lavoro

Occupazione, tante fratture da risanare

Occupazione, tante fratture da risanare

Walter Passerini – La Stampa

Beato il paese che non ha bisogno di eroi, di totem o di scalpi, si può dire parafrasando Bertolt Brecht, perché altrimenti saremmo sempre in guerra, che ammette solo vincitori e vinti. Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 sta incendiando la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro.

C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior Paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne. Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una piece da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio.

La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, di fronte al testo giunto in Commissione al Senato, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che lascia spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che la sinteticità della norma producesse solo lavoro per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi, l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un «matrimonio indissolubile». Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. È questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un aguzzino né una vendetta sociale, ma può essere una tappa per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Michele Salvati e Marco Leonardi – Corriere della Sera

Conosceremo presto la formulazione definitiva che il governo intende dare al suo progetto di riforma della legislazione del lavoro, quel Jobs Act che ha nella sua pancia il tormentone dell’articolo 18: i giornali danno per scontata l’ipotesi di un decreto, ma staremo a vedere. Il nostro articolo precedente (Corriere, 7 settembre) poteva aver lasciato l’impressione che l’attivismo riformistico del governo fosse soprattutto indirizzato a ottenere dalla Germania un allentamento delle condizioni di austerità cui siamo sottoposti: come rifiutarsi di allentarle se facciamo i nostri compiti a casa e attuiamo una riforma così importante secondo un modello uguale o molto simile a quello tedesco?

Vorremmo rettificare questa impressione, se c’è stata: il modello tedesco è opportuno nella sostanza e presentarlo presto in Europa sicuramente rafforza la nostra posizione contrattuale, ma dubitiamo che questa o altre riforme convincano i tedeschi a modificare in tempi brevi il loro atteggiamento. I difetti del sistema della moneta unica sono così profondi, e i vantaggi immediati che esso offre alla Germania sono così importanti, che è improbabile che essa voglia mutare le sue politiche interne e il suo atteggiamento nei confronti degli attuali assetti europei, quali che siano le «riforme strutturali» alle quali i Paesi deboli si sottomettono. Se è così, ristagno e dualismo sono destinati a permanere per un lungo periodo.

Ma allora perché il modello tedesco? O addirittura, perché una revisione profonda della legislazione del lavoro? Risposta: perché comunque ci conviene. Perché in ogni caso, sia che l’austerità europea si attenui sia che persista, e persino in presenza di forti turbolenze degli assetti istituzionali dell’Unione, avere un mercato del lavoro che funziona bene è meglio di averne uno che funziona male. In un contesto globalizzato, in cui tutti i Paesi avanzati sono comunque soggetti a forti pressioni competitive, tra i loro sistemi di legislazione del lavoro quello tedesco è un buon compromesso tra flessibilità e garanzie, tipico di un Paese dell’Europa continentale con un welfare sviluppato e con sindacati forti: difficilmente sistemi anglosassoni sarebbero applicabili da noi.

È un sistema che mantiene un filtro giudiziario al licenziamento, che però non interferisce con le motivazioni economiche addotte dall’imprenditore e solo opera, e può condurre al reintegro in casi estremi, se il lavoratore e i sindacati dimostrano che le motivazioni economiche sono un pretesto che nasconde motivazioni incostituzionali. È un sistema dove esiste una indennità automatica: all’atto del licenziamento l’impresa è tenuta a offrire una indennità di un mese di salario per ogni anno di lavoro e, se il lavoratore 1’accetta, perde il diritto di rivolgersi al giudice. Ed è un sistema dove i centri per l’impiego funzionano decentemente e dove all’indennità di disoccupazione – con durata e modalità non molto diverse dalla nostra Aspi – fanno seguito misure assistenziali, molto modeste, ma di durata indefinita. Tutto si tiene nel mercato del lavoro e una riforma del solo articolo 18 serve poco se non è accompagnata da una revisione di altre parti della legislazione del lavoro e del welfare.

Pochi i punti fermi. Il primo è che l’Italia ha un tasso di occupazione, in particolare quello femminile, troppo basso per permettersi un welfare generoso: il numero degli occupati è all’incirca uguale a quello degli inattivi o disoccupati e poi gli occupati hanno i pensionati sulle loro spalle. Il primo obiettivo è dunque quello di aumentare l’occupazione, con ogni mezzo. Il secondo punto fermo è che l’Italia ha un numero abnorme di occupati in lavori autonomi, il 23%, contro un 13% di Francia e Germania: il secondo obiettivo è dunque eliminare gli impedimenti che ostacolano il ricorso al lavoro dipendente. Oggi il problema non sono gli ostacoli contro i contratti a termine, dove siamo più o meno in linea con gli altri grandi Paesi europei, ed è la Spagna il caso abnorme. Da noi il grande problema è quello delle partite Iva fasulle. Sono loro la fonte dei veri precari del XXI secolo, senza diritti né minimi salariali, privi della possibilità di accumulare contributi pensionistici e spesso costretti all’evasione: è una piaga che dev’essere eliminata.

Il terzo punto fermo è che l’occupazione si favorisce più con le politiche salariali che con l’abolizione dell’articolo 18, pur necessaria. Quando arrivò la crisi del 2007-2009 la Germania si ritrovò con un sistema di relazioni industriali in cui la metà delle imprese e dei lavoratori contrattavano i loro salari al di fuori dei contratti nazionali di categoria e con un sistema di ammortizzatori sociali chiaro e ben funzionante. La combinazione di orari e salari flessibili, di un forte legame tra salari e produttività, ha fatto uscire dalla crisi il Paese meglio di come vi era entrato. Dunque, sarebbe opportuno che nella riforma fosse compresa anche la materia contrattuale.

Un’osservazione finale e di natura politica. In via generale i lavoratori non hanno «colpa» del fatto che il loro lavoro è poco produttivo e che l’occupazione scarseggia. Le colpe sono diffuse su altri soggetti: su imprese incapaci di innovare e organizzarsi in modo efficace, su un sistema fiscale che tassa troppo e male il lavoro e l’impresa, su uno Stato e su una pubblica amministrazione inefficienti e bizantini. Che le conseguenze di queste inefficienze altrui ricadano sul lavoro genera reazioni e resistenze, ed è comprensibile che così avvenga. Ma i costi salariali sono la trazione più importante del valore aggiunto e su di essi occorre incidere se si vogliono restaurare rapidamente condizioni di maggiore competitività. Una penosa bisogna, di cui il governo può essere perdonato solo se attacca con eguale determinazione gli altri segmenti del Sistema-Paese dai quali la nostra scarsa capacità di crescita dipende.

Non c’è classifica che ci sorrida

Non c’è classifica che ci sorrida

Il Sole 24 Ore

Dall’estero ci guardano. E, statistiche alla mano, vedono nero. Nella classifica Doing Business, stilata dalla Banca mondiale, l’Italia è al 65° posto su 189 Paesi. Ma è 90esima nella categoria “avviamento di un’impresa”, 109esima nella categoria “accesso al credito”, 103esima in quella del “rispetto dei contratti” e 112esima in quella “licenze e permessi”. Nella classifica dei 50 Best Countries for Business di Forbes, l’Italia è al 37° posto. Dietro non solo a Spagna, Portogallo e Slovenia. Ma anche alla Macedonia.

Nel Venture Capital & Private Equity Country Attractiveness Index, indice preparato quest’anno dall’Iese, la business school dell’Università di Navarra, l’Italia è 34esima, dietro a tutti i maggiori Paesi europei. Ancora peggiori i dati del Baseline Profitability Index, l’indice di profittabilità di Daniel Altman, economista della Stern School of Business della New York University. Qui l’Italia è al 106° posto su 112. Meglio solo di Libano, Russia, Argentina, Repubblica Democratica del Congo, Angola e Venezuela, sei Paesi al centro di guerre, disfacimento economico o sanzioni internazionali. Ma la più recente conferma della scarsa efficienza del sistema-Paese è venuta dal Letter Grading Analysis, uno studio recentemente completato da quattro professori universitari nordamericani ed europei che hanno usato un indicatore del tutto insolito: la qualità del servizio postale nazionale.

I quattro hanno spedito due lettere a un indirizzo immaginario nelle cinque maggiori città di 159 Paesi del mondo e hanno analizzato la percentuale e i tempi del loro ritorno negli Usa. «A nostro giudizio attraverso il servizio postale si può misurare l’efficienza produttiva di uno Stato, incluso fattori determinanti quali la qualità degli investimenti, della manodopera, della tecnologia e del management», hanno spiegato. Le Poste italiane sono risultate al 55esimo posto, con l’80% delle lettere rispedite negli Usa e una media di 173 giorni necessari per il loro recapito. Dietro non solo a tutti i principali Paesi Europei, ma anche al Kazakhstan (80% in 146 giorni).

Semplificare le regole per muovere il mercato

Semplificare le regole per muovere il mercato

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

I primi dati (ancora parziali) raccolti da Isfol e ministero del Lavoro sugli effetti delle nuove regole sui licenziamenti introdotte dalla riforma del 2012 dimostrano che l’allentamento delle tutele ha mosso un po’ il mercato. Le imprese fortemente motivate a ridurre il personale lo hanno fatto contando sulla possibilità maggiore di evitare la reintegra. Certo, la recessione ha pesato moltissimo. Ma è un fatto che nei mesi successivi al varo della riforma Fornero (ottobre-dicembre 2012) i licenziamenti collettivi e individuali sono aumentati in termini tendenziali del 48,3% e del 18,2 per cento. Un flusso rimasto in crescita per i licenziamenti collettivi fino al termine del 2013 e in lieve calo per quelli individuali fino al primo trimestre di quest’anno. Nello stesso intervallo temporale sono esplose le richieste di conciliazione sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo: dalle 1.885 comunicazioni del primo semestre del 2012 s’è passati a oltre 11mila nel primo semestre del 2013, per poi stabilizzarsi attorno a quota 9mila nei due semestri successivi. Conciliazioni che si sono concluse con un esito positivo in meno della metà dei casi: 3.621 nel 2° semestre del 2012 e 4.310 nel 1° semestre di quest’anno, a fronte di 8.537 comunicazioni.
Che conclusioni si possono trarre da queste parziali indicazioni? La prima è che semplificare serve: procedure più semplici produrrebbero maggiori esiti positivi nelle conciliazioni. La seconda è che l’impatto delle nuove regole sui licenziamenti individuali resta parziale finché non garantisce una piena certezza del diritto. Gli avvocati del lavoro che hanno visto sul campo come sono andate le cose negli ultimi due anni dicono che si è passati dalla quasi certezza della reintegra in casi di licenziamento illegittimo alla possibilità (rischio) di reintegra dopo la riforma Fornero. Il passo ulteriore potrebbe essere la certezza del solo indennizzo in caso di impugnazione. Con le dovute politiche passive e attive per i lavoratori, che devono poter passare da un impiego vecchio a uno nuovo con la stessa semplicità con cui lo fanno oggi i loro colleghi tedeschi o danesi.

I NUMERI

8.537
Le conciliazioni
Le richieste di conciliazione su licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo nel primo semestre dell’anno. Nel primo semestre del 2012 (prima della legge 92) si fermarono a 1.885. Solo 4.310 di quelle richieste del 2014 hanno avuto un esito positivo.

36,3%
I licenziamenti individuali
Dopo la legge 92, nel IV trimestre del 2012 i licenziamenti individuali sono passati al 36,3% del totale delle cessazioni di rapporti di lavoro; erano al 33% nel I trimestre dello stesso anno.

Prigionieri di un feticcio

Prigionieri di un feticcio

Gad Lerner – La Repubblica

Inutile girarci intorno. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è un passo necessario ma è anche un passo indietro nel nostro diritto del lavoro. Consolarci evocando una svolta storica cruciale come Bad Godesberg non allevierà la durezza delle scelte che siamo chiamati a compiere. Quando i socialdemocratici tedeschi ripudiarono la lotta di classe e si candidarono al governo di una società capitalista, nel 1959 a Bad Godesberg, lo fecero nel pieno di un boom economico che garantiva la piena occupazione dei lavoratori. Ben diverso è l’azzardo richiesto oggi a Renzi e al Pd per dimostrarsi affidabili in Europa, nel mezzo di una Grande Depressione che falcidia milioni di posti di lavoro. Altro che Bad Godesberg, ci troviamo sulla linea del Piave. Ai nostri generali tocca valutare se una ulteriore ritirata tattica sul terreno dei diritti e delle tutele sia la premessa necessaria per una futura controffensiva. O se invece si tratti solo di prendere atto di un arretramento già imposto dalla dura realtà dei rapporti di forza.

La resistenza opposta dai sindacati e dalla sinistra Pd all’abolizione definitiva del reintegro obbligatorio dei licenziati – una prassi di cui peraltro già oggi godono solo pochissimi lavoratori italiani – non è liquidabile come retaggio conservatore. Troppi sottintesi circondano il feticcio dell’articolo 18 (o ciò che ne resta). Davvero crediamo che facilitare i licenziamenti in Italia nel 2014 possa aiutare la ripresa economica? Ma soprattutto: l’insistenza con cui ci viene richiesta un’ulteriore iniezione di flessibilità nel mercato del lavoro, non mira forse ad altro, cioè a una decurtazione complessiva dei redditi da lavoro dipendente? Questo è il non detto che vizia il progetto ambizioso del Job’s Act. Non a caso rinviato da gennaio fino a oggi, perché lo stato della finanza pubblica rende impensabile sommare un assegno universale per chi perde il lavoro agli ammortizzatori sociali vigenti, come la cassa integrazione in deroga a carico dello Stato.

Non so se l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti sia solo «uno scalpo per i falchi dell’Ue», come sostiene Susanna Camusso. E sarà poco elegante Maurizio Landini quando ricorda che la maggior parte delle aziende si guardano bene dal fare assunzioni anche dove non si applica l’articolo 18: «Ma per piacere… Che cosa credono in Europa? Che gli italiani siano coglioni?». Fatto sta che sulla riforma del mercato del lavoro italiano grava il sospetto che si tratti di un passaggio preliminare mirato al drenaggio di altre risorse dalle buste paga dei lavoratori.

Chi si è espresso con ammirevole chiarezza in tal senso è l’ex rettore della Bocconi, Guido Tabellini, il quale motiva così l’urgenza della riforma del mercato del lavoro: «Lasciare più spazio alla contrattazione aziendale, evitando che la contrattazione collettiva stabilisca salari minimi inderogabili; e aumentare la flessibilità in uscita per i neo-assunti» (Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2014). Richiesto di chiarire cosa intendesse proponendo deroghe ai salari minimi, Tabellini ha precisato: «Meglio consentire alle imprese meno produttive di far scendere i salari anche sotto i minimi contrattuali, anziché licenziare o ricorrere alla Cig». In seguito, «l’effetto regressivo sui redditi bassi potrebbe essere attenuato dalle detrazioni Irpef».

Questo significa parlar chiaro: l’uscita dell’Italia dalla recessione comporterebbe una terapia d’urto di deroga generalizzata dai minimi sindacali previsti dai contratti nazionali. Pagando il prezzo di un ulteriore allargamento della fascia dei lavoratori poveri, in un ridisegno complessivo del nostro sistema economico che sopporti l’acuirsi delle disuguaglianze fra (poche) imprese d’eccellenza e (molte) aziende che sopravvivono al ribasso. Naturalmente Tabellini ammette che la scelta di sospendere i minimi contrattuali provocherebbe un ulteriore crollo dei consumi interni, compensabile a suo parere da una maggiore domanda estera. Lavoratori più flessibili e pagati meno, questo sarebbe il prezzo da pagare per una ipotetica futura ripresa economica. E per dimostrarci affidabili in sede europea.

Non so se calcoli di questo tipo vengano soppesati anche a Palazzo Chigi. Certo sembra andare nella stessa direzione la proroga del blocco degli aumenti dei dipendenti pubblici. Del resto è comprensibile che il governo punti a alleviare la sofferenza sociale con sgravi fiscali di natura redistributiva, come già fatto con gli 80 euro, non potendo affrontare di petto il dramma dei bassi salari. Ma quando Renzi, in polemica coi sindacati, afferma che nel pubblico impiego vi sarebbe ancora troppo “grasso che cola”, forse senza volerlo ma sembra assecondare come inevitabile una ulteriore decurtazione delle buste paga.

Di per sé il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti corrisponde a un principio di giustizia sociale che i sindacati non possono contestare. Purché si chiarisca in che misura esso vincolerà le aziende beneficiate dal recente decreto Poletti, che consente loro di perpetuare le più vantaggiose assunzioni a termine rinnovabili. Così come bisognerà capire se l’annunciata istituzione di un salario orario minimo rappresenti una tutela per i precari, o invece sia il primo passo per sterilizzare in seguito i contratti collettivi di categoria. Quando la direzione del Pd si riunirà per approvare la versione definitiva del Job’s Act non potrà eludere questa drammatica scelta di fondo: è inevitabile che una democrazia occidentale precipitata in una spirale depressiva retroceda sul terreno dei diritti del lavoro, rinunciando a contemplarli fra le sue norme fondamentali? Renzi ha usato un argomento “di sinistra” denunciando l’ingiustizia di un mercato del lavoro fondato sull’apartheid. Ma se l’articolo 18 ormai è poco più che un feticcio, man mano che si allarga la fascia dei lavoratori poveri diviene sempre più arduo distinguere chi sarebbero le sparute minoranze di “bianchi” avvantaggiati da questo apartheid. Di tutto abbiamo bisogno, tranne che di ulteriori lacerazioni dentro una sofferenza sociale comune.

Come Ue comanda

Come Ue comanda

Giuseppe Turani – La Nazione

La fretta e il piglio più deciso con cui Renzi sta affrontando la questione delle riforme ha una sola possibile spiegazione. Fra Bruxelles e Roma, senza che siano stati firmati protocolli o carte, è entrato in funzione quello che potremmo chiamare crono-programma. Il vertice dell’Ue ha spiegato molto chiaramente che, senza riforme, non ci sarà nessuna attenzione speciale per l’Italia. E, inoltre, ha anche fatto capire che non si può tirare tanto per le lunghe. Da qui il crono-programma: mano a mano che le riforme diventano reali da Bruxelles arriverà qualche attenzione (e qualche soldo) in più. Non è come avere la Troika in casa, ma la differenza non è moltissima: lasciano all’Italia la libertà di fare quello che va fatto. Altrimenti: applicazione severa delle norme comunitarie. In questi ultimi tempi gli appelli da Bruxelles sono stati ripetuti e molto chiari. E anche Draghi ne ha fatti almeno tre di appelli, sia pure nei modi felpati e nebbiosi propri dello stile di un banchiere centrale. Le tensioni delle ultime ore nascono proprio da questo: ci sono alcune cose che la Bce e la Ue considerano non più rinviabili. Il primo caso che viene in mente è quello del mercato del lavoro.

Sono mesi che cercano di farci capire che con l’attuale organizzazione del lavoro non si va da nessuna parte. Il professor Giulio Sapelli, che peraltro è critico verso Ue e Bce, da tempo va sostenendo che la nostra legislazione sul lavoro va rasa al suolo e sostituita con qualcosa di più semplice e di più moderno. E il senatore Ichino a questo sta lavorando da anni. Nessuno ci ha dettato i particolari, ma le richieste europee si possono sintetizzare in una semplice frase: più flessibilità in entrata e più flessibilità in uscita. Questo significa che l’articolo 18 ha i giorni contati. E la stessa cosa si può dire di altre norme che ingessano il lavoro.

Di fronte a questo clima cambiato, la Cgil è già insorta e minaccia grandi mobilitazioni di massa, sostiene (non a torto) che la soppressione (totale o parziale) dell’articolo 18 è lo scalpo che l’Italia si appresta a offrire ai falchi europei. Rimane da capire quanto l’attuale organizzazione del lavoro abbia ancora senso in una società immersa nella competizione globale. E anche la resistenza della Cgil non sembra avere molte possibilità di vittoria: le pretese dei falchi, infatti, sono quelle del mondo moderno mentre la Cgil è un po’ ferma agli anni Cinquanta. Ma c’è di più. La vera grana per la Cgil è un’altra.- se l’articolo 18 può già considerarsi defunto, adesso la partita vera riguarderà la contrattazione aziendale e locale. In sostanza, la futura organizzazione del lavoro punterà a rendere meno importanti i contratti nazionali per dare più spazio alla contrattazione in sede locale o aziendale. Si vuole andare verso una maggiore aderenza al mercato. I dipendenti di aziende che vanno bene potranno chiedere salari più alti, quelli di aziende che vanno male dovranno accontentarsi di buste paga più esili. È facile capire come questa linea finisca per rendere più sfumato il ruolo delle grandi confederazioni sindacali nazionali, destinate a perdere di peso e di importanza. Il sindacato non accetterà tutti questi cambiamenti di buon grado. Ci sarà quindi una tensione crescente. Ma nemmeno la Cgil potrà andare contro la storia. Ormai il mondo va in questa direzione: più flessibilità e più spazio alle realtà aziendali. I contratti buoni dal Trentino alla Sicilia stanno per andare in pensione, assieme all’articolo 18.

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’economia vive di aspettative razionali. Robert Lucas nel 1995 ricevette il premio Nobel per aver dimostrato con sofisticati modelli come individui e imprese usino in modo efficiente le informazioni che hanno a disposizione per orientare consumi e investimenti senza commettere errori frequenti. Il governo Renzi nel portare avanti la riforma del mercato del lavoro non appare, invece, eccessivamente preoccupato delle distorsioni che gli annunci ripetuti non seguiti dai fatti possono provocare nel regolare svolgimento di un mercato. Il Jobs Act doveva prendere forma in G.U. dopo un mese, forse due dall’insediamento dell’attuale esecutivo. Ad oggi siamo ancora ai prolegomeni della nuova riforma che nel frattempo è stata data per fatta almeno una ventina di volte tra Tweet e passaggi parlamentari o interviste varie di vari esponenti del governo. Si abolisce l’art. 18 come chiede senza se e senza ma Angelino Alfano. L’art. 18 non si tocca per parte importante del Pd, perché non è al centro del programma. Solo per i neoassunti l’art. 18 sparirà. O ancora diventerà un art. 18 a tutele crescenti con il passare del tempo ma senza obbligo di reintegro per le imprese in caso di licenziamento. Eppoi ancora promesse di bonus fiscali per i neoassunti o di esenzioni Irap per i nuovi posti creati in favore delle aziende.

Passano le settimane e del Jobs Act restano solo gli annunci e le proposte che, in ordine sparso, si candidano a riformare il mercato del lavoro. Risultato? Le imprese hanno smesso di assumere con contratti a tempo indeterminato, restano alla finestra e cercano di capire dove si fermerà il pendolo di questa logorrea riformista. Nel frattempo solo contratti a termine o occasionali vengono conclusi. È la legge delle aspettative razionali applicata alla follia della politica economica italica modellizzata da Lucas tanti anni fa. Razionalmente le imprese, non sapendo cosa succederà nell’immediato futuro, smettono di prendere posizioni contrattuali definitive rispetto al fattore di produzione lavoro. Così agendo, evitano di incorrere in un maggior potenziale costo da minor flessibilità o di perdere potenziali incentivi. Tutto perfettamente razionale, talmente razionale che resta un mistero su come l’esecutivo possa tenere aperto per così tanti mesi un dossier tanto critico come il Jobs Act. Soprattutto perché l’Italia è un paese in deflazione, in recessione da tre anni consecutivi e che vanta una disoccupazione superiore al 12,6%, quindi interessato a inviare ben altri segnali agli investitori potenzialmente capaci di creare nuova occupazione. Morale: crescerà il 52,9% di under 25 già oggi occupati con contratti precari.

Articolo 18, chi vince e chi no

Articolo 18, chi vince e chi no

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Diciamoci la verità sul Jobs Act n. 2. Nell’emendamento presentato dal governo in sostituzione dell’art.4, ci si possono riconoscere tutti: da Maurizio Sacconi a Cesare Damiano, passando per Pietro Ichino. La norma di delega emendata è certamente meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, anche se, a mio avviso, resta inadeguata rispetto a quanto dispone l’articolo 75 della Costituzione. Ma la politica ha le sue esigenze che finiscono sempre per prevalere. E in questo caso occorreva fare in modo che avessero vinto tutti e perso nessuno. Poi si vedrà nel corso dell’iter legislativo e soprattutto al momento della predisposizione degli schemi dei decreti legislativi che dovranno raccogliere i pareri di Commissioni validamente presieduto da due dei protagonisti della mediazione di ieri: Sacconi e Damiano, appunto.

Analizziamo gli aspetti più importanti del nuovo testo. Innanzi tutto, le parole che mancano. Non si parla mai di Statuto dei lavoratori né tanto meno di articolo 18 e di disciplina del licenziamento individuale. Vengono però indicate delle materie che necessariamente richiederanno delle modifiche ad ambedue i santuari della gauche: le norme riguardanti il cosiddetto demansionamento (ovvero la possibilità – ora preclusa – di inquadrare i lavoratori in mansioni inferiori se ciò comporta la salvaguardia del posto di lavoro) e il controllo a distanza, essendo le disposizioni assunte nel 1970 completamente superate dalle nuove tecnologie.

Oddio: non è che i criteri di intervento siano ben definiti, dal momento che essi si limitano a raccomandare al legislatore delegato di tener presenti sia gli interessi dei datori che quelli dei lavoratori. Poi si arriva alla ciliegina sulla torta: «la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Alcune questioni rimangono indefinite. Innanzi tutto, non è detto che dal novero delle tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio sia da escludere la sanzione della reintegra per lasciare il posto soltanto al risarcimento economico. In secondo luogo, noi interpretiamo che i nuovi assunti non coincidano obbligatoriamente con i nuovi occupati, ma che il contratto di nuovo conio si applichi anche a chi cambi lavoro e venga assunto ex novo da un altro datore. Se tali soggetti conservassero, infatti, una sorta di status ad personam (una disciplina del licenziamento “d’annata”), una volta usciti da un impiego stenterebbero a rientrare nel mercato del lavoro per ovvi motivi. Ma avverrà davvero così?

In ogni caso, pare indubbio che dovrà esserci un cambiamento importante: quanto meno la tutela reale – anche se continuerà a essere contemplata e non solo come sanzione del licenziamento nullo o discriminatorio – interverrà a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Per capire, dunque, come finirà questa vicenda bisogna aspettare.

Nel frattempo però sarebbe consigliabile non cantare anticipatamente vittoria. E fare tesoro della prima riforma Poletti. Il contratto a termine ”liberalizzato” rimane ancora la modalità di assunzione più conveniente. E, a nostro avviso, lo rimarrà anche in seguito. La delega emendata prevede, poi, un giro di vite sui contratti flessibili (non era così nell’emendamento Ichino). Questo è certamente un successo di principio della sinistra. Al centro destra è già capitato – ai tempi della legge Fornero – di sopravvalutare qualche giro di valzer (poi rivelatosi inadeguato) intorno al totem dell’articolo 18 e di non accorgersi che gli stavano sottraendo la cosiddetta flessibilità in entrata.

Al centro le persone

Al centro le persone

Francesco Riccardi – Avvernire

Premessa essenziale: stiamo discutendo di un emendamento alla legge delega di riforma del mercato del lavoro. I giochi politici sono ancora aperti e le indicazioni in parte generiche. Passerà almeno un anno prima di poter ragionare su un testo di legge effettivo, sul quale sviluppare delle valutazioni che non siano impressionistiche. Chiarito questo, se realmente alla fine dell’iter legislativo si sarà messo mano all’intera normativa sul lavoro – compreso il tema delle tutele in caso di licenziamento, con il reintegro sostituito da un indennizzo monetario di valore crescente – ci troveremo di fronte a un cambiamento fondamentale, culturale assai prima che economico.

L’idea alla base dell’emendamento di arrivare a un nuovo Codice unico semplificato del lavoro è infatti anzitutto la presa d’atto che il mondo è cambiato e il sistema economico-produttivo è ormai lontano anni luce da quello ford-taylorista su cui era stato disegnato, quasi 45 anni fa, lo Statuto dei lavoratori. Soprattutto, segna la fine di un’idea, quella che studiosi come Pietro Ichino definiscono la concezione “proprietaria” del lavoro, secondo la quale quando un lavoratore riesce a conquistare un posto, quello in sostanza gli appartiene. A vita. Con la conseguenza che da noi si è sempre difeso non tanto il lavoratore, quanto il legame tra il singolo occupato e quell’impiego. Con il reintegro obbligatorio nel caso di un licenziamento che il giudice ritiene senza giusta causa (spesso solo perché, in quella zona, per il licenziato sarebbe difficile trovarne uno nuovo). Ma non di meno costruendo un sistema di ammortizzatori sociali che ha relegato centinaia di migliaia di lavoratori nel limbo della cassa integrazione per anni, anziché favorirne l’aggiornamento e il ricollocamento in altre aziende. L’intero nostro sistema produttivo – già schiacciato dall’eccessivo carico fiscale e dalla burocrazia – ha risentito di questa rigidità, cercando ogni possibile via di fuga, fosse essa il restare al di sotto della soglia dimensionale dei 15 dipendenti o il ricorrere a contratti senza tutele. Determinando così un graduale degrado del nostro mercato del lavoro, a danno anzitutto dei lavoratori stessi, dei giovani più di tutti.

Il nuovo Codice semplificato che dovrebbe essere emanato ha dunque l’ambizione di disegnare un sistema di regole generali e flessibili meglio rispondenti al nuovo scenario globale. Ma deve portare con sé anche un altro cambiamento: porre davvero al centro la persona, il nuovo soggetto intorno al quale costruire tutele reali e universali, politiche attive, in grado di rendere il lavoratore più forte sul mercato, maggiormente capace di reagire ai mutamenti di scenario, più “padrone” del proprio destino che non mero dipendente. Per farlo occorre che la delega porti a compimento davvero tutto ciò che promette in termini normativi, ma soprattutto di più efficaci ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego. Su questo – il mezzo disastro della Garanzia giovani purtroppo lo dimostra – siamo all’anno zero.

Nessuno si illuda, però: il superamento delle rigidità del passato, articolo 18 compreso, rappresenta solo la precondizione di un cambiamento necessario più profondo. Il lavoro del futuro sarà sempre meno somigliante a quello dipendente delle fabbriche manifatturiere che abbiamo conosciuto finora e sempre più simile all’interagire di soggetti diversi, in luoghi differenti, di volta in volta impegnati per un progetto da realizzare (un prodotto che magari sarà sfornato da una stampante 3D senza bisogno di essere “assemblato” da operai o un servizio offerto in Rete). Se non si assume finalmente una diversa idea di fare impresa, di cooperazione tra i soggetti coinvolti, di interazione con la società esterna, di partecipazione, allora, non avremo dato che una risposta per l’ennesima volta parziale a un mutamento, quello del lavoro e dell’economia, oggettivamente epocale.

P.S. È fondamentale che nel dibattito politico e sociale sulla riforma non si ripetano i tragici errori del passato. Tutte le posizioni sono legittime e hanno diritto di venire rappresentate. Ma nessuno si azzardi a indicare l’una o l’altra persona come “nemico del popolo” o “traditore dei lavoratori”. Il prezzo di sangue pagato da studiosi come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi all’impegno per il cambiamento del nostro Paese, è già stato troppo alto, insopportabilmente alto.

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Sergio Soave – Italia Oggi

Il discorso che Matteo Renzi ha voluto pronunciare per illustrare il programma di legislatura del suo governo aveva lo scopo di rintuzzare le critiche di chi, non senza ragioni in Italia e in Europa, contrappone l’ampiezza degli impegni assunti alla miseria dei risultati raggiunti, ma, soprattutto, serviva a lanciare un messaggio chiaro ai settori riottosi della sua maggioranza e del suo partito. Rimettere in testa all’agenda la riforma elettorale, che era finita nelle sabbie mobili dopo l’approvazione ottenuta alla Camera, significa rendere possibile la via d’uscita di elezioni anticipate nel caso in cui la maggioranza si squagli sui temi più controversi. Ai suoi gruppi parlamentari Renzi deve far digerire la riforma del mercato del lavoro che sostituisce indennizzi all’obbligo di riassunzione previsto dall’articolo 18 e all’alla giustizialista un avvio di riorganizzazione del sistema giudiziario che parta dal settore apparentemente meno minato della giustizia civile. Agli alleati centristi, soprattutto a quelli che insistono sulla loro ispirazione cristiana, invece deve far digerire una qualche forma di riconoscimento delle unioni di fatto.

Su questi temi cruciali il premier è stato abbastanza chiaro, anche se non è entrato nei dettagli, il che consente ai suoi sostenitori di esibirsi in lodi per la concretezza del messaggio, ai dissenzienti (che non coincidono con gli oppositori al suo governo) di lamentare che si tratta sempre e solo di parole. Un punto però è stato affrontato con decisione: se ci saranno ostacoli all’applicazione della delega sulla riforma del mercato del lavoro, il governo agirà per decreto. È un modo per far intendere a sindacati e oppositori interni che non saranno tollerate più altre manovre dilatorie, che su questa questione, quella della flessibilità in uscita del mercato del lavoro, che viene peraltro messa al primo posto come priorità dalle indicazioni di tutte le autorità sovranazionali a cominciare dalla Bce di Mario Draghi, il governo vuole arrivare a una decisione, più o meno nelle direzioni indicate da Maurizio Sacconi e da Pietro Ichino, che pare siano diventate convergenti. Molti diranno che è poco, il che si può sempre dire, ma se Renzi riuscirà davvero ad archiviare i due elementi di subalternità storica della sinistra italiana, al sindacalismo radicale sul mercato del lavoro, al giustizialismo sulle garanzie, avrà cambiato e nella direzione giusta anche se forse impopolare tratti essenziali della tradizionale imballatura ideologica che rende da decenni sterile il ventre del riformismo italiano.