industria nata sulle esportazioni, al miracolo economico emerso dalla guerra rinnegando l’autarchia. A disorientare ancora di più è il fatto che un’opinione simile sia espressa anche dal 50% degli americani, dal 49% dei francesi, dal 38% dei giapponesi. Che gli scambi globali aumentino l’occupazione lo pensa solo il 13% degli italiani; in America il 20%, in Francia il 24%, in Giappone il 15%.

Se si escludono questi quattro Paesi – che comunque pesano per oltre il 20% del commercio mondiale di merci e servizi – l’analisi di Pew in altri 40 Paesi indica che solo il 19% crede che il commercio distrugge posti di lavoro. Il 52% dei Paesi emergenti pensa anzi che li crei e la quota sale al 66% nei Paesi più poveri, in via di sviluppo. Quella parte di mondo – in genere chiamata Occidente (più il Giappone membro onorario) – che si immagina essere il faro dell’economia di mercato, aperta, senza barriere ha in realtà le opinioni pubbliche più scettiche – se non più contrarie – su un pilastro storico del capitalismo. A pensare che le locomotive dello sviluppo e della libertà di commercio, e in fondo della globalizzazione, non siano più i Paesi occidentali ma quelli asiatici e africani non si fa peccato, probabilmente ci si avvicina alla realtà. La conferma sta nelle opinioni espresse sugli investimenti esteri, cioè su quella rete di relazioni commerciali e produttive che caratterízza l’econornia moderna. Che un’impresa estera ne compri una locale è negativo per il 73% degli italiani (positivo per il 23%), per il 79% dei tedeschi (19%), per il 67% degli americani (28%). In media, un’acquisizione all’estero è considerata positiva dal 31% dei cittadini nei Paesi avanzati, dal 44% in quelli emergenti, dal 57% nei Paesi invia di sviluppo.

Queste percentuali non sono solo una curiosità. Hanno conseguenze politiche. Ad esempio sul negoziato transatlantico Ttip che Stati Uniti ed Europa stanno discutendo proprio per liberalizzare totalmente commerci e investimenti reciproci. Se Pew Research non ha sbagliato, firmare l’accordo tra Washington e Bruxelles sarà complicato.

Articolo 18, le tante (facili) illusioni sugli altri modelli

Articolo 18, le tante (facili) illusioni sugli altri modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

In materia di articolo 18 il dibattito di questi giorni si sta focalizzando attorno al modello tedesco e in particolare sulla possibilità che ha il giudice del lavoro di ordinare il reintegro del dipendente licenziato. Questa disposizione della legge tedesca, come spesso accade in Italia, è diventata quasi simbolica: una sorta di diga politico-culturale eretta da ampi settori del mondo sindacale e da una parte della minoranza pd per stoppare i provvedimenti del governo. Ma proviamo a capirne il perché.

L’orientamento della magistratura tedesca è rimasto abbastanza coerente nel tempo e porta nella stragrande maggioranza dei casi a ordinare il risarcimento monetario del licenziamento. Solo in pochi casi di palese discriminazione i giudici del lavoro sanciscono il reintegro in azienda. In questo modo in Germania si concilia la presenza nella norma di un diritto in più e un’applicazione, quasi quotidiana, che favorisce la flessibilità (in uscita) del rapporto di lavoro.

Da noi, in base alle norme vigenti adesso e quindi non prendendo a riferimento le novità contenute nel Jobs act governativo, la prassi giurisprudenziale risulta molto difforme da tribunale a tribunale e si arriva per casi simili anche a sentenze molto diverse tra loro, se non opposte. La causa, secondo il parere dei giuslavoristi, risiede nel dispositivo introdotto dalla legge Fornero che produce massima incertezza e concede un’eccessiva discrezionalità al magistrato. Più in generale si può aggiungere che la cultura economica prevalente tra i magistrati del lavoro li porta a concepire il diritto come uno strumento di riequilibrio democratico rispetto al rapporto di forza asimmetrico tra datore di lavoro e dipendente. Per l’insieme di questi motivi i sindacalisti sono portati a sostenere la bontà del modello tedesco e sarà bene quindi scrivere bene la formulazione della nuova legge, o avremo una nuova Babele del diritto.

Deficit sotto il 3% con il Pil allargato

Deficit sotto il 3% con il Pil allargato

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Non siamo più ricchi ma una piccola buona notizia c’è. L’Istat ha ricalcolato anche per il 2013 il Pil, il Prodotto interno lordo, secondo le nuove regole europee che fanno entrare nel conteggio anche un pezzo dell’economia illegale come la droga e la prostituzione. Rispetto al vecchio metodo di calcolo, il Pil italiano guadagna in un colpo solo 59 miliardi di euro, il 3,8%, arrivando a 1.618,9 miliardi di euro. Non si tratta di una crescita vera e propria ma di una semplice illusione statistica. Il giro d’affari dell’economia illegale va aggiunto anche al Pil degli anni precedenti e alla fine viene fuori che la recessione è sempre la stessa: Pil nuovo o Pil vecchio, il calo resta dell’1,9% rispetto al 2012.

Il ricalcolo dell’Istat, però, ha un effetto positivo su due indicatori tenuti sotto stretta osservazione da Bruxelles. Il primo è il debito pubblico, che in termini reali continua a volare sopra la soglia dei 2 mila miliardi di euro. Ma che in rapporto al nuovo Pil scende dal 132,6%. al 127,9%. Una diminuzione virtuale che però renderebbe meno pesante un eventuale percorso di riduzione. Il secondo indicatore è il rapporto tra deficit e Pil, che scende al 2,8% dal 3%, il limite massimo consentito dall’Unione Europea. Se la tendenza fosse confermata anche per l’anno in corso, l’Italia potrebbe spendere uno 0,2% aggiuntivo del Pil (3 miliardi di euro) senza subire una nuova procedura d’infrazione. Una piccola flessibilità regalata dalle nuove regole sugli swap, gli strumenti derivati, che dicono di non conteggiare come passività gli interessi che il Tesoro paga per coprirsi dai rischi sui cambio sui tassi di interesse.

Per effetto del ricalcolo cambiano anche un’altra serie di indicatori: la pressione fiscale scende dal 43,8 al 43,3% del Pil. Mentre aumenta dello 0,6% il peso economico dell’agricoltura, per effetto di modifiche attese da tempo, come il conteggio in questo comparto di alcune attività legate alle energie rinnovabili e un monitoraggio più attento dell’Iva. Un’altra illusione statistica, insomma.

Purtroppo ieri l’Istat ha diffuso anche altri numeri. Qui non c’entra il ricalcolo del Pil ma l’andamento reale del nostro settore industriale. E in quelle tabelle ci sono soltanto segni meno. A luglio il fatturato è sceso dell’1% rispetto al mese precedente e il dato in arrivo dal mercato estero, finora ancora di salvezza delle nostre aziende, è andato peggio di quello nazionale. In calo anche gli ordinativi totali, meno 1,5%.

L’anagrafe che divide

L’anagrafe che divide

Michele Ainis – Corriere della Sera

L’Italia è unita, gli italiani no. Si dividono per tifoserie politiche, per sigle sindacali, per corporazioni. Li separa la geografia economica, dato che il Pil del Mezzogiorno vale la metà rispetto al Settentrione. Sui temi etici restano in campo guelfi e ghibellini. Ma adesso s’alza un altro muro, il più invalicabile: l’anagrafe. Quella delle idee, con la crociata indetta dal premier contro ogni concezione ereditata dal passato. Dimenticando la massima di Giordano Bruno: «Non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova». E quella, ahimè, delle persone. Distinte per i capelli bianchi, anche nel loro patrimonio di diritti.

Da qui la trovata che illumina il Jobs act : via la tutela dell’art. 18, ma solo per i nuovi assunti. Per i vecchi (6 milioni e mezzo di lavoratori) non si può: diritti quesiti, come ha precisato il leader della Uil. Curiosa, questa riforma che taglia in due il popolo della stessa azienda, mezzo di qua, mezzo di là. Riforma parziale, un po’ come una donna parzialmente incinta. Doppiamente curioso, l’appello ai diritti quesiti. A prenderlo sul serio, quando entrò in vigore la Carta repubblicana avremmo dovuto mantenere lo Statuto albertino per tutti i maggiorenni.

E a proposito della Costituzione. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori – di cui l’art. 18 rappresenta un caposaldo – fu salutato come il figlio legittimo dei principi costituzionali. Così, d’altronde, viene ancora definito nella letteratura giuridica corrente. Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro. E a sua volta ogni Costituzione può essere applicata in varia guisa. Anche riconoscendo ai lavoratori licenziati un indennizzo, anziché il reintegro nel posto di lavoro. Ciò che tuttavia non si può fare è d’applicare contemporaneamente la stessa norma costituzionale in due direzioni opposte. Lo vieta la logica, prima ancora del diritto. Tanto più se il criterio distintivo deriva dall’età, di cui nessuno ha colpe, però neppure meriti.

Ma il Jobs act non è che l’ultimo episodio della serie. Le discriminazioni anagrafiche condiscono sempre più frequentemente la pietanza delle nostre leggi, ora a danno dei più giovani, ora degli anziani. Così, nel giugno 2013 il governo Letta decise incentivi per l’assunzione degli under 30. E i cinquantenni che perdono il lavoro? Perdono anche il voto, o quantomeno lo dimezzano, secondo la proposta di legge depositata da Tremonti nel 2012: voto doppio per chi è sotto i quarant’anni. Invece nella primavera scorsa la ministra Madia ha tirato fuori la staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione: tre dirigenti in pensione anticipata, un giovanotto assunto. Dagli esodati agli staffettati. Tanto peggio per i vegliardi, cui si rivolgono però in altre circostanze i favori della legge, dalle promozioni automatiche all’assegnazione degli alloggi popolari, dalle pensioni sociali al ruolo di coordinatore nell’ufficio del giudice di pace (spetta al «più anziano di età»: legge n. 374 del 1991).

No, non è con queste medicine che possiamo curare i nostri mali. Occorrerebbe semmai una medicina contro ogni discriminazione basata sul certificato di nascita. Gli americani ne sono provvisti dal 1967 (con l’Employment act), gli inglesi dal 2006. Mentre dal 2000 una direttiva europea vieta le discriminazioni anagrafiche nel mercato del lavoro. In attesa d’adeguarci, non resta che il soccorso d’una (vecchia) massima: i diritti sono di tutti o di nessuno, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi.

Non date più soldi all’Opera di Roma

Non date più soldi all’Opera di Roma

Paolo Conti – Corriere della Sera

Il Teatro dell’Opera di Roma, cioè l’antico Costanzi. Ovvero il luogo in cui il sindacalismo capovolge con arroganza, e spesso con violenza, qualsiasi elementare regola: una minoranza che impone il proprio diritto di sciopero e nega alla maggioranza il proprio, di diritto: voler lavorare. II Teatro Costanzi, l’unica realtà musicale al mondo capace di disgustare un protagonista della scena internazionale come Riccardo Muti, prima nominato direttore artistico a vita e poi costretto a subire rabbiose rivendicazioni, autentici assalti personali tanto umilianti quanto impensabili in qualsiasi altro teatro d’opera al mondo.

Scena iniziale, siamo a febbraio nelle convulse ore della prima di Manon Lescaut, poi fortunosamente rappresentata. Muti è nel camerino, una dozzina di musicisti aderenti alla Fials e alla Cgil entrano urlando e senza chiedere alcun permesso: «Deve dire se lei sta con noi o contro di noi!». Non è il film di Fellini sulla Prova d’Orchestra ma pura realtà. Ancora, sempre nei giorni della Manon Lescaut . Alla prova anti generale l’orchestra proclama un’assemblea selvaggia e improvvisa. Muti attende il ritorno dei musicisti. Un’attesa di quasi mezz’ora. Poi gli orchestrali tornano. I macchinisti, dal palcoscenico, protestano gridando: «Vergognatevi, tornate a lavorare» . Altro che la necessaria concentrazione per una prova delicata e importante. E infine l’oltraggio dei venti musicisti, incluso il primo violino, che si rifiutano di seguire Muti nella tournée in Giappone tre mesi fa.

In qualsiasi altro teatro al mondo, i Maestri dell’orchestra avrebbero fatto a gara per il privilegio di partire con lui e rappresentare una capitale in un importante Paese così importante, per di più pieno di melomani appassionati. Muti lascia Roma e col suo gesto svela ciò che è già chiarissimo. Un teatro lirico capitolino, certo non tra i più stimati nel mondo, che riesce a perdere un vero Maestro per di più ribaltando qualsiasi regola democratica: la minoranza che ha la meglio sulla maggioranza. Trenta-quaranta orchestrali che bloccano il lavoro di cinquecento persone, proclamando scioperi che poi impediscono il compenso alla maggioranza che li ha subiti.

Carlo Fuortes, che dal 2003 amministra con successo l’Auditorium Parco della Musica progettato da Renzo Piano, vive una condizione schizofrenica da quando, nel dicembre 2013, è stato chiamato con urgenza dal sindaco Ignazio Marino a governare l’Opera. All’Auditorium convive con l’Orchestra di Santa Cecilia che rispetta impegni e programmi, mai si sognerebbe di organizzare incursioni nel camerino di un grande direttore e soprattutto non proclama assemblee che mostrano una concezione dittatoriale del sindacalismo. Dall’altra si ritrova nel caos dell’Opera, sovvenzionato con ben 18 milioni dalle disastrate casse del Campidoglio, dove qualsiasi accordo viene negato il giorno dopo mostrando una concezione distruttiva della rappresentanza sindacale.

C’è infatti da chiedersi se Fuortes non avesse davvero ragione già a luglio quando parlò di una possibile chiusura e liquidazione dell’Opera: Fials e parte della Cgil avevano rimesso in discussione l’intesa, appena raggiunta, sul piano industriale. La stessa idea di sindacalismo distruttivo è tornata pochi giorni fa, quando la solita minoranza ha boicottato il referendum sul piano industriale, dichiarandolo illegale. Perché l’assurdo è che Muti viene costretto ad andarsene mentre l’Opera sta riuscendo faticosamente a risanare il proprio devastato bilancio grazie alla legge voluta, alla fine del 2013, dall’allora ministro Massimo Bray.

Ora l’Opera resta senza Muti ma è costretta a tenersi la minoranza antidemocratica che paralizza il teatro. Le domande si accumulano: il Teatro dell’Opera di Roma è irriformabile? Chi e come potrà mai, in simili condizioni, proporre un nuovo progetto di rilancio dopo il caso Muti? È giusto che la collettività continui a sostenere economicamente una struttura incapace non di imitare modelli europei ma semplicemente di comportarsi come l’orchestra di Santa Cecilia? Il ministro Dario Franceschini e il sindaco Ignazio Marino hanno materia sulla quale riflettere, dopo la vicenda Muti. Anzi, dopo il vero e proprio scandalo di questo addio.

Tutele crescenti, incentivi, sussidi e indennizzi legati agli anni del lavoro

Tutele crescenti, incentivi, sussidi e indennizzi legati agli anni del lavoro

Enrico Marro – Corriere della Sera

Decreto legge o no, quella che ha in mente il governo Renzi è una riforma di sistema che cambierebbe le coordinate del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. L’abolizione dell’articolo 18, cioè del diritto al reintegro nel posto di lavoro per i licenziati senza giusta causa, è solo uno dei tasselli della riforma, ma è fondamentale per rendere appetibile il nuovo contratto di lavoro «a tutele crescenti», rilanciato qualche giorno fa con l’emendamento governo-maggioranza e fulcro del nuovo sistema. Al quale il governo intende arrivare rapidamente con i decreti attuativi del disegno di legge in discussione in Parlamento oppure, in caso di ritardo delle Camere, con un decreto legge, appunto.

Solo due forme di lavoro
Nel nuovo mondo del lavoro che ha in mente Renzi ci sono solo due forme di lavoro: autonomo e dipendente. Quella dipendente, a sua volta, si suddivide in tempo determinato e tempo indeterminato a tutele crescenti. Quest’ultima dovrebbe essere la forma più diffusa, perché l’azienda sarebbe incentivata a ricorrervi. Come? Con uno sconto sul costo del lavoro rispetto a un contratto a termine. Non solo. Se nella prima fase del contratto a tutele crescenti, poniamo tre anni, l’azienda risolvesse il rapporto di lavoro, dovrebbe restituire allo Stato lo sconto di cui ha beneficiato, perché essendo stato il contratto, alla prova dei fatti, a termine, esso appunto dovrebbe costare di più. Verrebbero così scoraggiati gli imprenditori che volessero fare i furbi mentre i contratti temporanei dovrebbero limitarsi ai soli casi nei quali effettivamente il lavoro si suppone a tempo determinato, per esempio le attività stagionali.

Lavoratori tutti uguali
Essendo i contratti a progetto e le altre forme di precariato cancellate, i lavoratori avrebbero tutti gli stessi diritti (minimi di retribuzione, maternità, ferie, ammortizzatori sociali) secondo il tipo di contratto (a termine o a tutele crescenti). Certo, è vero, a meno di sorprese, dovrebbe restare un nucleo forte di lavoratori protetti dal vecchio articolo 18 (circa 6 milioni e mezzo nel privato), poiché il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherebbe solo alle assunzioni successive all’entrata in vigore della legge. Ma il bacino dei tutelati dall’articolo 18, anno dopo anno, dovrebbe restringersi. E comunque – sostengono i tecnici del governo, replicando a chi dice che così si approfondirebbe la spaccatura tra giovani e anziani – i giovani che verranno assunti col contratto a tutele crescenti avranno una serie di diritti e ammortizzatori che attualmente non hanno, perché non previsti dalle forme di lavoro precarie o perché lavorano in piccole aziende. Mentre oggi infatti solo il 15% delle assunzioni avviene a tempo indeterminato, nel nuovo sistema abbiamo visto che la stragrande maggioranza dei contratti dovrebbe essere di questo tipo.

Le tutele crescenti
Certo, ma «a tutele crescenti», che non equivale all’attuale «posto fisso» (nelle aziende con più di 15 dipendenti), dove l’articolo 18, anche se attenuato dalla riforma Fornero, prevede ancora la possibilità di reintegrare i lavoratori. Nel nuovo sistema, invece, il diritto al reintegro resterebbe solo sui licenziamenti discriminatori (fede religiosa, politica, appartenenza sindacale, razza, eccetera) mentre in tutti gli altri casi l’azienda potrebbe licenziare liberamente il lavoratore dietro pagamento di un’indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati (le ipotesi variano da uno a tre mesi di stipendio per anno di lavoro). Il nodo politico da sciogliere, soprattutto nel Pd, riguarda che cosa accade passata la prima fase del contratto, che si pensa durerà tre anni e durante la quale nessuno mette in discussione la libertà di licenziamento. La sinistra Pd e sindacale vogliono che, passati tre anni, torni la protezione dell’articolo 18 mentre il Nuovo centrodestra no e insiste per il solo indennizzo crescente. Il resto del Pd si divide tra quest’ultima ipotesi e quella di prevedere l’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (6-12-15) o una certa età del lavoratore.

I nuovi ammortizzatori
Una volta licenziato il lavoratore, in aggiunta all’indennizzo dall’azienda, avrebbe diritto all’indennità di disoccupazione dallo Stato. Si tratterebbe in pratica dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) già prevista dalla riforma Fornero, che però non entrerebbe più a regime nel 2017 ma prima. E che si estenderebbe a una platea più ampia, appunto perché ne avrebbero diritto tutti i lavoratori dipendenti nei quali confluirebbero circa 1,5 milioni di lavoratori attualmente impiegati in contratti a progetto, collaborazioni varie e altre forme di precariato. Per questo il governo è a caccia di circa un miliardo e mezzo di euro da mettere nella legge di Stabilità per il 2015. L’indennità avrebbe un tetto (per l’Aspi nel 2014 è di 1.165 euro) e una durata massima (potrebbe essere allungata da 18 a 24 mesi). I beneficiari dovrebbero però accettare le offerte di formazione e di lavoro congrue, altrimenti perderebbero l’assegno. Sparirebbero prima del previsto la cassa integrazione in deroga e l’indennità di mobilità. Via anche la cassa integrazione per chiusura di aziende. Resterebbe solo la cig ordinaria per momentanei cali di produzione e quella straordinaria per ristrutturazioni aziendali, che però potrebbe essere attivata solo dopo aver attuato riduzioni dell’orario. Il tutto finalizzato a limitare il ricorso alla cig solo ai casi di stretta necessità. Essa potrebbe essere estesa in qualche forma anche alle piccole imprese, che finora hanno beneficiato della cig in deroga a spese dei contribuenti. In questo caso dovrebbero invece pagare i contributi.