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Fallimenti e suicidi: bestiale è il governo
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Attilio Barbieri – Libero
Far fatica a tirare la fine del mese, a non chiudere l’azienda, a far quadrare conti che proprio non vogliono sapere di farlo. E sentirsi dare delle bestie da Renzi, che ci accusa di totale insensibilità per il dramma dell’immigrazione. In realtà sarebbero gli «animali» ad aver le carte in regola per incazzarsi anziché subire gli insulti di specie. Lo confermano anche i numeri aggiornati sui fallimenti, arrivati caldi caldi proprio ieri. Negli ultimi sei anni hanno chiuso i battenti ben 75.175 imprese, 34 al giorno, contando anche le domeniche e le feste comandate. Il dato emerge dall’analisi curata dal Centro Studi ImpresaLavoro. Di più: il nostro Paese è uno dei pochi tra quelli monitorati dall’Ocse ad avere tuttora un numero di aziende che chiudono nettamente superiore ai livelli precedenti la crisi. Segno che il disagio continua. Altro che ripresa.
A dare la dimensione del fenomeno è proprio il confronto internazionale. Come si vede chiaramente dal grafico che pubblichiamo in questa pagina, fra le grandi economie occidentali siamo l’unica che continua ad avere il febbrone. Mentre le chiusure si riducono un po’ dappertutto, da noi aumentano. E i segnali di una possibile inversione di tendenza sono cosi deboli da faticare a distinguerli nel sottofondo di pessime notizie. L’Italia è anche il Paese che ha pagato il maggior tributo, in termini di vite umane, alla recessione. I suicidi da crisi sono stati ben 439 negli ultimi tre anni. E quasi nel 50 per cento dei casi a togliersi la vita sono stati imprenditori. Travolti dalla bolla finanziaria partita dagli Usa nel 2008 e falliti. Debiti, bancarotta personale o aziendale, stipendi non percepiti, mutui e pagamenti non onorati: la disperazione non conosce confini sociali. Padroni e operai sono stati spesso accomunati dal medesimo destino.
In questo scenario poi le prospettive continuano a essere tutto fuorché rosee. A meno di un miracolo la pressione fiscale che quest’anno salirà al 43,5% non è destinata a fermarsi e nel triennio 2016-2018 potrebbe sfondare quota 44 per cento. Poco cambierebbe anche se il premier dovesse abolire in toto o in parte le tasse che gravano sulla casa. Con la logica delle coperture – stante l’incapacità del governo di avviare una seria spending review – quel che risparmieremo da una parte finirà in nuovi tributi dall’altra. E anche i numeri sul lavoro non autorizzano a soverchi ottimismi. I nuovi posti creati con il Jobs Act di cui l’esecutivo ha varato gli ultimi quattro decreti la scorsa settimana, rischiano di superare appena quota 75mila. Un po’ pochi per dichiarare la fine della crisi. Ammesso che si possa parlare davvero di «scontro fra umani e bestie», come ha fatto il premier alla festa nazionale Pd, c’è da chiedersi se gli animali siano fra quanti gli chiedono di guardare ai problemi e ai drammi degli italiani, oppure fra chi si fa scudo dell’emergenza immigrazione per sviare i problemi.
Crisi: negli ultimi sei anni sono fallite 75mila imprese. Italia al top tra i paesi Ocse: +66% rispetto al 2009
Redazione Studi centro studi, fallimenti, impresalavoro, Italia, massimo blasoni, ocse
In Italia resta purtroppo altissimo il numero dei fallimenti: il nostro Paese è infatti uno dei pochi tra quelli monitorati dall’OCSE che continua ad avere un numero di aziende fallite nettamente superiore ai livelli pre-crisi. Lo rivela una nota del Centro studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti dall’OCSE, evidenzia come rispetto al 2009 i fallimenti nella nostra penisola siano cresciuti del 66,3%, passando dai 9.383 del 2009 ai 15.605 del 2014.
Il costante aumento del numero di aziende italiane fallite non ha eguali se confrontato con gli altri Paesi monitorati: nel 2014 il numero di fallimenti negli Stati Uniti è stato inferiore a quello del 2009 del 55,1%, nel Regno Unito del 23,4%, in Germania del 20,5%. E anche laddove l’uscita dalla crisi è sembrata più lenta, come in Francia, si segnala un calo del fenomeno dell’1,1%. Solo l’Italia è ancora ampiamente al di sopra dei livelli pre-crisi, con un escalation che solo quest’anno accenna a fermarsi.
«I primi due trimestri del 2015 – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – lasciano intravedere un rallentamento nel numero di fallimenti. La nostra stima è un calo di 1.300 fallimenti rispetto al 2014, con un livello complessivo che dovrebbe attestarsi sui valori del 2013. L’inversione di tendenza si annuncia importante ma c’è poco da sorridere: anche con questo miglioramento rimarremmo il Paese che da questo punto di vista ha reagito peggio alla crisi. Nei sei anni tra il 2009 e il 2014, infatti, sono fallite nel nostro Paese ben 75.175 aziende».
Cantieri chiusi, persi 31 miliardi. La metà al Sud
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Sergio Governale – Il Mattino
In soli cinque anni, dal 2010 al 2014, l’Italia ha perso investimenti per una cifra superiore al 3% del Pil, pari a quasi 49 miliardi di euro. A uscirne più penalizzato è stato il comparto delle costruzioni, che ha visto crollare la relativa spesa di 30,7 miliardi. A calcolarlo è ImpresaLavoro, centro studi fondato dall’imprenditore Massimo Blasoni. Ma il dato è molto più allarmante al di sotto del Garigliano, avverte il presidente di Ance Salerno Antonio Lombardi, secondo il quale ben la metà di questo valore è riferibile al Sud. «Il settore delle costruzioni pesava cinque anni fa peril 10,5% circa sul Pil nazionale – spiega quest’ultimo – e al Sud questo valore è più elevato del 3,3% rispetto alla media. Considerando che l’edilizia è uno dei primi settori, se non il primo, dell’economia meridionale, possiamo quindi senz’altro dire che la metà di questo valore è riferibile al Sud – aggiunge Lombardi -. Inoltre, al Sud abbiamo ancora 15 miliardi di fondi Por ancora da spendere».
Impresa Lavoro ricorda che le costruzioni rappresentano il 51,2% del totale degli investimenti del nostro Paese. «Questo settore – dice Blasoni – ha visto calare gli investimenti di 30 miliardi dal 2010 al 2014 e da qui arriva il più grosso contributo al rallentamento delle spese complessive per investimento». Nel complesso, si legge nel rapporto del Centro Studi, gli investimenti in costruzioni passano dal 10,6% del Pil del 2010 al 8,6% del 2014. Nello stesso periodo, invece, gli investimenti in costruzioni sono cresciuti in Germania dello 0,8%, nel Regno Unito dello 0,7% e calati in Francia solo dello 0,5%. In valori assoluti, prosegue il presidente di Impresa Lavoro, «questo significa che gli investimenti in costruzioni sono cresciuti di 5,7 miliardi in Francia (dove cala la percentuale su un Pil che cresce, quindi aumenta leggermente il valore assoluto), di 54 miliardi in Germania e di 49 miliardi nel Regno Unito». Secondo Blasoni, «è difficile immaginare una ripresa robusta e stabile se non ripartono gli investimenti, sia privati che pubblici. Non va dimenticato – osserva – che lo Stato non è certo un buon esempio in questo senso, avendo tagliato tra il 2009 e il 2013 ben 15,9 miliardi di investimenti pur aumentando nel complesso il resto delle spese per 20 miliardi. Ed è sempre la mano pubblica che con l’inasprimento fiscale sugli immobili ha determinato il brusco rallentamento del settore edile. Emergono ora alcuni segnali positivi come la crescita dei mutui casa rispetto allo scorso anno, per cui è fondamentale riuscire a far ripartire gli investimenti anche agendo sulla leva fiscale».
Lombardi – ricordando che in Italia il comparto è tornato ai livelli della fine degli anni Settanta e che in Campania si sono persi con la crisi 35mila posti di lavoro – denuncia che ci sono ancora 1,7 miliardi di euro di fondi europei da spendere nella nostra regione entro fine anno, di cui 1,2 miliardi di lavori già partiti «che non saranno però mai completati per dicembre. La Regione ha già chiesto una proroga sulla rendicontazione per i lavori oltre 5 milioni. Ma ci sono 400 Comuni campani sui 551 totali che prevedono lavori per importi inferiori e che, dunque, rischiano di non reggere. Senza la regia di un super-ente regionale per la spesa dei fondi europei e senza procedure più snelle e meno “burocratiche” – è l’amara conclusione di Lombardi – il Mezzogiorno rimarrà al palo».
Indice delle Opportunità Regionali 2015
Redazione Studi impresalavoro, indice, massimo blasoni, opportunità regionali
La regione italiana dove si vive meglio? Il Trentino Alto Adige, seguito da Veneto, Emilia Romagna e Lombardia mentre le regioni che offrono meno opportunità ai propri cittadini sono Puglia, Calabria, Campania e Sicilia. È questa la graduatoria che emerge dall’Indice delle Opportunità Regionali elaborato dal Centro Studi ImpresaLavoro, uno strumento analitico che misura la qualità della vita nelle singole regioni italiane partendo dall’analisi di quattro aspetti: il mercato del lavoro, il reddito, il livello di istruzione e il livello di partecipazione alla vita pubblica.
Com’era lecito attendersi, quella che emerge è la fotografia di un Paese fortemente diviso tra Centro Nord e Centro Sud: da un lato la parte più avanzata dell’Italia che presenta indici molto simili alle grandi economie europee, dall’altro un Mezzogiorno italiano che arranca e che non vede segnali di ripresa.
La regione in cui esistono più opportunità è, come detto, il Trentino Alto Adige che primeggia soprattutto in tema di lavoro, di reddito e di equità nella sua distribuzione. Quanto al livello di istruzione (percentuale di diplomati e di laureati), in testa alla classifica si colloca invece il Lazio, seguito da Umbria e Abruzzo. Emilia Romagna, Umbria, Lombardia si distinguono invece per il livello di partecipazione alla vita pubblica, misurato analizzando il tasso di affluenza alle urne nelle ultime due tornate elettorali nazionali.
«Questi dati – spiega l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro – confermano l’idea di un Paese drammaticamente spaccato in due, con le regioni del Centro Nord che offrono opportunità molto più elevate delle altre. D’altra parte l’Italia si colloca in Europa al primo posto per disparità territoriali in tema di lavoro e reddito e quindi di opportunità offerte alle famiglie: una condizione che stenta a migliorare e che colpisce soprattutto i giovani che rimanendo a lungo fuori dal mondo del lavoro e da percorsi di formazione rischiano di vedersi ipotecata ogni speranza di un futuro migliore».
METODOLOGIA
L’indice delle opportunità regionali ha come punteggio massimo 100 punti, divisi in quattro aree: il mercato del lavoro (40 punti), il reddito (30 punti), l’istruzione (20 punti), la partecipazione (10 punti).
Ogni area è composta da sub-indicatori. Per il mercato del lavoro vengono analizzati il tasso di disoccupazione e quello di disoccupazione di lunga durata, il tasso di inattività e l’incidenza dei NEET (giovani che non studiano e non lavorano). L’area reddito è invece composta dal Reddito medio annuale delle famiglie e dall’indice di Gini per la distribuzione del reddito stesso e quindi come misura delle diseguaglianze reddituali. Per l’istruzione sono stati presi a riferimento la percentuale di diplomati e di laureati rispetto alla popolazione mentre per la partecipazione alla vita pubblica sono stati analizzati i tassi di partecipazione al voto nelle ultime due tornate elettorali di carattere nazionale (politiche ed europee).
Per ogni singola voce si è stabilito un punteggio massimo da attribuire alla regione che ha fatto segnare il risultato migliore: alle altre regioni è stato attribuito un punteggio con il criterio proporzionale.
LAVORO
Il mercato del lavoro del Trentino Alto Adige è senza dubbio il migliore d’Italia. Ha un tasso di disoccupazione di lunga durata molto basso (1,92%) e un numero di soggetti senza lavoro tutto sommato contenuto (5,67%). Anche i giovani che non studiano e non lavorano sono qui al minimo italiano (14,27%), davanti al Veneto (16,80%) e alla Lombardia (18,21%).
La composizione degli indicatori analizzati per questa voce certifica come il secondo miglior mercato del lavoro italiano sia quello Veneto, seguito da Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Lombardia. Le regioni peggiori sono quelle del Sud: in coda troviamo la Sicilia, preceduta da Calabria e Campania. Qui gli indicatori segnalano una situazione davvero allarmante e che ben fotografa la spaccatura esistente nel paese: il tasso di disoccupazione di lunga durata è otto volte quello della regione migliore (15,74% in Calabria, 15,34% in Sicilia, 25,04% in Campania) e segue proporzionalmente il livello di disoccupazione generale ( 23,42% in Calabria, 22,17% in Sicilia, 21,74% in Campania) che risulta essere quattro volte quello registrato nelle regioni più virtuose.
Drammatica, al Sud, la condizione dei giovani: il 40,28% dei ragazzi siciliani non studia e non lavora, come il 37,99% dei calabresi e il 36,35% dei campani. Anche qui il divario con il Nord del paese è notevole: in Trentino Alto Adige, Veneto e Lombardia il tasso di NEET è meno della metà di quello registrato al Sud.
REDDITO
Una famiglia che vive in Trentino Alto Adige o in Lombardia ha un reddito medio annuo del 65% più elevato rispetto a una corrispondente famiglia siciliana. E nelle regioni povere è più elevata anche la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza: Campania e Sicilia, infatti, non sono soltanto tra le regioni più povere in tema di reddito netto delle famiglie ma sono anche in coda alle classifiche sulla distribuzione dello stesso.
L’analisi combinata di reddito netto delle famiglie e distribuzione dello stesso premia ancora il Trentino Alto Adige che guida la classifica di questo settore davanti ad altre regioni del Nord come Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Valle d’Aosta. Ultimi posti in classifica – anche in questo caso – per Sicilia, Campania, Basilicata, Molise e Calabria che abbinano redditi netti bassi e disuguaglianza nella sua distribuzione.
ISTRUZIONE
La regione più scolarizzata d’Italia è invece il Lazio, dove il 30% della popolazione che ha più di 15 anni ha un diploma di maturità della durata di 4/5 anni e il 16% della stessa popolazione è laureato.
In questa classifica appare molto più sfumata la distinzione nord/sud: dopo il Lazio, infatti, si classifica l’Umbria seguita da Abruzzo, Liguria, Emilia Romagna e Marche. Il Veneto arriva addirittura penultimo, davanti solo alla Puglia e dietro a Sicilia e Sardegna.
IMPEGNO CIVILE
La regione dove si vota di più e dove la partecipazione alla vita pubblica è più elevata è l’Emilia Romagna, a pari merito con Umbria, Lombardia, Toscana, Marche e Veneto.Anche qui la matrice nord/sud è abbastanza evidente con Sicilia, Calabria, Sardegna, Campania e Puglia a chiudere la classifica.
Una proposta che funziona – Editoriale di Massimo Blasoni
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Massimo Blasoni – Panorama
La pressione dell’insieme di imposte e tasse sul nostro Pil è passata dal 20% del 1975 al 50%, in termini reali, del 2015. Un incremento enorme sia delle imposte dirette che di quelle indirette e che non ha lasciato indenni né la casa né i nostri risparmi» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Dal 2010 ad oggi le tasse sulle abitazioni sono passate da 32 a 50 miliardi e quelle sul risparmio da 9 a 16. La Total Tax Rate sulle imprese è tra le più alte al mondo e raggiunge il 65,4% dei redditi prodotti dalle nostre aziende. È indifferibile, quindi, un’azione di contenimento del carico fiscale, almeno sui redditi delle persone. La Flat Tax, anche in una versione “italiana” a due aliquote, rappresenta certamente una strada utile ma soprattutto percorribile, come è dimostrato dal nostro studio.
* Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro
Flat Tax sogno possibile
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di Gianni Zorzi* – Panorama
Il tema del fisco è tornato di grande attualità. Non solo per gli annunci di Matteo Renzi, che promette di rivoluzionare le tasse partendo dall’abolizione delle imposte sulla prima casa. Ma anche perché sono ricomparse nel dibattito politico italiano alcune proposte sulla possibile introduzione di una «flat tax» sui redditi personali. Questo sistema di tassazione, già attivo in una quarantina di Paesi (e diffuso soprattutto nell’Europa dell’Est), consisterebbe nell’applicazione di un’aliquota unica sui redditi e condurrebbe alla rottamazione del complesso di aliquote marginali, deduzioni e detrazioni che caratterizzano il calcolo dell’Irpef odierna. Gli obiettivi principali dichiarati dai sostenitori della flat tax sono almeno tre: a) semplificare il calcolo delle imposte a beneficio del contribuente; b) ridurre la pressione fiscale e aumentare il reddito disponibile come incentivo agli investimenti e alla crescita; c) favorire il riemergere di redditi nascosti all’erario garantendo una maggiore equità fiscale. La flat tax nella sua accezione più pura nasce come tassa proporzionale poiché colpisce il reddito con la stessa intensità dal primo all’ultimo centesimo dichiarato.
In effetti, abbandonare ogni tipo di deduzione e detrazione e fissare un’aliquota unica del 19 per cento sarebbe sufficiente in Italia a garantire lo stesso gettito fiscale che attualmente incassa lo Stato sull’Irpef. Ogni punto di aliquota inferiore a questa metterebbe invece a repentaglio circa 8,1 miliardi di gettito: a meno di confinarne drasticamente la portata, una flat tax pura del 15 per cento potrebbe costare all’erario fino a 32,5 miliardi, e del 10 per cento fino a 73,2 miliardi. Il 19 per cento equivale infatti al dato medio, arrotondato per eccesso, delle imposte nette (153,7 miliardi di euro inclusa la cedolare secca) che provengono dal reddito personale complessivo dichiarato dagli italiani (810 miliardi nel 2014). L’Irpef come la conosciamo è però un’imposta fortemente progressiva e mentre sotto i 10mila euro di reddito i contribuenti mediamente versano oggi il 2,8 per cento, trai 10mila e i 20mila sono colpiti per oltre l’11,1 per cento, e nella fascia tra 20 e 29mila euro di reddito pagano in media il 16,4 per cento. Queste categorie risulterebbero evidentemente svantaggiate da un passaggio all’aliquota proporzionale. Ben diverso il discorso per chi oggi ad esempio guadagna 50mila euro (con un’imposta effettiva superiore al 25 per cento), 80 mila euro (oltre il 30 per cento di imposta netta) oppure più di 300mila euro (con un’imposizione media del 39,48 per cento). E si pensi che già dai 28mila euro di reddito, l’attuale Irpef impone che ogni euro di reddito addizionale dichiarato costi tra i 38 e i 43 centesimi, senza contare le addizionali locali che pesano in media per un altro 2,1 per cento.
Per queste categorie l’incentivo all’evasione è dunque oggi molto elevato, e potrebbe ridursi notevolmente proprio con l’adozione della flat tax. Nel contempo, però, appare irrinunciabile la garanzia di una esenzione sui primi redditi, che eviti almeno alle fasce più deboli di farsi carico della riduzione di gettito operata su quelli più elevati. Nella pratica esistono versioni progressive o marginali della flat tax che colpiscono solamente la parte di reddito che supera la soglia di esenzione, a sua volta definita come «no-tax area». Aldilà dei tecnicismi, il nostro Paese può realisticamente sostenere il passaggio a questo sistema? E in caso di risposta positiva, quale combinazione di aliquote e deduzioni fisse può essere stabilita al fine di contenere entro una determinata soglia i rischi di minori introiti per l’erario? Ad esempio, secondo le elaborazioni di ImpresaLavoro, con una no-tax area fissa da tremila euro a contribuente e con un’aliquota del 15 per cento il disavanzo complessivo potrebbe superare i 55 miliardi.
La parità di gettito si raggiungerebbe con certezza, a fronte di tremila euro di deduzione per contribuente, solo con un’aliquota del 22 per cento, mentre non si potrebbe andare sotto il 24 per cento se i tremila euro fossero estesi anche ai familiari a carico. Diversamente, bisognerebbe sperare in una massiccia emersione del «nero»: agli occhi del fisco dovrebbero però comparire, anche nella migliore delle ipotesi, nuovi redditi per almeno 413 miliardi. Questo obiettivo appare quantomai ambizioso, dal momento che corrisponderebbe a un incremento di oltre il 50 per cento dei redditi attualmente portati in dichiarazione. È chiaro quindi che una grossa fetta delle risorse andrebbe necessariamente ricercata altrove, ed in particolare nella riduzione della spesa pubblica che di per sé risulta, come si sa, sempre incerta e difficoltosa. C’è poi il problema delle fasce deboli, per le quali le deduzioni di tremila euro non sarebbero sufficienti a scongiurare l’aggravio fiscale: sotto i 10mila euro potremmo assistere, bene che vada, addirittura a un raddoppio delle imposte, mentre tra i 10mila e i 20mila il gettito rimarrebbe nella media invariato. Diversi tentativi di declinare il binomio aliquota unica-deduzione fissa possono portare a soluzioni meno costose per i redditi più bassi. Aumentare la no tax area a seimila euro oppure a ottomila euro per contribuente determinerebbe però la necessità di portare l’aliquota unica rispettivamente al 26 oppure al 29 per cento al fine di garantire la stabilità dei conti pubblici. Se la deduzione arrivasse a 13mila euro, una flat tax al 30 per cento potrebbe costare al fisco ben 35 miliardi, e ogni ulteriore punto di riduzione altri 3,9.
Secondo le nostre elaborazioni, almeno in un primo momento garantire tutti gli obiettivi della flat tax con un’aliquota unica e relativamente bassa potrebbe essere in effetti poco realistico. Abbassare le deduzioni danneggerebbe i redditi più modesti mentre incrementare l’aliquota svilirebbe lo shock fiscale desiderato; qualunque intervento nelle direzioni opposte, invece, potrebbe mettere in tensione i conti dello Stato. Il vero nodo nel breve periodo è soprattutto l’incertezza sul gettito concretamente recuperabile dalla riemersione dei redditi nascosti. Tale incertezza però potrebbe essere testata, per esempio, con una prima riforma meno ambiziosa e audace di quelle sinora proposte: se l’esperimento andasse a buon fine e le dichiarazioni dei redditi potessero confermarlo, in un secondo momento il taglio delle tasse potrebbe essere ben più deciso e corposo. Un esempio plausibile, secondo i nostri numeri, potrebbe essere quello di una no tax area di ottomila euro con una flat tax (impropria) a due stadi: per esempio del 20 per cento fino a 29mila euro di reddito, e del 27 per cento oltre i 29mila euro. Non si tratterebbe dunque di una imposta realmente «piatta» ma porterebbe con sé molti dei benefici attesi dai sostenitori dell’aliquota unica.
Con questa soluzione le tasse calerebbero in media per tutti i livelli di reddito, anche sui più bassi, mentre il calcolo delle tasse risulterebbe notevolmente semplificato con l’eliminazione di tutto l’attuale sistema di deduzioni e detrazioni e la riduzione a due sole aliquote. Nel contempo, il possibile disavanzo fiscale che ne conseguirebbe (che stimiamo prudenzialmente in 21,4 miliardi) sarebbe interamente recuperabile con l’emersione di 130 miliardi di euro di redditi non dichiarati: obiettivo che corrisponde al più 16 per cento rispetto alle attuali dichiarazioni e che sarebbe comunque favorito da un abbattimento consistente del prelievo soprattutto sui redditi medio-alti. Il tentativo cosi delineato potrebbe estendersi a una revisione e semplificazione delle addizionali locali Irpef, oltre che al reddito d’impresa (a cui potrebbe accompagnarsi finalmente l’abolizione dell’Irap, come propone Renzi per il 2017) e ad altre forme di prelievo come quello sui redditi finanziari, per arrivare sino all’Iva. In tutti i casi, con la flat tax il contribuente potrebbe finalmente ritrovarsi un fisco più semplice e trasparente, oltre che meno vorace e più equo.
* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro
Dal 2008 al 2013 sono emigrati più di mezzo milione di italiani
Redazione Studi emigrazione, eurostat, francia, germania, impresalavoro, massimo blasoni, spagna
ANALISI
Il perdurare della crisi economica costringe un numero crescente di nostri connazionali a trasferirsi stabilmente oltre confine alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro. Dal 2008 al 2013 gli emigrati italiani sono stati complessivamente 554.727, di cui 125.735 soltanto nel 2013 con una crescita rispetto al 2008 del 55% su base annua. Il 39% di questi italiani (214.251, di cui 47.048 soltanto nel 2013) sono giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni. Anche in questo caso si segnala un trend in rapida crescita: rispetto al 2008 i giovani che hanno scelto di trasferirsi oltre confine sono aumentati del 40%. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat.
In questi ultimi sei anni la destinazione più gradita è stata la Germania (che ha accolto 59.470 nostri connazionali, di cui 13.798 solo nel 2013), seguita dal Regno Unito (51.577 emigrati, di cui 14.056 solo nel 2013), dalla Svizzera (44.218 emigrati, di cui 10.537 solo nel 2013), dalla Francia (38.925 emigrati, di cui 9.514 solo nel 2013) e dalla Spagna (25.349 emigrati, di cui 4.537 solo nel 2013). Fra i giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni la meta preferita è diventata invece il Regno Unito (27.263 emigrati, pari al 53% del totale), che precede in questa classifica la Germania (24.445, pari al 41% del totale), la Svizzera (16.653), la Francia (14.682) e la Spagna (11.377).
Nello stesso periodo di tempo molti altri nostri connazionali hanno invece preferito stabilirsi negli Stati Uniti: 26.072 italiani (fra questi 9.104 giovani), di cui 5.560 soltanto nel 2013. Sempre dal 2008 al 2013, altre mete di destinazione dei nostri emigrati sono state nell’ordine il Belgio (12.064 connazionali, di cui 4.457 giovani), l’Albania (9.470, di cui 3.442 giovani) e la Slovenia (1.629, di cui 351 giovani).
[clicca per ingrandire]
“I nostri emigranti – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – scelgono in larghissima parte di continuare a vivere all’interno dell’Unione europea, spostandosi in Paesi che garantiscono loro un sistema formativo e un mercato del lavoro decisamente superiori a quelli italiani”.
Debito Pubblico: con Renzi è cresciuto a velocità doppia rispetto a Letta
Redazione Studi confronto, debito, Enrico Letta, impresalavoro, massimo blasoni, Matteo Renzi
Da quando Matteo Renzi è presidente del Consiglio il debito pubblico italiano è cresciuto a velocità doppia rispetto al periodo in cui l’inquilino di Palazzo Chigi era Enrico Letta. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Bankitalia.
Durante i primi 15 mesi di attività dell’attuale governo, infatti, il debito pubblico ha registrato un incremento in valore assoluto di 98,76 miliardi di euro – passando dai 2.119 miliardi di euro del marzo 2014 ai 2.218 miliardi di euro del maggio 2015 – con un aumento medio mensile di 6,58 miliardi di euro.
Durante i 10 mesi di attività del governo Letta, il debito pubblico ha invece registrato un incremento in valore assoluto di 31,38 miliardi di euro – passando dai 2.075 miliardi di euro del maggio 2013 ai 2.106 miliardi di euro del febbraio 2014 – con un aumento medio mensile di 3,14 miliardi di euro. Un ritmo di crescita più che dimezzato rispetto a quello fin qui registrato durante il governo di Renzi.