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Lo Stato imprenditore affascina tanti (ma può far male)

Lo Stato imprenditore affascina tanti (ma può far male)

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

La tentazione e forte, molto forte. Cosi ogni volta che il sistema industriale italiano scopre una sua fragilità, puntualmente c’è chi chiama in causa lei, la Cassa depositi e prestiti. È capitalizzata, ha una leva finanziaria da molte decine di miliardi, funziona come una banca d’affari, ma non è una banca d’affari. Grazie al serbatoio del risparmio che gli italiani hanno depositato alle Poste può funzionare, con tutte le tutele previste dalla legge naturalmente, come una sorta di Bancomat di ultima istanza. Il livello delle richieste, solo per citarne alcune va da Alitalia, Telecom, Ilva, Acciai Terni Speciali. Qualche anno fa si ipotizzò persino la Parmalat. A rileggere i nomi delle società coinvolte, se cosi fosse stato, sarebbe nata una brutta fotocopia dell’Iri, l’istituto perla ricostruzione industriale che quelle società aveva qualche decina di anni fa, in portafoglio. Per fortuna
non è andata così.

Compito dello Stato forse è più quello di mettere le imprese in condizioni di lavorare meglio, di avere una fiscalità chiara, un quadro normativo semplice e non intermittente, una giustizia veloce, che non comprarne le azioni. Soprattutto quando, in situazioni di emergenza e di crisi, non sono in molti a volerle. La stagione delle privatizzazioni sembra molto lontana, risale a circa vent’anni fa. Certo, la mitologia del mercato ha fatto commettere errori. Ma la strada non può essere quella di incaricare la Cassa depositi di riempire gli spazi lasciati vuoti dalle imprese private. Un ragionamento su quali sono i settori industriali nei quali l’Italia vuole conservare un ruolo spetta al governo e la Cassa può essere utile in questo senso, semmai per affiancare dei progetti, non come tappabuchi. Altrimenti finirebbe, e non sarebbe una vittoria, col far rimpianger l’Iri. Però anche gli imprenditori devono farsi avanti per cercare soluzioni di mercato senza finire sempre per invocare l’intervento della Cdp. Non è un Bancomat: né dello Stato, né dei privati.

Aprire un’impresa è più facile ma il fisco resta un labirinto

Aprire un’impresa è più facile ma il fisco resta un labirinto

Alessandro Barbera – La Stampa

Nel dibattito italiano, quello nel quale le parole prendono spesso il sopravvento su fatti e numeri, le cause della crisi sembrano essersi trasformate in una variabile indipendente. La domanda non riparte, gli imprenditori non investono, e capita di sentir dire che la responsabilità è tutta degli austeri tedeschi, della gabbia dell’euro, dei burocrati di Bruxelles. Poi arrivano le classifiche internazionali, quelle che periodicamente costringono a riportare la realtà alla sua rappresentazione più semplice e noiosa.

Ad esempio: quante ore deve dedicare agli adempimenti fiscali un imprenditore? Domanda cruciale per chi fa impresa, piccola o grande che sia: più salgono le ore, più aumentano i costi dei consulenti, più è difficile fare previsioni sulle percentuale di utili o perdite alla fine dell’anno. Ebbene, in Italia ci vogliono ancora 269 ore l’anno, in Germania 218, in Spagna 167. Nella Francia di François Hollande, non propriamente un bengodi per gli investitori, ne bastano la metà: 137. In Gran Bretagna scendiamo a 110. Ancora: quanti pagamenti fiscali deve fare mediamente un imprenditore italiano rispetto ad un collega europeo? Fra tasse locali, addizionali, Irap, Ires si arriva a quindici l’anno. In Germania ne sono sufficienti nove, in Francia, Spagna e Gran Bretagna otto. In passato la classifica «Doing Business» della Banca Mondiale è stata oggetto di critiche per quel «total tax rate» che calcola la pressione fiscale delle imprese italiane fino al 65,4 per cento dei profitti; poco di meno della Francia (al 66,6 per cento), diciassette punti in più della Germania (48,8 per cento), il doppio della Gran Bretagna, ferma al 33 per cento. Ad alcuni sembrano numeri spropositati, se non altro perché la pressione fiscale calcolata dagli istituti di statistica è più bassa. Ma quel dato riguarda il peso della tassazione sui profitti d’impresa, che è cosa diversa dalla pressione fiscale nel suo complesso. In ogni caso «Doing Business» è ormai lo strumento più completo per chi vuole confrontare il fare impresa in giro per il mondo.

L’ultimo rapporto conferma i mali italiani ma offre anche alcune speranze. I tempi per avviare una nuova attività, ad esempio: nel giro di due anni l’Italia ha recuperato 44 posizioni e si è classificata 46esima su 189 Paesi. Merito fra gli altri – così dice l’Ordine dei Notai – della trasmissione telematica degli atti. O ancora la tutela degli azionisti di minoranza nelle società di capitali: l’anno scorso la Banca Mondiale ci ha classificati 21esimi, trenta posizioni sopra la Germania.

Le buone nuove finiscono qui. Il resto conferma le peggior impressioni, basti un rapido confronto sull’asse Roma-Berlino. Prendiamo le formalità burocratiche da espletare per una licenza edilizia: l’Italia si classifica al 116 posto, la Germania all’ottavo. Per chiudere una pratica in Italia sono necessari mediamente 233 giorni, in Germania ne bastano 96. Accesso all’energia elettrica: l’Italia è 102esima, la Germania terza. Se per un allaccio una impresa italiana aspetta mediamente 124 giorni, chi vuole aprire uno stabilimento nelle pianure tedesche avrà il sì in 28. Accesso al credito: Italia 89esima, Germania 23esima. Trasferimento della proprietà immobiliare: Germania 41esima, Italia 89esima. Quando il piazzamento italiano non è pessimo, i tedeschi svettano. È il caso della voce «apertura e chiusura delle procedure fallimentari»: in Italia sono necessari mediamente un anno e otto mesi (29esimi), in Germania un anno e due mesi (terza nel ranking). Come tutte le classifiche «Doing Business» ha i suoi limiti. Scoprire che la grande malata d’Europa – la Francia – sia l’unico dei grandi Paesi europei a risalire la classifica (dal 33esimo al 31esimo posto) può sembrare strano. Le classifiche valgono per quel che offrono, ma constatare che l’Italia è 56esima, quattro posti più in basso del 2014 fra Turchia e Bielorussia, non è incoraggiante.

L’Italia è il paese peggiore per fare impresa

L’Italia è il paese peggiore per fare impresa

Il Giornale

L’Italia non è un Paese per imprenditori, nonostante la confermata vocazione all’imprenditorialità dei suoi abitanti. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dello stato dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College. Si tratta di un’analisi puntuale effettuata da quasi un centinaio di Istituti di ricerca e che riesce a mappare il comportamento e le condizioni in cui agiscono gli imprenditori con riferimento al 75% della popolazione e all’89% del prodotto interno mondiale.

L’analisi e l’aggregazione dei 19 indicatori misurati da GEM ha permesso a “ImpresaLavoro” di elaborare un suo “Indice dell’Imprenditorialità” nei 23 principali paesi dell’Europa a 28. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è stata il fanalino di coda della classifica europea e ha perso il confronto con tutti i suoi principali competitor. L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo Paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia ma fanno segnare ottime performance anche Paesi con economie mature quali Olanda, Portogallo o Irlanda.

In particolare, nel 2013 il nostro Paese si è collocato nella classifica europea al 23esimo posto per la percentuale (2,4%) dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori (non pagando salari, stipendi o altre forme di retribuzione da più di tre mesi), ha perso il confronto con quasi tutte le altre economie per la percentuale (17%) di quanti vedono buone opportunità di avviamento di un’impresa nell’area nella quale vivono ed è risultato al 22esimo posto per la percentuale (12%) delle nuove imprese che si aspettano di assumere almeno 5 impiegati nel prossimo quinquennio. L’Italia si è invece collocata al 15esimo posto – vincendo il confronto con Germania, Spagna, Gran Bretagna e Grecia – per la percentuale (9,8%) di quanti nonostante tutto intendono avviare un’impresa nei prossimi tre anni.

«Nonostante gli italiani abbiano, più o meno, la stessa voglia di intraprendere dei colleghi delle principali economie avanzate europee, difficilmente riescono a dar seguito ad iniziative di successo» osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro”. «L’ambiente in cui sono chiamati a muoversi è infatti particolarmente penalizzante rispetto a quello dei competitor europei in tema di tasse, regole, burocrazia. Concretamente questo si traduce in un bassissimo tasso di nuove imprese (siamo ultimi in Europa) e in un dato preoccupante sul fronte occupazionale: solo la Grecia fa peggio di noi in quanto a imprese che hanno intenzione di ampliare la propria base occupazionale nei prossimi cinque anni. In queste settimane – conclude Blasoni – si è a lungo parlato di regole del mercato del lavoro: il tema delle regole è certamente importante ma dobbiamo affrontare anche il tema della produzione di posti di lavoro da parte delle imprese. Se non nascono nuove imprese e se quelle esistenti non si sviluppano, rischia di rivelarsi inutile anche un’eventuale semplificazione delle regole».

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Carlo Lottieri

In Italia, a seguito dell’iniziativa politica del premier Matteo Renzi sull’articolo 18 i temi del mercato del lavoro e della libertà contrattuale sono tornati al centro del confronto pubblico. C’è però una questione un po’ spinosa che resta sempre fuori discussione: come fosse un tabù o un tema che non va neppure sfiorato. Si tratta dello sciopero.
Eppure altrove non è così. Qualche anno fa la società italo-svizzera incaricata di gestire i collegamenti ferroviari tra la Lombardia e il Canton Ticino fu alle prese con un contratto travagliato, dato che i sindacati italiani erano infuriati per il fatto che i colleghi svizzeri avevano sottoscritto un’intesa che prevedeva la rinuncia a interrompere il lavoro per l’intera durata del contratto. Liberamente, insomma, ci si vincolava a non scioperare.
Da noi questa libertà contrattale non è pensabile, dato che lo sciopero – già nella carta costituzionale – è considerato un diritto fondamentale. E come non si può cedere la propria vita o la propria libertà, allo stesso modo è inconcepibile che vi sia chi rinuncia alla facoltà di scioperare.
In realtà, i responsabili sindacali elvetici in quella circostanza accettarono proposte che a loro parvero vantaggiose e la controparte fu lieta di ottenere la garanzia che non vi sarebbero stati scioperi: tutelando in tal modo le attese e gli interessi degli utenti, che hanno bisogno di andare al lavoro ogni giorno. Ma nell’immaginario del sindacalismo italiano toccare lo sciopero è peggio che bestemmiare in chiesa.
Diversamente la pensava un grande liberale del Novecento, Bruno Leoni, per il quale quello dello sciopero non era un diritto. Ai suoi occhi, sciopero e serrata erano sullo stesso piano, rappresentando evidenti violazioni contrattuali. Come emerge in alcuni suoi scritti ripubblicati qualche anno fa in un volume intitolato La libertà del lavoro(edito da Rubbettino), egli non riteneva certo che si potesse obbligare la gente a lavorare contro la propria volontà, ma gli pareva giusto che – come avviene di fronte alle violazioni contrattuali – s’intervenisse con penali a carico di chi non rispetta gli impegni assunti.
In realtà, ormai lo sciopero è soprattutto un’arma nelle mani delle burocrazie sindacali. Potendo ricattare imprenditori e utenti, gli apparati sindacali dispongono di grande visibilità. Non è caso che molti politici italiani (da Marini a Bertinotti, da Cofferati a Del Turco e via dicendo) siano usciti proprio dalle file del sindacalismo: il potere crea potere, e il sindacato è una delle vie maestre per accedere alle più alte cariche.
I moderni sindacati (ben diversi da quelli che sorsero nella seconda metà dell’Ottocento) vivono per giunta grazie all’esproprio del diritto del lavoratore a negoziare il contratto. Se gli accordi siglati dalle organizzazioni sindacali fossero vantaggiosi, non vi sarebbe bisogno d’imporli ai non iscritti: ben pochi vi rinuncerebbero e, in generale, i lavoratori si rivolgerebbero ai sindacati per consegnare loro la delega a rappresentarli. Se non è così, è perché solo la libertà contrattuale tutela i lavoratori, mentre il “monopolio” della negoziazione imposto dai sindacati maggiori difende unicamente gli interessi del ceto sindacale.
Così, decidendo anche a nome di chi non nutre fiducia nei loro riguardi, i sindacalisti sono ormai un grave ostacolo all’emancipazione dei lavoratori.
Da Milano al confine elvetico c’è meno di un’ora di viaggio. Ma quanto a civiltà giuridica la distanza è abissale e non c’è da stupirsi se stipendi, condizioni contrattuali e qualità della vita sono assai diversi. A tutto vantaggio di quanti hanno la fortuna di starsene a Nord di Ponte Chiasso.
L’origine della crisi è Mani pulite: troppe norme uccidono l’impresa

L’origine della crisi è Mani pulite: troppe norme uccidono l’impresa

Giorgio Oldoini – Libero

Nessuno ha il coraggio di ammettere che la perdita di competitività del Paese ha le sue radici nei primi anni Novanta. Da allora, tutte le leggi sono state concepite al solo scopo di «reprimere» il malaffare economico e tutti i cittadini sono diventati presunti colpevoli. Con un crescendo rossiniano inarrestabile: quando ci si accorgeva che nulla stava cambiando, si so- no aumentati i reati e inasprite le pene. I consigli di amministrazione delle società sono occupati da specialisti di diritto penale, mentre chi deve produrre ricchezza, è passato in seconda fila. Nessuna persona onesta e capace ha interesse a occuparsi della cosa pubblica, considerata la continua produzione di dossier e gli arresti facili. In questo modo abbiamo distrutto ciò che restava dell’autonomia individuale, il fattore di sviluppo più spontaneo, originale e utile a disposizione dei governi.

Cari «difensori dell’etica» rinchiusi in polverose stanze, nulla si muove senza l’iniziativa degli imprenditori e lo spirito d’iniziativa è un fattore altamente personale e dinamico, che si basa sugli «incentivi». Il più grande incentivo all’economia è convincere masse d’individui a lasciare il posto fisso e diventare imprenditori. Sarebbe questa l’azione opposta a quella svolta dai governi negli ultimi trent’anni. Occorrono incentivi potenti perché gli individui si decidano ad abbandonare posizioni sicure e per indurre il risparmiatore a rischiare i propri capitali nello sfruttamento di nuovi prodotti.

La prima rivoluzione è di natura culturale: il profitto d’impresa rappresenta un «valore», al pari del lavoro, perché senza il primo non c’è il secondo. La vera sicurezza sociale esiste solo con un alto livello di produzione e un’economia di espansione. Per molti italiani sicurezza significa certezza di conseguire un salario senza troppi sacrifici. Si tratta di una pericolosa illusione perché il mondo è in continuo mutamento e la sicurezza per certi gruppi accresce l’incertezza degli altri. Perché un individuo dotato di normale buon senso s’impegni nella vita d’impresa, è necessario che le possibilità di guadagno superino quelle di perdita. Queste prospettive devono essere chiare e attraenti in modo da stimolare le energie nuove: certezza del diritto, riduzione del costo dello stato sociale e della fiscalità allargata, eliminazione delle burocrazie oppressive, rivoluzione copernicana nelle scuole.

In una democrazia, la principale funzione dell’istruzione è quella d’unire piuttosto che dividere e di diffondere la tolleranza e il mutuo rispetto. È necessario insegnare ai giovanissimi alcuni principi fondamentali dell’economia. Bisogna dimostrare la relazione tra produzione e consumo e che gli elevati salari dipendono dalla produttività dei singoli lavoratori. Si può spiegare in che modo i vari fattori della produzione sono interdipendenti e che i problemi economici del Paese non consistono nel conflitto di classe. Più difficile sarà impedire a un magistrato di motivare una sentenza in funzione dei grandi «principi», costringendolo al semplice richiamo alla legge. Per questo bisognerà attendere un cambio generazionale e un mutamento dell’organo di autogoverno, che punisca i protagonismi diffusi e la tendenza alla giurisprudenza «creativa».

Bisogna insegnare ai giovani che il peggior governo è sempre stato quello del burocrate: esso complica a furia di teorizzare anche le cose più semplici, pensa in termini di regolamenti e di leggi, desidera costruire una socie- tà che abbia una regolarità geometrica e non si rende conto che in questo modo distrugge la libertà esistente e l’attività dei singoli. L’uomo semplice che govema un’impresa, che conosce per esperienza professionale il piacere e l’efficacia del lavoro concepito e compiuto in libertà, è meno pericoloso quando è al potere perché non c’è bisogno di dirgli che la legge è una cosa pericolosa, che può distruggerlo invece di aiutarlo.

Imprenditorialità, Italia ultima in Ue

Imprenditorialità, Italia ultima in Ue

Metronews

L’Italia non è un Paese per imprenditori. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College.

L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è il fanalino di coda della classifica europea e perde il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (settima), Portogallo (decimo), Gran Bretagna (16esima), Germania (18esima), Spagna (19esima), Grecia (20esima) e Francia (21esima). Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia.

Per quanto riguarda l’indicatore che misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori, nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 23esimo della classifica europea col 2,4%, perdendo il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (decima), Portogallo (14esimo), Gran Bretagna (16esima), Grecia (17esima), Germania (19esima), Spagna (20esima) e Francia (22esima).

Stato imprenditore nella Silicon Valley

Stato imprenditore nella Silicon Valley

Edoardo Segantini – Corriere della Sera

Capita spesso di ascoltare opinioni autorevolmente superficiali sull’innovazione tecnologica «made in Usa», giudizi che sembrano attribuirne il successo a un’ondata recente di imprenditori geniali. È questo un quadro pop fatto di distruzione creativa, sregolatezza regolata e start-up rivoluzionarie. E lo Stato? Non esiste. Dalla nuova retorica non è rimasto immune neppure il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al suo ritorno dalla California. Chi conosce quei posti sa bene invece che le cose non stanno così. La Silicon Valley, cuore dell’innovazione americana, è ben altro: nasce da settant’anni di investimenti pubblici e militari nella tecnologia. Trae origine da una politica industriale lungimirante, concepita da uomini come il presidente Franklin Delano Roosevelt, Vannevar Bush e Jcr Licklider. Ora, negli Stati Uniti, esce un bel libro di Walter Isaacson, l’autore della biografia di Steve Jobs, tradotta da Mondadori nel 2011, che ha il merito di spiegare l’«innesto» degli innovatori di oggi nell’albero degli innovatori di ieri. Si intitola, per l’appunto, The Innovators.

Gli eroi di questa storia, esaltante e attuale, sono personaggi straordinari come il Nobel Jack Kilby, autore del primo circuito integrato con Robert Noyce, William Shockley, protagonista dello sviluppo del transistor, e Alan Turing, il leggendario crittografo e informatico inglese del progetto Enigma, che morì suicida. Ma emergono anche altre figure come Doug Engelbart, pioniere dell’interazione uomo-macchina, e Stewart Brand, il futurologo che fece i primi esperimenti con l’Lsd e contribuì a iniettare nella Silicon Valley quella cultura hippie che l’ha resa famosa. Le stelle di oggi – da Page a Bezos, da Jimmy Wales (Wikipedia) a Evan Williams, cofondatore di Twitter – possono brillare, oltre che per indiscussi meriti propri, grazie alla potente luce accesa anni fa da uomini come Fred Terman, il «padre» della Silicon Valley insieme a Shockley, e Vannevar Bush. Quest’ultimo svolse un ruolo chiave nel sistema innovativo a stelle e strisce. Un sistema in cui il talento individuale trova un terreno fertilissimo negli investimenti pubblici e militari in ricerca, nella finanza e nella politica industriale. Direttore del Mit di Boston negli anni Trenta, Vannevar Bush durante la Seconda guerra mondiale è messo da Roosevelt a capo dell’Office of Scientific and Research Development (Osrd) per coordinare seimila scienziati nello sforzo bellico.

Il «trasferimento tecnologico», quel nastro veloce che trasporta il sapere dai laboratori fino alle applicazioni, nasce da uomini e da istituzioni come questi, e sarà, da allora in poi, alla base della potenza innovativa – militare e civile – dell’America. Ed è a una nuova agenzia pilotata da Bush – il National Defense Research Committee – che verrà assegnato il compito di far lavorare insieme il governo, le forze armate, le aziende e le università. Una sinergia che verrà resa permanente con risultati formidabili. L’innovazione «Made in Usa» ha poi un altro, illustre antenato nel National Inventors Council, istituito con l’obiettivo di raccogliere e selezionare le invenzioni utili per la difesa nazionale. L’agenzia è voluta, ancora una volta, dal presidente Roosevelt che ne affida la responsabilità a Charles Kettering, direttore della ricerca alla General Motors, uno dei più eminenti inventori del ventesimo secolo, cui si devono l’invenzione del motorino di avviamento e del frigorifero elettrico. Il ruolo degli investimenti pubblici e militari resta fondamentale anche oggi, in piena epoca di app, accanto a quello delle imprese e del capitale finanziario. Non ci sarebbero gli innovatori di oggi senza i loro antenati di ieri, nei laboratori e nelle aziende, ma anche al Pentagono e alla Casa Bianca. Crearono un «tavolo» in cui i singoli talenti diedero – danno – luogo a un sistema Paese, coordinato dalla politica. I politici di oggi dovrebbero ricordarsene.

Imprenditorialità: Italia ultima nella classifica europea elaborata da ImpresaLavoro su dati 2013 del Global Entrepreneurship Monitor (GEM)

Imprenditorialità: Italia ultima nella classifica europea elaborata da ImpresaLavoro su dati 2013 del Global Entrepreneurship Monitor (GEM)

NOTA

L’Italia non è un Paese per imprenditori, nonostante la confermata vocazione all’imprenditorialità dei suoi abitanti. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dello stato dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College. Si tratta di un’analisi puntuale effettuata da quasi un centinaio di Istituti di ricerca e che riesce a mappare il comportamento e le condizioni in cui agiscono gli imprenditori con riferimento al 75% della popolazione e all’89% del prodotto interno mondiale. L’analisi e l’aggregazione dei 19 indicatori misurati da GEM ha permesso a Centro Studi “ImpresaLavoro” di elaborare un suo “Indice dell’Imprenditorialità” che analizza lo stato dell’imprenditorialità nei 23 principali paesi dell’Europa a 28. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è il fanalino di coda della classifica europea e perde il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (settima), Portogallo (decimo), Gran Bretagna (16esima), Germania (18esima), Spagna (19esima), Grecia (20esima) e Francia (21esima). L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia ma fanno segnare ottime performance anche paesi con economie mature quali Olanda, Portogallo o Irlanda.
Ecco di seguito la situazione italiana nel contesto europeo misurata sulla base di alcuni dei 19 indicatori misurati da GEM.
PERCENTUALE NUOVI IMPRENDITORI
Questo indicatore misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori, vale a dire che sono coinvolti nella fondazione di un nuove imprese dei quali saranno proprietari o co-proprietari; i titolari di queste imprese non pagano salari, stipendi o altre forme di retribuzione da più di tre mesi. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 23esimo della classifica europea col 2,4%, perdendo il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (al 10esimo posto col 5,5%), Portogallo (al 14esimo posto col 4,2%), Gran Bretagna (al 16esimo posto col 3,6%), Grecia (al 17esimo posto col 3,3%), Germania (al 19esimo posto col 3,1%), Spagna (al 20esimo posto col 3,1%) e Francia (al 22esimo posto col 2,7%).
INTENZIONE DI FARE IMPRESA
Questo indicatore misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni (esclusi gli individui coinvolti in qualsiasi fase di un’attività imprenditoriale) che intendono avviare un’impresa nei prossimi tre anni. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 15esimo posto della classifica europea col 9,8%, vincendo il confronto con diversi principali competitor: Grecia (al 18esimo posto coll’8,8%), Spagna (al 19esimo posto coll’8,4%), Gran Bretagna (al 22esimo posto col 7,2%) e Germania (al 23esimo posto col 6,8%). Meglio dell’Italia sono riusciti a fare solo Portogallo (all’11esimo posto con 13,2%) nonché Francia e Irlanda (entrambe al 12esimo posto col 12,6%).
OPPORTUNITA’ PERCEPITE
Questo indicatore misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni che vedono buone opportunità di avviamento di un’impresa nell’area nella quale vivono. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 19esimo posto della classifica europea col 17%, perdendo il confronto con quasi tutti i principali competitor: Gran Bretagna (al quinto posto col 36%), Germania (al nono posto col 31%), Irlanda (al 12esimo posto col 28%) e Francia (al 15esimo posto col 23%) e Portogallo (al 16esimo posto col 20%). Peggio dell’Italia sono riusciti a fare solo Spagna (al 22esimo posto col 16%) e Grecia (al 23esimo posto col 14%).
ASPETTATIVE DI CRESCITA
Questo indicatore misura la percentuale delle nuove attività imprenditoriali che si aspettano di assumere almeno 5 impiegati nei prossimo 5 anni. Nel 2013 il nostro Paese si colloca al 22esimo posto della classifica europea col 12%, perdendo il confronto con quasi tutti i principali competitor: Irlanda (al quinto posto col 35%), Portogallo (al 12esimo posto col 27%), Gran Bretagna (al 13esimo posto col 24%), Germania (al 14esimo posto col 22%), Francia (al 17esimo posto col 21%) e Spagna (al 20esimo posto col 15%). Peggio dell’Italia fa solo la Grecia, collocandosi al 23esimo posto coll’8%.
TASSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE
Questo indicatore misura la percentuale delle nuove attività imprenditoriali che dichiarano che almeno il 25% dei clienti viene da un Paese estero. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato, a pari merito con la Gran Bretagna, al 15esimo posto della classifica europea col 17%, vincendo il confronto con diversi principali competitor: Germania (al 18esimo posto col 15%), Grecia (al 21esimo posto col 13%) e Spagna (al 23esimo posto col 9%). Meglio dell’Italia sono riusciti a fare solo Portogallo (al quinto posto col 30%) e Francia (al 14esimo posto col 19%).
«L’elaborazione degli indicatori relativi allo stato dell’imprenditoria in Italia ci consegnano un quadro abbastanza chiaro» osserva Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «Nonostante gli italiani abbiano, più o meno, la stessa voglia di intraprendere dei colleghi delle principali economie avanzate europee, difficilmente riescono a dar seguito ad iniziative di successo. L’ambiente in cui sono chiamati a muoversi è infatti particolarmente penalizzante rispetto a quello dei competitor europei in tema di tasse, regole, burocrazia. Concretamente questo si traduce in un bassissimo tasso di nuove imprese (siamo ultimi in Europa) e in un dato preoccupante sul fronte occupazionale: solo la Grecia fa peggio di noi in quanto a imprese che hanno intenzione di ampliare la propria base occupazionale nei prossimi cinque anni. In queste settimane – conclude Blasoni – si è a lungo parlato di lavoro: il tema delle regole è certamente importante ma dobbiamo affrontare anche il tema della produzione di posti di lavoro da parte delle imprese. Se non nascono nuove imprese e se quelle esistenti non si sviluppano, rischia di rivelarsi inutile anche un’eventuale semplificazione delle regole: questo indice ci dice con chiarezza che per rimettere in moto il paese occorre rimettere in moto il nostro tessuto imprenditoriale».

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