industria

Competitività anima della crescita

Competitività anima della crescita

Ferdinando Nelli Feroci – Il Sole 24 Ore

Nell’ambito del cruciale dibattito in corso sul rilancio della crescita e dell’occupazione in Europa, il rafforzamento della competitività delle nostre imprese ha assunto un ruolo decisivo. L’industria, infatti, contribuisce per circa l’80% delle esportazioni europee e per un ammontare simile per quanto riguarda la capacità innovativa del nostro sistema. Senza una forte base industriale è difficile rilanciare la crescita e riassorbire l’elevata disoccupazione. Purtroppo, dal 2008 abbiamo perso circa 3,5 milioni di posti di lavoro nel manifatturiero e la quota sul Pil Ue generata dall’industria è scesa al 15,1%.

È prioritario invertire il declino. Rimettere in moto la crescita significa trovare ricette giuste per rendere le aziende attori dinamici sui mercati globali. I rapporti sulla Competitività degli stati membri e sulla Competitività dell’industria europea, appena pubblicati, presentano un quadro di luci e ombre. Se da un lato abbiamo Stati membri con elevata competitività di sistema, dall’altra abbiamo paesi che arrancano e che vedono ridursi sempre più la loro presenza sui mercati mondiali. Discorso analogo per i vari comparti produttivi europei, dove a fronte di punti di forza, come il farmaceutico, la chimica, la meccanica, l’industria automobilistica e l’alta gamma, esistono settori in sofferenza e piccole e medie imprese (Pmi) sempre più in difficoltà.

I due rapporti cercano di individuare i punti di forza e di debolezza del panorama industriale Ue e mirano a ispirare le politiche della competitività a livello Ue e dei singoli Stati. I maggiori problemi che abbiamo identificato riguardano la debolezza della domanda interna, la mancanza d’investimenti, alti prezzi dell’energia e un contesto amministrativo-regolamentare talvolta eccessivamente oneroso per le imprese. La chiave del nostro rilancio economico risiede nella ripresa della domanda interna. Al di là del rilancio dei consumi, la crescita della domanda passa attraverso l’aumento degli investimenti, sia pubblici che privati, tra l’altro tra i più colpiti dalla crisi. La ripresa di questi ultimi consentirebbe di innescare il circolo virtuoso della crescita che alimenterebbe sia la domanda che la competitività di tutto il sistema. In questo clima di ritrovata fiducia, anche i privati riprenderebbero ad investire.

Perché questo possa avvenire, è importante garantire un adeguato accesso al credito alle aziende. Senza sufficiente liquidità per investire e innovare, le imprese europee rischiano di perdere non solo la sfida globale ma anche di compromettere la sfida in casa, a fronte di prodotti stranieri più economici e innovativi. Il sistema finanziario deve essere messo nelle condizioni di canalizzare verso le imprese la liquidità di cui dispone. Confido che il lavoro sull’Unione bancaria porti i sui frutti quanto prima su questo fronte così come le recenti iniziative intraprese dalla Banca centrale europea. Dobbiamo anche lavorare per migliorare il rapporto banche-imprese, colmando il deficit informativo delle banche verso le Pmi e viceversa, e rafforzare nuovi canali di finanziamento alternativi, come le obbligazioni per le pmi e un ricorso più strutturato al venture capital e al crowdfunding.

Il rilancio della competitività necessita di un contesto amministrativo più favorevole alle imprese. È fondamentale ridurre le tasse sul lavoro e sui fattori produttivi, ma anche sprechi ed inefficienze. Una Pubblica Amministrazione efficiente è strumentale alla crescita delle aziende, sia in termini economici che occupazionali. Dobbiamo ridurre i tempi di concessione delle licenze, rendere più efficiente il sistema giudiziario e ridurre il fardello burocratico che pesa sui nostri imprenditori.

Inoltre, la bolletta energetica è sempre più cara in Europa, soprattutto se paragonata a quella dei nostri competitor nel mondo. Nella stessa Ue, i prezzi variano notevolmente da un Paese all’altro, riflettendo le differenze nella produzione, nella tassazione e nella ripartizione delle sovvenzioni per le energie rinnovabili. Nonostante un generale aumento dell’efficienza energetica in molti settori industriali, l’aumento dei prezzi di elettricità e gas ha influenzato negativamente i costi di produzione e la competitività delle nostre imprese, specialmente nei settori ad alta intensità energetica.

Oltre a queste difficoltà, esistono fortunatamente segnali positivi. Il nostro sistema industriale ha ancora vantaggi competitivi in numerosi settori ad alta e medio-alta tecnologia con una forza lavoro mediamente più qualificata che altrove. Dobbiamo quindi insistere sui punti di forza e allo stesso tempo investire nella formazione dei nostri giovani, nell’innovazione, nelle infrastrutture e nell’internazionalizzazione. Sono queste le ricette per guadagnare competitività e aumentare la nostra presenza sui mercati mondiali, dove si concentrerà gran parte della crescita nei prossimi anni. In conclusione, per ritornare a crescere.

Senza più produttività non si cresce

Senza più produttività non si cresce

Mauro Magatti – Corriere della Sera

Se vogliamo essere realisti, il problema dell’Italia è fermare il proprio declino storico. Senza una lettura storica adeguata alla profondità della crisi non c’è provvedimento in grado di risollevare le sorti dei Paese. Proprio l’assenza di una visione chiara è il peccato di omissione (grave) che si può rimproverare al governo Renzi. Al di là dei risultati, è la direzione di marcia che si fatica a vedere: da un governo nato sotto auspici cosi favorevoli è lecito aspettarsi molto di più.

In questi giorni, pensando ai temi del lavoro, Renzi ha detto di volersi ispirare al modello tedesco. Esistono, da tempo, due principali modelli di crescita in Occidente. Quello anglosassone si basa su capacità di influenza internazionale; politica monetaria/finanziaria espansiva; liberismo interno; investimenti in ricerca e sviluppo e nuove tecnologie; contenimento salariale; elevata concentrazione della ricchezza. Il modello tedesco (o renano) si fonda invece su: forte compattezza istituzionale e sociale; politica monetaria restrittiva; centralità dello Stato nel fissare le priorità sistemiche; orientamento all’export; alta tecnologia; relazioni industriali che permettono una (relativamente) più equa distribuzione del reddito. Per entrambi, l’aumento della produttività è un presupposto per la crescita: ma mentre il primo modello si fonda sulle virtù liberali, il secondo richiede compattezza e disciplina.

In Italia la produttività ha smesso di crescere dalla seconda metà degli anni 80. Da allora, il Paese ha traccheggiato utilizzando svalutazione e debito pubblico per tirare avanti. Come ha mostrato di recente la Banca d’Italia, l’enorme massa di risparmio accumulata negli armi del boom economico venne impiegata per finanziare non nuovi investimenti, ma debito pubblico. Lì abbiamo perso il treno della crescita. Il berlusconismo ha malamente cercato di ispirarsi al liberismo americano. Ma ha trascurato la parte impegnativa (la produttività) e preso quella più superficiale (i consumi). Il risultato è un ircocervo con uno Stato onnipresente (che garantisce una pluralità di piccoli interessi corporativi) e un mercato del lavoro segmentato tra regolazione rigida e liberismo senza regole. L’entrata nell’euro prima e la crisi dei mercati finanziari poi hanno fatto saltare l’equilibrio di sopravvivenza di un tale modello, mandando l’Italia sott’acqua. Possiamo rileggere il governo Monti come il tentativo di assoggettare il Paese alla logica tedesca della disciplina. Ma il risultato non è stato positivo. Fondamentalmente perché l’Italia non è la Germania: per correggere la linea evolutiva del nostro Paese ci voleva molto tempo e una grande forza politica. Adesso la forza politica c’è, ma manca la direzione.

Uscire dall’angolo è difficile. Ma ce la si può fare seguendo la rotta giusta senza indugi. In primo luogo, aiutati delle difficoltà della stessa Germania, è il momento di realizzare un’incisiva azione di stimolo all’economia sul piano europeo. Berlino si trova oggi nelle condizioni di svolgere un’azione simile a quella che, nel dopoguerra, fu esercitata dagli Usa con il piano Marshall: ciò che serve all’Ue – sul piano economico e politico – è un grande piano di investimenti. Un vasto programma di credit easing è nell’interesse dell’Italia, della Germania, dell’Europa.

Sul versante interno, occorre spiegare al Paese che la crescita senza aumento della produttività non si dà più. L’Italia deve tornare a investire sul futuro: lo Stato deve creare le condizioni perché chi dà un contributo tangibile alla produzione di valore e ricchezza possa lavorare ed essere premiato, tornando, dove possibile, a investire in infrastrutture e alcuni comparti strategici. Occorre, nel contempo, compensare dal lato della giustizia sociale: prima di tutto dichiarando guerra a tutte le oligarchie che chiudono la società italiana. Il Paese va liberato dalle mille cupole burocratiche, localistiche, corporative, accademiche, sindacali che soffocano le sue forze generative. Bisogna poi dimostrare che uscire dalla spirale «stagnazione della produttività-diminuzione della competitività-aumento della disuguaglianza» si può (e si deve) attraverso la costruzione di una relazione virtuosa tra aumento della produttività ed equità sociale. Il totem dell’articolo 18 non va abbattuto perché possano derivare chissà quali vantaggi economici; o perché così si dà una lezione ai sindacati. La posta politica in gioco è invece la possibilità di scrivere un nuovo (e migliore) patto per il rilancio dell’Italia tra tutti coloro che – lavoratori o imprenditori, appartenenti al settore pubblico o privato, autonomi o dipendenti – contribuiscono alla produzione di valore. Premiando l’investimento, la ricerca, l’innovazione, la flessibilità, la professionalità; ma anche innovando gli strumenti della protezione sociale e puntando a una più equa distribuzione della ricchezza. In un regime rigido come quello sorto con l’euro è la qualità delle relazioni sociali e istituzionali – dalla fiscalità al welfare – la chiave per crescere.

Renzi si sente alla testa di un manipolo di rivoluzionari che ha conquistato il potere. Non si illuda. La rivoluzione deve essere ancora fatta: nella società, nell’economia, nelle istituzioni. Facendosi forte del consenso di cui dispone, il premier trovi il coraggio per portare l’Italia a superare l’idea di una società dei consumi avvinghiata attorno alle dispense pubbliche puntando a un nuovo modello sociale capace di investire su qualità ed eccellenza. Senza dimenticare la solidarietà. Per far questo, si faccia garante credibile della nascita di un’alleanza, giusta e dinamica, tra tutti coloro che vogliono dare il loro contributo a tale impresa. Il declino storico lo si può vincere solo insieme, grazie alla politica. Dopo aver scartato tutti, Renzi è solo davanti al portiere: non butti la palla in tribuna!

I rebus della politica industriale

I rebus della politica industriale

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Per riformare «non basta dire no» ai no – a eliminare l’articolo 18, a ridimensionare l’obbligatorietà dell’azione penale, a privatizzare i servizi dei comuni. Bisogna ottenere il sì di chi chiede interventi che valgano a farci uscire dalla stagnazione. E per il riformatore può perfino essere più facile isolare i no che prospettano i disastri che altrimenti si produrrebbero, che rispondere ai sì, e ottenere i miracolosi risultati che ci si aspetta dall’adozione di certe politiche. Tra queste una delle favorite è la «politica industriale».

In passato, si dice, siamo riusciti ad agganciare i paradigmi industriali: la macchina a vapore applicata da Sommeiler alle pompe per far passare treni sotto i monti, il motore asincrono con Ferraris, quello a scoppio con la Fiat, la radio con Marconi, il polipropilene con Natta. In questa carrellata non manca mai il richiamo all’Olivetti, ed è perlopiù sbagliato: il culmine del successo l’Olivetti lo raggiunse con la Divisumma che, con un primo costo variabile sotto le 30.000 lire, veniva venduta a un prezzo vicino a quello di una 500. Tanti si arrovellano sulle ragioni per cui il mainframe Elea non riuscì a battere IBM, ma pochi ricordano che non ci riuscì nessuno in Europa, né ICL, né Philips, né Bull, né Siemens: tutti errori di «politica industriale»? In Germania c’è un leader mondiale del software (la SAP) e in Italia no: nessuno lo ricorda ma ha i suoi perché, e hanno a che fare anch’essi con la «politica industriale».

Essa si regge su un presupposto teorico: che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo. Una contraddizione in termini, perché è proprio dall’imprevedibilità che viene la spinta a innovare, dall’aleatorietà quella a investire, dalla molteplicità dei modi per organizzare la produzione quella di sperimentarne di nuovi. Non c’è neppure un modo unico di scoprire ex post le ragioni dei successi, e di generalizzare le regole che li favoriscono: come dimostra l’esistenza di molte società di consulenza, in concorrenza tra loro.

Tolto dalla scena l’imprenditore schumpeteriano, diventa però necessario sostituirlo con qualcuno che abbia (innate?) le conoscenze e la preveggenza per identificare i settori che potranno contribuire allo sviluppo del Paese. Nessuno vi ha investito in modo adeguato? «Fallimento di mercato», è evidente, a cui rimediare con sovvenzioni dello Stato e protezione dalla concorrenza «selvaggia». D’altra parte l’innovazione la può fare solo lo Stato, in tutto il mondo è sempre stato così, se non c’era lo Stato, l’iPhone Steve Jobs manco se lo sognava, parola di Mariana Mazzucato – come? non avete ancora letto «Lo stato innovatore»? C’è un’inevitabile consequenzialità nel succedersi dei passaggi, tutto discende dalla decisione iniziale, di identificare i settori. Che poi, a ben vedere, prima non è: infatti chi avrà il potere di identificare l’identificatore? La «politica industriale» presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica.

Molti pensano che Mario Draghi a Jackson Hole avesse in mente il surplus di bilancio tedesco quando ha proposto di usare tutta la flessibilità consentita dai trattati. Se pure Angela Merkel lo vorrà leggere in tal modo, c’è da scommettere che anche in Germania si alzerà la voce di chi quel surplus vorrà spenderlo non, ad esempio, riducendo le imposte, ma mostrando i muscoli della «politica industriale». Anche il piano di investimenti infrastrutturali da 300 mld di euro enunciato dal presidente Jean-Claude Juncker, ha lo scopo dichiarato di stimolare la domanda aggregata, ma di fatto è anch’esso un piano «politica industriale». Come tale soggetto alle inevitabili contraddizioni: come stimolare il mercato senza lasciare spazio alla sua capacità di scoperta, come farlo crescere senza le virtù e i difetti dell’imprenditore, come selezionare senza la concorrenza; nel caso specifico poi, come districare il groviglio di problemi di ripartizione e di coordinamento tra Paesi.

Nell’attesa del grande stimolo europeo, il governo Renzi cerca di stimolare la nostra economia con il decreto sblocca Italia. Sarà perché non siamo abbastanza keynesiani, come dice Krugman (che evidentemente di italiano legge solo il blog dell’Istituto Bruno Leoni), sarà perché 140 caratteri sono pochi per complessi progetti costruttivisti, in ogni caso si tratta di provvedimenti sparsi, senza neppure il tentativo di venderli come «politica industriale». Ma hanno lo stesso presupposto ideologico: che «loro» sappiano meglio di «noi» a che fine e come spendere i nostri soldi. Che si tratti di posa di cavi per la banda larga, di porti, di ecobonus o sisma-bonus, di acquistare e affittare immobili ristrutturati, ogni «semplificazione» ha come target il suo interesse rilevante. Non è una nuova «politica industriale»: è la vecchia che non è mai finita.

La scelta delle banche che non aiutano il paese

La scelta delle banche che non aiutano il paese

Andrea Monticini – Il Secolo XIX

Nonostante innumerevoli provvedimenti legislativi (salva Italia, cresci Italia, sblocca Italia) di crescita, in Italia negli ultimi 15 anni, ce ne è stata ben poca. Una delle ragioni che permettono di spiegare una recessione e il declino di un’economia è la cattiva allocazione del risparmio privato. In altre parole, il risparmio di famiglie e imprese viene utilizzato per finanziare settori produttivi che operano in mercati a basso tasso di crescita e soprattutto a basso valore aggiunto, invece di finanziare quelle attività in grado di generare maggiore ricchezza. 

Per comprendere le ragioni della crisi italiana occorre quindi analizzare quali siano stati i settori produttivi finanziati dalle banche italiane negli ultimi 15 anni: in Italia infatti la fonte principale per il finanziamento degli investimenti è senza dubbio il canale del credito bancario, in quanto purtroppo gli scandali dei bond Parmalat, Cirio ecc. hanno distrutto il mercato obbligazionario corporate, privando così le imprese italiane di una fonte di finanziamento alternativa al credito bancario. Incrociando questa informazione con l’andamento del valore della produzione (è ragionevole assumere che gli impieghi siano correlati con il valore della produzione piuttosto che al valore aggiunto) di tali settori si può quindi capire se il sistema bancario abbia indirizzato in modo corretto (o meno) il risparmio privato. A questo proposito, nell’anno 2000, circa il 4-1% degli impieghi bancari era indirizzato al settore industriale ed in misura quasi equivalente, il 43%, al settore dei servizi. I restanti impieghi si concentravano per circa il 4% nel settore agricolo e per circa il 12% nelle costruzioni. Questi impieghi permettevano, rispettivamente, al settore industriale di contribuire per circa il 40% e dai servizi per circa il 51% del valore della produzione totale italiana.

La situazione nel 2013 è notevolmente cambiata. Infatti, gli impieghi bancari sono per il 28% orientati al settore industriale e per circa il 50% ai servizi, che è aumentato in buona ragione per l’aumento dei servizi immobiliari. Gli impieghi nel settore agricolo sono rimasti stabili a circa il 4 e, infine, il 18 al settore delle costruzioni. Si evidenza quindi un aumento considerevole dell’allocazione del credito al settore dei servizi, il cui finanziamento passa dal 43% al 50%,e al settore delle costruzioni (dal 12% al 18%), a scapito principalmente del settore industriale. Ci si aspetterebbe quindi un aumento proporzionale del contributo dei servizi alla produzione totale italiana. Invece, nel 2013, il settore industriale contribuisce per circa il 39%, mentre il settore dei servizi per circa il 52%. Quindi, nonostante un notevole incremento degli impieghi bancari nel settore dei servizi (dal 43% al 50%), il contributo di questo aumento alla creazione di beni e servizi è stato modesto, passando dal 51% al 52%.

Questi numeri ci permettono di effettuare due considerazioni. In primo luogo, l’economia italiana dal 2000 al 2013 è sempre più caratterizzata per la presenza dei servizi ed è quindi fondamentale che in tale settore avvengano ulteriori liberalizzazioni volte ad aumentarne l’efficienza e la concorrenza. In secondo luogo, le banche in questi 13 anni hanno finanziato un settore, quello dei servizi (in particolare sono aumentati i finanziamenti al settore dei servizi immobiliari), non troppo esposto alla concorrenza internazionale e a basso tasso di crescita. Così facendo hanno senza dubbio assolto il loro fine di imprese private che massimizzano i propri profitti, magari sfruttando settori protetti, ma il rendimento di tali investimenti è stato modesto ed ha ulteriormente posto le basi per la profonda recessione che stiamo vivendo.

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Cristina Casadei – Il Sole 24 Ore

Osservati dal punto di vista dell’industria i dati Istat non presentano un quadro drammatico perché nell’industria in senso stretto torna a crescere l’occupazione: +2,8% rispetto a un anno prima, pari a 124,000 unità, sia tra i dipendenti sia tra gli indipendenti. Se ci spostiamo e li guardiamo dal punto di vista dell’agricoltura, ancora una volta, il segno è positivo: il numero di occupati in agricoltura aumenta rispetto a un anno prima (+1,8%, pari a 15.000 unita) e riguarda soltanto i dipendenti (+5,6%, pari a 22.000 unità), a fronte di un calo degli indipendenti. È quando i dati vengono osservati dal punto di vista delle costruzioni e del terziario che la situazione diventa pesantemente drammatica. Prosegue per il quindicesimo trimestre, la flessione degli occupati nelle costruzioni (-3,8%, pari a -61.000 unità), concentrata soprattutto nel CentroNord. L’occupazione si riduce su base annua anche nel terziario (-0,6%, pari a -92.000 unità). La diminuzione, diffusa territorialmente, interessa principalmente gli occupati nel commercio e nei servizi di credito e assicurazioni, mentre si riscontra un aumento nella sanità e nei servizi alle famiglie. 

«I settori più ciclici, come appunto le costruzioni e il terziario, che risentono maggiormente dell’andamento del ciclo economico, sono in forte sofferenza. Però non ci si può aspettare una ripresa dell’occupazione con tassi di crescita vicini allo zero negativo. Se il paese non cresce, l’occupazione non cresce». Il ragionamento del professor Marco Leonardi che insegna Economia Politica alla Statale di Milano è lineare, non è il risultato di complesse equazioni perché la realtà che ci presentano i dati Istat è semplice e allo stesso tempo non consente vie d’uscita simili al passato. «Abbiamo avuto negli anni passati un aumento dell’occupazione in assenza di crescita economica grazie alla diffusione rapida dei contratti a termine – continua Leonardi -. Ormai però abbiamo raggiunto un livello dei contratti a termine fisiologico, in linea con la media europea. Se l’Italia non riprende a crescere, la disoccupazione non scende». Anche l’arma dei contratti a termine appare spuntata. Mentre gli interinali rappresentano numeri ancora piccoli nel nostro paese, comunque non tali da poter incidere visibilmente sugli andamenti. Secondo gli ultimi dati di Assolavoro, fermi a maggio di quest’anno, il monte retributivo dei lavoratori in somministrazione cresce del 9,8% rispetto allo stesso mese del 2013. La variazione congiunturale è pari a -1,5% contro il -2,3% di maggio 2013. Il numero medio mensile di occupati registra un +12% su base annua, i lavoratori occupati sono 278 mila. A maggio, le ore lavorate sono 28,9 milioni circa (+5,8% su base annua), mentre il rapporto fra somministrazione e occupazione totale passa dall’1,14% di maggio 2013 all’1,24% dello stesso mese del 2014.

Sui settori incombono diversi fattori. Di lungo periodo come per esempio «il fatto di essere pur sempre un paese manifatturiero importante – interpreta Leonardi – L’industria italiana, soprattutto quella che esporta, tiene. La crescita del pil è trainata dalla manifattura esportatrice». Poi però ci sono anche fattori strutturali come per esempio «i servizi che funzionano meglio che in altri paesi». Il momento pero è delicato, siamo infatti in una fase in cui «rischiamo di perdere gli elementi di ripresa e di uscita dalla crisi che si potevano intravedere».

Quattro mosse per una politica industriale

Quattro mosse per una politica industriale

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Il tormentone d’agosto su stime di crescita infinitesime – + 0,10 -0,1 per cento di Prodotto interno lordo? – , in un Paese con un debito pubblico superiore al 130% del reddito nazionale, può andare bene per un tweet, ma non è una cosa seria. A meno che non si voglia ragionare di politica industriale. Ma parlare di industria in Italia è al tempo stesso una necessità e un paradosso. Una necessità, perché la nostra economia trova ancora nella manifattura la sua principale ragion d’essere, non essendo stata in grado di competere sui piani della finanza e dei servizi a elevato valore aggiunto. Un paradosso, perché continuiamo ad inseguire un campionato già perso, invece di prepararci a una competizione completamente nuova. 

La politica industriale è il frutto della collaborazione tra istituzioni e grandi imprese capaci di influenzare standard di produzione e concorrenza internazionale. È sempre stato così. La storia dell’industria ha proceduto per paradigmi tecnologici: la macchina a vapore, il motore a scoppio, l’elettricità, la petrolchimica. E l’Italia, sia pure con qualche affanno, questi paradigmi li ha agganciati tutti. Nel solo 1918 vennero prodotti 6.523 aerei e 14.820 motori; negli Anni 60 l’Olivetti sviluppò e costruì nel Canavese i grandi calcolatori elettronici, i mainframe. L’invenzione del polipropilene – con il premio Nobel a Giulio Natta – fu il prodotto del lavoro della Montecatini. Sarebbe un lungo elenco. 

Cos’è successo da allora? Semplice: il paradigma tecnologico è cambiato – si è affermato quello della microelettronica e delle telecomunicazioni – , ma il nostro sistema industriale non è stato in grado di catturarlo. Al di là di altre spiegazioni, molte certamente corrette, originano da qui il ritardo e il declino strutturali della manifattura italiana. Ed ecco il paradosso: il ritardo non è, di fatto, colmabile. La politica industriale non può più dare molto in questo senso e non è nemmeno detto che sia sensato sprecare risorse per provarci. La corsa della tecnologia è troppo veloce per chi non si è mosso dall’inizio, e le grandi imprese italiane che (forse) potrebbero ancora farcela sono ormai troppo poche e isolate a livello internazionale. Il tempo è andato, gli asset adeguati pure.

Tutto perduto dunque? Niente affatto. Ma ci vuole il coraggio di fare quattro cose. Non sono molte, ma vanno fatte bene, con convinzione e continuità. La prima. Identificare quali settori potranno contribuire allo sviluppo del Paese (non crescita, ma sviluppo: che è molto di più!) e sostenerli, anche finanziariamente, nei loro processi di modernizzazione ed internazionalizzazione. Serve riconoscere che non tutte le industrie sono meritevoli di essere supportate alla stessa maniera, specie quando le risorse pubbliche sono scarse. Sarà la concorrenza a decidere la loro sorte. La seconda: definire il livello desiderato di competizione per i settori ritenuti cruciali, non lasciando in questi casi tutto il potere al mercato. Perché non sempre più concorrenza significa maggiore competitività e quindi efficienza: specialmente in industrie ad alta intensità di capitale dove contano la dimensione globale e il presidio della domanda interna. La terza: puntare sul paradigma tecnologico di domani, non su quello che domina l’oggi, investendo – e facendo investire le imprese – massicciamente negli enti che sviluppano adesso la tecnologia che sarà industria domani. Ce ne sono tanti e di valore in italia: l’Istituto italiano di tecnologia, i Politecnici, la Normale di Pisa… La quarta: spingere realmente le imprese medie a integrarsi tra loro e a capitalizzarsi, utilizzando le leve fiscali disponibili (c’è l’imbarazzo della scelta!) tanto importante e strutturale è l’obiettivo. Solo con dimensioni accresciute e un solido patrimonio tecnologico le imprese italiane riusciranno a diventare «strumenti attivi» di politica industriale, con obiettivi ambiziosi e raggiungibili.

Bisogna, infine, avere il coraggio di costruire una politica industriale nazionale. Non possiamo attenderci nulla dall’Europa, la struttura delle cui imprese viene organizzata dai «grandi gruppi dei vari Paesi spalleggiati vigorosamente dai propri governi», come metteva in guardia Marcello De Cecco già nel 1988… Loro lo hanno fatto e continuano a farlo ogni giorno. Noi no. Non nascondiamoci in modo ipocrita dietro il concetto – pericolosissimo per l’Italia – della politica industriale europea. Difendiamo ciò che abbiamo, d’accordo, ma smettiamo di inseguire i decimali e prepariamo il futuro: se investiremo su uno sviluppo di medio periodo solido e sostenibile pagheremo il debito con i nostri nonni e i nostri nipoti ci ringrazieranno.

Perché serve una politica per industria e infrastrutture

Perché serve una politica per industria e infrastrutture

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La domanda se l’Eurozona (Uem) si avvia a una strisciante depressione e deflazione è emersa chiara dopo i brutti dati sul secondo trimestre 2014. Il Pil è stato infatti a crescita zero sul primo trimestre e in crescita solo dello 0,7% su quello corrispondente del 2013 con l’inflazione annua scesa allo 0,4% in luglio. Tentiamo una risposta con alcune analisi e alcune proposte.

Manca una vera politica. Le previsioni di una crescita sostenibile della Uem sono adesso riviste al ribasso con spiegazioni (tra cui quella attuale ma debole della crisi Russia-Ucraina) che cambiano spesso salvo quella sulla necessità che i Paesi ritardatari accelerino le riforme strutturali.
Il problema è che manca una politica economica della Uem che, invece, ha tacitamente affidato il compito alla Bce (esclusa la politica fiscale restrittiva) slegandole però “un dito alla volta”. In queste condizioni la Bce di Mario Draghi ha fatto molto negli anni passati ma adesso bisogna chiedersi se può da sola rilanciare la crescita di un’area da 335 milioni di persone e con 19 milioni di disoccupati. Ovvero di grandezze maggiori di quelle Usa dove la banca centrale (Fed) ha poteri illimitati.

Le politiche della Bce. Non bisogna perciò riporre troppe aspettative sulla Bce anche se tra il 2010 e il 2013 ha salvato l’euro. La sequenza delle sue operazioni, giustificate per garantire la stabilità finanziaria dell’Eurozona, è stata notevole. Nel 2010 partì il «security market programme» (Smp) per l’acquisto di titoli di Stato dei Paesi della Uem in difficoltà. Poi, tra il dicembre 2011 e il febbraio 2012, si passò alle Longer term refinancing operations (Ltro) con prestiti alle banche della Uem di circa 1.000 miliardi di euro (con titoli vari in garanzia) che le hanno salvate, indirettamente favorendo anche gli acquisti dei titoli di Stato di Paesi traballanti. Nel luglio del 2012 Draghi, in un famoso discorso, affermò che la Bce avrebbe comunque salvato l’euro. In settembre fu annunciato il programma Outright monetary transaction (Omt) per operare illimitatamente sul mercato secondario dei titoli di stato per i Paesi della eurozona in programmi di ristrutturazione vigilata. Questi annunci conclusero il salvataggio dell’euro e dei debiti sovrani riportando i tassi di interesse a livelli ed a spread accettabili rispetto ai titoli tedeschi. Ciò non è bastato però per risollevare una Uem fiaccata e divaricata tra Paesi dove le necessarie riforme strutturali non possono avere effetti istantanei.

Il credito all’economia. In assenza di una politica economica per l’eurozona l’annuncio di Draghi del 5 giugno di nuove misure per riportare la dinamica dei prezzi dell’eurozona verso un tasso annuo del 2%, che è ritenuto fisiologicamente nel mandato della Bce, è una buona notizia ma non si può dire se rilancerà la crescita dell’eurozona. Le misure annunciate (Tltro ovvero Targeted Longer-term refinancing operation) consistono nella concessione di prestiti alle banche commerciali a condizione (vigilata) che li girino all’economia reale spingendo la domanda delle imprese e delle famiglie (esclusi i mutui casa), l’occupazione e la crescita. L’entità dei prestiti della Bce, le condizioni e la tempistica si possono riassumere come segue. I prestiti alle banche possono arrivare a 1.000 miliardi tra settembre di quest’anno e giugno 2016. Nel 2014 in due tranches potrebbero arrivare 400 miliardi pari al 7% dei crediti che le banche hanno concesso alla data del 30 aprile 2014. Il tasso sarà dello 0,10 superiore a quello ufficiale della Bce attualmente allo 0,15%. Alle banche italiane potrebbero arrivare 75 miliardi. L’erogazione dei prestiti della Bce nel corso del 2015 e 2016 è un po’ più complessa in quanto calibrata sull’entità dei crediti concessi nel citato periodo dalle banche commerciali all’economia reale. Nel giugno del 2016 avverrà un controllo cruciale per distinguere tra le banche che hanno rispettato, tra il maggio 2014 e l’aprile 2016, degli obiettivi prefissati di credito alle imprese e famiglie e quelle che non li hanno rispettati. Le prime potranno detenere i prestiti della Bce fino a settembre 2018 mentre le altre dovranno rimborsali entro settembre 2016. Malgrado le ottime condizioni di tassi praticati dalla Bce molti sono ancora i quesiti aperti per valutare l’efficacia di queste misure sia perché la banche hanno requisiti stringenti di patrimonio da rispettare per l’erogazione dei prestiti sia perché, se dall’economia reale (imprese e famiglie) non viene una sana domanda di credito, non si può correre il rischio di erogazioni a pioggia.
Secondo una stima l’effetto cumulato del Tltro sarebbe di 0,2-0,4 punti percentuali al Pil della Uem nel 2015-16 con una spinta sui prezzi dello 0,1%. Sono entità modeste.
Il credito per gli investimenti. Essendo l’economia reale ferma perché la domanda di investimenti e consumi non riparte, non basta offrire alle banche crediti a buone condizioni. Una proposta intelligente per potenziare subito il Tltro della Bce in Italia è stata suggerita il 10 giugno da Franco Bassanini ed Edoardo Reviglio su queste colonne. Si tratta di incentivare l’erogazione del credito bancario a favore delle imprese dando una garanzia pubblica parziale alle Banche tramite un potenziamento del Fondo centrale di garanzia o (per operazioni non consentite allo stesso) tramite la Cdp a sua volta garantita dallo Stato. La legge di stabilità 2014 già lo ammette ma manca il decreto attuativo. In tal modo si alleggerirebbe il vincolo dei ratio patrimoniali imposti alle banche incentivando il credito anche su quei progetti di investimento che per la loro innovatività possono avere ritorni più lenti e meno certi. Più complesso è il tema del finanziamento degli investimenti in infrastrutture che il Tltro ammette ma che difficilmente le banche commerciali affronterebbero. Bassanini e Reviglio non lo esaminano ma sembra che le Casse depositi e prestiti europee (e altri investitori a lungo termine) stiano elaborando una proposta per chiedere alla Bce una variante infrastrutturale al TLRTO che non commisuri questi investimenti a quelli da loro finanziati in precedenza e che ne allunghi ad almeno sette anni la durata.

Una conclusione. Da tempo sosteniamo che la Uem ha bisogno di una politica per le infrastrutture e l’industria che darebbe anche delle direttrici alle banche ed alle imprese per fare solide scelte di credito e di investimento alla cui attuazione la Bei e le Casse depositi e prestiti possono molto contribuire. La supplenza della Bce, che a breve avvierà anche un programma di acquisti di crediti bancari cartolarizzati (ABS), non può bastare. Per questo abbiamo apprezzato il programma del neopresidente della Commissione Junker centrato sulla crescita e l’occupazione. Adesso bisogna realizzarlo.

Governo Renzi, i numeri del disastro: Pil, crescita, consumi, export e produzione industriale. Ecco perché l’Italia sta peggio di 6 mesi fa

Governo Renzi, i numeri del disastro: Pil, crescita, consumi, export e produzione industriale. Ecco perché l’Italia sta peggio di 6 mesi fa

Libero

L’effetto Renzi, se cominciato, è già finito. Questo dicono i numeri, snocciolati in un freddo ed allarmante elenco da tutti gli Istituti economici: Istat, Bankitalia, Bce. Al netto di proclami, promesse e aspettative alimentate dal governo, la verità è che l’Italia sta peggio di sei mesi fa e che la ripresa, più volte prospettata in primavera a turno dal premier, dal presidente dell’Eurotower Mario Draghi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il numero uno di Palazzo Koch Ignazio Visco, non arriverà né nel 2014 né nel 2015.

I numeri del disastro

Mettiamoli tutti in fila, quei numeri: a maggio i consumi sono calati dello 0,7%, proprio in concomitanza con l’annunciato bonus Irpef da 80 euro in busta paga, mentre i saldi estivi dovrebbero registrare un calo intorno al 3-4 per cento. Le spese alimentari sono scese dell’1,2% e a simboleggiare una qualità della vita sempre più all’insegna del risparmio c’è una produzione industriale scesa, sempre a maggio, dell’1,2 per cento. Anche l’export, unica voce trainante in tutti questi anni di crisi, segna il passo: -4,3%, una mezza tragedia anche se Renzi l’Africano continuava a ripetere di voler alzare di 1 punto (appena) il Pil legato alle esportazioni nei prossimi 1.000 giorni. Già, il Pil: nel 1° trimestre del 2014 ha registrato un calo dello 0,5% annuo, cui si somma una previsione di crescita per il 2014 stimata ad aprile allo 0,6% dal Fondo monetario internazionale, che oggi ha però rivisto la previsione allo 0,3. Dimezzato, e pensare che la Bce fissa la soglia a un ancora più pessimistico +0,2 per cento. Il governo parlava di 0,8%: un miraggio.

Confronto impietoso

Se i consumi stagnano, il Pil non cresce, il debito aumenta, si rende praticamente impossibile ogni politica di investimenti statali e aumento della spesa pubblica, perché ci sono da rispettare i rigorosissimi tetti dell’Unione europea sui rapportideficit/Pil e debito/Pil. E il paragone proprio con gli altri Paesi dell’Eurozona certifica lo stato di malato cronico dell’Italia: anche nel 2015, secondo l’Fmi, cresceremo dell’1,2%, variazione minima rispetto all’1,1% del 2014. Le cose all’estero non vanno benissimo, vero, ma meglio che da noi. Secondo il Fondo monetario internazionale nel 2015 il Pil francese crescerà dell’1,4% (-0,1 rispetto alla precedente stima), quello tedesco all’1,7% (+0,1), quello spagnolo all’1,6% (+0,6). Tutti quanti, più o meno, agganciano la ripresa. Noi no.

Il 28esimo trimestre

Il 28esimo trimestre

Enrico Cisnetto – Il Foglio

È destino. L’Italia si occupa sempre di altro rispetto a quello che sarebbe più urgente e necessario. Ora, per esempio, l’attenzione è morbosamente focalizzata sulla “rottamazione” politico-istituzionale in corso – di cui tra l’altro stiamo ancora aspettando la traduzione delle intenzioni, peraltro non sempre encomiabili, in fatti concreti – mentre, viceversa, troppo poco concentrata sul florilegio di dati negativi che sul fronte della congiuntura economica escono quotidianamente. Ultimi quelli di ieri sulla caduta delle vendite al dettaglio e la diminuzione della fiducia dei consumatori, con ciliegina sulla torta la previsione del Fmi di un pil in crescita solo di tre decimi di punto a fine anno (e speriamo sia quella giusta, visto che per Bankitalia sarà dello 0,2 per cento e per Confindustria sarà “piatta”). Ma, ancor più importanti sono i dati sull’export, cui è stato dedicato un centesimo dello spazio giornalistico riservato alla riforma del Senato o a quella della legge elettorale (entrambe pessime, senza per questo sposare le assurde tesi sulla “dittatura di Renzi”). Infatti, le esportazioni italiane verso i paesi fuori dai confini europei a giugno sono calate del 4,3 per cento rispetto a maggio e del 2,8 per cento nei confronti del giugno 2013, considerato che la flessione annuale è stata particolarmente intensa per i beni di consumo durevoli (-9,7 per cento), l’energia (-5,6 per cento) e i beni strumentali (-4,4 per cento). Questi dati fanno scopa con quelli sulla produzione industriale. A maggio è stato certificato il peggior risultato della produzione industriale da novembre 2012 (con un calo dell’1,2 per cento su aprile e dell’1,8 per cento sull’anno precedente) e il peggior dato degli ultimi otto mesi sugli ordini industriali (-2,1 per cento su base mensile e -2,5 per cento annuo), con un allarmante calo del 4,5 per cento degli ordinativi esteri.

Basta guardare i numeri sciorinati da Francesco Daveri su LaVoce.info per capire la dimensione epocale del fenomeno: fatto 100 l’indice della produzione industriale dell’aprile 2008 (pre-crisi), lo scorso maggio il dato depurato dalle componenti stagionali ha fatto registrare un deludente 74,7. Mancano cioè 25,3 punti di produzione rispetto a prima dello tsunami. Una voragine che non solo non si chiude, ma rischia di allargarsi ulteriormente se anche le imprese che esportano, cioè che stanno sull’unica frontiera che ha retto alla crisi e su cui si può ragionevolmente contare per i prossimi anni, danno segni di cedimento. E quel quarto di capacità produttiva andata perduta – e che è inutile pensare di poter recuperare – è una media, perché ci sono settori in cui la caduta è ancora più forte. Per esempio quello dei beni di consumo durevole (automobili ed elettrodomestici bianchi in particolare) che fanno segnare 63,3 punti, cioè quasi 38 in meno rispetto all’aprile 2008. Ma sotto la media è stata anche la produzione di beni strumentali (per esempio mezzi di locomozione acquistati da imprese, non da consumatori) e di beni intermedi (produzione di componenti). Questo significa che non si fanno investimenti (si rinviano al futuro o si eliminano del tutto) e che le imprese maggiori usano sempre meno l’indotto italiano, preferendo il ricorso alle delocalizzazioni di intere filiere sub-produttive.

Tutto questo con conseguenze disastrose sull’occupazione. Un po’ meno pesanti per i fatturati aziendali, che hanno comunque almeno parzialmente beneficiato delle riduzione delle materie prime, delle riduzioni di costo consentite dalla delocalizzazione nell’est Europa e in Asia e, in alcuni casi, dall’apertura di nuovi mercati. Come testimonia l’indagine campionaria di Bankitalia su industria e servizi: per il 2014 le imprese si attendono infatti una ripresa del fatturato nella misura del 2,1 per cento, mentre la dinamica dell’occupazione rimarrebbe negativa, scendendo di un 1 per cento come lo scorso anno. Se a questo si aggiunge che lo scenario mondiale non aiuta – il Fondo Monetario, preso atto della frenata americana e delle prospettive meno rosee relativi ad alcuni mercati emergenti, ha rivisto al ribasso di tre decimi di punto la crescita del pil planetario, che nel 2014 sarà del 3,4 per cento per poi accelerare al +4,0 per cento (stima confermata) nel 2015 – è evidente che il nostro ritorno a un tangibile livello di ripresa e crescita è sfumato per quest’anno e si fa molto incerto per il prossimo, quando entreremo nel 28esimo trimestre dall’inizio della “grande crisi”. Che tale ormai non si può più definire, perché la parola crisi presuppone una fase – necessariamente non troppo lunga – di frattura di una traiettoria, che poi si va a ricomporre per consentire a quella curva di riprendere la sua precedente tendenza. No, qui la frattura è ormai tra un prima e un dopo, e quest’ultimo non potrà mai più essere come fu. Ecco perché si sente l’urgenza dell’azione politica, cui spetta il compito di resettare il paese e la sua economia su basi nuove, obbligatoriamente diverse da quelle precedenti. Solo che mentre essa diventa sempre meno rinviabile, il sistema politico-istituzionale si divide su ben altre questioni e pensa di risolvere le proprie contraddizioni ricorrendo all’arma delle elezioni anticipate. Occhio, perché potrebbe rivelarsi un’arma letale. Per il paese, ma prima di tutto per chi la usa.

 

Sviluppo, il cacciavite non funziona. Le 10 norme ancora ferme sulla carta

Sviluppo, il cacciavite non funziona. Le 10 norme ancora ferme sulla carta

Dario Di Vico – Corriere della Sera

In Italia si è ripreso a discutere con gusto di politica industriale. La Confindustria non smette di battere il chiodo, le proposte di Romano Prodi suscitano sempre grande interesse, il libro dell’economista Marianna Mazzuccato sul ruolo dello Stato nell’innovazione divide accademici e addetti ai lavori, il ministro Federica Guidi ha promesso novità. Il guaio però è che la produzione di parole sovrasta i fatti: la stragrande maggioranza dei provvedimenti adottati dagli ultimi governi per l’innovazione, la ricerca, la crescita di dimensione e la nuova imprenditorialità è rimasta al palo. Il Centro studi della Cna ha steso un’impietosa catalogazione delle misure inattuate ed è arrivato ad elencarne dieci, tutte entrate in vigore tra il 26 giugno 2012 e il 1 gennaio 2014 ma da allora ancora in attesa dei decreti attuativi.

I più vecchi tra i provvedimenti “mai nati” riguardano finanziamenti per progetti di ricerca e sviluppo definiti «di rilevanza strategica» e il credito d’imposta per l’assunzione di personale ad alta qualificazione. Sono stati varati dal governo Monti e in teoria avrebbero dovuto festeggiare proprio ieri il secondo compleanno ma al primo manca il solito decreto di attuazione del ministero dello Sviluppo economico (Mise) e il secondo è fermo perché non è stata ancora realizzata la piattaforma informatica necessaria. Realizzata la stessa comunque ci vorrà un altro decreto per definire procedure e modulistica (!).

I provvedimenti targati 2013 e ancora nel limbo sono cinque e sono stati emessi dal governo Letta al tempo dell’elogio del cacciavite. Il primo risale al giugno e si autodefinisce senza alcuna modestia «interventi straordinari a favore della ricerca per lo sviluppo del Paese». Le risorse per farlo camminare e tener fede al suo nome devono essere ancora individuate e si attende in merito un decreto, stavolta, del ministro dell’Istruzione. I tutti i casi citati i beneficiari avrebbero dovuto essere per lo più le piccole imprese, start up innovative e spin off universitari. Che aspettano e sperano. Datano invece dicembre 2013 altre quattro misure che riguardano credito d’imposta, voucher e mutui agevolati per gli investimenti di nuove attività. In tutti questi casi quello che si aspetta è ancora una volta il decreto del Mise.

Chiudono la lista delle doglianze messa nero su bianco dalla Cna altri provvedimenti entrati in vigore il primo giorno dell’anno in corso. A cominciare dal fondo che dovrebbe sostenere le associazioni temporanee e i raggruppamenti di imprese per passare all’istituzione di una sezione speciale di garanzia per i progetti di ricerca e di innovazione rivolti alle Pmi. In entrambi i casi, manco a dirlo, si attende un fantomatico decreto del Mise così come per il provvedimento di rafforzamento del patrimonio dei Confidi. Per onestà bisogna riconoscere che alcune misure come la nascita dei minibond e l’incentivazione degli investimenti in macchinari (la nuova Sabatini) sono entrati in funzione ma ahinoi rappresentano la più classica delle eccezioni. Due autentiche mosche bianche. E comunque, più che un programma coerente di politica industriale seppur realizzato a tranche, la somma dei provvedimenti ha le sembianze di una lotteria. L’azione governativa appare sminuzzata e a effetto ritardato e, presa nel suo complesso, non è minimamente in grado di indirizzare le scelte di investimento dei singoli nella direzione voluta, tutt’al più accompagna ex post scelte che gli imprenditori hanno già maturato e attuato. Poi nei convegni si trova sempre un dirigente del ministero che si straccia le vesti per il nanismo delle nostre imprese.
Ps. C’era una volta il garante delle Pmi. Esiste ancora?