franco bechis

Con Renzi 203mila posti di lavoro in meno

Con Renzi 203mila posti di lavoro in meno

Franco Bechis – Libero

Sotto la guida di Matteo Renzi l’italia è diventato il paese con la maglia nera nell’area dell’euro per aumento del tasso di disoccupazione. A novembre 2014 il tasso di disoccupazione in italia è salito al 13,4%, che è il dato più alto della storia delle rilevazioni fatte dall’Istat. Nell’area dell’euro è il sesto tasso di disoccupazione dopo quelli di Grecia, Spagna, Cipro, Croazia e Portogallo. Ma fra i 28 paesi dell’Unione l’Italia è quello in cui la crescita della disoccupazione è stata maggiore nell’ultimo anno: un anno fa il tasso era infatti al 12,5%. Gran parte di questa variazione negativa è avvenuta proprio con il governo Renzi: a fine febbraio il tasso di disoccupazione era al 12,7%. Un dato che evidenzia l’inefficacia delle politiche economiche adottate dal governo, che hanno provocato danni e non gli attesi benefici. La perdita di occupati è legata tutta a scelte di politiche nazionali e non al ciclo economico: in 22 paesi su 28 in Europa infatti è avvenuto l’esatto contrario, e senza l’Italia il dato della disoccupazione sia nell’area dell’euro che all’interno dell’Unione europea sarebbe migliorato nell’ultimo anno (e invece è stabile). Enorme il divario con la Germania, dove il tasso di disoccupazione è sceso al 5%, meno della metà di quello italiano.

Tutti indicatori principali rivelati ieri dall’Istat sono negativi per l’Italia: cresce il tasso di disoccupazione giovanile, che tocca la quota monstre del 43,9%, dimostrando come gli effetti dell’originario decreto legge sul job act della primavera scorsa siano stati nulli. A novembre 2014 poi gli occupati erano 22 milioni 310 mila, in diminuzione dello 0,2% sia rispetto al mese precedente (-48 mila) sia su base annua (-42 mila). il tasso di occupazione, pari al 55,5%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e rimane invariato rispetto a dodici mesi prima. il numero assoluto dei disoccupati, pari a 3 milioni 457 mila, aumenta dell’1,2% rispetto al mese precedente (+40mila) e dell’8,3% su base annua (+264mila).

Giusto un mese fa Renzi aveva provato a leggere in altro modo dati che già allora erano negativi, sostenendo: «I dati della disoccupazione ci preoccupano. Ma il dato degli occupati in realtà sta crescendo. In Italia ci sono più persone che lavorano rispetto a quando abbiamo iniziato l’esperienza di governo. «Ci sono più di centomila posti di lavoro in più», aveva assicurato il premier, pur ammettendo «non basta: siccome negli anni precedenti si è perso un milione di posti di lavoro, per riuscire a recuperare c’è ancora tanto tanto lavoro da fare. Non bisogna negare l’evidenza dei problemi – sottolinea il premier – ma neanche guardare solo il bicchiere mezzo vuoto». Ottimista era stato anche il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che aveva rilevato un dato degli occupati a settembre che avrebbe evidenziato «82mila posti di lavoro in più ed è il miglior dato da inizio 2013. È un bel risultato perché è un segno di speranza». Allora entrambe sembrarono ad economisti e osservatori posizioni ottimistiche un po’ forzate. Oggi la fredda verità dei numeri svela la propaganda utilizzata e per settimane propagata ad ampie mani in ogni dibattito e tweet dai Renzi boys.

Da febbraio 2014, quando Renzi ha preso le redini del governo il tasso di disoccupazione generale è salito di 0,7 punti percentuali, quello della disoccupazione giovanile è cresciuto di 1,6 punti dal 42,3 al 43,9%, quello della disoccupazione femminile è lievitato di 1,1 punti percentuali passando dal 13,5 al 14,6%. In quello stesso arco di tempo, durante il governo Renzi il numero di occupati è sceso di 14 mila unità (e non aumentato di 100 mila, come disse il premier con una bugia), passando da 22 milioni e 324 mila occupati a 22 milioni e 310 mila occupati di fine novembre. Al contrario il numero totale dei disoccupati è salito da 3 milioni e 254 mila a 3 milioni e 457 mila unità: sotto il governo Renzi 203 mila disoccupati in più. La variazione è stata negativa sia per la disoccupazione giovanile (54 mila disoccupati in più in soli nove mesi) che per la disoccupazione femminile, cresciuta nello stesso periodo di 145 mila unità, passando da 1 milione e 452 mila a 1 milione e 597 mila disoccupate.

Sotto il governo Renzi dunque i disoccupati in totale sono cresciuti del 6,23%, e all’interno di questo drammatico dato i più penalizzati sono state proprio le categorie più deboli che secondo la propaganda dell’esecutivo sarebbero dovuti essere i beneficiari del cambio di verso nelle politiche economiche. Quei giovani cui era stato indirizzato il primo job act si sono trovati con l’8 per cento di disoccupazione in più. Ma il dato che sorprende rispetto alla vulgata governativa è stata la crescita straordinaria della disoccupazione femminile: +9,98%. Sarà anche vero che al governo le renziane hanno ottenuto un numero di poltrone di primo piano che non aveva precedenti, come vero che qualche donna vip ha ottenuto uno strapuntino di rilievo nelle poltrone di sottogoverno: è innegabile però che a tutte le altre italiane che non facevano parte della corte con il govemo Renzi è andata peggio come mai era accaduto nella storia.

Equitalia, strozzini di Stato

Equitalia, strozzini di Stato

Franco Bechis – Libero

Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest’ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,56 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?».

Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n. 28 rate mensili». Il piano di ammortamento – scrivono- è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi dimora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano.

Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta.

Il primo gennaio scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: uffici giudiziari applicano il 4,5%. L’ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell’1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l’ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

I tecnici accusano: manovra colabrodo

I tecnici accusano: manovra colabrodo

Franco Bechis – Libero

Finanza creativa come ai bei vecchi tempi e cifre appese in aria a modelli teorici inventati lì per lì. Dalla proroga dello sconto degli 80 euro alla riduzione dell’Irap, dal Tfr in busta paga alla lotta all’evasione, fino ai rischi notevoli contenuti nelle norme sulla tesoreria unica che coinvolgono la Cassa depositi e prestiti, la manovra di Matteo Renzi sembra con i piedi di argilla come raramente è avvenuto negli ultimi anni.

Come era accaduto qualche mese fa con altri provvedimenti economici, i tecnici del Servizio bilancio del Parlamento l’hanno passata incontro luce segnalando numerosi rischi e altrettante incongruenze che potrebbero fare ballare per cifre anche notevoli i conti dello Stato. Allora furono i tecnici del Senato, che per questo loro prezioso lavoro istituzionale furono pubblicamente sbeffeggiati dallo stesso Renzi, poi difesi (non proprio vibratamente) dal presidente del Senato, Piero Grasso. Ora è meglio che si prepari a incrociare la spada Laura Boldrini, perché a fare pezzi la legge di stabilità sono i tecnici del servizio Bilancio della Camera. Ecco come nelle principali voci.

80 euro
Prima osservazione: le simulazioni su cui si basano gli effetti di finanza pubblica del bonus da 80 euro si basano su modelli abbastanza di fantasia. E curiosamente – nonostante la norma identica – divergono non poco dalla relazione tecnica del decreto dell’aprile scorso che concedeva la stessa agevolazione. Attenzione però, perché «la microsimulazione è effettuata con riferimento ai redditi 2012, estrapolati al 2015», avvertono i tecnici della Boldrini, perché da allora a oggi molti possono essere usciti dalla platea dei beneficiari ed altri esservi entrati. Bisogna però sapere quanti sono entrati e quanti sono usciti per fare bene i calcoli.

Sconti Irap
Anche qui il modello di riferimento viene ritenuto piuttosto fantasioso e un po’ improvvisato. I tecnici sono tali e non segnalano temi politici come fa la stampa. Lì si è evidenziata la beffa dello sconto Irap che non c’è, perché retroattivamente vengono tolte le riduzioni di aliquote stabilite proprio con il decreto 80 euro. Una presa in giro delle imprese, però fatto alla carlona come tutte le cose di questo esecutivo. Segnalano i tecnici: «l’abrogazione dell’art. 2 del DL n. 66/2014, che aveva disposto la riduzione delle aliquote IRAP, non determina in via automatica il ripristino delle precedenti maggiori aliquote in base alle quali la relazione tecnica ha quantificato gli effetti positivi di gettito». Detto fra noi:meglio così. L’aumento delle aliquote può essere impugnato dalle imprese, perché la norma è fatta male.

Tfr in busta paga
Non costa niente alle imprese, diceva il governo. Bugia: la relazione tecnica inserisce nuove entrate per il fisco. Come? «Le maggiori entrate sembrerebbero infatti derivare dall’aumento per le aziende interessate degli sgravi contributivi previsti, cui dovrebbero tuttavia corrispondere minori deduzioni fiscali».

Ammortizzatori sociali
Qui c’è un fondo fantasma, perché viene legato al Jobs act, bandiera di Renzi che al momento non c’è. Con la finanza pubblica però non si può giocare: «le disposizioni in esame istituiscono un Fondo di finanziamento per l’attuazione delle modifiche in materia di lavoro e di ammortizzatori sociali, che verranno definite a seguito dell’adozione dei decreti di attuazione all’apposita legge di delega,già approvata dal Senato e attualmente all’esame presso la Camera dei deputati. In proposito non risulta possibile procedere a una verifica di tali effetti non essendo allo stato definita la nuova disciplina relativa alle materie oggetto di delega».

Sistema tesoreria unico
È forse il tema più delicato dell’intera manovra, ed è quello di cui si è parlato meno. I compiti che vengono girati alla Cassa depositi e prestiti hanno un rischio enorme: quello che venga consolidata anche quell’area nei conti dello Stato. Con un’esplosione del debito pubblico: «In merito al trasferimento del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato presso la Cassa depositi e prestiti», scrivono i tecnici della Boldrini, «andrebbe espressamente escluso che tale operazione possa determinare un rischio di inclusione della Cassa nel perimetro della p.a. con conseguenti effetti negativi sui saldi di finanza pubblica e sul debito».

Evasione fiscale
Anche qui le norme sembrano scritte da principianti. Si prevedono entrate massicce su simulazioni vecchie e fatte su settori che nulla c’entrano con i provvedimenti. E attenzione: «occorrerebbe acquisire elementi volti a verificare che il maggior gettito imputato alle disposizioni in esame abbia effettivamente carattere aggiuntivo rispetto a quello ascritto a provvedimenti di contrasto all’evasione già adottati».

Renzi tassa più di Letta

Renzi tassa più di Letta

Franco Bechis – Libero

Al momento la differenza è di 10 miliardi di euro, cifra che è sicuramente destinata a cambiare quando finalmente sarà rivelata la relazione tecnica alla legge di stabilità 2015. Ma fino a quel documento – che non incide sui conti del 2014 – la differenza fra il governo di Matteo Renzi e quello di Enrico Letta è esattamente quella: 10 miliardi. E non è poco, perché si tratta di tasse. Con i suoi provvedimenti fino ad oggi il governo Renzi ha segnato nelle relazioni tecniche che li accompagnavano 13 miliardi e 414 milioni di euro di nuove entrate fiscali. Durante tutto il governo di Enrico Letta, con la sola esclusione delle clausole di salvaguardia future (che vengono contabilizzate solo quando scattano), le nuove entrate nette furono di 3 miliardi e 436,5 milioni di euro (anche in questo caso la fonte è nelle relazioni tecniche dei provvedimenti che accompagnavano disegni di legge e decreti).

Sarete sorpresi dal Renzi tassatore. Il premier in carica sostiene infatti di avere fatto la più grande operazione di alleggerimento della pressione fiscale nella storia di Italia. E si riferisce al suo bonus 80 euro e alla riduzione Irap per le imprese. Gli 80 euro sono effettivamente arrivati in busta paga. Ma tecnicamente quelli erogati nel 2014 non hanno toccato nemmeno di un decimale di punto la pressione fiscale prevista. Era un bonus, una sorta di elargizione da parte dell’esecutivo in carica proprio alla vigilia delle elezioni europee (che infatti hanno premiato Renzi e il suo Pd più o meno come al- l’epoca la scarpa donata ai napoletani prima del voto aveva premiato Achille Lauro e la dc dell’epoca). È stato contabilizzato in aumento della spesa pubblica fra i trasferimenti alle famiglie, e così è stato inserito anche nei provvedimenti di finanza pubblica del governo. Non è andato quindi a diminuire la pressione fiscale complessiva, come invece ha fatto (per cifre molto inferiori) lo sconto Irap alle imprese che ora verrà completamente riassorbito nei 5 miliardi del 2015 previsti dalla nuova legge di stabilità.

Il cosiddetto decreto sugli 80 euro (che comprendeva anche l’Irap) aveva invece in relazione tecnica 10,8 miliardi di maggiori entrate tributarie, altri 4,7 miliardi di maggiori entrate extratributarie e 7,2 miliardi di minori entrate tributarie. La variazione netta che si è portata dietro era di 8,3 miliardi di maggiori tasse. Tre di queste erano state conteggiate per l’aumento di sei punti dell’aliquota di tassazione sulle rendite finanziarie, che è passata dal primo luglio scorso dal 20 al 26 per cento. Al governo Renzi spetta la firma anche sul decreto che fa entrate in vigore la Tasi: è stato il suo primo provvedimento, e poco importa che sia conseguente alle previsioni della legge di stabilità precedente. In quel decreto veniva di fatto riassorbita l’Imu sulla prima casa che il governo Letta aveva cancellato nel 2013: si tratta di 3,7 miliardi di tasse in più sulle famiglie. Ma la cifra è indirettamente aumentata, perché il governo precedente aveva approvato un fondo da 500 milioni per il 2014 da girare ai Comuni finalizzato per legge alla concessione delle detrazioni prima casa e figli per le famiglie con redditi più bassi (per loro la Tasi rappresenta una stangata imprevìsta, perchè di fatto con le detrazioni prima l’Imu non la pagavano).

Come suo primo atto Renzi ha incrementato di 125 milioni di euro quel fondo per i Comuni, ma ha abrogato la finalizzazione.Via le detrazioni, è come fosse aumentata la pressione fiscale sulla prima casa per 625 milioni di euro. Nei mesi scorsi con altri due provvedimenti Renzi ha aumentato la tassazione dei tabacchi di 163 milioni di euro l’anno e – per finanziare l’Ace – le accise sulla benzina di 435,4 milioni di euro in più anni futuri (ma già decisi con legge). Altre piccole tasse messe vanno da quelle inserite nel decreto sulla cultura, al nuovo contributo unificato previsto per i pignoramenti, alle maggiori entrate contributive obbligatorie previste dal primo decreto sul jobs act.

Anche Letta non ha scherzato con le nuove tasse, ma è riuscito ben più del suo successore a equilibrarle con la cancellazione di altri tributi. Ha tolto l’Imu e inserito le detrazioni sulla Tasi (poi cancellate da Renzi). Nella sua legge di stabilità ha messo nuove entrate da 8,5 miliardi di euro (in parte sulle banche), e previsto cali di tasse per quasi 3 miliardi di euro al netto delle clausole di salvaguardia. In tutto 5,6 miliardi in più. Ma ha tolto tasse sulla prima casa e anche su alcuni immobili produttivi per quasi 4,5 miliardi di euro. Ha aumentato la tassazione sui giochi e concesso sgravi contributivi più o meno per la stessa cifra. Ha costretto le imprese ad anticipi di imposta anche consistenti per 655 milioni di euro. Si è trovato di fronte a una clausola di salvaguardia messa da Mario Monti sull’Iva. È riuscito a rimandarla di tre mesi con uno sgravio di 1,05 miliardi di euro. Non è riuscito a farlo per gli ultimi tre mesi dall’anno, con un aggravio identico. Sul 2013 il risultato netto è stato nullo.

LA SCHEDA

Sgravi e aggravi
A fronte di sgravi Irap concessi alle imprese pari a 4,1 miliardi di euro la legge di Stabilità ha cancellato di fatto tutti i benefici sulla medesima Imposta introdotti dal governo Letta: 1,9 miliardi.

Clausola capestro
Qualora in corso d’anno (2015) le previsioni contenute nella finanziaria non fossero rispettate scatterebbe la clausola di salvaguardia che farebbe scattare nuove tasse, sotto forma di Iva e accise. Ben 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017 e addirittura 28 l’anno successivo.

Tagli lineari
Sia sui ministeri sia sulle amministrazioni centrali viene operato un taglio che complessivamente vale 6,1 miliardi. Il meccanismo è quello del taglio lineare applicato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e tanto criticato.

Regioni spremute
Altri 4 miliardi di risparmi dovrebbero arrivare da «efficientamenti» della spesa nelle Regioni. In questo caso, addirittura, l’esecutivo non fissa neppure le linee guida degli interventi. La scelta spetterebbe ai governatori. Palazzo Chigi non ha tenuto conto nemmeno del lavoro svolto al riguardo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli.

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Franco Bechis – Libero

Quei poverelli delle piccole e medie imprese italiane ce l’hanno ancora lì che campeggia sul loro portale web: facciona di Matteo Renzi e titolo «Debiti PA, Renzi shock: 60 miliardi in 15 giorni». La data era quella del 26 febbraio scorso. Le povere imprese che da lunghi mesi attendevano dallo Stato i pagamenti loro dovuti, ci avevano creduto. E si capisce: il nuovo presidente del Consiglio nel suo discorso per ottenere la fiducia alle Camere aveva detto: «Il primo impegno è lo sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione». Poi era apparso a Ballarò, intervistato all’epoca da Giovanni Floris, e lì aveva annunciato il famoso intervento shock: «La Spagna l’ha fatto da 50 miliardi di euro. Io penso di più: 60». In quanto tempo? «Il tempo di preparare un emendamento: Diciamo due settimane».

Non è andata così, e lo sanno bene i creditori dello Stato. Quella promessa resterà la più famosa, anche perché è la prima e più clamorosa tradita da Renzi premier. In corsa ha tentato di correggere la rotta, e da Bruno Vespa aveva allungato i termini di quelle due settimane, spostate al «21 settembre giorno di San Matteo. Se mantengo la promes-sa, lei Vespa che è scettico andrà a piedi in pellegrinaggio da Firenze a Monte Senario. Se non la mantengo, so dove mi mandano gli italiani». La promessa non è stata mantenuta, ma il 21 settembre Renzi ha sostenuto il contrario, poggiandosi sulla lentezza dei conteggi della pubblica amministrazione, che erano fermi a metà luglio. Ora sono usciti i dati aggiomati al 22 settembre scorso, e il bluff del premier è stato tragicamente svelato a chiunque voglia andarselo a leggere sul sito Internet del ministero dell’Economia e delle Finanze. Con una possibilità in più: i dati sono relativi ai primi otto mesi esatti del govemo Renzi. E sono perfettamente comparabili con quelli degli ultimi otto mesi del governo guidato da Enrico Letta, perché è proprio in quel periodo che sono iniziati i primi pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese. E il raffronto che Libero oggi è in grado di offrire ai suoi lettori è impietoso per il governo attuale. Perché Letta è stato due volte e mezzo più veloce e più efficace di
Renzi.

Ecco i numeri. Ad oggi nel bilancio dello Stato – grazie all’emissione di nuovi titoli di Stato dedicati – sono stati stanziati per pagare i crediti delle imprese con la pubblica amministrazione 56,839 miliardi di euro. Una cifra comunque inferiore ai 60 miliardi promessi da Renzi, ma non di molto. Solo che l’83,63% di questa somma, pari a 47,539 miliardi di euro, era già stata stanziata da Enrico Letta prima del ribaltone a palazzo Chigi. Quei soldi erano già tutti quando Renzi ha fatto le sue promesse in Parlamento e a Ballarò. Quindi non potevano fare parte dei 60 miliardi promessi, che avrebbero dovuto essere nuovi pagamenti. In otto mesi Renzi ha stanziato invece solo 9,3 miliardi di euro, pari al 16,37% dello stanziamento totale. Avere stanziato soldi non basta, però. Oltre a metterli in bilancio aumentando il debito pubblico italiano, bisogna anche metterli a disposizione di ministeri ed enti locali che sono poi quelli che materialmente debbono saldare i debiti che hanno con le imprese italiane per le commesse ricevute in passato. Di quei 56,839 miliardi stanziati solo 38,4 miliardi sono stati messi a disposizione degli enti pubblici che dovevano pagare entro il 22 settembre scorso.

Ma anche questa cifra racconta solo in parte. Perché i debiti effettivamente saldati sono ancora meno: a quella data, dopo 16 mesi (8 di Letta e 8 di Renzi) i pagamenti effettivamente avvenuti ammontavano a 31,3 miliardi di euro. Di questi Letta ne ha effettuati durante il suo governo 22,430 miliardi, e cioè il 71,67% (quasi i tre quarti) dei pagamenti totali avvenuti. In otto mesi i soldi arrivati alle imprese grazie a Renzi sono appena 8,87 miliardi di euro, pari al 28,33% dei pagamenti totali. In media il governo Letta ha pagato debiti alle imprese per 2,8 miliardi al mese. Il governo Renzi per 1,1 miliardi al mese, quindi a velocità due volte e mezza inferiore al predecessore. Dei due è Matteo il premier lumaca, Letta al suo confronto sembrava Usain Bolt, il primatista mondiale dei 100 e 200 metri…

Sbaglia l’Erario? Paga il commercialista

Sbaglia l’Erario? Paga il commercialista

Franco Bechis – Libero

I commercialisti e gli intermediari autorizzati come i Caf pagheranno per gli errori dell’Agenzia delle Entrate. Nonostante le richieste di modifica avanzate dalle commissioni parlamentari e le promesse avanzate negli incontri con i professionisti, il governo non modificherà la sostanza più controversa del decreto legislativo sulla semplificazione fiscale, quello che stabilisce la messa a disposizione dal 2015 della dichiarazione dei redditi precompilata.

Il provvedimento è uno dei fiori all’occhiello del governo Renzi, che a inizio estate aveva inviato a Camera e Senato la prima bozza di decreto legislativo sulla «dichiarazione dei redditi a casa». Molti punti però non sono piaciuti alla maggioranza che aveva inserito nei pareri votati sia alla Camera che al Senato decine di richieste di modifica. Il governo le ha quasi tutte rigettate con una procedura che non ha molti precedenti e ha inviato il nuovo testo per un parere alle commissioni parlamentari. Scelta un po’ inutile, vista l’inefficacia dei pareri precedenti, ma la forma è salva. Il decreto bis del governo non modifica il suo impianto: la dichiarazione dei redditi precompilata verrà inviata «per via telematica» ai pensionati e ai lavoratori dipendenti, e probabilmente non tutti ne ricaveranno grande vantaggio, costretti anche solo per imperizia tecnologica a rivolgersi a un intermediario come il commercialista o il Caf.

Ottenuta quella dichiarazione dei redditi precompilata i contribuenti avranno due facoltà: accettarla così come è, presentandola senza correzioni. Oppure modificarla anche solo per inserire detrazioni o deduzioni a cui si ha diritto (ad esempio le spese mediche). In tale caso la dichiarazione andrà ricompilata come non fosse arrivata dalla Agenzia delle Entrate e ogni vantaggio pratico sparirà. Ma sia nel primo caso (si rimanda indietro la dichiarazione ricevuta), che nel secondo (la si cambia inserendo deduzioni e detrazioni), l’Agenzia delle Entrate potrà effettuare un controllo formale e contestare le cifre inserite. Non lo farà nei confronti del singolo contribuente, a meno che non ci sia dolo o colpa manifesta, ma sanzionerà il commercialista o il Caf che presenta la dichiarazione dei redditi apponendovi il visto di conformità.

L’intermediario quindi dovrà controllare anche la semplice dichiarazione precompilata dall’Agenzia delle Entrate, perché se lo Stato compie errori per il difetto di incrocio delle sue banche dati (che infatti funzionano non alla perfezione), scatteranno sanzioni a commercialisti e Caf. Camera e Senato avevano chiesto di fare sparire questa norma, che sembra illogica: se lo Stato non è in grado di compilare una dichiarazione dei redditi fedele, perché mai dovrebbe essere in grado di controllare meglio un commercialista? Ma il governo è stato irremovibile: gli intermediari sono pagati per il loro lavoro, per cui debbono accettare il rischio conseguente. L’unica cosa che si concede loro è un po’ di tempo (da luglio al 10 novembre) per rettificare i dati presentati pagando una sanzione ridotta di un ottavo del minimo previsto.

I nuovi 51 miliardi di tasse: pane, latte e ancora case

I nuovi 51 miliardi di tasse: pane, latte e ancora case

Franco Bechis – Libero

È un giochino che ormai procede da quattro anni buoni di finanza pubblica. Dall’ultimo anno del governo Berlusconi in poi: lo fece Giulio Tremonti nel 2011, l’ha ripetuto Mario Monti nel 2012 e visto che non c’è due senza tre, è toccato pure ad Enrico Letta nel 2013. Il giochino è questo: si scrive una super manovra dettata dall’Europa, ma non si ha voglia né coraggio di presentare ai propri elettori un salasso senza precedenti. Quindi per fare tornare i numeri si infilano molte norme in assoluta libertà, ben sapendo che in gran parte non daranno nessuna entrata o risparmio di spesa reale. Lo sanno bene i ministri dell’Economia italiani, ma ovviamente lo capiscono anche i super-controllori dell’Ue a cui bisogna chiedere il via libera per ogni manovra economica. Così come finisce il giochino? Con l’inserimento di una clausola di salvaguardia: a fronte di norme-fuffa si mette una copertura vera in caso di fallimento (pressoché certo) delle prime. Scattano sempre l’anno successivo, nella speranza di avere tempo nei 12 mesi di trovare altre soluzioni buone. Nelle ultime tre manovre era previsto in caso di fallimento delle previsioni che scattassero due aumenti delle aliquote Iva e nell’ultima versione il taglio lineare delle detrazioni e deduzioni fiscali.

Il giochino deve essere piaciuto anche a Matteo Renzi, perché ha infilato nella manovra che sta per presentare una superclausola di salvaguardia. Agli italiani presenterà in pompa magna le sue splendide supercazzole. Agli sceriffi della Ue invece dice: «Non state a perdere troppo tempo sul mio libro dei sogni. Perché se tanto non funziona ho una carta di riserva sicura che stangherà gli italiani con nuove tasse per 51,6 miliardi di euro in un triennio». L’avvertimento ai signori che contano è scritto nella nota di aggiornamento al Def appena presentata dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Nella legge di Stabilità 2015 è ipotizzata una clausola sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette per un ammontare di 12,4 miliardi nel 2016 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Gli effetti di tale clausola, genererebbero una perdita di Pil pari a 0,7 punti percentuali a fine periodo dovuta da una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3 punti percentuali e un aumento del deflattore del Pil di pari importo». Una botta pazzesca sulle tasche degli italiani. Su cui ovviamente il governo minimizza, come se la fuffa fosse quella scritta per gli sceriffi della Ue e la verità invece quella contenuta nelle norme che accarezzano la pancia all’elettorato. «Ma è così», assicura il viceministro dell’Economia, Luigi Casero, che su quella plancia di comando siede ormai da molti anni, attraversando i vari governi, «quando mai sono scattate davvero le clausole di salvaguardia? Qualcuno ha toccato le detrazioni, che per altro sono state sostituite proprio da questa formula che trovate nel Def?».

No, la clausola delle detrazioni non e scattata. Ma quella sull’Iva sì, almeno in parte. Un paio di aumentini sono stati rinviati di qualche mese, ma alla fine grazie al giochino ci troviamo con l’aliquota al 22% invece che al 20%. Questo dimostra che ci sono ottime probabilità che quella clausola di salvaguardia possa entrare in vigore, anche perché fin qui di previsioni economiche il governo Renzi non ne ha azzeccata nemmeno mezza, e il terreno è proprio il principale tallone di Achille dell’esecutivo. Che cosa colpirà quella possibile stangata da 51,6 miliardi di euro? Le aliquote Iva marginali, e cioè quelle al 4% e quelle al 10%, che sono le uniche in grado di fornire incassi notevoli. Rischiano così di rincarare sensibilmente quasi tutti i generi alimentari: latte e latticini, farina, riso, pasta, pane, olio, occhiali da vista, case assegnate dalle cooperative, mense scolastiche (tutti questi sono al 4% oggi), e poi ancora yogurt, birra, uova, miele, tè, spezie, bevande al bar, elettricità, biglietti di cinema, teatro, concerti, servizi di trasporto pubblico (hanno tutti l’Iva al 10%).

Oltre l’Iva, secondo quanto scritto nell’aggiornamento del Def, si rischia un aumento anche delle imposte indirette. Di che si tratta? Tolta l’Iva che è già citata a parte, le principali imposte indirette vanno a toccare tanto per cambiare il mercato della casa: sono le imposte di registro, quella ipotecaria e quella immobiliare. Nell’elenco ci sono pure le accise, che significa nuovo aumento della benzina. Scatteranno? Qualcuna sì di sicuro. Anche perché c’è un piccolo trucco appena perfezionato che consentirà a chi sta al governo (presumibilmente Renzi) di mettere nuove tasse e poi dire che la pressione fiscale con lui non è aumentata. Il trucco è quello del recente belletto ai conti pubblici fatto per calcolare nel Pil il fatturato delle belle di notte, delle spese in armamenti e dello spaccio di stupefacenti. Con quella manovra (ma nessuno se ne è accorto) sono state cambiate anche le poste dell’entrata e magicamente già nel 2014 (e per gli anni successivi) la pressione fiscale è scesa di 0,3 punti percentuali senza levare nemmeno una tassa…

C’è la prova: zero soldi per il Jobs Act

C’è la prova: zero soldi per il Jobs Act

Franco Bechis – Libero

Ora è ufficiale: per la riforma del lavoro Matteo Renzi non ha nemmeno un euro a disposizione. Di più: se prima una legge particolare non stanzierà i fondi necessari, tutto quel che è scritto nel Jobs Act non entrerà mai in vigore. Nel Pd dunque si stanno scannando sul nulla, perché anche quella riforma dell’articolo 18 non vedrà la luce se prima non si troveranno i fondi necessari ad allargare la protezione sociale e sarà approvato definitivamente il provvedimento legislativo che li stanzierà.

Il sospetto albergava da qualche tempo anche all’interno del Pd. «Io non sono preoccupato della guerra di bandiere ideologiche sull’articolo 18», confessava ad esempio Beppe Fioroni, «ma ho il terrore che dopo avere alzato tanta polvere inutile si scopra che sotto c’è solo un bluff. Perché allora si gli italiani ci faranno un mazzo così…». Fioroni deve avere un sesto senso, perchè nello stesso testo del disegno di legge sul Jobs act è stata inserita in extremis una clausola finanziaria imposta dalla commissione Bilancio del Senato che rende impossibile l’immediata adozione di decreti delegati come avviene dopo l’approvazione di ogni disegno di legge di delega. Sembra una questione tecnica, di lana caprina, e invece è essenziale.

Nel testo governativo è infatti stata inserita una postilla al comma 3 dell’articolo 6 che disciplina «l’esercizio delle deleghe». Come avevano ricordato fin da giugno i tecnici del servizio Bilancio del Senato, anche i disegni di legge di delega debbono rispettare il nuovo articolo 81 della Costituzione, e quindi dovrebbero indicare subito i mezzi di copertura di eventuali nuove spese. Altrimenti i decreti delegati non possono essere adottati fino a quando non vengono stanziate definitivamente le risorse necessarie. La postilla inserita nel Jobs act stabilisce così che «qualora uno o più decreti attuativi determinino nuovi o maggiori oneri che non trovino compensazione al proprio interno, i decreti legislativi dai quali derivano nuovi o maggiori oneri sono emanati solo successivamente o contestualmente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanzino le occorrenti risorse finanziarie». Quindi prima di esercitare una delega che venga dal Jobs act debbono essere inserite in un decreto legge ad hoc le coperture necessarie, e se non si può adottare un decreto legge, bisogna affidarsi a un disegno di legge, attendendo però la sua pubblicazione definitiva sulla Gazzetta ufficiale dopo le rituali approvazioni nelle commissioni di merito e nelle aule di Camera e Senato.

Esempio pratico: il tema che fa tanto discutere il Pd – il cambiamento dell’art. 18 – è connesso al progetto di allargare la protezione sociale alle categorie che oggi non hanno quell’ombrello. Un’indennità di disoccupazione larga e decrescente che dovrebbe coprire ovviamente anche gli eventuali licenziati senza diritto al reintegro del nuovo articolo 18. Quindi il decreto delegato che dovrà cambiare lo Statuto dei lavoratori non potrà essere adottato se prima non sarà trovata la copertura finanziaria a quella nuova protezione sociale. Il governo vorrebbe inserire nella legge di stabilita un finanziamento extra di 1,5-2 miliardi di euro. Si tratterebbe però di una copertura parzialissima e quindi non sufficiente ad adottare nel 2015 il decreto delegato di riforma dell’articolo 18. Per farlo bisognerebbe spostare lì tutte le risorse di bilancio oggi utilizzate perla protezione sociale. E poi aggiungere almeno altri 5 miliardi ai due ipotizzati. Solo allora si potrà varare il decreto delegato in grado di attuare quello che sta oggi spaccando il Pd.

Matteo si riprende gli 80 euro con il fumo

Matteo si riprende gli 80 euro con il fumo

Franco Bechis – Libero

Arriva la prima stangata sui fumatori di ogni genere firmata dal governo di Matteo Renzi. In un decreto legislativo trasmesso al Parlamento da Maria Elena Boschi a fine agosto è infatti previsto un riordino delle accise sui prodotti da fumo che non risparmierà né fumatori di sigarette e sigari tradizionali, né gli amanti delle sigarette elettroniche. La manovra consentirà allo Stato di incassare 163 milioni di euro all’anno in più di oggi grazie a un mix di disposizioni favorevoli, tra cui l’abolizione dell’imposta sui fiammiferi e di norme fiscali introdotte nel 2013 (-53 milioni di euro), e il rincaro di sigarette (+48 milioni di euro), di prodotti da fumo diversi (come i sigari: +36 milioni di euro) e soprattutto della sigaretta elettronica (+132 milioni di euro l’anno). Il conto finale è salato, e potrebbe portare a un aumento di circa 20 centesimi a pacchetto di sigarette, e a una vera stangata sulle ricariche con nicotina per le sigarette elettroniche, visto che viene invece esclusa la tassazione sui componenti elettronici.

Ma il mercato dei fumatori ha tirato negli ultimi due anni un brutto scherzo alle casse dello Stato. Il governo cerca infatti di fare quadrare attraverso continui aumenti di accise e di Iva sui prodotti da fumo due elementi che per principio sono in contrasto: la salute degli italiani (disincentivando il fumo) e quella dell’erario (che deve incassare sempre di più anche se si fuma meno). L’operazione per anni è riuscita, anche in tempi molto recenti. Come spiega il nuovo decreto legislativo nella sua relazione introduttiva, nel periodo 2006-2011 «il consumo di sigarette è diminuito di circa 8,3 milioni di chilogrammi (-8,89%), mentre il gettito – a titolo di accisa – è aumentato del 10,65%, con un maggiore gettito, nei sei anni, di 1 miliardo e 25 milioni di euro». Operazione perfetta: meno gente che fumava, più salute in generale (anche quella ha un costo per le casse dello Stato), ma quelli che rimanevano fumatori pronti comunque a mettere mano al portafoglio ad ogni aumento di accisa voluto dallo Stato.

Il sistema perfetto però si è inceppato in questi ultimi due anni, durante i quali sui prodotti da fumo si sono abbattuti contemporaneamente ben tre manovre sulle accise e due aumenti dell’Iva a distanza di poco tempo (prima dal 20 al 21% poi quella varata dal governo di Enrico Letta al 22%). Questa volta i fumatori si sono ribellati, e non hanno operato nemmeno scelte di ripiego tradizionali, come quella di passare a pacchetti di sigarette meno costosi (ma con le stesse accise degli altri, con effetto quindi netto sulle casse dello Stato).

Spiega mestamente il governo Renzi: «Negli ultimi due anni invece è stata registrata una riduzione dei consumi di circa 11,5 milioni di chilogrammi, cui è conseguita una contrazione del gettito – a titolo di accisa – di circa 500 milioni di euro. Metà del guadagno extra dello Stato dei cinque anni precedenti se ne è andato – bisogna proprio dirlo – in fumo nel biennio successivo. E non era mai accaduto. I consumatori per la prima volta si sono ribellati semplicemente non comprando più sigarette o facendosi durare di più il pacchetto acquistato, se proprio non riuscivano a smettere. «Gli aumenti di prezzo sono stati giudicati eccessivi dal mercato, il quale ha quindi registrato una forte riduzione dei consumi e di conseguenza una diminuzione delle entrate erariali», scrive l’esecutivo. E che si inventano per invertire la crisi? Un nuovo aumento delle sigarette. Sembrano schizofrenici, visto quel che hanno appena finito di spiegare, ma è così. Il fatto è che il governo se ne rende conto, e prova a spiegarsi: la manovra sulle accise colpirà soprattutto i pacchetti di sigarette venduti a prezzo più basso, perché i produttori si sono difesi dal calo dei consumi abbassandone il prezzo (e quindi danneggiando l’erario). Non ci dovrebbero essere contraccolpi sulla fascia alta dei fumatori. Vengono colpiti i più poveri quindi, ma secondo il governo non ci sarà effetto negativo per l’erario perché proprio in quella fascia di consumo la capacità reddituale è in aumento negli ultimi mesi. Non è citato direttamente, ma l’aumento è legato ai famosi 80 euro. Che il governo spera vivamente vadano in fumo.

La burla del 730 “a domicilio”

La burla del 730 “a domicilio”

Franco Bechis – Libero

La dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo (quella relativa al 2014) non arriverà a casa dei contribuenti, come più volte annunciato da Matteo Renzi. Sarà disponibile solo per via telematica, e per leggersela bisognerà effettuare tutte le procedure di registrazione presso il sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, passaggio questo che risulterà particolarmente ostico a una parte della platea a cui la semplificazione è rivolta: quella dei pensionati. La stessa condizione riguarderà i lavoratori dipendenti, unici altri ammessi al beneficio della dichiarazione dei redditi precompilata. La novità emerge dal testo dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali trasmesso al Senato dal governo lo scorso primo di luglio. Un testo di 34 articoli ben più complesso e insidioso di quel che appariva dalle premesse.

L’idea di Renzi era quella di sollevare una parte dei contribuenti italiani dal milione di contestazioni formali che arrivano ogni anno dall’Agenzia delle Entrate, facendo arrivare loro a casa una dichiarazione dei redditi precompilata dal fisco italiano, che è in grado di attingere alle varie banche dati del Grande Fratello fiscale anche per controllare già le detrazioni e le deduzioni cui il contribuente avrebbe diritto. Idea semplice, che Renzi ha rubato ad uno dei suoi alleati (la proposta era di Angelino Alfano), facendola sua e rivendendosela subito all’opinione pubblica. Ma quella semplicità si è complicata molto con il decreto attuativo che la fa entrare in vigore in parte dal 2015 (quando anche le spese mediche saranno calcolate dall’Agenzia). Perché il testo arrivato in Parlamento fa entrare i contribuenti in un vero e proprio labirinto, causa non pochi problemi alle aziende da cui dipendono e che fungono da sostituti d’imposta, e rischia di provocare una rivolta da parte degli intermediari fiscali, siano essi Caf o commercialisti. Non solo, ma grazie alla apparente “semplificazione” del governo il costo della dichiarazione dei redditi rischia di lievitare per gran parte dei contribuenti, a meno che rinuncino alla dichiarazione precompilata e continuino a presentarla come hanno fatto in tutti gli anni precedenti.

La prima novità che sicuramente causerà disagio alle imprese sarà l’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate entro il «7 marzo di ogni anno i dati relativi alla certificazione unica che attesta l’ammontare complessivo delle somme erogate, delle ritenute operate, delle detrazioni d’imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali trattenuti». Significa un anticipo di un mese e mezzo rispetto ad oggi, e con le imprese che devono chiudere i bilanci dell’anno precedente e ottemperare agli altri adempimenti consueti sarà non piccolo il problema. In caso di ritardo o di errata trasmissione, alle imprese sarà comminata una multa fissa di 100 euro per ogni dipendente. Tra gli anticipi obbligatori anche la modifica del termine (dal 30 aprile attuale al 28 febbraio che scatterà nel 2015) «per la trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi ad alcuni oneri deducibili e detraibili sostenuti nell’anno precedente, quali interessi passivi sui mutui, premi assicurativi, contributi previdenziali, previdenza complementare». Raccolti tutti i dati entro il 15 aprile, per i lavoratori dipendenti e pensionati sarà disponibile solo per via informatica la dichiarazione precompilata da parte dell’Agenzia delle Entrate. I contribuenti che potranno accedervi avranno due opzioni: accettarla così com’è o cambiarla, inserendo detrazioni o deduzioni che non erano state previste. Ma anche se si accetta così com’è, la storia è appena all’inizio. Perché quella dichiarazione precompilata va poi presentata alla stessa Agenzia. Come? Da soli, sempre per via telematica. O chiedendo al proprio datore di lavoro di prestare assistenza fiscale. Oppure attraverso un Caf o tramite il proprio commercialista. In questi due casi però quella dichiarazione che resta intonsa rispetto a come era stata compilata dall’Agenzia delle Entrate dovrà essere accompagnata da visto di conformità del Caf o del commercialista. E se risulteranno errori l’Agenzia delle Entrate multerà e sanzionerà il commercialista o il Caf, e non il contribuente. È un aspetto grottesco della rivoluzione di Renzi: lo Stato compila la dichiarazione dei redditi del cittadino, il commercialista deve dire se lo Stato ci ha preso o no, e se questo suo giudizio è errato verrà punito lui e non lo Stato che ha inserito un dato errato. Che cosa significa questo? Che di fatto Caf e commercialisti avranno la responsabilità civile di quelle dichiarazioni dei redditi che però sono compilate dall’Agenzia delle Entrate. Cercheranno quindi di assicurarsi, e trasferiranno quel costo suppletivo sulla clientela. Non solo: pretenderanno dal contribuente ogni documentazione immaginabile per controllare i dati dell’Agenzia, perché sono loro a poterci rimettere le penne in caso di errore. E il possibile errore dello Stato non è eventualità remota: già oggi quasi tutti gli avvisi bonari e le contestazioni dell’Agenzia si basano su dati errati. Proprio per questo non ha senso scaricare sui professionisti la responsabilità di uno Stato che lavora male. Più che una semplificazione, quindi, una presa in giro.