lavoro

C’è anche chi non cerca lavoro

C’è anche chi non cerca lavoro

Michele Tiraboschi – Italia Oggi

I dati del mercato del lavoro e i principali indicatori economici dell’arco temporale 2007-2013 forniscono una fotografia della crisi molto diversa da quelle che sono le principali notazione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione. È vero che si segnala un raddoppio del tasso di disoccupazione dal 6% a 12%, sia per l’intera popolazione che per i giovani, per i quali il tasso ha superato il 40%. È anche vero che il tema centrale non è solo il lavoro precario, che occupa gran parte dei dibattiti, visto che lavoro temporaneo in Italia è ancora al di sotto del 15%.

I veri problemi
Dall’analisi degli indicatori economici diffusi dall’Eurostat altri sono i problemi principali del nostro mercato del lavoro, primo tra tutti il bassissimo tasso di occupazione regolare, quindi l’ampio numero non solo persone che non hanno un lavoro ma anche di coloro che non lo cercano e che non sono quindi considerati nel numero dei disoccupati.

I numeri
Tre cifre ci aiutano a dipingere la situazione italiana in modo chiaro: in una popolazione di 60 milioni, tra cui una potenziale forza-lavoro di 39 milioni, solo 25 milioni hanno un impiego effettivo o cercano lavoro. Questo spiega tutto, con una popolazione lavorativa sotto i 25 milioni, una persona deve lavorare per sé e per altri due, il vero problema è quindi l’inattività.

Le donne
Questo è evidente guardando la popolazione femminile, inchiodata da trent’anni sotto il 50%, una su due non lavora e se lavora è in nero, in mezzogiorno solo una su quattro. Un ulteriore problema è certamente il tasso di disoccupazione giovanile superiore al 40%, ma più preoccupante è il dato dell’occupazione dei giovani che non supera il 16%. La grande maggioranza quindi non ha un lavoro e non lo cerca.

Gli over 50
È invece significativo il fatto che durante crisi vi sia stato un notevole incremento degli occupati over 50, se ai tempi della Legge Biagi erano uno su tre, oggi siamo a 50%, con 50 italiani su 100 obbligati a lavorare dalla morsa della crisi. Anche in questo caso, oltre agli effetti della riforma Fornero delle pensioni, incide il fatto che molti over 50 sono costretti a lavorare per mantenere quell’ampia fetta di popolazione, soprattutto di giovani, che non lavora e non cerca lavoro.

Conclusione
La semplice lettura di questi dati ci conduce quindi ad ampliare le nostre analisi consuete e a leggerle da un punto di vista differente, con un occhio sì attento alla crisi, ma che guarda anche auna condizione storica del me

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

È una proposta non nuova per gli italiani. Negli ultimi anni diverse forze politiche hanno proposto l’azzeramento dei contributi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. La peggiore recessione del secondo dopoguerra abbinata alla deflazione e accompagnata da un cuneo fiscale che scoraggerebbe perfino la voglia di fare impresa dei tedeschi hanno prodotto il record italiano della disoccupazione giovanile: +44,2%. Ovvio che un premier di attacco, quale Matteo Renzi sicuramente è, non poteva restare fermo ai soli annunci. Non sorprende, quindi, la sua decisione di varare nella nuova legge di Stabilità la decontribuzione triennale al 100% sui contratti a tempo indeterminato. Decisione, peraltro, accompagnata dall’eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap. Una scossa vera, dunque, al cuneo fiscale italico che punta al cuore delle aspettative di imprenditori e manager per farle girare verso il quadrante positivo della congiuntura economica.

Oggettivamente si tratta di decisioni sempre promesse dal duo Berlusconi-Tremonti e mai realizzate in tanti anni di governo. Renzi con la nuova legge di Stabilità completa l’opa ostile, iniziata con gli 80 euro e il primo taglio dell’Irap del 10%, sull’elettorato un tempo del Cavaliere e indossa, senza se e senza ma, i panni della socialdemocrazia riformista tedesca. Il pericolo per il premier a questo punto è soltanto uno: quello incarnato dalla burocrazia italiana oggettivamente inadeguata a rendere operative rapidamente le politiche anticicliche adottate dai governi. I ministeri fanno marcire nei cassetti le norme pro sviluppo e pro occupazione e quando, dopo vari anni dalla pubblicazione in G.U. del dl che le conteneva, le rendono operative non servono praticamente più a raggiungere lo scopo per cui erano state varate.

Il caso del Mise e del cosiddetto bonus fiscale per le assunzioni altamente qualificate è esemplare. Introdotto con decreto dal governo Monti nel giugno del 2012 è diventato operativo solo il 15 settembre del 2014 (solo per le assunzioni del 2012 ovviamente; quelle fatte quest’anno saranno incentivate nel 2016!). Chi assume un PhD nel 2012 per avere un credito di imposta nel 2015? In pratica nessuna impresa, come ora certificano i dati della stessa procedura. Dei 25 milioni di euro messi a disposizione dal Mise per il 2012, ben 20.125.982, cioè più dell’80%, sono ancora disponibili dopo un mese dall’avvio del clickday. Trattandosi di assunzioni relative al 2012 possiamo già considerare chiusa la procedura. Morale: quando la burocrazia impiega ben 27 mesi per rendere operativa una norma anticiclica ne uccide la capacità di incidere. La vera nemica del riformismo di Renzi, oggi, è proprio questa pubblica amministrazione da terzo mondo.

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Un’operazione a costo zero per le imprese. Da appena 100 milioni per lo Stato. Ma molto costosa per i lavoratori. Il provvedimento sull’anticipo del Tfr (trattamento di fine rapporto) in busta-paga, vistato dalla Ragioneria, entra in extremis nella legge di Stabilità varata ieri sera dal consiglio dei Ministri. Verranno rispettate le due condizioni annunciate dal governo: volontarietà della scelta di incassare anzitempo il Tfr da parte del lavoratore e nessun deficit di liquidità per le imprese, soprattutto quelle medio-piccole. Ma chi sceglierà di avere il Tfr in busta paga subirà su queste somme la tassazione secondo l’aliquota marginale. È questa, secondo le indiscrezioni, l’ipotesi sulla quale è orientato il governo. L’operazione Tfr in busta paga, quindi, non sarebbe conveniente, soprattutto per i redditi medio-alti.

Il testo definitivo non è stato distribuito ieri in conferenza stampa. Il meccanismo prevede che le banche che anticiperanno alle imprese le risorse per pagare il Tfr in busta-paga avranno la stessa remunerazione che oggi viene garantita al Tfr in azienda (1,5% più lo 0,75% del tasso d’inflazione). Il provvedimento dovrebbe avere un arco temporale che terminerebbe nel 2018 (data che coincide con la scadenza delle Tltro, l’operazione di rifinanziamento mirata a lungo termine della Bce).

Il dipendente privato (per quello pubblico la norma non vale) potrà fare richiesta di ottenere il Tfr in busta-paga mensilmente anziché alla fine del periodo lavorativo.Visto che l’accantonamento del Tfr corrisponde a circa una mensilità all’anno, per un lavoratore che incassi 1.400 euro netti significa ottenere in busta-paga più di 100 euro al mese per 13 mensilità. L’impresa per cui lavora dovrà farsi certificare dall’Inps il diritto alla prestazione. Tale certificazione verrà trasmessa alla banca che deciderà se erogare il finanziamento. Al termine del periodo lavorativo del dipendente, sarà l’azienda a dover restituire i soldi alla banca finanziatrice. Se non lo farà, la banca per recuperare le spettanze dovrà rivolgersi al fondo di garanzia dell’Inps. La novità sta nella controgaranzia dello Stato, pari a 100 milioni per il 2015. Tale controgaranzia consente alle banche di non trovarsi in difficoltà con le regole di Basilea perché evita loro di farsi carico di un fardello patrimoniale per i finanziamenti legati al Tfr in busta paga. Il provvedimento, previo decreto attuativo e successivo protocollo tra ministeri competenti e Abi, dovrebbe essere operativo a metà 2015 con effetto retroattivo dall’inizio dell’anno.

Ci sono due aspetti ancora da chiarire. Il primo attiene appunto alla cifra che lo Stato potrebbe incassare per la tassazione della parte del Tfr che entra in busta-paga e che una stima quantifica minimo in un miliardo e mezzo e massimo in 4 miliardi. L’altro aspetto riguarda il fondo Inps che raccoglie i versamenti effettuati dalle imprese sopra i 50 dipendenti, importi che con la nuova normativa potrebbe perdere. La manovra conterrebbe anche un altro aumento secco del prelievo, quello dell’aliquota sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20%.

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Fabio Savelli – Corriere della Sera

Il risparmio per il conto economico sarebbe di circa 720 euro per dipendente. Ipotizzando che l’azienda ne abbia quindici (la gran parte delle piccole imprese italiane è al di sotto della fatidica soglia fissata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), questo significa un minor peso fiscale di 10.762,50 euro all’anno, presumendo che si tratti di una realtà da 1,3 milioni di euro di fatturato e con un costo di produzione di poco inferiore, di circa 1,1 milioni di euro.

La simulazione – condotta dal gruppo di studio torinese Eutekne, che analizza quotidianamente i cambiamenti normativi in materia di fisco – parte dal presupposto della deducibilità integrale ai fini Irap del costo dei lavoratori dipendenti, misura inserita dal governo nel disegno di legge di Stabilità. Allo stato attuale – senza cioè l’intervento sulla componente costo del lavoro dell’imposta regionale per le attività produttive – l’azienda campione paga all’erario oltre 16mila euro all’anno, presumendo che l’ammontare complessivo del costo del lavoro (stipendi, contributi, tasse) sia stimabile attorno ai 600 mila euro all’anno (di cui 180 mila di contributi previdenziali e assistenziali e 420 mila di pura retribuzione). La somma interamente deducibile sarebbe pari a 292 mila euro, immaginando un’aliquota fissata al 3,5% (aliquota disciplinata dalle regioni in maniera non uniforme e in una forbice che può arrivare fino al 4,9%).

Rilevano i commercialisti Giancarlo Allione e Luca Fornero, autori del dossier, che la misura dell’esecutivo sanerebbe l’attuale squilibrio tra un’azienda che produce in Italia e un’altra che ha delocalizzato all’estero, dove non esiste l’Irap. Ecco perché gli esperti di Eutekne definiscono l’imposta un «mostro giuridico», perché finora ha incentivato le aziende a portare lavoro oltre-confine e perché l’assegno recapitato all’erario è proporzionale al numero di dipendenti e di collaboratori.

In filigrana si può affermare che la deducibilità integrale Irap per i lavoratori avvantaggerà le grandi imprese, perché sono quelle che hanno un maggior numero di dipendenti. Di più: il calcolo va tarato su base regionale anche perché – oltre alla differente aliquota applicata – è diverso anche il peso delle deduzioni. Perché nelle regioni meridionali il risparmio d’imposta sarà minore per la fiscalità di vantaggio delle aree più svantaggiate. Da quest’anno la deduzione forfettaria per chi lavora a tempo indeterminato in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia risulta già pari a 15 mila euro (dai 9.200 del 2013), mentre nelle altre regioni è esattamente la metà: 7.500 euro. Così la misura finirà per avvantaggiare soprattutto le imprese del Nord che potranno usufruire di un maggiore sconto fiscale. Al netto di una minore deducibilità del tributo regionale ai fini Ires e Irpef. Restano comunque le altre due voci dell’Irap: quelle sui profitti e sugli interessi passivi. Altri due balzelli difficilmente comprensibili per chi produce all’estero e vuole venire da noi.

Con i processi più veloci l’occupazione salirebbe

Con i processi più veloci l’occupazione salirebbe

Metronews

La lentezza dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4, 8 punti percentuali di disoccupazione per ogni anno di durata. Il dato risulta da una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dallo “Staff Report for the 2014 Article IV Consultation / Italy”, pubblicato a settembre dal Fondo Monetario Internazionale e nel quale si sostiene che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia porterebbe a un aumento della probabilità di impiego dell’8%. Secondo l’Fmi, infatti, il nostro sistema giudiziario è ancora molto lento in confronto alla media europea, e necessiterebbe di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio introdotto di recente quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Marco Sodano – La Stampa

Risparmiare quasi novemila euro su una busta paga che al lordo ne costa 22mila: ecco cosa vuol dire, tradotto in cifre, l’annunciato azzeramento dei contributi per i neoassunti. Un impresa che abbia programmato – poniamo – due assunzioni ne potrà fare, con gli stessi soldi, tre. Almeno, sempre stando all’annuncio dato dal premier Matteo Renzi, nei primi tre anni di lavoro dei nuovi arrivati. Il taglio complessivo del costo del lavoro arriverebbe al 35%. Cifre che lasciano prevedere un grande successo per il contratto a tutele crescenti che il governo si prepara a far diventare legge con il Jobs Act.

Certo, al momento degli annunci seguirà per forza di cose la fase della calibratura: probabile che l’azzeramento vero e proprio, fatti i conti, sia possibile solo per alcune fasce di reddito. Altre potrebbero avere sconti meno consistenti, ma la base è quella di un intervento davvero incisivo. Resta da capire se i numeri reggeranno alla prova della calibratura. Scettica Susanna Camusso: «La domanda è come verrà compensato l’azzeramento. Dire che non si pagano dei contributi significa dover governare una copertura previdenziale per questi lavoratori». Il ministro del Lavoro Poletti garantisce: «I contributi saranno pagati comunque, dallo Stato». Tuttavia, il segretario della Cigl sostiene che la cifra messa sul piatto, un miliardo e mezzo, sarebbe più efficace «se utilizzata in un piano di assunzioni e lavori da fare».

La Fondazione Hume ha provato a fare due conti (sia pure con gli elementi, non precisissimi, a disposizione), rifacendosi ai dati disponibili (anno 2013). I numeri del Ministero del Lavoro parlano di quasi 1,6 milioni di assunzioni, quelli dell’Istat che lo stipendio netto medio era di mille euro. A queste condizioni, applicare la decontribuzione a una platea così ampia costerebbe nove miliardi l’anno. Più che troppo. È però anche vero che qualcuno potrebbe aver trovato più di un lavoro: i dati parlano di assunzioni, non di persone. Considerando allora solo gli assunti a tempo indeterminato nel 2013 che nel 2014 non avevano cambiato o perso il lavoro il costo complessivo di una decontribuzione totale assomma a 3,7 miliardi l’anno.

Bisognerà infine valutare anche altre variabili: anzitutto, lo sconto sarà applicabile solo ai nuovi contratti a tutele crescenti, e quindi non prima che il Job Acts sia diventato legge, nei primi mesi dell’anno prossimo (e questo potrebbe voler dire che nel 2015 basteranno 700 milioni). In secondo luogo, che le cifre prese in considerazione dalla Fondazione Hume riguardano le assunzioni effettive del 2013. La decontribuzione è studiata per aumentare il numero dei neassunti. Più funziona più costa.

Statali, un esercito in ritirata

Statali, un esercito in ritirata

Giusy Franzese – Il Messaggero

Colletti bianchi e tute blu in picchiata. Le politiche di austerity con il blocco del turnover nel settore pubblico e la crisi nera nel settore privato stanno decimando i principali due battaglioni dell’esercito dei lavoratori italiani: travet e operai. Ma copiose sono anche le emorragie in altri comparti: dagli apprendisti alle colf, fino ai lavoratori autonomi. A fotografare disagi e difficoltà di un’Italia stremata dalla lunga crisi è il bilancio sociale Inps 2013 illustrato ieri a Roma. Una presentazione interrotta (e poi ripresa) dalle proteste di alcuni precari che hanno fatto irruzione sul palco contestando il ministro del Welfare Giuliano Poletti e il Jobs act.

Emorragia di statali
Nel 2013 i dipendenti pubblici sono calati di altre 64.000 unità, proseguendo un trend iniziato già da anni. Basti pensare che nel 2008 erano 3 milioni e 436.000 e adesso sono 3 milioni e 39.536. La flessione comunque inizia a rallentare: nel 2012 il calo era stato doppio (130.000). In realtà il 2013 è stato l’annus horribilis soprattutto per gli operai: i dipendenti privati sono diminuiti di 313.000 unità, di questi ben 230.000 sono tute blu (-3,5%). Le aziende non assumono più nemmeno gli apprendisti (-4%) e crollano anche i lavoratori auto- nomi (-15,7% gli iscritti alla gestione separata dell’Inps). Con l’aumento dei disoccupati sono lievitate le spese per gli ammortizzatori sociali, arrivate a 23,5 miliardi di euro (+4,1%). Tra cassa integrazione, disoccupazione e mobilità l’Inps ha assistito ben 4,5 milioni di persone (mezzo milione in più rispetto al 2012).

Italiane con la ramazza
Per tamponare le minori entrate familiari e le paure di un futuro opaco, le famiglie hanno iniziato a risparmiare nella spesa per aiuti domestici, le colf per molti sono diventate un lusso che non ci si può più permettere: sono 43.000 in meno rispetto al 2012 (-5,4%). Ma nel saldo si nota anche un altro fenomeno che sembra riportare il calendario a oltre 40 anni fa: aumentano le italiane che per sbarcare il lunario accettano lavori di collaborazione domestica (+2,8% rispetto al 2012). Le colf italiane restano comunque una minoranza: solo il 21% (su un totale di 749.840).

Troppo poveri
Resta sempre troppo affollata la platea di pensionati che vive con meno di mille euro al mese: 6,8 milioni di persone, il 43,5% del totale (erano 7,2 milioni nel 2012) e di questi ben 2,1 milioni non arriva a 500 euro. I pensionati ricchi, con assegni superiori ai 3.000 euro al mese, sono 676.000 (il 4,3%) e assorbono ben 38 miliardi di euro (contro i 52,4 spesi per i 6,8 milioni di pensionati poveri). Intanto iniziano a vedersi i primi frutti della riforma Monti-Fornero: le pensioni liquidate nel 2013 sono costate il 12,7% in meno rispetto al 2012, un risultato ottenuto dal combinato disposto tra il calo del numero dei nuovi pensionati (-5,3%) e la riduzione dell’importo medio mensile (-7,9%). I conti dell’istituto comunque restano in rosso (8,7 miliardi di euro) ma registrano un miglioramento di circa un miliardo rispetto al 2012 quando il disavanzo fu di 9,7 miliardi.

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Dopo un lungo tira e molla, il capitolo Tfr entra nel disegno di legge di Stabilità che oggi sarà approvato in Consiglio dei ministri. L’anticipo in busta paga del trattamento di fine rapporto sarà su base volontaria, possibile fino al 100% della somma maturata nell’anno, e riguarderà anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Per gli ultimi dettagli è in corso un confronto con l’Abi, l’Associazione delle banche. A ieri sera dal meccanismo erano esclusi solo i dipendenti pubblici. Ma potrebbero restare fuori anche altre due categorie: agricoltura più colf e badanti.

Per le colf si sta valutando se l’anticipo sarebbe un vantaggio per le famiglie, che già oggi possono liquidarlo anno per anno, oppure una spesa che finerebbe per mangiarsi buona parte delle misure a loro sostegno, compreso il bonus da 80 euro. A proposito di bonus, la misura viene confermata e allargata ma solo per le famiglie numerose con un solo stipendio. Come previsto, rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati a giugno, il tetto massimo di reddito sale a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. In parallelo dovrebbe arrivare un ritocco agli assegni familiari.

Il ddl di Stabilità prevede interventi per 30 miliardi di euro, di cui 11,5 finanziati in deficit, il resto in arrivo soprattutto da tagli di spesa. Per le imprese diventa più leggera l’Irap, l’Imposta sulle attività produttive, dalla quale sarà interamente deducibile il costo del lavoro per un valore di 6,5 miliardi di euro. Ma ad avvantaggiarsene saranno soprattutto le grandi aziende mentre resteranno fuori quelle senza dipendenti, il 70% del totale come ricorda Rete imprese Italia. Sempre dal lato delle imprese sul piatto c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs act , che però deve ancora passare l’esame della Camera.

Salvo sorprese dell’ultima ora, viene rinviato ancora una volta il riordino delle agevolazioni fiscali. La legge di Stabilità si limiterà a costituire un gruppo di lavoro per sfoltire quella lista composta oggi da 700 voci. Ma il criterio base è già stato fissato: non si procederà con sgravi modulati a seconda delle fasce di reddito, come pure si era pensato di fare in un primo momento, ma alcune agevolazioni saranno eliminate per tutti. Non dovrebbero essere toccate quelle ad alto impatto sociale, come le detrazioni sulle spese mediche o sugli interessi per i mutui sulla prima casa. L’ipotesi iniziale era di ricavare da questo riordino almeno 1 miliardo di euro. Per far quadrare i conti potrebbe essere ulteriormente rafforzato l’aumento della tassazione sulle slot machine, anche se gli operatori dicono che, limitando le vincite, lo Stato finirebbe per incassare meno. Rinvio, sempre salvo sorprese, anche per la tassa unica sulla casa, che fonderà Tasi, Imu e Tari, con il ripristino delle vecchie detrazioni Imu: 200 euro per l’abitazione principale, più 50 euro per ogni figlio a carico.

Tfr, scelta volontaria
L’anticipo in busta paga del Tfr, il trattamento di fine rapporto, sarà possibile su base volontaria. Il lavoratore potrà chiedere di ricevere mese per mese fino al 100% della somma maturata nel corso dell’anno. Il Tfr maturato negli anni precedenti non può essere oggetto di anticipo. Sono esclusi i dipendenti pubblici, si ragiona su agricoltura e colf. Potranno fare domanda anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Proprio sui fondi il prelievo a carico dell’iscritto salirebbe dall’11,5 al 12%. Mentre verrebbe ridotta dal 20 al 12% la tassazione sugli investimenti.

Bonus di 80 euro
Confermato il bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti. Come previsto l’intervento viene allargato ma solo per le famiglie numerose che hanno un solo reddito: per loro il limite massimo di reddito sale rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati con il decreto che ha introdotto il bonus. E arriva fino a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre figli, 50 mila con quattro. In tutto la misura dovrebbe costare 500 milioni di euro. In parallelo è in arrivo anche un ritocco degli assegni familiari. Possibile il ritorno delle detrazioni fisse per i figli (50 euro) per la nuova tassa unica sulla casa, che metterà insieme Tasi, Imu e Tari. Nessun intervento sulle pensioni.

Pressione fiscale
Diventa più leggera l’Irap, l’Imposta regionale sulle attività produttive. Dall’anno prossimo sarà interamente deducibile il costo del lavoro, per un taglio del carico fiscale pari a di 6,5 miliardi di euro. La misura è stata accolta con grande entusiasmo da Confindustria. Ma riguarderà soprattutto le grandi aziende, mentre resteranno fuori 3 milioni di aziende senza dipendenti, il 70% del totale. Nel disegno di legge di Stabilità c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il nuovo contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act .

Più tasse sui giochi
Non c’è solo l’aumento della tassazione sulle slot machine. Nel disegno di legge di Stabilità ci sono anche altre tasse, che però potrebbero scattare solo come clausola di salvaguardia, cioè come piano B per garantire la tenuta dei conti se qualcosa dovesse andare storto. Possibile un ritocco delle accise sulla benzina, ma anche un aumento dell’Iva e delle imposte indirette che porterebbe in dote 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 nel 2017 e 21,4 nel 2018. Salvo sorprese, viene rinviata ancora una volta la revisione delle agevolazioni fiscali, quella lista di 700 sconti che vengono recuperati nelle buste paga di luglio. Se ne dovrebbe occupare un comitato ad hoc.

L’imposta più odiata

L’imposta più odiata

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

L’Irap, sin dalla sua nascita, si porta dietro la sgradevole immagine di “tassa ingiusta”. Tasse simpatiche non se ne conoscono, d’accordo. Ma una tassa che colpisce il lavoro e che si paga anche quando i bilanci chiudono in perdita è qualcosa davvero difficile da farsi piacere. Economisti, giuristi e politici si confrontano da sempre sulla coerenza di un prelievo così congegnato e anche segnato da innumerevoli promesse di soppressione, puntualmente disattese. Anche per questo, l’annuncio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di voler azzerare la componente del costo del lavoro dall’Irap rappresenta una svolta di grande rilievo. E non solo perché in questo modo il prelievo sulle attività produttive sarà alleggerito di circa 6,5 miliardi all’anno.

L’intervento sull’Irap annunciato dal premier va nella direzione giusta anche per altri motivi. E risponde alla priorità di avviare una reale riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Un intervento così congegnato, infatti, andrà a premiare le imprese che danno più lavoro, le attività labour intensive. Una misura di questo tipo appare più efficace del taglio lineare dell’aliquota (come è stato fatto sempre dal governo Renzi poco prima dell’estate), che produrrebbe una riduzione del prelievo “democratica” – ovvero uguale per tutti – ma forse poco lungimirante nella fase attuale, nella quale il lavoro ha bisogno di essere sostenuto. Spostare tutto, come intende fare il governo sul costo del lavoro, risponde così all’esigenza di rendere più competitive le imprese, visto che proprio la componente Irap gioca in questo senso un ruolo decisamente negativo. Un ruolo anche poco comprensibile all’estero, tanto che – per fare un esempio – le statistiche internazionali sul costo del lavoro redatte dall’Ocse non includono per l’Italia la componente Irap, facendo apparire il nostro cuneo fiscale non così diverso da quello degli altri paesi, cosa che ovviamente non è.

Certo, rispetto al 1997 – anno dei primi pagamenti dell’Irap – molte correzioni, semplificazioni e riduzioni del prelievo sono arrivate. Talvolta lo si è fatto per adeguarsi o per rimediare alle sentenze delle Corti, dalla Cassazione alla Corte costituzionale; altre volte per rispondere – ancorché parzialmente – all’allarme del mondo produttivo sugli effetti devastanti di questa imposta. Nel corso degli anni, solo per citare alcune misure volte a ridurre l’impatto dell’imposta, sono arrivate detrazioni fisse dalla base imponibile e detrazioni legate in modo specifico al costo del lavoro che hanno escluso dall’imposta moltissimi soggetti economici di piccole dimensioni. Un segnale è giunto anche con l’introduzione della possibilità di dedurre dall’Ires una quota dell’Irap pagata. Non c’è dubbio, però, che la misura ora annunciata dal governo rappresenti una scossa, che non può essere paragonata agli interventi del passato.

Proprio qualche giorno fa il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, ha parlato delle necessità di un fisco che favorisca lo sviluppo. E ha lanciato l’idea di un nuovo “patto” di fiducia con le imprese e i professionisti. Ecco, questa può essere, anzi, questa deve essere la direzione da seguire. Perché, come si è detto sul Sole 24 Ore di sabato scorso, in un paese come l’Italia che ha una pressione fiscale a livelli insostenibili, il “patto” sul fisco richiede in primo luogo uno sforzo nella direzione della riduzione del prelievo. Dal governo sta per arrivare una prima, importante, risposta. Che pone le basi per costruire davvero un nuovo rapporto tra fisco e contribuenti.

Sgravi alle famiglie. Assunzioni, 3 anni senza tasse

Sgravi alle famiglie. Assunzioni, 3 anni senza tasse

Andrea Bassi e Luca Cifoni – Il Messaggero

Il dato, quasi paradossale, lo ha certificato ieri l’Istat. Il bonus da 80 euro, per la metà, ha favorito i redditi medio-alti. Come questo sia stato possibile è semplice da spiegare. In Italia non esiste il reddito familiare. Così se in uno stesso nucleo ci sono due persone che guadagnano meno di 26 mila euro, entrambi hanno diritto al bonus, dal quale, invece, sono stati del tutto esclusi gli incapienti (chi dichiara meno di 8 mila) e le famiglie monoreddito sopra i 26 mila euro. Per mettere una toppa, seppur parziale, alla seconda di queste storture, il governo nella legge di Stabilità destinerà 500 milioni di euro agli sgravi per le famiglie numerose. Allo studio ci sarebbe un doppio meccanismo, legato anche ad una possibile rivisitazione del funzionamento del bonus da 80 euro. La prima possibilità sarebbe quella di far aumentare la soglia di reddito che dà diritto al bonus nel caso di famiglie monoreddito con minori a carico. Con due figli, per esempio, la soglia passerebbe da 26 mila a 30 mila euro, per salire a 40/42 mila euro con tre figli e a 50/55 mila euro con quattro figli. La seconda ipotesi, invece, si baserebbe su un aumento delle detrazioni per i figli a carico, attualmente 950 euro per figlio che salgono a 1.220 euro sotto i tre anni. In questo caso, tuttavia, sarebbe lo stesso bonus da 80 euro a cambiare fisionomia, diventando esso stesso una detrazione invece che, come è nella struttura attuale, un credito d’imposta. In questo modo si avrebbe anche un effetto collaterale di non poco conto, ossia una riduzione nominale della pressione fiscale.

Il meccanismo
La prima misura destinata alle imprese è invece l’azzeramento dei contributi in caso di nuove assunzioni a tempo indeterminato. Viene così riproposto, ma in una forma più potente e generale, il meccanismo già messo in campo alla metà dell’anno scorso dal governo Letta, che però non ha raggiunto gli obiettivi che si proponeva. In quel caso l’esenzione dal versamento dei contributi (pari al 33 per cento della retribuzione) riguardava per un periodo di 18 mesi le nuove assunzioni di giovani fino a 29 anni, mentre il beneficio era limitato a 12 mesi nel caso di passaggio dal contratto a termine a quello a tempo indeterminato. La dote finanziaria era di 794 milioni, su più anni, che avrebbero dovuto garantire 100 mila nuovi posti di lavoro. In realtà l’incentivo ha fatto scattare solo 22 mila ingressi nel mondo del lavoro, ed è stato recentemente definanziato con il decreto sblocca-Italia, per garantire copertura alla Cig in deroga. Lo schema di Renzi, che dovrebbe accompagnare il debutto del nuovo contratto a tutele crescenti introdotto con il Jobs Act, prevede invece che la decontribuzione, per un periodo di tre anni, riguardi qualsiasi nuova assunzione. Se le risorse messe sul tavolo si aggirano sul miliardo e mezzo in tre anni, allora le assunzioni agevolate dovrebbero riguardare un numero maggiore di persone. Ovviamente la propensione delle imprese ad ampliare il personale sarà condizionata anche dall’andamento del ciclo economico.

Deducibilità piena
Tocca il costo del lavoro, in modo sostanzioso, anche la nuova riduzione dell’Irap annunciata dal presidente del Consiglio. Oggi le retribuzioni dei dipendenti entrano nella base imponibile del tributo: come ha ricordato lo stesso Renzi è una caratteristica che lo rende particolarmente inviso agli imprenditori, perché comporta l’obbligo di un versamento anche quando la crisi azzera gli utili. Dal 2015 questa voce dovrebbe essere interamente dedotta, con un beneficio per le imprese quantificato in 6,5 miliardi (molto più di quanto ipotizzato finora). Resta però da capire come la novità si combinerà con l’attuale deduzione dell’Irap costo del lavoro ai fini Ires, ed eventualmente con il taglio dell’aliquota (dal 3,9 al 3,5 per cento) avviato con il decreto dello scorso aprile.