fisco

Patrimoniali nascoste sulla casa

Patrimoniali nascoste sulla casa

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

A pensarci bene, è un bersaglio molto facile da centrare. Non può muoversi, non può cambiare Paese, non può rifugiarsi in un paradiso fiscale. Stiamo parlando della casa. Forse è per questo che il Fisco negli ultimi anni l’ha presa di mira. Quasi tutti gli esecutivi che si sono succeduti hanno puntato sugli immobili per aumentare il gettito statale e locale. Così è avvenuto con il passaggio dall’Ici all’Imu. Poi, una mini tregua, con l’esonero per le abitazioni principali. Ma il risparmio è stato in parte (se non completamente) compensato dall’arrivo della Tasi, la tassa sui servizi. Il tutto in un continuo cambiamento di norme, regole e scadenze che hanno disorientato i contributi. E l’incertezza sulle tasse da pagare è il nemico peggiore per un Paese che deve ritrovare soprattutto fiducia.

Speriamo che questo copione non si ripeta con l’operazione avviata in questi giorni. Vale a dire la nomina delle commissioni censuarie, primo passo perla Grande riforma (incompiuta) del sistema tributario: quella del Catasto. Il valore delle case non verrà più determinato in base alle rendite, ma con un mix tra superficie e valori di mercato. E, nell’epoca dei Big Data, anche il Fisco si convertirà agli algoritmi perché userà proprio un algoritmo per elaborare valutazioni corrette. Speriamo sia una formula efficiente come quella che ha fatto la fortuna di Google e Facebook. Rivedere il valore degli immobili è una decisione giusta, perché le attuali valutazioni non corrispondono alla realtà e, soprattutto, sono sperequate. I centri cittadini sono pieni di immobili di pregio che, per i ritardi del Catasto, continuano a pagare le tasse come beni di poco pregio. Mentre i bilocali nuovi nelle periferie hanno valutazioni vicine a quelle di mercato. E tasse altrettanto elevate.

La riforma del Catasto deve essere improntata all’equità e non diventare l’ennesima occasione per battere cassa. Secondo alcune stime i rincari, senza correttivi, arriverebbero anche al 200%. È vero che viene prevista una clausola di salvaguardia, ma solo a livello comunale. Spesso quando si decide di tassare le ricchezze, invece di colpire evasori e grandi patrimoni immobiliari si è finito per pesare soprattutto su chi possiede una sola abitazione, quella in cui vive, e sulla quale magari paga anche il mutuo. Sugli immobili gravano già oggi due/tre patrimoniali mascherate. Non aggiungiamoci anche quella del nuovo Catasto. Ricordiamo che le case a chi ci abita non danno reddito. Mentre il Fisco il reddito dalle case lo pretende. Eccome. Ogni anno. E in denaro contante.

Gettito casa

Gettito casa

Davide Giacalone – Libero

Ci sono le premesse per una nuova tregenda fiscale sulla casa. Solo che i demoni tributari non si danno convegno di notte, come quando ancora si celavano, ma sfilano in pieno giorno, esibendosi e pretendendo di passare per giulive innovazioni. Nella riforma del catasto trovo un concetto, quello dell’“invarianza di gettito”, che tradisce presenze stregonesche.

Il catasto è vecchio e va riformato. Giusto. I valori catastali vanno aggiornati e portati verso quelli di mercato. Bene. Il governo, con un decreto legislativo, ha varato la riforma, subito rilanciata dai giornali. No, questo è esagerato: ha riattivato le commissioni censuarie, che ci vorrà molto tempo perché si compongano e inizino a lavorare (uno o due anni), e ancor di più perché finiscano di censire e valutare (cinque anni). Il tempo per correggere gli errori c’è, dunque. Il rischio è che aumentando le rendite catastali si possano raddoppiare e triplicare le tasse sulla casa facendo finta di lasciarle invariate. Perché cresce la base imponibile. L’antidoto a questa macumba dovrebbe essere l’invarianza di gettito, prevista nella legge. Ma non mi convince. Per due ragioni.

La prima è che se i valori fiscalizzati tendono a seguire quelli di mercato non si vede perché si debba stabilire l’invarianza, laddove, invece, il gettito fiscale dovrebbe diminuire al decrescere del valore di mercato di un immobile. Se non varia il gettito non si capisce perché far variare il valore. È bene che si voglia evitare il rischio prima ricordato, del raddoppio e della triplicazione, ma allora si deve scrivere che il gettito non deve crescere, non che deve restare fisso.

La seconda ragione per cui non mi convince è che due sono i tratti distintivi della riforma: a. l’imposizione sarà (almeno in parte) stabilita dai Comuni; b. la rivalutazione degli estimi porterà alcuni a pagare di più, ma altri a pagare di meno. Domanda: se le aliquote vengono fissate da 8.000 comuni e se sappiamo in partenza che ciascuno potrà vedere cambiare quel che deve al fisco, come si fa a sapere prima che il gettito sarà invariato? Risposta: non si può, è impossibile. Lo sapremo solo dopo, a tasse esatte. Ma siccome esiste un preciso vincolo di legge, che sarà quasi impossibile non violare, ciò metterà in moto la più rodata macchina nazionale, quella del ricorso: i singoli proprietari di casa potranno attivarsi, in autotutela, contestando le nuove rendite presso gli uffici delle entrate, salvo, ove si sentano dare torto, fare ricorso alle commissioni tributarie, e senza escludere il ricorso al Tar, per gli aspetti di legittimità. Se parte un tale inferno altro che cinque, ci metteremo cinquanta anni, per venirne a capo.

Sarebbe saggio dribblare fin da subito l’accusa di volontaria e consapevole violazione della legge, da parte dello stesso Stato che la emana, stabilendo che potendo sapere solo l’anno successivo se il gettito è cresciuto, l’eccedenza sarà restituita, per quota parte, a tutti quei contribuenti che si sono trovati a pagare più dell’anno precedente. Anzi: autorizzandoli a calcolare la differenza e detrarla dai tributi futuri. Questo sempre che si stia giocano un’onesta partita di riforma del catasto e non una disonesta trappola per spremere più soldi dalle case. Anche perché rappresentano la grande parte del patrimonio degli italiani, il cui valore ci rende esemplari nel rapporto con l’indebitamento aggregato (pubblico più privato). Continuare a farlo scendere, mediante fisco mefistofelico, è da sciocchi, ma assatanati di liquidi altrui.

I due fattori che fanno salire le tasse

I due fattori che fanno salire le tasse

Stefano Lepri – La Stampa

Il Piemonte è la prima Regione ad aumentare le imposte di sua competenza; non resterà certo l’unica. Si ripete un copione già visto in anni passati: una parte di ciò che nella contabilità delle amministrazioni centrali figura come tagli di spesa, arrivando agli enti locali si trasforma in aumento di tributi. Nulla di strano, in sé, che alcuni presidenti di Regione o sindaci preferiscano agire sulle tasse piuttosto che ridurre servizi. E’ una scelta politica che rientra nelle loro competenze. Il guaio è che due fattori potentissimi operano per spingerli verso l’aumento delle tasse. Il primo sono i difetti di costruzione delle autonomie locali. Il secondo è la struttura clientelare del consenso politico.

Come cittadini abbiamo abbastanza chiaro quali servizi ci dà la Regione: la sanità, i trasporti locali, e così via. Notiamo assai meno quali tributi aumentano o no per sua decisione; sì, nel 730 o nel Cud è indicata l’addizionale regionale all’Irpef, ma capita poco anche di fare confronti, con l’anno prima o con altre regioni. Mentre l’Irap, che in parte va alle Regioni, sarà abbassata per decisione centrale. Dunque è probabile che al momento del voto per il rinnovo del consiglio regionale gli elettori valutino la qualità e la quantità dei servizi ricevuti più che il livello delle tasse pagate. Nel caso dei Comuni, almeno, si sa che dipendono dagli amministratori in carica le aliquote di imposta sugli immobili e sulla raccolta dei rifiuti. Inoltre, i bilanci degli enti locali sono spesso ardui da leggere: distinguere le colpe di chi ha governato ieri da quelle di chi governa oggi di rado è facile. Alle Regioni sono stati garantiti poteri assai ampi, specie dopo la riforma del Titolo quinto della Costituzione, in vigore dal 2002. La responsabilità delle scelte non è né legata a tributi propri né misurata da parametri trasparenti.

L’allargamento delle competenze regionali ha anche aggravato il secondo fattore, la raccolta del consenso attraverso strumenti di spesa. La politica locale ad esempio ha sviluppato una straordinaria abilità di utilizzare etichette attraenti e moderne – startup, microcredito, venture capital, innovazione – per erogare finanziamenti di dubbia utilità e senza alcuna verifica degli effetti. D’altra parte il settore che fin dall’inizio assorbiva il grosso delle risorse regionali, la sanità, viene gelosamente difeso anche in quelle Regioni che si sono mostrate più manifestamente incapaci di gestirlo. Quale mai è la logica con cui il commissariamento della sanità da parte del governo centrale di regola avviene nominando commissario il presidente regionale in carica?

Passi in avanti ora sono promessi nel dialogo tra Stato e Regioni, «costi standard sul serio» (nelle parole di Matteo Renzi) per eliminare gli sprechi più stridenti, «trasparenza totale online di tutte le spese». Ma da entrambe le parti resta il timore, tipico di molte democrazie di oggi, che tagliare le spese danneggi il consenso politico di chi governa assai più che aumentare le tasse. Uno dei danni più insidiosi di questo misto di stagnazione e recessione da cui l’economia italiana non riesce a uscire – i dati di ieri della produzione industriale sono brutti – è che pare spento il senso del dramma. Prevale la rassegnazione, mentre «abbiamo già dato» è l’insegna di tutti quelli che protestano o che recalcitrano.

Occorre riprendere le linee di progetti convincenti. Dove sono finite le riforme «una al mese»? La rigidità stolida con cui alcuni nella Commissione di Bruxelles – e diversi governi d’Europa – difendono a nostro danno una interpretazione letterale del «Fiscal Compact» che ormai al resto del mondo appare assurda, si spiega solo con una radicale sfiducia che l’Italia possa cambiare. Siamo in grado di dimostrare il contrario?

Il trucco: tassa nascosta per accontentare Bruxelles

Il trucco: tassa nascosta per accontentare Bruxelles

Antonio Signorini – Il Giornale

La lettera sulla legge di Stabilità inviata dalla Commissione europea e la relativa risposta del ministero dell’Economia di qualche giorno fa, erano missive a carico del destinatario, cioè del contribuente italiano. Il francobollo è arrivato ieri sotto forma di una clausola di salvaguardia che consiste in un possibile (e probabile) aumento delle accise sui carburanti da 728 milioni.

Questi i fatti. Il governo italiano, per andare incontro alle richieste di Bruxelles, ha promesso alla Commissione di alzare la correzione del disavanzo contenuta nella «finanziaria» dall’originario 0,1% allo 0,3%. Tra le coperture c’è un’estensione del nuovo meccanismo di pagamento dell’Iva, il reverse charge, a ipermercati, supermercati e discount alimentari. Incasso previsto, 728 milioni. Copertura un po’ traballante, quindi un emendamento del governo alla legge di Stabilità ha garantito la copertura con la più classica delle clausole di salvaguardia: un aumento delle accise. Nella legge c’era già una garanzia da 988 milioni, ora passa a 1,716 miliardi. Tutti a carico degli automobilisti. Ma ci sono brutte notizie anche per i fumatori di sigarette di fascia bassa. Ieri il governo, insieme alla riforma delle commissioni censuarie del catasto, ha varato il riordino delle accise, che dovrebbe portare un maggior gettito di circa 200 milioni. Sforzi notevoli ma forse non sufficienti, visto che il governo europeo potrebbe chiederci un’ulteriore correzione dei conti del 2015 da tre miliardi. Da cercare, manco a dirlo, con nuove tasse.

Con l’Ue il clima resta difficile, la procedura di infrazione è ancora sul tavolo, ma le tensioni non sembrano essere avvertite nel Parlamento, visto che gli emendamenti alla legge di Stabilità presentati in commissione Bilancio sono in gran parte tentativi di allargare i cordoni. Molti chiedono l’eliminazione dell’anticipo del Tfr, altri la deducibilità Imu per gli immobili delle imprese e modifiche all’aumento delle aliquote su fondi pensione e casse previdenziali private. Tutti all’insegna della maggiore spesa gli emendamenti del Pd. Dal partito del premier Matteo Renzi arrivano richieste per eliminare il taglio dei fondi ai patronati dei sindacati, 45 milioni a Roma Capitale e 700 milioni per gli ammortizzatori sociali. Da segnalare un emendamento Ncd per il ritorno all’obbligo dell’esposizione del bollo auto e quello della Lega Nord per regolamentare la prostituzione nelle abitazioni private.

Tutto questo mentre per l’economia italiana continuano ad arrivare segnali pessimi. Ieri su industria e competitività. Secondo l’Istat l’indice della produzione industriale di settembre è diminuito in termini tendenziali, quindi rispetto all’anno precedente, del 2,9%. Produzione in calo anche rispetto ad agosto: meno 0,9%. Un autunno freddissimo, quindi. A partire dal beni di consumo, che hanno segnato un calo del 3,2%. Colpa sicuramente della crisi, ma le zavorre che stanno tirando giù l’Italia sono problemi strutturali. Uno è la burocrazia che, secondo un’analisi della Confederazione nazionale dell’artigianato, costa alle Pmi circa 4,5 miliardi di euro all’anno. Ogni piccolo imprenditore deve sborsare un euro ogni 10 minuti, 6 euro all’ora, 48 euro ogni giorno lavorativo, 11mila euro all’anno. Si tratta, ha spiegato il presidente della Cna Daniele Vaccarino, di «una realtà, ci dispiace dirlo, distante anni luce dalla vita e dalle esigenze delle imprese». La confederazione ricorda che l’Italia risulta solo al 56esimo posto su 189 nella graduatoria dei Paesi dove è più facile fare impresa (Doing Business 2015 ), dietro a Germania, Francia, Spagna e Regno Unito, Stati Uniti e Giappone. E a vedere il continuo ricorso all’aumento delle tasse, si capisce il perché. La notizia non è che l’Italia è in crisi, ma che nessuno faccia niente, anche se le cause sono note.

La stangata delle tasse retroattive

La stangata delle tasse retroattive

Sergio Rame – Il Giornale

Non solo l’affanno di staR dietro a una pressione fiscale che strozza le imprese e frena la ripresa. Ma anche la beffa di nuove imposte che hanno effetto per il passato e acconti maggiorati che hanno titolo di anticipo. Negli ultimi anni – dal governo Monti in poi, tanto per intenderci – l’urgenza di far quadrare i conti pubblici ha aumentato le imposte retroattive. Tasse oggi, ma che si pagano “da ieri”. Il conto è salatissimo: 10 miliardi di euro.

Viene da chiedersi se il governo può prendersi gioco dei contribuenti in modo così spudorato. Ebbene sì. Come spiegano Cristiano Dell’Oste e Giovanni Parente sul Sole 24Ore, lo Statuto del contribuente vieta di introdurre imposte con effetto retroattivo. Ma in Italia c’è sempre un “ma” che rende possibile l’impossibile. Dal momento che lo Statuto del contribuente è regolamentato da una legge ordinaria, può essere benissimo superato da altre leggi o decreti legge. E il gioco è fatto. Tanto che l’ex premier Mario Monti ne ha fatto ampiamente uso. Tra le tante invenzioni del bocconiano ricordiamo i 2,2 miliardi in più di addizionale Irpef per l’anno d’imposta 2011. Niente male se si considera che si è insediato a Palazzo Chigi il 9 novembre del 2011, praticamente a fine anno.

Imparata la lezione da Monti, anche Matteo Renzi non è da meno. Prendiamo la legge di Stabilità che il parlamento sta approvando in queste settimane. Ebbene, tra le pagine della manovra spunta anche l’aumento dall’11,5% al 20% della tassazione sui rendimenti dei fondi pensione con effetti fiscali a partire dal primo gennaio del 2014. Un trucchetto che porterà alle casse dell’erario pubblico la bellezza di 450 milioni di euro in più. E ancora: il governo Renzi ha anche deciso di incrementare il prelievo sui dividendi incassati da fondazioni e trust e di ritoccare (all’insù, ovviamente) l’aliquota base dell’Irap. Quest’ultimo ritocchino, come fa notare il Sole 24Ore, “di fatto cancella lo sconto deciso con il decreto sugli 80 euro”.

Ma non ci sono solo tasse retroattive. L’ingegno della politica è senza limiti. E sempre negli ultimi tre anni ha creato ad hoc acconti maggiorati a titolo di “anticipo”. “Nel 2013, mettendo insieme i maxi-versamenti per le banche e le imprese – continuano Dell’Oste e Parente sul Sole 24Ore – lo Stato ha incassato quasi 3,7 miliardi di competenza degli anni d’imposta successiva”. Eppure nessuno grida allo scandalo. Nel 2014 il trend non è cambiato. Renzi si è affrettato a rastrellare tutti i 600 milioni di euro dell’imposta sostitutiva sulla rivalutazione dei beni d’impresa.

Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Una scatolina grigia, 15 centimetri per 20, collegabile con una connessione Usb al computer e il gioco è fatto. Voi acquistate in contanti o con carta, il commerciante batte il prezzo del prodotto, dalla piccola stampante esce lo scontrino cartaceo. Ma soprattutto, in tempo reale, da quello stesso apparecchio la transazione viene trasmessa per mezzo di un indirizzo e-mail ad un server che la archivia, una sorta di cloud (nuvola, ndr), capace di memorizzare milioni di operazioni. Le prime stampanti di scontrini digitali sono già in commercio, essendo state autorizzate a gennaio scorso. La novità è che il governo, per incentivarne l’uso, potrebbe accollarsene in tutto o in parte il costo, attraverso un meccanismo di detrazione fiscale.

Ma partiamo dal principio, che è la delega fiscale che ha già prodotto un decreto delegato sulla dichiarazione dei redditi precompilata che arriverà a casa di 20 milioni di contribuenti dall’aprile 2015. Ora però il governo ha intenzione di spingersi oltre e integrare quel 730 con un’ulteriore facilitazione: la possibilità di completare la dichiarazione precompilata con alcune spese detraibili. Nasce qui la necessità di introdurre lo scontrino digitale in uno dei prossimi decreti delegati, su cui sta lavorando una squadra di tecnici, coordinata dal viceministro Luigi Casero. In particolare si prevederà che, attraverso l’uso degli scontrini digitali, le spese sostenute per il medico, i farmaci, la palestra dei figli vengano inviate immediatamente al cervellone dell’Agenzia delle Entrate, con il semplice uso della tessera sanitaria, in modo che la dichiarazione che verrà inviata a casa del contribuente, a partire dal 2016, possa già contenere le detrazioni.

Ma cosa ci guadagna la controparte? Minori oneri per la conservazione e la rendicontazione delle scritture contabili: per i più piccoli il governo sta pensando di abolire l’obbligo di tenuta dei registri dei corrispettivi, oltre a concedere una detrazione per l’acquisto delle stampanti digitali. L’operazione però non sarebbe completa se non contemplasse l’attivazione del sistema della fatturazione elettronica anche tra privati (oggi è già in vigore nel rapporto tra lo Stato e i privati). Anche questa è allo studio e dovrebbe essere inserita nel prossimo decreto delegato, insieme con alcuni sistemi di incentivazione per chi adopererà la fatturazione elettronica: minori controlli fiscali, minori obblighi di presentazione di documentazione contabile.

Il quadro si completa con un accordo con il sistema bancario per rendere meno oneroso l’utilizzo di tutti i sistemi di pagamento elettronici, i cosiddetti Pos. L’obiettivo del governo è creare un sistema totalmente tracciabile ma anche sicuro: il server, ad esempio, dovrà soddisfare alcuni requisiti tecnologici di riservatezza. L’operazione è complessa e richiede ancora che alcune autorizzazioni giungano dall’Unione europea ma il governo conta che possa andare completamente a regime entro il 2018. Il risultato dovrebbe essere uno snellimento del sistema fiscale ma anche un forte recupero dell’evasione, in particolare di quella dell’Iva, l’imposta più evasa nel nostro Paese. In attesa che siano pronte le autorizzazioni e le infrastrutture informatiche, il recupero dell’evasione dell’Iva è stato temporaneamente affidato al sistema del reverse charge (inversione contabile,ndr) dal venditore all’acquirente (escluso quello finale).

Fisco in concorrenza

Fisco in concorrenza

Davide Giacalone – Libero

All’interno dell’Unione europea il fisco è oggetto di concorrenza. Poteva andare bene fino alla fine del secolo scorso, meno avendo in tasca una moneta comune. Il bello della concorrenza è che da qualche parte si paga meno. La concorrenza diventa nociva quando è sleale. Ed è questo che deve essere rimproverato al Lussemburgo, e per esso a chi lo ha lungamente governato e che ora è capo della Commissione europea: Jean Claude Juncker.

Vantaggi fiscali comparati si trovano in molti paesi europei. Mi dispiace che non se ne trovino in Italia. Ne avevamo uno piccolino, relativo al risparmio, e lo abbiamo cancellato. Se vogliamo chiamarli “paradisi fiscali” facciamolo pure, ma ricordiamoci che ce ne sono elementi non solo in Lussemburgo, ma anche in Olanda, Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Austria, Malta, Cipro. E non è un elenco completo. Si è indotti a credere che i vantaggi fiscali esistano solo per i ricchi e per le società grosse, ma non è così: il Portogallo offre un vantaggio fiscale (tasse zero) ai pensionati non portoghesi che vanno a vivere colà; nel Regno Unito i fondi accumulati per la pensione, fino ad un tetto, sono totalmente esentasse; in Austria le agevolazioni valgono anche per le piccole aziende che vi traslocano; nelle istituzioni finanziarie che amministrano i vostri fondi pensioni e i vostri risparmi è garantito che ci siano società lussemburghesi, delle quali indirettamente profittate. E così via. Sul lato “ricchi” la Francia non fece a tempo a introdurre una demenziale tassa che già un folto drappello prese residenza in Belgio. Tutti questi paesi sono membri dell’Ue e, naturalmente, concorrono a determinare e popolare le istituzioni dell’Unione. Commissione compresa.

Si devono tenere fermi due concetti: a. lo spazio comune, con libera circolazione di persone, beni e soldi (con prevalenza di valuta unica), comporta una armonizzazione fiscale; b. questo non deve avvenire allineandosi ai peggiori, il paradiso è preferibile all’inferno. Tutto bene, quindi, in capo al Lussemburgo ed a Juncker? No, ma non perché debbano uniformarsi all’inferno, bensì perché lo creano, sotto forma di caos e opacità.

Vediamo perché, senza introdurre complicazioni tecniche. I punti delicati sono due, posto che sui redditi delle persone fisiche si pagano tasse alte (ma è bassa l’Iva): il fatturato interno a un gruppo e gli accordi fiscali preventivi. Immaginiamo un gruppo (ce ne sono centinaia) che ha società italiane e lussemburghesi, siccome in quel Paese si pagano tasse minime, o nulle, sui profitti, scelgono di tenere tutti i costi sui conti italiani e tutti gli utili su quelli lussemburghesi. È una truffa, se riesci a dimostrarlo. Sarebbe folle criminalizzare quelli che hanno società lussemburghesi, ma non è facile dimostrare la falsa fatturazione infragruppo. Specie se le autorità del Granducato non collaborano. E quelle non collaborano perché approfittano di un gettito fiscale altrimenti, per loro, inesistente. Tanto che offrono la possibilità di trattare in anticipo condizioni personalizzate: l’interessato si reca, accompagnato da un buon professionista, presso l’ufficio preposto, espone il tipo di società che vuole trasferire e quanto pensa di volere pagare, quelli considerano e negoziano, raggiungendo un accordo di “tax ruling”. Poi collaborano certo nel metterlo in difficoltà. E questa è concorrenza sleale. Tanto che la Commissione europea ha contestato proprio i vantaggi selettivi, ovvero le regole non scritte ma pattuite, non per tutti ma per alcuni. E chi c’è oggi, a capo della Commissione? Un signore, Juncker, che quel sistema ha lungamente accudito, se proprio non creato.

In tutti i paesi dell’Ue ci sono interessati a lasciare le cose come stanno. In tutti ci sono società che, ove cacciate dal Lussemburgo, non tornerebbero in patria, ma si cercherebbero casa in altri paradisi fiscali. Ciò, però, non può consentire un trucco per ottenere il Paese con il più alto reddito pro capite e il più basso debito pubblico. È difficile non che guidi gli altri, ma che anche solo ci conviva. Questo è il gigantesco problema. Preesisteva alla presidenza Juncker e non è limitato al solo Lussemburgo. Qui lo scriviamo da anni, sia con riferimento a quel Paese (si pensi alla scalata di Telecom Italia) che ad altri (avvertimmo all’epoca del default delle banche cipriote). È divenuto lampante. Bene, ma sempre a patto che si vada verso la diffusione del paradiso, non verso la socializzazione dell’inferno.

Abolizione dello scontrino, ennesimo annuncio di un fisco che complica invece di semplificare

Abolizione dello scontrino, ennesimo annuncio di un fisco che complica invece di semplificare

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La direttrice dell’agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha annunciato che presto sarà abolito lo scontrino fiscale. I commercianti esulteranno. Le imprese che producono le macchinette per emettere gli scontrini, un po’ meno. I professionisti delle note spese, sulle prime, saranno sconcertati. E molti cittadini che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo resteranno invece rabbiosamente interdetti, sospettando che si voglia far sparire l’unico strumento che costringe artigiani e negozianti a compiere il proprio dovere con il Fisco. Niente di tutto questo, ovvio: ci assicurano che è soltanto semplificazione. Dalla carta alla tracciabilità elettronica. Il premier Matteo Renzi non aveva forse promesso di portare l’Italia fuori dal medioevo digitale?

Benissimo, allora.Se non fosse che quando il Fisco parla di cambiare le regole, o peggio ancora accenna a qualche semplificazione, vengono i brividi. Non c’è ministro delle Finanze che da quarant’anni a questa parte non abbia annunciato una riforma fiscale. Con il solo risultato di accrescere gli adempimenti, aumentare la burocrazia e far salire dunque i costi per le imprese e i cittadini e per lo Stato. Quante volte sono cambiate le regole fiscali non lo sa nemmeno chi si accanisce a inondarci di norme e circolari. Corre quindi l’obbligo di ricordare i numeri contenuti in uno studio della Confartigianato, secondo cui nei 2292 giorni intercorsi fra il 29 aprile 2008 e l’8 agosto 2014, periodo durante il quale anche il nome dell’attuale direttrice delle Entrate compariva negli organigrammi dei vertici degli apparati fiscali, sono stati emanati 46 provvedimenti contenenti 691 norme di natura tributaria. Della quali ben 418 hanno complicato la vita a cittadini e aziende, contro le 96 che l’hanno semplificata e le 177 che non hanno avuto particolari effetti burocratici. Negli ultimi sei anni e mezzo il Fisco ha sfornato una complicazione alla settimana: lo sa Rossella Orlandi?

Un fisco senza ideologie

Un fisco senza ideologie

Stefano Lepri – La Stampa

Solo l’emotività con cui in Italia si parla di tasse pub far apparire questa come una svolta epocale, o come una mossa politica con chissà quali sottintesi. Sarebbe più utile ragionare su dove passi il confine tra inutili vessazioni burocratiche e ineliminabili doveri civili. La mentalità nazionale è purtroppo incline a confondere. Abituati a subire vari comportamenti illegali altrui, ci inalberiamo quando veniamo richiamati noi a rispettare le norme. A una diffusa inosservanza i poteri pubblici talvolta reagiscono imponendo obblighi severissimi con il retropensiero che almeno forse ne sarà rispettata la metà. Ma non aver chiaro quando occorra davvero rispettare le leggi e quando no è un tremendo fattore di inefficienza.

Come ha detto ieri il governatore della Banca d’Italia, le varie forme di illegalità, ovvero criminalità organizzata, corruzione e evasione fiscale, portano ad usare male le risorse di cui disponiamo, rendono difficile la collaborazione tra i cittadini; insomma frenano la crescita. Le tasse sono al centro del dibattito politico, ed è giusto, dato che ne paghiamo tante (30% del prodotto lordo è la cifra esatta, più 13-14% di contributi sociali che finanziano le pensioni). Ma occorre anche constatare che nei vent’anni da cui «meno tasse» è diventato slogan elettorale vincente, il carico tributario è aumentato.

In passato lo scontro è avvenuto per linee di categoria (partite Iva contro lavoratori dipendenti) o tra schemi ideologici. L’attuale governo sta ben attento a non ripetere questo copione. Prende anche atto dell’esperienza: passati tentativi di incidere sull’evasione fiscale con strumenti repressivi hanno ottenuto successi di gettito ma sembrano esser costati molti voti. Alcune promesse, come la semplificazione, e la stessa abolizione dello scontrino, non sono pert) affatto nuove. Occorre guardare se novità vere appaiono nei provvedimenti.

Nella manovra di bilancio figurano ora ben 4,26 miliardi di euro da recupero dell’evasione fiscale. È una cifra enorme, che sulle prime è stata giudicata donchisciottesca. In realtà il governo si affida per la gran parte a una norma concreta e sensata, far versare l’Iva da chi compra e non da chi vende, se a comprare sono lo Stato oppure la grande distribuzione commerciale. Un recupero di gettito evaso (dai fornitori dello Stato oppure dai grossisti) è certo pur se nulla garantisce che arriverà a quella somma. Molto popolare dovrebbe risultare il nuovo regime agevolato per i contribuenti minimi Iva. Forse un milione di persone potranno scegliere di pagare una imposta forfettaria del 15% con adempimenti assai ridotti. Si tratta di una scommessa sul civismo, dall’esito difficile da prevedere, poiché alcuni che piccoli non sono potrebbero tentare di fingersi tali.

In prospettiva, una più ampia registrazione elettronica di dati potrebbe sollevare da incombenze scomode. Ma non illudiamoci che il progresso sia ben accetto a tutti. Lo scontrino appunto scomparirà quando i registratori di cassa trasmetteranno immediatamente i ricavi al fisco: siamo sicuri che per ostacolare questa innovazione non si troveranno mille scuse? Matteo Renzi sembra ambire a una riforma fiscale non intimidatoria, che non colpevolizzi nessuno come evasore potenziale. Però su alcuni punti sarà inevitabile incontrare resistenze, e vincerle, se si vuole fare sul serio. Una prova importante sarà l’obbligo a un maggior uso di carte di credito e bancomat, che dà trasparenza e allinea agli altri Paesi avanzati.

L’arma impropria del fisco europeo

L’arma impropria del fisco europeo

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Tra scontri e lanci di lacrimogeni, a Bruxelles ieri hanno manifestato in 100.000 contro il rigore, i tagli per 11 miliardi del nuovo governo di Charles Michel. “Le Soir”, il principale quotidiano francofono del Paese, titolava a 5 colonne: «Così il Lussemburgo aggira il fisco belga». Sta quasi tutto qui, tra le tensioni sociali anti-rigore che aumentano in tutta l’eurozona, fragilizzata da recessione, deflazione e disoccupati record, e le rivelazioni del Lux-leaks sul quasi azzeramento delle tasse a favore, non certo dei cittadini, ma delle società con sede nel Granducato, il nuovo paradigma esplosivo che potrebbe investire l’eurozona. E non risparmiare neppure la stabilità delle sue banche che proprio in Lussemburgo hanno uno dei loro “santuari ” preferiti: protetto, sia pure ancora per poco, da segreto bancario e fisco compiacente oltre che consumato artefice di finanza creativa, derivati e simili sfuggiti, come dovunque in Europa, agli esami su qualità degli attivi di bilancio e stress test che hanno nei giorni scorsi preceduto l’avvento dell’Unione bancaria europea. Ovviamente di mezzo ci sono anche l’ex-premier Jean-Claude Juncker, la nuova Commissione Ue che presiede e una possibile crisi inter-istituzionale qualora l’inchiesta in corso a Bruxelles da pura verifica circa l’esistenza o meno di illeciti aiuti fiscali di Stato si trasformasse in una valanga politica fuori controllo. Rischio remoto? Difficile dirlo.

La Commissione guidata da un altro lussemburghese, Jacques Santer, cadde per quasi niente: un favoritismo da quattro soldi al dentista del commissario francese Edith Cresson. Oggi l’eurozona è stressata da sei anni di rigore da cavallo, che in qualche paese sta riportando crescita, ma nel complesso l’ha ridotta all’area economica che nel mondo cresce meno di tutte le altre. Le cure dimagranti dei bilanci e le riforme non sono finite, al contrario sono la “condicio sine qua non” per sperare in un piano Ue di investimenti da 300 miliardi in 3 anni, in una boccata di ossigeno per la crescita europea. Tra le misure sollecitate da Bruxelles e condivise dai Governi c’è la lotta all’evasione e all’elusione fiscale: un tasto sensibile nell’immaginario collettivo perché una sorta di compensazione per i sacrifici fatti e la garanzia di equità nei confronti di tutti i contribuenti. Ma qui il terreno si fa molto scivoloso. Prima di tutto perché il Lussemburgo non è l’unico imputato di eccesso di generosità fiscale nei confronti delle multinazionali per attirarne i capitali. Gli siedono accanto, nell’inchiesta in corso, Irlanda e Olanda. E altri potrebbero aggiungersi in futuro: Gran Bretagna, Malta, Cipro e lo stesso Belgio. E poi perché i regimi societari iper-agevolati in Europa non sono affatto vietati.

I tentativi di armonizzare la pressione fiscale su questo fronte sono finora miseramente falliti, nonostante i ricorrenti assalti di Germania e Francia. Risultato: la concorrenza tra i vari sistemi fiscali è prassi lecita e consolidata, che ha tra l’altro l’implicito vantaggio di stimolare il calo della pressione in Europa: oggi supera di circa 10 punti quella degli Stati Uniti, per non parlare degli emergenti. Un evidente handicap competitivo. La questione che il nuovo responsabile Ue alla Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, dovrà dirimere è stabilire se le agevolazioni concesse in Lussemburgo, come in Irlanda e Olanda, contengano o no aiuti pubblici illeciti in quanto distorsivi della concorrenza sul mercato interno. I bilanci nazionali affamati di risorse e il drenaggio di capitali favorito dalla globalizzazione e sempre più incontrollabile spingono i Governi Ue e Ocse a una stretta nelle regole. Le piazze in rivolta sono l’altra molla ad agire. Fino a far saltare la Commissione Juncker? «Ci sono troppi paesi in ballo nella vicenda. Ormai con le “confort letters” la Gran Bretagna batte l’Olanda» dice un esperto Ue. Molti però si chiedono come Juncker, con un passato da “vampiro” fiscale ai danni dei partner, possa oggi avere la statura morale per distribuire pagelle e sacrifici a molte delle sue vecchie vittime. Non ci fossero molti vampiri in Europa, e di tutti i tipi, il rilievo sarebbe ineccepibile. Purtroppo invece non è facile tranciare giudizi nei meandri delle troppe contraddizioni europee.