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Deficit, dubbi della Ue sulle promesse italiane

Deficit, dubbi della Ue sulle promesse italiane

Roberto Petrini – La Repubblica

«Tutto normale, contatti di routine», dice Pier Carlo Padoan in occasione dell’Eurogruppo. Mentre Renzi continua ad incrociare le spade con Juncker. Ma in realtà la questione che è emersa negli ultimi giorni sui conti pubblici italiani rischia di trasformarsi in una ennesima grana e acuire la tensioni tra Roma e Bruxelles. Le ultime valutazioni di autunno della Commissione, pubblicate martedì scorso, se guardate con attenzione, fanno emergere che il rafforzamento dell’ultima ora di 4,5 miliardi varato da Padoan il 27 ottobre in risposta ai rilievi dell’allora commissario agli Affari monetari Katainen, non è servito a molto. Il mega-assegno, pari allo 0,3 per cento del Pil, firmato dal nostro ministro dell’Economia, è stato considerato praticamente «a vuoto».

Come si ricorderà infatti il contrasto tra Roma e Bruxelles verteva sull’intervento sul deficit strutturale: l’Italia si era presentata con una correzione dello 0,1 per cento (1,5 miliardi) ma la Commissione voleva almeno lo 0,5 (circa 7,5 miliardi). Alla fine Renzi e Padoan dovettero cedere a Bruxelles chiudendo con un intervento dello 0,3 del Pil, i famosi 4,5 miliardi fatti con stretta all’evasione, fondi europei e rinuncia alla riduzione delle tasse. L’emendamento alla “Stabilità” è stato formalizzato ieri.

La «correzione», secondo le previsioni italiane, avrebbe dovuto ridurre il deficit-Pil strutturale, quello che conta ai fini del raggiungimento del pareggio di bilancio dopo la firma del Fiscal Compact: dallo 0,9 per cento contestato da Bruxelles si sarebbe scesi allo 0,6 per cento come cifrato dalla «Relazione di variazione alla nota di aggiornamento al Def» del 28 ottobre. L’intervento avrebbe avuto effetto anche sulla variabile tradizionale di Maastricht: dal 2,9 previsto in settembre al 2,6 post-rafforzamento stimato dal governo. Invece, con un certo stupore emerso tra i palazzi del governo, le previsioni della Commissione hanno ritenuto che l’intervento da 4,5 miliardi abbia avuto effetto sulla riduzione del deficit-Maastricht anche se la discesa viene cifrata al 2,7 (non al 2,6 come sperava il governo). Ma non ha avuto effetto sul deficit strutturale che dallo 0,9 proposto a settembre dall’Italia scenderà per Bruxelles solo dello 0,1 per cento del Pil attestandosi nel 2015 allo 0,8 (e non allo 0,6 come contava Roma).

Questa valutazione si abbatte sulla variabile cruciale che dobbiamo portare a zero nel 2017, dopo aver chiesto il rinvio di due anni del pareggio di bilancio, e anche il giudizio sulla legge di Stabilità potrebbe risentirne: segnali di strada in salita per Italia e Francia sono giunti ieri dal presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem che ha annunciato lo slittamento del verdetto a fine mese. Perché lo sforzo sul «3 per cento di Maastricht» non transita sul deficit «al netto della congiuntura del Fiscal compact»? Il tema è stato posto dal Tesoro italiano da settimane: è stato sollevato dal Cer, oggetto di osservazioni dell’Upb e di un articolo della voce.inf a firma Cottarelli (Fmi) e Giammusso (Tesoro). Il problema è di modelli economici: la Commissione pensa che l’Italia non abbia le potenzialità per crescere più di tanto e dunque, visto che il deficit viene depurato dalla mancata crescita rispetto a quella possibile, lo «sconto» si riduce. L’Italia invece la vede in modo diametralmente opposto.

Una bomba a orologeria di cui la Ue non ha bisogno

Una bomba a orologeria di cui la Ue non ha bisogno

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Una vicenda che, soprattutto, potrebbe scatenare l’ennesima crisi in un’Europa che finora si è già ampiamente dimostrata incapace di risolvere quelle, troppe, che ha e si trascina dietro irrisolte da troppo tempo. Per questo ieri a Bruxelles si sono messi all’opera gli artificieri. Nel corso dell’Ecofin i ministri finanziari hanno moltiplicato i segnali mirati a trasformare un potenziale gioco al massacro di Juncker non nella sua difesa incondizionata ma in una sorta di salvataggio programmato. O almeno questo sembra.

Nessun ministro, nemmeno il presidente di turno Piercarlo Padoan, in una riunione chiamata tra l’altro a discutere di tassazione delle società europee e di come evitare in futuro evasione, frodi ed elusione, ha ritenuto di attaccare il neo-presidente della Commissione Ue. Al contrario. Il francese Pierre Moscovici, oggi responsabile a Bruxelles del Fisco oltre che delle Politiche economiche e finanziarie europee, ha annunciato prossime proposte per l’armonizzazione della normativa Ue «in pieno accordo con il presidente Juncker». E ha ricordato che della questione si discuterà settimana prossima anche al vertice del G-20 a Brisbane.

Parallelamente il tedesco Wolfgang Schauble ha annunciato investimenti per 10 miliardi a sostegno della crescita: un’implicita apertura di credito al piano Ue da 300 miliardi in tre anni proposto da Juncker in luglio e in arrivo in dicembre sul tavolo dei 28 capi di Governo dell’Unione. Fino a ieri era stato proprio Schauble il grande oppositore dell’iniziativa, nella convinzione che solo rigore e riforme siano i mattoni di una crescita sana e duratura. Naturalmente è il rallentamento dell’economia in Germania a consigliargli la correzione di rotta. Però in questo momento l’annuncio rappresenta un assist indiretto al presidente della Commissione in difficoltà.

Nemmeno il presidente dell’Europarlamento, il socialista Martin Schulz, noto castigamatti di evasione, corruzione e economie nere nell’Unione, ha del resto mobilitato l’artiglieria pesante. Tutt’altro. Allora scampato pericolo? Troppo presto per dirlo. Però sembra accertato che, in un momento di profonda crisi economica e politica dell’Europa, i suoi Governi tutto desiderino fuorché aprire un nuovo fronte tellurico. D’altra parte i regimi fiscali compiacenti per le società oggi non solo sono legali ma non sono affatto appannaggio esclusivo del Lussemburgo. Anche Irlanda e Olanda sono nel mirino della stessa inchiesta europea, che si limita ad appurare l’esistenza o meno di aiuti di Stato distorsivi della concorrenza.

Nemmeno Gran Bretagna e Belgio, Malta e Cipro risultano senza peccato. Per questo, a meno che emergano nuovi elementi al momento ignoti, la “criminalizzazione” solitaria di Juncker potrebbe rivelarsi una scelta-boomerang per molti. Meglio allora affrontare la vicenda guardando al futuro invece che al passato e al presente, puntando sull’armonizzazione della fiscalità in Europa. L’impresa finora è stata impossibile, perché ogni decisione in questo caso va presa a 28 e all’unanimità. Ma i tempi cambiano, i bilanci nazionali piangono, i capitali fuggono e i cittadini non possono oltre un certo limite sostenere con le loro tasse il peso dell’«ottimizzazione» fiscale per le imprese. Comunque finirà, la Commissione Juncker che si voleva un interlocutore forte dei Governi, l’antitesi di quella guidata da Josè Barroso, un ponte verso cittadini europei sempre più scettici e incattiviti verso le politiche Ue, rischia però di perdere la sua scommessa ancora prima di aver avuto il tempo di lanciarla.

Dragare i conti

Dragare i conti

Davide Giacalone – Libero

È in atto una doppia perversione: lo scontro politico più interessante e serio si svolge fra le mura della Banca centrale europea, che non ha, né deve o potrebbe avere, legittimità democratica; come se non bastasse, e in modo grottesco, a rendere più difficile la politica espansiva della Bce sono proprio i paesi che ne avrebbero più bisogno. La cancelliera tedesca non ostacola la Bce, ma neanche muove un dito per fermare la Bundesbank, che ha organizzato un drappello di governatori centrali (Lussemburgo, Olanda, Estonia e Lettonia) in modo da gestire la guerriglia contro Mario Draghi. I capi dei governi francese e italiano, che per primi dovrebbero sostenere i programmi della Bce, s’industriano, invece, per trovare buoni argomenti da fornire alla Bundesbank. Questa è la doppia perversione. Ieri affrontata al meglio, ma che non smette di proiettarsi nel futuro.

L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), nel suo Economic Outlook (previsioni economiche), preparato per il G-20 del prossimo 15 novembre, porta acqua al mulino di Draghi e di quanti ritengono necessaria una politica monetaria espansionistica: senza quella e senza riforme la crescita europea si fermerà, creando un problema globale. Il board della Bce, dal canto suo, come illustrato dal presidente in una conferenza stampa, è stato unanime nel vedere nero.

Intendiamoci: siamo i soli, nell’Unione europea, a essere ancora in recessione e in deflazione, talché le previsioni Ocse sulla nostra crescita sono ferme all’asfissia: +0,2 nel 2015, contro il +0,6 su cui si reggono (si fa per dire) i conti del governo. Ma Germania, Francia e Italia sono la parte largamente preponderante della ricchezza e della produzione europee, e, sommate, non corrono proprio per niente. A fronte di ciò Draghi ha detto e ridetto che non basta la politica monetaria, per sentire nuovamente il rombo dei motori, ma è necessario che quella sia accompagnata da riforme interne, che aumentino la competitività, la produttività e l’elasticità economica di ciascuno. Tradotto in modo brutale: meno garanzie e più opportunità; meno pensioni sicure e più rispetto per il risparmio; meno spesa pubblica corrente e più investimenti; meno pressione fiscale, senza nessun “più” ad accompagnarla.

Francia e Italia, inchiodate dall’incapacità delle loro classi dirigenti, rese tremule dal crescere di movimenti politici di rifiuto e di protesta (alimentati dall’incapacità di cui sopra), indebolite da una crisi che si allunga anche per i ritardi nel contrastarla, altro non hanno saputo fare che il contrario del necessario, reclamando maggiore deficit e maggiore debito pubblico. Come un dogato che reclami più droga, supponendo sia la migliore ricetta per disintossicarsi. Nell’anno in cui si sarebbe dovuto porre come ineludibile il tema del debito federale, restiamo appiccicati all’incapacità di gestire quello nazionale.

Accanto a questi grandi paesi, che la paura rende miniature, ci sono quelli cui la crisi è stata fatta pagare con il sangue (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda) e che ora, magari dimenticando che la loro crescita è frutto dei soldi ricevuti (e che noi italiani abbiamo dato), sono alfieri del rigore perché non vogliono che ad altri sia evitato quel che a loro è stato imposto. Oltre la Manica c’è un Regno che ha seriamente rischiato d’essere disunito e la cui guida politica non solo non sa spiegare i danni dell’allontanamento dall’Ue, ma neanche sa presentare i conti dell’immigrazione interna europea: dalla quale guadagnano supponendo di perderci. In questo caos la Germania ancora approfitta d’essersi trovata nella posizione di chi trae vantaggio dalla difesa letterale dei trattati, accrescendo un ruolo egemonico che non ha mai portato fortuna a lei e men che meno all’Europa.

Il solo contrappeso comparso sulla scena è la Bce. Chi sa come e perché il mercato economico comune figliò la moneta unica sa anche il perché: possono esserci paesi forti, non possono esserci paesi che esercitano guida politica. La tragedia è che s’è trasferito dentro la Bce uno scontro politico che doveva trovarsi al Consiglio dei capi di Stato e di governo. Ieri l’esposizione della linea che si seguirà, positiva, ma per tutti impegnativa. La riassumo in cinque punti: 1. restano fermi, al minimo possibile, i tassi d’interesse; 2. il bilancio della Bce crescerà fino ai limiti della sua massima espansione, raggiunti nel 2012, il che significa che circa mille miliardi saranno pompati nel mercato; 3. sono allo studio tutte le possibili misure non convenzionali, compreso l’acquisto di titoli dal mercato (ai riluttanti è stato concesso il concetto di “studio” e l’uso del modo futuro nel coniugare i verbi); 4. i paesi membri devono curare il risanamento dei loro conti pubblici; 5. il patto di stabilità resta la credenziale di credibilità. Inutile sperare nei primi tre punti facendo i furbi sugli ultimi due. Ciò comporta che la legge di stabilità o la riscriviamo subito, o la riscriviamo, in emergenza e debolezza, fra sei mesi.

Che cosa vuole fare la Germania?

Che cosa vuole fare la Germania?

Vincenzo Visco – Il Sole 24 Ore

«Per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l’ordine europeo. Poi ha convinto l’Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando l’integrazione europea, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione». «Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è questo». Questa citazione è tratta da un’intervista al Corriere della Sera di Joschka Fisher, leader dei Verdi, ex ministro degli Esteri della Germania Federale, del 26 maggio 2012, oltre due anni fa, quando era già chiaro come la politica seguita dal governo tedesco e imposta agli altri Paesi dell’Ue, mentre risultava vantaggiosa per la Germania, danneggiava i Paesi più deboli e poteva portare alla disintegrazione dell’euro.

Il fatto che le scelte fondamentali a partire dal 2010 siano state in conflitto con la logica di funzionamento di un’area economica a moneta unica è acquisito. Si tratta di una serie impressionante di errori nella gestione della crisi. Si va dalla decisione imposta dalla signora Merkel secondo cui eventuali crisi bancarie nella zona euro dovessero essere affrontate non dall’Ue bensì singolarmente da ogni singolo Paese, all’accordo di Deauville tra Merkel e un forse inconsapevole Sarkozy, in base al quale si stabilì il principio del cosiddetto Private Sector Involvement, secondo cui ogni assistenza a Paesi con problemi di liquidità (anche se non insolventi) avrebbe dovuto comportare un costo per gli investitori privati. La conseguenza inevitabile di queste decisioni fu la disarticolazione della zona dell’euro, con la divaricazione dei tassi di interesse e il trasferimento degli effetti della crisi finanziaria globale nelle finanze pubbliche dei singoli Paesi. Al tempo stesso, però, l’afflusso dei capitali verso i Paesi europei percepiti come “forti”, Germania in testa, riduceva i tassi di interesse in quei Paesi e creava condizioni di finanziamento per i debiti pubblici e i prestiti privati straordinarie e convenienti. A scapito dei Paesi che subivano gli effetti del flight to quality e l’aumento dei tassi di interesse. Inoltre mentre in questi Paesi si produceva una crisi di liquidità e una restrizione creditizia, nulla di tutto questo avveniva nei Paesi core dell’Unione che potevano continuare a crescere accumulando surplus commerciali impressionanti.

Non diversamente andò la vicenda della crisi Greca: invece di intervenire tempestivamente a circoscrivere il fenomeno nel 2010 quando un salvataggio avrebbe comportato un onere trascurabile per l’Unione, si preferì attendere (nonostante l’avviso contrario del Fmi) fino a quando le banche tedesche e francesi non riuscirono a liberarsi del debito greco da esse detenuto. Ancora una volta interessi nazionali e ristretti avevano la meglio rispetto ad una gestione corretta ed equilibrata di una crisi che coinvolgeva sia pure in modo diverso tutti i Paesi.

Una volta creata la crisi dell’euro che con una gestione responsabile e consapevole si sarebbe facilmente evitata, sempre il Governo tedesco, vedendone i risultati, peraltro del tutto scontati, di aumento dei debiti e dei disavanzi pubblici, imponeva a tutto il continente politiche di austerità indiscriminate ed economicamente insensate in quanto si scambiavano le cause della crisi con i suoi effetti, e una crisi da deflazione del debito con una crisi delle finanze pubbliche. Al tempo stesso si imponevano alla Bce politiche restrittive nonostante la grave crisi di liquidità della zona euro, l’opposto di quanto fatto negli Usa nel Regno Unito e in Giappone e di quanto era necessario, e si frenava, rinviava e limitava l’attuazione dell’Unione bancaria sia per proteggere le banche territoriali e le casse di risparmio tedesche sia per eliminare, nei confronti di un’opinione pubblica sempre più radicalizzata, anche il mero sospetto di un possibile, ancorché solo potenziale, trasferimento di risorse dalla Germania verso gli altri Paesi dell’Unione.

Gli effetti economici, politici e sociali di questo modo di procedere sono ormai evidenti, e pericolosissimi; la previsione pessimista di Fischer sembra sempre più realistica e prossima a realizzarsi. Il problema quindi è il seguente: cosa vuole fare la Germania dell’Europa? È ancora convinta che il progetto che implica cooperazione, solidarietà e pari dignità tra i Paesi meriti di andare avanti? E a quali condizioni? Sono sufficienti le riforme già realizzate o in cantiere nei diversi Paesi? Le prese di posizione di numerosi e importanti esponenti dell’estabilishment tedesco sembrano piuttosto orientate verso una politica di disimpegno dall’euro e dal progetto europeo e influenzate da un neonazionalismo e un’idea di autosufficienza preoccupanti. Al tempo stesso in molti paesi europei monta l’insofferenza nei confronti di un’Europa a guida tedesca e montano i sospetti nei confronti di un vicino ingombrante e sempre più percepito come aggressivo e pericoloso. Non si può non essere preoccupati di tutto questo, e sarebbe opportuno un chiarimento politico serio nel merito. Quando poi si sentono le affermazioni di Barroso e di Schäuble secondo cui la cura starebbe funzionando viene da sorridere, in quanto in realtà il paziente ha rischiato e rischia di morire. Ma nessuno ha ritenuto di dover replicare.

L’Italia, approfittando anche della presidenza di turno della Unione, avrebbe potuto provare a porre la questione politica ed economica nella sua interezza, in modo organico e documentato. Ha invece preferito cercare qualche margine di flessibilità immediatamente contrastato e ridimensionato dalla Commissione. Il problema è che senza una svolta vera che può derivare solo da un dibattito esplicito, l’Europa non potrà sopravvivere, non solo per motivi economici , ma soprattutto perché a livello politico rischia di farsi sempre più strada presso le opinioni pubbliche di numerosi Paesi, l’illusione di scorciatoie regressive.

La terapia di Francoforte non basta senza riforme

La terapia di Francoforte non basta senza riforme

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Anche se ha deciso di mantenere invariati i tassi di interesse, il Consiglio direttivo della Bce di ieri può segnare una svolta importante. In primo luogo, perché fa piazza pulita delle voci secondo cui la leadership di Mario Draghi si era indebolita, perché alcuni (di cui è facile indovinare il passaporto) non condividevano sue recenti posizioni sui rischi di deflazione che l’Europa sta correndo. Nella conferenza stampa (e nel testo scritto, si badi) Draghi ha detto due cose fondamentali: che la Bce riporterà la dimensione del proprio bilancio ai livelli dell’inizio 2012 e che il Consiglio direttivo è unanimemente disposto a prendere in considerazione ulteriori interventi «se necessario».

Sul primo versante, questo significa un’espansione rispetto alle dimensioni attuali di circa 1000 miliardi di euro, quindi un’ulteriore iniezione di liquidità particolarmente significativa e che può sembrare inadeguata solo a chi ritiene che lo spettro della deflazione possa essere scongiurato solo con terapie monetarie, purché non si guardi alle dosi. Un’interpretazione che, guarda caso, fa piacere ai mercati che possono sperare in ulteriori giri di una giostra che ha già raggiunto in molti settori livelli di guardia.

Non meno importante è il messaggio contenuto nel riferimento ad ulteriori possibili misure, da realizzare «se necessario». È un chiaro segnale che a Francoforte si è ben lungi dal ritenere di aver già utilizzato tutte le munizioni possibili. I problemi caso mai scaturiscono dal riferimento al mandato della Bce, che continua ad essere la vera camicia di Nesso della nostra banca centrale e non a caso è l’ostacolo principale ad una politica di quantitative easing pura e semplice. Tempi eccezionali richiedono invece soluzioni eccezionali, come dimostra la recente decisione della Bank of Japan di acquistare Etf su azioni giapponesi, facendo cadere così un ulteriore tabù dell’ortodossia della cosiddetta arte del banchiere centrale. Ma la fantasia tecnica a Francoforte non manca, come si è abbondantemente dimostrato dal culmine della crisi europea ad oggi.

Del resto, lo stesso Draghi in un recente discorso ha esplicitamente detto che la Bce «è pronta a modificare la dimensione e la composizione dei nostri interventi non convenzionali». Ciò significa che il riferimento di Draghi all’ulteriore allentamento della politica monetaria «se necessario» può segnare una svolta non meno importante di quando, con parole assai simili, egli annunciò che la Bce era pronta a fare «tutto il necessario» per salvare l’euro. I mercati ormai sanno che se la Bce annuncia misure indispensabili, poi mantiene le promesse.

Il vero problema, come la Bce non si stanca di ripetere, sono le misure di riforma e di rilancio dell’economia, che spettano ai governi e non alle banche centrali e che sono l’altro grande pilastro insieme alla politica monetaria della lotta alla recessione. Non a caso in un recente intervento tenuto alla Brookings Institution di Washington, Mario Draghi ha rievocato le posizioni di Roosevelt e Keynes nel pieno della Grande Depressione e ha affermato che il problema fondamentale è far aumentare il prodotto potenziale dei Paesi europei, caduto ai minimi storici e che nessuna politica monetaria può da sola risollevare, perché il problema dell’Europa è strutturale, non ciclico.

Oggi il prodotto potenziale dell’Europa nel suo insieme e di ciascun paese, Italia in testa, è troppo basso per assorbire la disoccupazione e per rendere sostenibile gli eccessi di debito accumulati in passato, nel settore pubblico e in quello privato. Nel nostro caso, il problema non è confinato (si fa per dire) al primo. Ormai, larghi strati di imprese, soprattutto di piccole e medie dimensioni, fanno fatica a fronteggiare con gli attuali livelli di redditività il debito accumulato negli anni, come continua a ripetere il Fondo monetario internazionale e come dimostra l’emorragia di crediti bancari di dubbia esigibilità.

Sempre a Washington Mario Draghi ha ammonito contro il rischio di un allentamento della guardia sugli impegni di bilancio dei singoli Paesi europei, che potrebbe far ripartire le tensioni del 2011. Ma ha anche detto che esistono spazi per politiche più espansive: i Paesi in regola dovrebbero usare gli spazi disponibili nel bilancio pubblico (e si spera che il messaggio non si sia perso nel tortuoso cammino fra Francoforte e Berlino) mentre quelli sotto osservazione dovrebbero tagliare parallelamente tasse e spese non produttive.

E non basta, perché Draghi ha aggiunto che i governi europei non hanno bisogno che si ricordi loro quali riforme si devono fare, perché lo sanno benissimo. In realtà, un brillante esempio di litote, cioè della figura retorica con cui si afferma qualcosa negandolo. E infatti, si fa riferimento a un altro recente intervento di un membro del Comitato direttivo della Bce, in cui si elencano puntigliosamente le riforme necessarie per aumentare la produttività e dunque il prodotto potenziale. Che non riguardano solo il mercato del lavoro, come forse qualcuno crede, ma spaziano in molti campi che vanno dagli strumenti per la ristrutturazione del debito delle imprese, alla loro ricapitalizzazione, all’aumento della concorrenza nei settori protetti.

Insomma, se occorre una terapia d’urto, questa non riguarda tanto la moneta quanto le condizioni che incidono sulla produttività delle imprese. Misure analoghe nell’intensità, certo non nel dettaglio tecnico, a quelle prese negli anni Trenta. Ma forse il problema è che dovremmo avere, non solo in Europa, più governanti che abbiano la statura politica di Franklin D. Roosevelt.

Perché Draghi non è amato in Germania

Perché Draghi non è amato in Germania

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Non sono sorpreso dell’aria di fronda – molto diplomaticamentc ricomposta ieri – che spira attorno a Mario Draghi: il presidente della Bce cammina su un filo sospeso. Ma il problema non è il modo poco consensuale con il quale il banchiere italiano guida l’Istituto, come è stato scritto da taluni. Il punto è che il conflitto interno all’Eurozona si sta disvelando. E il simbolo di questo conflitto è il valore da dare alla moneta unica, in un sistema dei prezzi ormai sovranazionale e non più governato dalle vecchie sovranità statuali. Mi aveva colpito l’ondata di critiche venuta dalla Germania in occasione del drastico abbassamento dei tassi di interesse che solo a maggioranza la Bce aveva deciso alcune settimane fa. Tutta la Germania, che è istituzionalmente costruita su una possente architettura di società intermedie (associazioni di risparmiatori, di consumatori, di assicurati e di assicuratori, di piccoli e grandi banchieri, di forti e deboli risparmiatori, eccetera), tutta la possente Germania costruita sul sistema glorificato da Friedrich Hegel nei suoi scritti sulla Costituzione tedesca, tutta la Germania era insorta. La ragione di ciò è profonda e va oltre l’immediato danno materiale che sottoscrittori di titoli di Stato tedeschi possono subire per le manovre della Bce; la ragione si trova, forse non mai così magnificamente esplicitata, nel recente saggio di Michael Hüther, “Die Junge Nation”.

La tesi è quasi disarmante. Il brillante autore ci ricorda che i tedeschi sono una nazione non giovane, giovanissima. Si sono unificati non nel 1870 dopo aver schiacciato sotto il tallone degli Junker la Francia e aver incoronato il loro Kaiser Guglielmo nella Reggia di Versailles: una violenza inaudita di fronte a uno Stato sconfitto che generò un rancore infinito. No, i tedeschi si sono unificati solo nel 1989, con il crollo del Muro e con l’insediamento di 80 milioni di anime nel cuore dell’Europa. Ma queste anime sono così giovani e hanno tanto sofferto da non volersi e potersi assumere nessun ruolo in Europa rispetto all’Europa medesima. Possono e debbono pensare solo a se stesse e alla loro giovane nazione. Del resto, era ben questo che erano riusciti a fare quegli 80 milioni guidati da un capo eccezionale come Helmut Kohl che mise in scacco i Mitterrand e gli Andreotti prima parificando il marco tra Germania Est e Germania Ovest, poi imponendo il marco come modello archetipale al nuovo euro, plasmando lo statuto della Bce non in forma transatlantica (la Federal Reserve americana), ma nella forma dell’ordoliberalismo di Walter Eucken e della sua Nationale Ökonomie. Ossia pensando solo a battere l’inflazione perché la crescita di una nazione così giovane e con un’architettura cetuale sarebbe stata automatica. Chi non l’avesse seguita, quella crescita, sarebbe stato perduto. Ma questo non era e non è un problema dei tedeschi. Gli inglesi capirono subito che qualcosa non funzionava e quindi aderirono solo all’Unione per non lasciare sola la Francia, secondo una vecchia logica diplomatica che affonda le sue radici nel Congresso di Vienna. Tanto per farci capire quanto possa la storia, e quanto diversa sia la saggezza e lo spirito civilizzatore dei popoli. Gli inglesi condannarono sì Napoleone Bonaparte a una precoce morte in esilio ma salvarono la Francia una volta che il mostro era stato sconfitto. Ecco una lezione storico-generale tra ciò che è una politica di equilibrio internazionale e una politica, invece, di dominio internazionale. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Adesso per la politica di dominio è giunto il redde rationem, ossia l’ora della verità. È giunta la recessione, che lo squilibrio strutturale tra Paesi a dominanza teutonica e Paesi a dominanza mediterranea si fa preclara. Il problema, però, è che il plesso dei Paesi mediterranei o del Sud Europa, cui disgraziatamente si va sempre più assimilando la gloriosa Francia, non ha una vera leadership: si cammina in ordine sparso. Per questo da anni insisto nel dire che la solitudine di Draghi non è economica, ma politica. Ha come nemici organici i risparmiatori, gli investitori, le massaie tedesche e come reali amici in Europa inventa non ha nessuno. Una prova di ciò? Si guardi la composizione del nuovo governo europeo del signor Jean-Claude Juncker: domina la giovane nazione tedesca e gli altrettanto suoi giovani vassalli, a cominciare dalla Polonia per finire con gli stati baltici. L’Italia e la Francia sono in un angolo, la Spagna e il Portogallo non si può dire che abbiano dei leader nella Commissione. Del resto, basta pensare ai dieci anni di Manuel Barroso per capire quanto sia diverso il luogo di nascita dal modello culturale che si adotta, quando si assume una carica che sovranazionale e condivisa dovrebbe esserlo per sua stessa natura.

Non vi è dunque speranza? La forbice delle utilità tra le due Europa e dunque destinata ad allargarsi sino al punto da mandare in frantumi l’Europa stessa? Rimane un`ultima speranza: come sempre gli Stati Uniti d’America, oggi come ieri. Mi ha colpito la dichiarazione di Mitch Mc Connell, appena eletto senatore del Kentucky e capo dei repubblicani nell’Alta Camera che ha dedicato la sua prima dichiarazione alla politica commerciale di Obama. L’ha definita troppo timida, priva di risultati, tanto sul versante del Pacifico quanto su quello dell’Atlantico, che a noi europei interessa. Ecco che torna già in gioco il Trattato Transatlantico tra Ue e Usa ed è chiaro che quel trattato non si potrà mai siglare con un’Europa che va verso la deflazione e quindi la recessione. Le conseguenze delle elezioni nordamericane giungono così in Europa e sono l’unica vera speranza che può sorreggere sia Draghi – il solo che può disporre della leva capace di restituire vitalità all’Euroza, purché lo lascino fare – sia l’Europa. Die Junge Nation dovrà rapidamente invecchiare e giungere a una maggiore saggezza. E la saggezza, lo sappiamo, porta con sé l’equilibrio, non il dominio.

Meno di due mesi

Meno di due mesi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Mancano meno di due mesi, anzi sei settimane tolte le feste di Natale, alla fine del semestre europeo a guida italiana. Il rischio è che il periodo si chiuda senza che abbia lasciato traccia alcuna. Nello stesso tempo, lo scontro che si è aperto con la Commissione europea – esplicito quello con Juncker, sotterraneo ma non meno duro quello con altri commissari, cui occorre aggiungere l’ostilità di molta della burocrazia di Bruxelles – e la distanza sempre più larga che ci separa dai tedeschi, vuoi per visioni divergenti vuoi per le diverse sensibilità personali, non rafforza la posizione dell’Italia in un momento in cui la nostra politica di bilancio deve passare il vaglio europeo e le grandi partite in corso nell’Eurozona e nel mondo richiedono più che mai credibilità e capacita negoziale.

Per carità, l’eurosistema è un legno storto, una delle costruzioni istituzionali più imperfette al mondo. E può darsi che vada a schiantarsi (le possibilità non sono poche), forse per implosione – specie se a qualcuno dovesse venire in mente di impedire a Mario Draghi di portare a termine il suo disegno di politica monetaria espansiva – forse perché la finanza mondiale, dominata ancora da Wall Street e dalle grandi banche americane, rischia di propinarci un remake del 2008. Sta di fatto, però, che una nostra debolezza nel contesto europeo – che si aggiunge a quella strutturale della nostra economia – ci rende oltremodo fragili proprio mentre sarebbe necessario il contrario. Renzi deve capirlo: in Europa non è come a casa, dove la logica “molti nemici, molto consenso” funziona. Lì devi difendere i tuoi interessi – sapendo bene quali sono, perché non sempre ne siamo consapevoli – esercitando la leadership, cioè usando il carisma e facendo lobby. Il che avviene solo se metti l’empatia al servizio di dossier ben preparati e ben studiati. E non sbagli valutazione sulle possibili alleanze (credere che Hollande ci avrebbe fatto da spalla contro l’austerità di stampo tedesco è stata una evitabile sciocchezza).

L’esempio più clamoroso e fresco di asimmetria europea è quello del credito. Oggi si stanno ponendo le basi per realizzare l’Unione bancaria, cioè la prima integrazione importante dopo quella monetaria, e sbagliare mosse significa un indebolimento permanente di una struttura portante del sistema economico. Le regole con cui si sono fatti gli esami alle banche e si eserciterà la vigilanza in futuro non sono fastidiosi dettagli tecnici che interessano ai banchieri, ma decidono su chi conterà nel sistema creditizio europeo – e quindi mondiale, proprio ora che il Financial Stability Board si appresta a presentare al prossimo G20 di Brisbane la proposta di aumentare ancora i requisiti di capitale per gli istituti cosiddetti “globalmente sistemici” – ed essersene disinteressati, come hanno fatto gli ultimi governi italiani, è colpa grave. Così come occuparsi, sia come governo nazionale che in sede comunitaria, del Ttip, il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti da cui dipendono le sorti del nostro comparto manifatturiero, non è una noiosa perdita di tempo, ma un impegno di governo fondamentale (anche se non spendibile mediaticamente).

Ma ovviamente, in prima battuta gli interessi da salvaguardare a Bruxelles sono quelli della nostra politica economica. Cosa che richiede anche il battere i pugni sul tavolo – senza farlo sapere, altrimenti chiamasi mossa elettorale finalizzata a prosciugare la pozza di anti europeismo in cui sguazzano i Grillo e i Salvini – ma soprattutto presuppone di aver fatto con diligenza i compiti a casa. Evitando, per esempio, di dire bugie che hanno le gambe corte. Quali? Le poste del bilancio. Per dirne una. Se domani Juncker ci scrivesse una lettera chiedendo come mai nella legge di stabilità abbiamo messo alla voce “recupero di evasione fiscale” 3,4 miliardi per il 2015 quando quest’anno il gettito da lotta all’evasione sarà meno di un terzo (lo stesso ministero dell’Economia ha annunciato come nei primi nove mesi sia stato di 760 milioni), cosa potremmo rispondergli? Che triplichiamo il recupero di evasione perché abbiamo ingaggiato dei veggenti? Che faremo l’ennesimo condono fiscale? Che faremo rientrare i capitali un’altra volta? Oppure, confessiamo la verità, ammettendo che quella cifra, così come quella relativa alla spending review è dilatata per far quadrare i conti?

Insomma, c’è poco tempo per imbracciare il coraggio e la saggezza: non solo perché tra 45 giorni finisce il nostro semestre e perdiamo un’arma utile, ma perché in primavera si rifaranno i conti e se non torneranno scatteranno le clausole di salvaguardia – su cui ora è stato deciso l’assenso della Ue alla manovra – le cui conseguenze saranno, specie dal punto di vista della pressione fiscale per imprese e persone, micidiali. E a rifare i conti non sarà solo Bruxelles, ma anche i mercati finanziari, che si sono messi in stand-by in attesa di dare una nuova zampata ai nostri titoli di stato e all’euro. E questa volta, rispetto a quella del 2011, sarà mortale.

Europa del rigore, Europa dei favori

Europa del rigore, Europa dei favori

Luigi Vicinanza – L’Espresso

Ma che Europa è? Quella prigioniera di parametri intoccabili e di percentuali dello zero-virgola. Quella che ci condanna alla deflazione e a tutto ciò che ne consegue: stagnazione, calo dei consumi, crisi industriale, disoccupazione, vita agra. E ancora quella dei più furbi e scaltri. Dove un Paese fondatore dell’Unione, il Lussemburgo, attira imprese e capitali grazie a un regime fiscale decisamente favorevole sottraendo – sia pure in modo del tutto legittimo – risorse ai partner. Un paradiso fiscale nel cuore del Vecchio Continente, a dispetto del rigore.

Strana Europa. Dalla doppiezza insopportabile, incomprensibile ai più. È ciò che raccontiamo con la nostra inchiesta di copertina, realizzata in esclusiva per l’Italia in collaborazione con un pool di testate internazionali, tra cui “Bbc”, “Guardian”, “Le Monde”, “Suddeutsche Zeitung”. Esiste un buco nero nell’Europa dei vincoli e delle prescrizioni, capace di ingoiare affari milionari, compensando banche, aziende e affaristi con una fiscalità inimmaginabile per chi è costretto a pagare le tasse sul suolo nazionale. Una contraddizione stridente rispetto al regime di regole comuni, pervasive, dettate dall’adozione della moneta unica. Se ne avvantaggiano multinazionali straniere e grandi aziende italiane, da Amazon a Finmeccanica.

Il Granducato del Lussemburgo è uno dei sei Stati promotori dei primi accordi commerciali e poi politici, ormai oltre 60 anni fa, alla base dell’odierna Unione europea. Dal Lussemburgo – di cui è stato primo ministro per 18 anni – proviene l’attuale presidente della Commissione, ]ean Claude Juncker. espressione del gruppo maggioritario nell’Europarlamento, il Partito popolare europeo: a capo di una struttura sovranazionale composta da 28 Stati e 300 milioni di abitanti. Il sogno di una generazione, l’utopia di un continente pacificato dopo i massacri e gli orrori del Novecento. Una speranza: il traguardo dell’euro, la valuta comune capace di rappresentare un’unità di valori ben oltre le persistenti diversità di culture e comportamenti sociali. Con i Paesi mediterranei additati come portatori di un lassismo nei conti pubblici tale da richiedere sempre e comunque vigilanza e rigore. Giusto, giustissimo. Se le regole sono davvero comuni per tutti…

Invece il Lussemburgo si manifesta come un buco nero del sistema fiscale. Chi ha capacità di contrattazione – e l’adeguato sostegno tecnico-finanziario – riesce a spuntare vantaggi strabilianti: 1.400 miliardi di euro all’anno, è stato calcolato, svaniscono dai conti dell’Unione. Tutto regolare. Ma non sempre ciò che non è illecito è opportuno. Eticamente e politicamente. «Non sono il capo di una banda di burocrati; l’Unione europea merita più rispetto, è legittimata non meno dei governi» ha detto Juncker in polemica con il premier italiano Matteo Renzi. Si parlava di debito pubblico, Pil e striminzite percentuali di crescita economica. Questioni essenziali prospettate in questi anni con una rigidità che cozza con la realtà accomodante che raccontiamo. È il corto circuito di una politica europea incomprensibile a larghe fasce dei suoi destinatari. Come in Italia i privilegi e gli sprechi di un ceto politico sordo e cieco hanno alimentato l’onda dell’antipolitica, così in Europa gli egoismi locali e gli opportunismi dei singoli governi stanno facendo montare un risentimento nazional-populista anti-unitario. Forse si può ancora correre ai ripari. Se l’Europa sa ripensare se stessa. La traccia da seguire ha sempre il colore dei soldi. Conduce nel piccolo e ordinato Lussemburgo, preziosa cassaforte del nostro scontento.

Tre regole per restare in Europa

Tre regole per restare in Europa

Tito Boeri – La Repubblica

Matteo Renzi si vanta spesso di avere cambiato l’atteggiamento dell’Italia in Europa. L’Italia è forse il paese fondatore maggiormente assente dall’arena comunitaria negli ultimi 15 anni, avendo giocato un ruolo marginale nella costruzione delle istituzioni europee. Quindi di un cambio di passo ci sarebbe bisogno. E quale migliore occasione del semestre italiano per metterlo in atto? Non passa giorno senza che ci sia, in effetti, qualche scontro istituzionale fra il governo italiano e la Commissione Europea. Ma l’impressione è che lo stile aggressivo, “confrontational”, adottato da Renzi, ci condanni alla stessa marginalità dell’atteggiamento passivo adottato dai governi precedenti.

Potrà forse la rissosità servire a raccogliere consensi in Italia, trovando un comodo capro espiatorio, ma non ci permette di meglio tutelare i nostri interessi e soprattutto quelli che sono convergenti con gli interessi dell’Unione Europea nel suo insieme. Le organizzazioni complesse, e ancora più quelle intergovernative, procedono per aggiustamenti marginali e si chiudono a riccio quando aggredite. Chi, come noi, è in una posizione contrattuale debole può costruire coalizioni vincenti solo rendendosi credibile come rappresentante di interessi più vasti di quelli del proprio paese. Purtroppo i resoconti degli incontri comunitari sono di tutt’altro tenore. E soprattutto tre esempi recenti sono sotto gli occhi di tutti.

Il primo è quello del cammino della legge di stabilità. La Commissione Europea ci ha imposto di dimezzare il contenuto espansivo della nostra legge di bilancio, facendoci ridurre l’aumento del disavanzo nel 2015 da 11,3 a meno di 6 miliardi. Ora, a una sola settimana dal via libera concesso dal vice-presidente Katainen alla legge di stabilità così “dimezzata”, sono arrivate le previsioni della Commissione che prefigurano la richiesta a breve di un’altra correzione di circa 3 miliardi in quanto l’indebitamento strutturale migliorerebbe solo dello 0,1 per cento rispetto al 2014, in luogo dello 0,3 previsto. Legittima la frustrazione di chi deve affrontare il confronto parlamentare su di una manovra che deve costantemente ripartire da capo, come nel gioco dell’oca, con tempistiche che per di più non hanno alcun rispetto per il dibattito parlamentare. Ancora più grave il fatto che la Commissione ci chieda di fatto di annullare il contenuto espansivo della manovra di fronte a un peggioramento della congiuntura. Ma presumibilmente nella situazione dell’Italia si potevano trovare molti altri paesi. Se avessimo fatto presente questi problemi di calendario a tempo debito, avremmo potuto evitare queste incongruenze.

Potevamo anche incidere sul contenuto delle raccomandazioni, che oggi comportano un avvitamento in negativo, con manovre sempre più restrittive e revisioni al ribasso delle stime di crescita. Bastava mettere in discussione il modo con cui vengono stimati parametri cruciali nelle raccomandazioni della Commissione e come vengono interpretate queste stime. Il problema, in soldoni, è che la Commissione attribuisce una parte eccessiva della caduta del reddito in Italia a fattori strutturali, anziché legati alla congiuntura negativa. Questo significa che non abbiamo grandi giustificazioni per politiche espansive anticicliche. Come spiegano Cottarelli e altri sulavoce.info, bastano variazioni di pochi decimali di queste stime, ad esempio allineando quelle della Commissione alle stime dell’Ocse e del Fondo monetario, per legittimare il via libera a manovre molto più espansive di quella che saremo costretti a mettere in atto seguendo i dettami della Commissione. I dati utilizzati a Bruxelles a supporto di queste stime sono poi discutibili: ad esempio, attribuiscono alle ore di cassa integrazione una riduzione permanente, anziché temporanea, delle ore lavorate, contribuendo a ridurre di un terzo il prodotto potenziale, il livello del Pil in condizioni normali. Perché allora il nostro paese non ha contestato fin dall’inizio questi metodi, perché non ha chiesto che le ipotesi e i dati su cui si reggono gli scenari della Commissione venissero resi maggiormente trasparenti, creando un organismo tecnico in grado di valutare i margini di errore cui sono soggette le stime dei modelli e di segnalarne i limiti alle autorità comunitarie? Nessun paese ha interesse a entrare in una specie di lotteria, in cui per via di un decimale di troppo o di meno si rischia di dover riscrivere una legge di bilancio. Non è questione di cambiare i trattati. Né c’è bisogno di rimettere in discussione le regole. Basta ridiscutere il modo con cui vengono messe in atto, per il bene di tutti.

Il secondo esempio è quello degli stress test sul sistema bancario, che si sono conclusi a fine ottobre. Messaggio devastante per la credibilità del nostro sistema bancario e per la stessa Banca d’Italia in quanto siamo il paese in cui il patrimonio iscritto a bilancio dagli istituti di credito sarebbe il più lontano dalla realtà. Anche in questo caso c’è stata una levata di scudi perché gli stress test sarebbero stati troppo penalizzanti nei confronti delle banche italiane e troppo generosi nei confronti di quelle tedesche per via del fatto che hanno valutato in modo eccessivamente benigno i derivati in pancia a Commerzbank e Deutsche Bank. Giuseppe Guzzetti, che ha coalizzato le fondazioni bancarie contro gli aumenti di capitale a Siena e Genova, impedendo che Monte dei Paschi e Carige si rafforzassero patrimonialmente in vista degli stress test, ha avuto parole di fuoco contro la revisione degli attivi bancari da parte della Bce. Ora, ammesso e non concesso che i test fossero artatamente sbilanciati a favore della Germania, dove erano le nostre autorità di vigilanza, i tecnici del nostro ministero dell’economia, quando queste regole sono state discusse e adottate?

L’impressione è che il nostro governo, che si lamenta spesso per la burocrazia di Bruxelles, dovrebbe innanzitutto preoccuparsi di dotare il nostro paese di una burocrazia adeguata. Altri episodi recenti, non comunitari, certificano questa assoluta necessità. Pensiamo al caso dei test di medicina, di cui alle cronache di questi giorni, destinato a lasciarci uno strascico di ricorsi per molti anni a venire (viaggiando su Internet si trovano siti di avvocati che si offrono di preparare ricorsi con tariffe leggermente superiori alle quote di iscrizione ai corsi di laurea). Sorprende che nessuno abbia posto il seguente interrogativo: perché il ministero dell’Università e della Ricerca deve concedere un potere di monopolio assoluto a un ente privato, come Cineca, che non sembra contemplare procedure di controllo ex ante dei test somministrati agli aspiranti medici? E perché non è in grado di gestire al suo interno anche le banche dati che raccolgono le informazioni sulle carriere dei docenti universitari?

Il cambio di passo dell’Italia a livello comunitario dovrebbe infine comportare una maggiore presenza del nostro paese sui temi più importanti di cui si dibatte anche al di fuori del Club Med, il circolo dei paesi del Sud. Di qui il terzo esempio. Si sta consumando in questi giorni uno scontro molto acceso fra Angela Merkel e David Cameron che vorrebbe imporre tetti alla mobilità dei lavoratori comunitari all’interno dell’Unione. Quello della libera circolazione è un principio basilare, fondamentale da presidiare soprattutto all’interno di una unione monetaria. Il nostro paese potrebbe essere alleato di Juncker e della Germania in questa battaglia a difesa della mobilità del lavoro, difendendo un bene molto importante per i paesi che hanno la disoccupazione più alta. Non mi sembra, tuttavia, di avere udito pronunciamenti del governo italiano a riguardo. Mi auguro di essermi sbagliato.

L’Europa deve cambiare rotta

L’Europa deve cambiare rotta

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Venticinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’entusiasmo di allora si è trasformato in un senso di declino che ridicolizza l’ingenuità del nostro ottimismo. L’Europa si confronta con un impoverimento demografico e una stagnazione economica che paiono così inattaccabili da valicare il nostro campo visivo ed essere infatti definiti “secolari”. Anno dopo anno, previsioni economiche come quelle pubblicate ieri da Bruxelles si degradano drasticamente, mentre la fiducia dei cittadini si inaridisce. Il fatto che anche democrazie ben ordinate ed economie solide come Germania e Francia si arrestino svela l’illusione che “fare i propri compiti di casa” sia sufficiente. Se le economie sono interdipendenti, le politiche non possono restare rinchiuse dentro i confini del consenso nazionale.

L’intero Occidente, Giappone e Stati Uniti compresi, è preda di un senso di incertezza ingigantito dal confronto con i modelli asiatici del capitalismo statale. Il contratto sociale delle democrazie liberali sembra superato. Un collega di Brookings descrive il vecchio contratto in questi termini: «Lavorando con burocrazie d’alto livello, governi democratici garantivano crescita, una costante riduzione della povertà, sicurezza fisica ed economica, nonché migliore sanità verso il sogno di Cartesio di sconfiggere la morte con la scienza». L’ottimismo economico si identificava con le finalità individuali e addirittura con il senso dell’esistenza. Non ci si può sorprendere se la disillusione di oggi è altrettanto esistenziale.

Il dramma della disoccupazione dei giovani, spesso istruiti, aperti al mondo o critici della società, evidenzia i limiti del vecchio contratto. Il calo dei redditi da lavoro sta erodendo consumi e crescita, producendo una fase senza precedenti di bassa inflazione e di alti debiti. Le aspettative di inflazione proiettano un calo dei prezzi non più su pochi mesi, ma su dieci anni. L’esempio giapponese non è isolato, negli Stati Uniti la quota del reddito che va in salari e stipendi è al livello più basso da 50 anni, le imprese accrescono la produzione senza assumere nuovi lavoratori nella fascia dei redditi medi, centrale alla tenuta del contratto sociale.

Ma mentre gli Usa hanno ritrovato un passo di crescita che pur squilibrato compra tempo alle speranze dei cittadini, l’Europa non ha alternativa che cambiare rotta. Affidarsi alla sola politica monetaria non basta. Le banche avevano un ruolo critico nel contratto, servendo l’economia secondo logiche che non erano solo di massimizzazione del profitto, ma che poi si erano piegate a interessi di consenso politico. Negli ultimi venti anni il canale finanziario ha invece assunto vita propria. Il distacco è vistoso oggi quando l’iniezione di quantità inaudite di moneta manca di ravvivare la crescita, se non nell’unico paese per il quale l’industria bancaria ha un ruolo non di servizio all’economia reale ma di industria esportatrice, la Gran Bretagna.

Per almeno 30 anni, il debito pubblico ha assorbito il potenziale latente di instabilità politica. Se in Grecia, Spagna o Portogallo era servito a comprare consenso per le nuove democrazie emerse dalle dittature, in Italia e Germania aveva anche compensato le fratture geografiche interne ai due Paesi. La tenacia tedesca nel denunciare i pericoli dei debiti pubblici, che oggi sono politicamente meno giustificati, non va dunque sottovalutata. Ma globalizzazione e tecnologia hanno stravolto le coordinate, lo spazio e il tempo, del contratto sociale.

La bassa inflazione fa crescere il valore reale dei debiti in tutta l’euro area. Il richiamo all’austerità come valore in sé non è sufficiente. La scarsa comprensione del vuoto di investimenti in Europa è una denuncia dei limiti di visione politica. La caduta del Muro aveva catalizzato la risposta politica europea: individui coraggiosi avevano aperto i confini; l’Occidente aveva riconosciuto le ragioni di investire anche materialmente nel futuro comune; lanciando l’euro, la Ue aveva assecondato l’istinto degli individui, abbattendo i confini, ampliando il mercato e accrescendo la libera circolazione. Poi le paure e le marce indietro. Un quarto di secolo dopo, l’esistenza della Ue è sfidata da chi vuole, non solo a Londra, richiudere i confini. Sentimenti xenofobi stanno dilagando.

In Francia il Fronte nazionale è il primo partito; in Germania il 44% degli elettori ritiene che il partito anti-europeo Alternativa per la Germania rappresenti l’interesse dei tedeschi. La politica si è ritirata dall’ambizione di promuovere il bene pubblico di lungo termine. È tornato il riferimento dei confini nazionali, ne è responsabile anche la gestione della crisi europea in cui a ogni Stato è chiesto prima di tutto di essere autosufficiente: “Chacun sa merde”, a ciascuno il proprio lerciume, come disse nel 2008 a proposito delle banche europee Angela Merkel, proprio il primo leader tedesco che veniva dall’altro lato del Muro. Ora il lerciume è di tutti.