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Condannati alla monnezza

Condannati alla monnezza

Davide Giacalone – Libero

Ce la prendiamo con l’invadenza e la costrizione europea o con la deficienza e l’indecenza italiana? Propendo per la seconda ipotesi e trovo che la condanna della Corte di giustizia, per le discariche abusive e inquinanti, sia uno sfregio meritato. Non ci siamo limitati a farci condannare, ci siamo spinti a farci riprendere per non aver dato alcun seguito a quella sentenza. I fatti: nel 2007 la Corte europea ci condanna per le discariche abusive (4866 vergogne, ridottesi a 218 indecenze), in spregio della direttiva europea che regola lo smaltimento dei rifiuti. Come spesso capita, in Unione europea si è fin troppo elastici, sicché, dopo la sentenza, l’Italia ottiene tempo per rimediare. Quante volte reclamiamo elasticità per potere continuare con le rigidità immorali? Passano sette anni e la Commissione deve prendere atto che in Italia non si è ancora rimediato. Ed ecco la pena: 40 milioni da pagare forfettariamente e 42,8 per ogni semestre ulteriore di inadempienza nel rimediare. Considerato che per assolvere al nostro dovere non basta non continuare con le discariche abusive, non basta coprire di terra gli scempi, ma quelle esistenti vanno risanate, ne deriva che ci siamo guadagnati una tassa ulteriore, pari a 85,6 milioni l’anno. Continuando a tenerci la monnezza a cielo aperto. Continuando ad avvelenarci.

Allora: colpa dell’Europa? Si facciano gli affari loro? No: infamante colpa italiana. Dice Gian Luca Galletti, ministro dell’ambiente, che non pagheremo una lira, perché sono stati stanziati i soldi per rimediare. Intanto i 40 milioni li paghiamo. I soldi stanziati sono 60 milioni. Questo significa che, a giudizio del governo, per risolvere il problema ci vogliono meno soldi della multa di un anno, e un terzo in più di quella una tantum. Ammesso che le cose stiano così, perché l’impressione è che la criminalità dei rifiuti non sia in fase di riflusso, ma di straripamento. La colpa è di un Paese in cui il presunto ambientalismo rende impossibile smaltire i rifiuti in modo sensato e regolare, facendo da spalla alla criminalità organizzata delle discariche e delle sostanze tossiche sversate nell’orto. In cui ci sono sindaci no-discarica, no-inceneritore, no-termovalorizzatore, in attesa che arrivi l’era del no-sindaco, nel senso che prima o dopo salta tutto. In cui i movimenti spontanei lo sono come le poesie recitate dai bambini, e compitate tutte con la stessa rima balorda del comune che s’è denuclearizzato (meriterebbero una tassa sulla cretineria), ma non s’è despazzaturizzato. In tal senso l’ideale che s’insegue, una via di mezzo fra scie chimiche frinenti e glocal (globale e locale) per analfabeti, è il mito di rifiuti zero. Tipiche conquiste della cultura usa e getta. Altamente inquinante.

La condanna non è nuova, dunque. La novità è che dal 2007 a oggi non siamo riusciti a chiudere la partita. E le discariche abusive. Senza contare che sono un orrore anche le discariche non abusive, perché la ragionevolezza vorrebbe che i rifiuti da buttarsi in discarica fossero una parte residuale di
quelli riciclati, termovalorizzati o smaltiti. Noi, invece, abbiamo Comuni come la capitale, che impongono ai cittadini la raccolta differenziata e poi buttano tutto nello stesso buco di follia. Il Paese più bello del mondo, la meta ambita da chiunque, riesce a essere il luogo in cui il pattume si monumentalizza. C’è una cosa, però, che alla Corte europea sarà bene non far sapere: non è che siamo inadempienti dal 2007, è che questa situazione già la cantava Aldo Fabrizi, con “Buon giorno monnezza”. Non mi ha mai convinto la teoria dell’Europa come vincolo esterno, opinione che mi consentì di vedere che il problema non sarebbe stato entrare nell’euro, ma restarci. In casi come questi, però, mi piace l’Europa come ceffone esterno. Meritato da ceffi incapaci e tanto moralisti quanto privi di etica.

Equitalia, strozzini di Stato

Equitalia, strozzini di Stato

Franco Bechis – Libero

Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest’ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,56 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?».

Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n. 28 rate mensili». Il piano di ammortamento – scrivono- è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi dimora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano.

Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta.

Il primo gennaio scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: uffici giudiziari applicano il 4,5%. L’ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell’1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l’ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

L’occupazione fantasma

L’occupazione fantasma

Davide Giacalone – Libero

La disoccupazione cresce, ma il dato che descrive il dramma italiano non è questo, bensì quello dell’occupazione, che rimane patologicamente bassa. Non è un gioco di parole, perché i due indici segnalano due problemi diversi. E la disoccupazione non è il più grave. Si deve capirlo, se non si vogliono applicare ricette illusorie, o meramente anestetizzanti.

L’Istat rende noto che nello scorso mese di ottobre la disoccupazione è giunta al 13.2%, in crescita dello 0.3 rispetto al mese precedente e dell’1% su base annua. Il male c’è, è grave e cresce, fino a toccare il suo record storico negativo, perché il peggiore dal 1977, quando si cominciarono a redigere le serie trimestrali. Così i disoccupati arrivano a 3 milioni 410 mila. Certamente troppi. Per non parlare della disoccupazione giovanile, anche se si deve considerare che la mostruosa percentuale del 43.3 è influenzata dal fatto che, seguendo le indicazioni europee, la si calcola nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni, ma da noi è ben difficile dare lavoro a dei minorenni, senza incorrere nella pubblica dannazione e nel rischio di finire incriminati. Certi modi di contare discendono anche da certi modi di ragionare, sconosciuti nel Paese in cui tutto è proibito, tranne ciò che è esplicitamente regolato in modo che non si possa farlo.

Ma, ripeto, non sono questi i dati che fanno più paura. Quello decisivo è un altro: gli occupati sono appena il 55.6% della popolazione da considerarsi attiva. A ottobre erano 22 milioni e 374 mila, sostanzialmente stabili: -0.1 rispetto al mese precedente, + 0.1 rispetto all’anno precedente. Una stabilità che non ha nulla di buono, perché va letta in questo modo: in Italia un terzo dei cittadini ne mantiene due terzi e di quelli che potrebbero e dovrebbero lavorare se ne trovano impegnati poco più della metà. E in un Paese in cui poco meno della metà di quelli che dovrebbero essere al lavoro sono nullafacenti (salvo il mercato nero, ma allora si dovrebbe sottrarre dagli attivi i non produttivi) le cose non possono che andare male. Questo è il dramma. Nella fascia d’età fra i 20 e i 64 anni la partecipazione al lavoro è ferma al 59.8%, poco più del dato risalente al 2002, il che significa che si tratta di una problema strutturale (in Germania lavora il 77.1% di quella fascia). Siamo ben 8.5 punti al di sotto della media europea. Posto che i dati regionali disaggregati dimostrano che c’è un’Italia europea e una africana, il che non deve indurre a spropositi etnicodemenziali, ma a considerazioni amare sulla tolleranza della devianza sociale, economica e criminale, nella media nazionale mancano all’appello due “categorie”: le donne e i giovani fra i 25 e i 34 anni. Due eserciti con i quali si potrebbero vincere importanti battaglie contro il declino.

Chiedo scusa per la raffica di numeri, ma quel che chiedo al lettore di considerare è un concetto semplice: se la seconda potenza industriale d’Europa riesce a essere tale avendo una partecipazione al lavoro patologicamente inferiore alla media continentale, cosa accadrebbe se fossimo capaci di cancellare questo svantaggio? L’Italia schizzerebbe in avanti, il motore produttivo farebbe sentire un ruggito, la ricchezza crescerebbe e potremmo lenire un umore collettivo sempre più tetro. E questa non è la prospettazione di un ipotetico miracolo, ma il riassunto di un immediato dovere, per chi ha la responsabilità di governare il Paese.

Questo genere di problemi si affronta non con sgravi fiscali limitati nel tempo o con deregolamentazioni altrettanto passeggere, ma con modifiche profonde del modo in cui si considera il lavoro, sia in ingresso che in uscita. Quando la metà degli abili e arruolabili è assente senza essere renitente è segno che il modello legislativo ed economico adottato è errato. E l’enormità di questi dati rende piccinino l’ozioso e sempre uguale scontro sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Già solo che se ne parli ancora è segno che non si è capito nulla della realtà. Il nostro primo problema è quello di far tornare a essere reale quell’esercito fantasma, composto da italiane e italiani che dovrebbero essere al lavoro e che si ritrovano sbattuti altrove. Le celeberrime “garanzie” e i mitici “diritti acquisiti” sono i loro nemici. Non la meta da raggiungere, ma il dirupo da cui fuggire. E se riguardate con attenzione i dati relativi all’età vi accorgete di una cosa evidente: stiamo tutelando l’invecchiamento della popolazione al lavoro, così covando la bancarotta previdenziale, che già ha preso corpo negando ai più giovani quel che oggi è considerato meno del minimo per i pensionati.

Certo che i disoccupati sono troppi, ma il dramma sono gli occupati: troppo pochi. Se lo si capisse si metterebbe fine a tante discussioni inutili.

Sovranità senza sovrano

Sovranità senza sovrano

Davide Giacalone – Libero

Mario Draghi continua a ripetere che è impossibile sperare che la ripresa europea si basi solo sulle iniziative della Banca centrale. Che è necessario cedere sovranità per creare qualche cosa che somigli a un governo europeo. E ha ragione, tanto più che i fatti pongono davanti all’alternativa: cedere sovraninà per riforme e istituzioni condivise, o cederla perché travolti dalla propria inettitudine. Le alzate d’ingegno e le presunte fughe non ne restituirebbero neanche un grammo, semmai farebbero salire il conto da pagare.

La Bce può fare la sua parte, e la sta facendo, ma non può e non deve sostituirsi ai governi e alle istituzioni dell’Ue. Draghi ripete, giustamente, che la moneta unica chiede più integrazione, cosa che incontra una resistenza soprattutto francese. Taluni credono di sapere che l’euro nacque a freddo e dal nulla, invece ha alle spalle gli anni del Sistema monetario europeo e dei cambi (quello Sme cui si oppose il Pci, con le parole del non europeista Giorgio Napolitano, perché non voleva l’Europa indipendente e sovrana). Draghi, però, continua a non ricevere risposte convincenti. La Bce c’è stata e c’è. Quando lo sostengo c’è chi obietta: e che cosa ha fatto, per l’Italia? Molto: ha messo le banche in condizione d’acquistare titoli del debito pubblico e li ha a sua volta comprati, riducendo efficacemente il divario dei tassi d’interesse e l’affanno delle aste. Ora prova a pompare denaro destinato al credito, verso imprese e famiglie. Ha fatto molto, ma ha agito isolata. Ha invocato il coerente concorso di Ue, governi e parlamenti, ma questi fanno finta di non sentire.

Il governo italiano ha inviato alla Commissione una legge di stabilità fondata su dati irreali. Lo sa chi l’ha spedita e lo sa chi l’ha ricevuta. Allora perché la approvano, come raccontano tutti i giornali, anziché restituircela con sdegno? Intanto perché ne chiesero e ottennero delle correzioni, poi perché non l’hanno approvata, limitandosi a dire che i conti li faremo a marzo, quando non torneranno. Più in generale, però, non ce la tirano dietro perché i nostri numeri sono sì sballati, ma anche quelli degli altri. A cominciare da quelli della Commissione.

Il celebre piano Juncker ha finalmente preso corpo numerico, confermando i peggiori sospetti. 16 miliardi diventano 21 con i 5 della Banca europea degli investimenti; cosi creato, il Fondo europeo per gli investimenti strategici consentirà alla stessa Bei di fornire prestiti per il triplo del capitale, arrivando a una disponibilità di 63 miliardi (e già qui siamo fra gli atti di fede); dai 63 si passa a 315 grazie all’entusiasmo che vedrà moltiplicare tutto del quintuplo, con i capitali privati che vorranno partecipare alla festa (e qui si entra fra i misteri della fede, o negli empirei del raggiro). Se poi andate a leggere in cosa quei soldi dovrebbero essere investiti, trovate roba che o è profittevole in sé, quindi dovrebbe essere lasciata al mercato, o è spesa pubblica classica, che ammesso possa essere generatrice di profitto lo sarà solo dopo anni. La testa di questi politici funziona ancora immaginando spesa pubblica che sostiene i consumi, dimenticando che in questi anni di crisi il debito pubblico europeo è cresciuto in modo impressionante (il nostro, già enorme, meno di quello altrui). Quanto tempo ancora pensano che una zona ricca possa continuare a vivere al di sopra dei propri gia grandi mezzi?

L’azione di accompagnamento che la Bce reclama ha caratteristiche diverse. Servono riforme che sciolgano il blocco muscolare e celebrale di società che hanno preteso di abolire il rischio, così condannandosi alla paura del futuro. E servono tagli alla spesa pubblica corrente, compresi tagli al costo del debito (e gli unici visti vanno a merito della Bce), che consentano di far scendere la pressione fiscale. La Bce lavora per un cambio più favorevole, tassi bassissimi e inflazione più tonica. I governi dovrebbero lavorare per meno fisco e più produttività, non attendere i frutti dell’azione di Francoforte per ciucciarne i risultati e sprecarli come impareggiabilmente sanno fare.

Il fisco stanga i terremotati: multe per tasse non dovute

Il fisco stanga i terremotati: multe per tasse non dovute

Alessia Pedrielli – Libero

Piovono cartelle pazze sui terremotati dell’Emilia Romagna, già umiliati dalle promesse di una no-tax area mai applicata, dalla Tari che arriva anche a chi vive in roulotte. Sembra una punizione “divina” al voto espresso due giorni fa, che nelle aree del sisma ha premiato la Lega Nord e stangato il Pd: nelle ultime ore nelle case e nelle aziende di centinaia di cittadini, che nel sisma del 2012 hanno perso tutto, e che dei rimborsi promessi e stanziati ancora non hanno visto un euro, stanno arrivando cartelle esattoriali impazzite, inviate dall’Agenzia delle Entrate, che chiedono ai contribuenti di versare cifre che in realtà sono a loro credito.

In termini pratici la vicenda è questa: a seguito del terremoto, per i contribuenti residenti nei Comuni colpiti, fu decretata per alcuni mesi la sospensione di tutti gli adempimenti tributari tra cui anche le dichiarazioni dei redditi del 2012, relative all’anno precedente. La scadenza ultima per le dichiarazioni del 2012 venne fissata al 30 aprile del 2013 e poi prorogata ancora. Al termine della sospensiva i terremotati, nonostante molti fossero ancora fuori casa e senza lavoro, pagarono le loro tasse come si conviene ad ogni bravo contribuente, e poiché nel frattempo i debiti si erano accumulati, qualche settimana dopo si trovarono a presentare anche i modelli di pagamento del 2013, relativi all’anno precedente. In questi, come prevede la legge, i terremotati inserirono oltre ai debiti dovuti allo Stato anche i crediti che il versamento precedente aveva loro tributato. Crediti che ora, guarda caso, l’efficacissimo cervellone dell’Agenzia delle Entrate non vede.

Cosa è successo? L’inghippo starebbe nei termini temporali delle analisi delle cartelle. Di fatto, le dichiarazioni dei contribuenti dei Comuni colpiti da eventi calamitosi vengono messe a parte rispetto a quelle correnti ed hanno un codice speciale. A tutela dei poveri cittadini? Nient’affatto. Anzi, cieca quasi quanto la fortuna, e noncurante delle leggi che lei stessa ha emesso, la burocrazia romana ha pensato bene di valutare prima le dichiarazioni del 2013 relative al 2012, e poi quelle dell’anno precedente. Così facendo l’Agenzia vede per i contribuenti un buco di un anno, non tanto o non solo nel versamento ma anche nel credito di cui il soggetto deve entrare in possesso. Insomma è come se compilando le dichiarazioni post sisma tutti i terremotati avessero deciso di imbrogliare
il fisco attribuendosi crediti non spettanti.

Possibile che centinaia di persone abbiano messo in atto la stessa furbata? All’agenzia delle Entrate il dubbio non è venuto e gli accertamenti «bonari» sono partiti a frotte verso l’area del cratere, con la minaccia di triplicare la cifra dovuta se le cartelle non verranno saldate entro trenta giorni. «L’Agenzia delle Entrate ha commesso un clamoroso errore che impatta su cittadini e imprese già duramente provate dal sisma», sottolinea Erio Luigi Munari, presidente Lapam Confartigianato, l’associazione di categoria delle piccole medie imprese del territorio a cui i cittadini si sono rivolti disperati. «È chiaro che tratta di una inefficienza del sistema che non tiene conto delle dichiarazioni presentate oltre le normali scadenze, non per capriccio del contribuente, ma per una legge che ha legittimato questa presentazione», precisa ancora Munari che ha contattato già ieri l’Agenzia delle Entrate sollecitando i funzionari ad annullare d’ufficio di tutti gli accertamenti, che altrimenti qualcuno finirà per pagare.

La politica? Le elezioni sono passate e i partiti hanno altro da fare. Quindi silenzio. Unica voce che si è alzata sul tema tasse e stata quella del neoeletto consigliere regionale della Lega Nord Alan Fabbri, ex sindaco di Bondeno, che invita i terremotati ad una sorta di sciopero fiscale, non solo sulle cartelle pazze ma proprio su tutto. Per Fabbri bisogna «rispedire a palazzo Chigi le cartelle esattoriali» e «resistere agli attacchi di un fisco che sta facendo morire le nostre terre». Non pagare «è oggi un atto eroico”, continua il consigliere che ha ribadito il concetto anche due sere fa a Ballarò, direttamente in faccia al direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi. Per Fabbri «Gli imprenditori che per sopravvivere evadono, sono eroi».

Acqua cara

Acqua cara

Davide Giacalone – Libero

Nessuno ha voglia di dire agli italiani che se a Torino devono pagare l’acqua che non hanno consumato, se si devono preparare a due anni di aumenti del 10% delle tariffe, ciò ha anche a che vedere con il referendum sull’acqua del 2011. Allora stravinse l’idea che dovesse restarne pubblica la gestione. Questo è il risultato. Allora si fece una grande campagna contro la vendita dell’acqua ai privati, cosa che, naturalmente, era fuori dal mondo. Nessuno ha mai supposto di privatizzarla, ma di privatizzarne la gestione. A sostenere la gestione privata rimanemmo in pochini, mentre l’onda del luogocomunismo spaventò gli stessi, Partito democratico in testa, che pure avevano positivamente operato in quel senso. Il centrodestra si squagliò, com’è suo costume quando si tratta di reclamare il voto su delle cose e delle idee, anziché su sigle e nomi. Così prese corpo l’insanabile contraddizione: da una parte sembra che tutti detestino le gestioni e le nomine politiche, dall’altra si volle che l’acqua restasse nelle mani della politica e dei nominati.

Le società variamente pubbliche che gestiscono l’acqua sono 1.600. Uno sproposito. Si dovrebbe chiuderle quasi tutte. Di queste 350 hanno ottenuto l’aumento delle tariffe: +3,9% nel 2014 e + 4,8 nel 2015. Così l’inflazione non la crea la crescita della ricchezza, ma la sua decrescita a favore delle tariffe amministrate. Le 350 che faranno crescere la bolletta, con un maggiore esborso medio di 130 euro annui a famiglia, sono le più grosse, quindi quelle che servono il maggior numero di clienti. La domanda è: le altre 1.250 società hanno rinunciato all’aumento? No, è che non hanno neanche presentato i dati minimi di bilancio. Non si sa quanto investono, quindi non si può disporre l’aumento delle tariffe. 1.250 società, variamente pubbliche, non hanno compiuto adempimenti elementari che, se si trattasse di privati, in ogni altro settore, provocherebbero l’arrivo della Finanza.

Torniamo alle 350: perché chiedono un aumento? Perché dicono di dovere fare investimenti nella rete. Dicono, cioè, esattamente quel che scrissi all’epoca del referendum: mentre l’impresa privata, che giustamente mira al profitto, fa investimenti per aumentare la redditività della rete, quella pubblica i soldi degli investimenti li chiederà ai cittadini. Mentre nel concedere a privati la gestione della rete di distribuzione si deve stabilire, in partenza, quali saranno gli investimenti che sono tenuti a fare e quale sarà il quadro tariffario in cui dovranno muoversi, quando si passa alle società pubbliche la musica cambia, perché sono amministrate dai compagnucci degli amministratori politici, quindi se hanno bisogno di soldi chiedono che siano presi dalle tasche dei clienti. Se, come è successo a Torino, i clienti si mettono a risparmiare, consumando meno acqua, scatta l’applicazione del minimo, sicché pagheranno anche quella che non scialacquarono.

All’Autorità per l’energia, il gas e l’acqua dicono: era necessario aumentare le tariffe, perché sono decenni che non s’investe nelle reti. Ma perché questo non lo si disse agli elettori, nel 2011? Era chiaro che così sarebbe andata a finire. Tanto chiaro che lo scrivemmo. Tutta questa gnagnera dei “beni comuni” e delle cose che devono restare in mano al pubblico, quindi alla politica e ai partiti, perché così si evita 1’avidità dei privati, serve solo a far da alibi all’insaziabile bisogno della macchina pubblica di ciucciar via quattrini dalle tasche dei cittadini. Che, in questo caso, sebbene raggirati, se la sono anche cercata. Non potendo tornare indietro (non prima del 2016) almeno si proceda al disboscamento delle società e alla stipula di convenzioni che obblighino agli investimenti, pena la perseguibilità degli amministratori. Sarebbe già qualche cosa.

Orgoglio&Pregiudizio

Orgoglio&Pregiudizio

Davide Giacalone – Libero

Dal ministero dell’Economia hanno fatto benissimo a non lasciar correre, usando anche Twitter per ricordare quali sono i punti di forza dell’Italia. Siccome, però, sono le cose che qui scriviamo da anni, senza (noi) cambiare opinione a seconda del colore dei governi, conosciamo anche il retro di ciascuna medaglia. Dal Ministero hanno lanciato l’hashtag #prideandprejudice. Vediamone i sei punti.

1. L’avanzo primario italiano, dicono dal governo, è fra i più alti e stabili del mondo. Nel 2013 secondo solo a quello della Germania. Se è per questo, aggiungo, è il più alto al mondo, se si considera il cumulo degli ultimi ventuno anni; c’è sempre stato, a eccezione di un leggero scivolare nel 2009; e, se calcolato su ba-se annua, abbiamo fatto numeri che la Francia non s’è mai sognata. Non c’è dubbio: possiamo dar lezioni globali, in quanto a rigore finanziario produttivo di avanzi primari. Però: mentre accumulavamo avanzi primari il debito pubblico cresceva, talché il bilancio statale si chiudeva regolarmente in deficit. Il deficit di oggi è il debito di domani, così siamo i campioni mondiali di avanzi di dissennatezza. Non è un caso, del resto, che nel corso della seconda Repubblica i governi, costantemente alternandosi fra destra e sinistra, si siano vantati e vicendevolmente rimproverati di tutto, ma non gli avanzi primari. Sarebbe stato imbarazzante dover dire che fine facevano: gettati nella fornace del costo del debito crescente.

2. Abbiamo tenuto il rapporto deficit/pil entro il 3%, così chiudendo la procedura d’infrazione che subivamo. Siamo fra i pochi a rispettare quel parametro. Verissimo. E ci costa dolore. Ma tale nostra virtù la dobbiamo agli avanzi primari di cui sopra, quindi ai soldi che i cittadini versano per pagare il costo del debito. E la nostra tenuta del deficit la scontiamo con l’essere gli unici europei ancora in recessione. Altri hanno potuto comportarsi diversamente, perché all’appuntamento con la crisi dei debiti sovrani non sono arrivati con un debito pubblico smisurato.

3. Negli anni della crisi il nostro debito pubblico è cresciuto meno di quello di altri europei (e non), sia in assoluto che in rapporto al pil. Vero, siamo stati i soli, fra i grandi, a far funzionare il freno a mano. Ma l’altra faccia della medaglia è drammatica: il nostro debito è cresciuto perché spinto dal suo stesso costo, mentre il debito di tutti gli altri (tranne la Svezia, la sola ad aver fatto meglio di noi) è cresciuto per spese anticicliche. Il nostro debito cresce da solo, annientando la politica. Il debito tedesco o francese cresce per scelta politica. Non è una differenza da poco.

4. Il nostro debito pubblico è fra i più sostenibili, mentre il rischio connesso, sia nel breve che nel lungo periodo, è inferiore alla media europea. Non solo è vero, ma aggiungerei un dettaglio: noi e i tedeschi, dal punto di vista statale, siamo coetanei, solo che noi i nostri debiti li abbiamo sempre pagati, mentre loro, per due volte, li lasciarono insoluti. Quelli affidabili siamo noi. La sostenibilità, però, è anche il frutto di un patrimonio privato enorme e di un indebitamento privato minuscolo (rispetto agli altri), cui si aggiunge l’accondiscendenza a farsi tassare per pagare il costo del debito. Peccato che questo sia 1’inferno del socialismo fiscale. Se il debito non lo si abbatte, e se non si vuol perdere l’affidabilità, si corre verso la patrimoniale (ulteriore, perché già ne paghiamo diverse). Quindi: piano con l’orgoglio e in alto il pregiudizio, perché quello è il modo per autoevirarsi.

5. Siamo terzi per contributi versati ai paesi europei in crisi. E così. Ma questo è un punto molto delicato: perché fummo costretti a versare soldi che, aiutando i greci, servirono a salvare le banche tedesche e francesi che se ne erano rimpinzate? Siamo terzi per la semplice ragione che si paga in percentuale sul pil, e il nostro è il terzo pil. Perché, dovendosi salvare le banche, non si è pagato in rapporto all’esposizione delle proprie? Ci sarebbe costato meno e avremmo fatto rimarcare che le nostre sono state meno ciniche e incapaci di quelle altrui. Forse questo punto avrebbero fatto meglio a non metterlo, perché dietro c’è una storia ancora non raccontata. O forse non lo sanno. O forse pensano che gli altri siano tutti analfabeti fessi.

6. Infine: le nostre banche hanno ricevuto aiuti statali infinitamente inferiori a quelli che si sono visti altrove. Germania, Regno Unito e Francia in testa. Vero, ma va aggiunto quanto appena detto: abbiamo aiutato più le banche altrui che le nostre. Però, quando si sono fatti i test sulle banche le nostre si sono rivelate fra le meno capitalizzate. Ed è vero che le abbiamo aiutate poco, ma pure che fanno sempre meno le banche e sempre più le casse di riscossione. Il sistema delle fondazioni bancarie è al capolinea, mentre in Germania Stato e Lander sono soci delle banche.

Per i nostri lettori sono cose non nuove. Direi vecchie. Il fatto è che se i punti di forza non sei capace di farli valere, anche sfruttando le debolezze altrui (che ci sono, eccome), mentre quelli di debolezza te li fai rinfacciare notte e dì, con il di più delle polemiche interne, va a finire che di pregiudizi ne subisci tanti e con l’orgoglio ci fai poco.

Eppur si muove

Eppur si muove

Davide Giacalone – Libero

Mentre affondiamo nel nostro ombelico il corpaccione europeo si muove. In Germania si agitano forze che hanno compreso il pericolo che corriamo, e financo il guardiano del rigore, il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, rende nota la necessità di cambiare. E di farlo in fretta. Tutto questo avviene mentre è ancora in corso il semestre italiano di presidenza Ue, ma senza che in nulla pesi e si adoperi. Noi siamo impegnati a strillare perché Landini ha detto una scemenza, o a essere compenetrati della visita privata che il presidente della Repubblica ha reso al pontefice. Tutta roba che lascia il tempo che trova.

Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, torna a dire che la ripresa non si vede, o la si studia al microscopio. Inutile sperare nella marea, insomma. Ma aggiunge che la Bce intende intervenire subito per sostenere l’economia e l’inflazione, avendo già ottenuto la drastica riduzione degli spread e il graduale deprezzamento dell’euro. Sono pronti anche a incrementare l’acquisto di titoli. Fin qui un film già conosciuto. La novità consiste nel fatto che Schäuble non scomunica l’operazione, ma fa sapere che è necessario avere al più presto una politica fiscale comune, non potendosi a lungo difendere l’euro nelle condizioni date. Va oltre, chiedendo la modifica dei trattati. È la stessa cosa che reclamiamo da anni, restando, naturalmente, da vedersi il quale direzione. Fino a oggi era stata esclusa, ora la partita si apre. Un passaggio cruciale e promettente. A patto di occuparsene.

I quattro grandi paesi europei sono su posizioni diverse. La Francia è preoccupata perché la nuova cessione di sovranità, a favore dell’Ue, contrasta con i propri fantasmi di grandezza e nazionalismo. La Germania nega che trasferimenti di ricchezza possano essere consentiti senza che ci siano anche travasi di sovranità. La Spagna afferma di avere pagato la crisi, sicché non intende accettare che altri abbiano sconti. Mentre l’Italia si perde in chiacchiere inutili sull’elasticità e nelle beghe interne, facendo finta di non vedere che i numeri della propria legge di stabilità sono campati per aria. Mentre i voti verso la protesta per la protesta crescono, i francesi sono impauriti dalla forma, i tedeschi dai quattrini, gli spagnoli dalle fregature e gli italiani da sé medesimi.

Potremmo avere un ruolo decisivo se solo ci muovessimo per dimostrare d’essere consapevoli che le previsioni di crescita sono campate per aria, che le riforme interne del mercato sono urgentissime e non possono perdersi nella gnagnera dell’articolo 18, che così come si profila non cambia nulla, che la necessità di abbattere il debito non può essere posposta all’alimentazione della spesa corrente (si veda il ragionamento qui svolto a proposito della scandalosa quotazione di Rai Way). Se così agissimo, indirizzandoci verso una cessione di sovranità che non ci costa, perché già compromessa, ma legata alla creazione di debito europeo destinato agli investimenti, se così agissimo faremmo vedere alla Francia il pericolo dell’isolamento, alla Germania quello dell’immobilismo e alla Spagna dimostreremmo che i sacrifici riguardano tutti e rendono. Sarebbe un nuovo e promettente inizio.

Gli eurobond, di cui parlammo fin dall’inizio di questa terribile crisi, sono più vicini di quanto si creda e percepisca, ma per agguantarli si deve cambiare la regola e la condotta della convivenza. Noi siamo nella condizione per poterlo dire e promuovere. Il che comporta, però, la fine dell’insulsa stagione delle promesse e delle prebende. Tanto vigore polemico va indirizzato non alla rissosità, ma alla cancellazione delle false sicurezze. Impressiona, invece, che mentre la consapevolezza si fa strada laddove più forti erano le resistenze e le paure qui si supponga di continuare a pestarsi gli attributi nel mortaio. E se il mondo politico mette in scena tutta la propria piccineria, figura non migliore fa la classe dirigente nel suo complesso. Ammesso che esista ancora.

Mignatte

Mignatte

Davide Giacalone – Libero

Aboliamo gli scontrini, puntiamo sulla tracciabilità usando i pagamenti elettronici, e l’Agenzia delle entrate non sarà più vissuta come un avvoltoio. Parole di Matteo Renzi. Già, peccato che è proprio lo Stato a non accettare i pagamenti elettronici. Peccato che anziché spiegarlo ai cittadini il capo del governo dovrebbe spiegarlo alla pubblica amministrazione. E peccato che anche questo rischia di essere un modo per ciucciare via soldi dalle tasche dei privati. Non saprei dire degli avvoltoi, ma la sensazione delle mignatte è forte.

Partiamo dall’osservazione del mercato europeo: i pagamenti in contante sono regolati in modo diverso e il nostro è il solo Paese in cui è considerato illecito pagare in moneta mille euro. In Germania non ci sono limiti all’uso del contante. Il fatto che sia anche l’economia che va meglio non necessariamente suggerisce un rapporto di causa-effetto, ma lascia che sia fondato il sospetto. Me ne sono occupato altre volte e non ci torno, ma giusto per premettere che oltre a perdermi il bello del paradiso fiscale mi scoccia subire il peggio dell’inferno monetario.

Posto ciò, non c’è dubbio: se tutti i pagamenti fossero elettronici e tracciati non ci sarebbero margini per l’evasione fiscale. Che bello. Ma fino a un certo punto, perché ci sono pagamenti di cui legittimamente non intendo lasciare traccia. Ma facciamo finta che sia superabile il problema della privacy. C’è un dettaglio, che forse al presidente del Consiglio sfugge: nel mentre si costringono tutti i privati a dotarsi del pos, ovvero del terminale per incassare pagamenti da carte di credito, di debito e prepagate, lo Stato non li accetta. Ieri sono stato all’ufficio postale, per pagare una cartella Equitalia, e non hanno accettato la mia carta di credito. Che si fa? Direi che si costringono le Poste, che sono una società dello Stato, ad accettare anche quel circuito (legittimo, pubblicizzato, serio e globale). Finché le Poste si permetteranno di non accettare la carta di credito, essendo le Poste dello Stato, il loro proprietario non ha la legittimità morale per imporre ad altri alcunché.

Ma non è finita. Se un negoziante mi chiede di pagare un obolo in più, una volta visto che intendo pagare con la carta di credito, egli commette un illecito passibile di denuncia. Ed è giusto che sia così. Salvo il fatto che è esattamente quanto succede con Equitalia, dato che se vuoi pagare on line con la carta di credito ti chiede un euro in più. Equitalia, per chi si fosse distratto, è dello Stato. Allora: perché un negoziante deve accettare di subire il costo della transazione e lo Stato no? Direi che, anche qui, manca la legittimità morale per far lezioncine su come sarebbe giusto, bello e sano pagare.

Ancora non ho finito. Provate a pagare sigarette, sigari o tabacco con la carte di credito. Nella quasi totalità dei casi vi diranno che non è possibile. Ma non è che i tabaccai siano perfidi o accidiosi, è che il margine a loro riconosciuto è così basso che, a seconda dei diversi circuiti delle carte di credito, sono praticamente equivalenti e in qualche caso inferiori al costo della transazione. Meglio non dimenticare, anche in questo caso, che i tabaccai sono sì dei privati (micro)imprenditori, ma concessionari dello Stato, che vendono (tra le altre cose) prodotti di cui lo Stato ha il monopolio. E’ lo Stato a dettare le condizioni che rendono inutilizzabile la carta di credito.

Conosco già la risposta a questi rilievi: usa il Bancomat. No, scusate: uso quello che mi pare. Se si vogliono promuovere i pagamenti elettronici non si può farlo né a spese dei cittadini né stabilendo per decreto signorile a quale circuito devo portare i miei quattrini. Se la carta di credito è lecita chi opera per conto dello Stato deve avere l’obbligo di accettarla. In caso contrario, almeno, la si smetta di dire cose senza senso e prive della benché minima esperienza di vita vissuta.

Vendere, non dilapidare

Vendere, non dilapidare

Davide Giacalone – Libero

I nostri cattivi sospetti hanno trovato conferma. Ma c’è di peggio, perché il presidente del Consiglio ritiene che sia esemplare quella che, invece, a me sembra una pessima pratica. Il sospetto era che si quotasse RaiWay allo scopo di far cassa e alimentare la spesa corrente. Siamo stati i soli ad avvertire che questo era il pericolo. La macchina non si è fermata e si sono chiamati investitori esteri facendo passare per un gran successo di mercato quel che è un trasferimento di ricchezza dalle casse della Rai a quelle dei fondi acquirenti. Il cliente di Rai Way, infatti, è il proprietario. E ora sentite cosa dice il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi: «Dei 240-280 milioni di euro che entrano in cassa, 150 ci consentono di compensare il prelievo deciso dal governo». Esattamente quel che non sarebbe dovuto succedere: usano la vendita di patrimonio per alimentare la spesa corrente. Due terzi dell’incasso se ne vanno per finanziare un solo anno, mentre il patrimonio se ne va per sempre. Il rimanente terzo è destinato, bontà loro, a investimenti. Ma sapete in che consistono? La bonifica degli uffici di Viale Mazzini. E questo sarebbe un investimento?

Dice Matteo Renzi: «Avercene privatizzazioni come Rai Way. Era stata stimata per 150 milioni e ne abbiamo incassati 250. E c’è qualcuno che protesta pure». Esatto, protesto. Intanto perché il governo non incassa un solo centesimo, visto che i soldi finiscono nella fornace Rai. Poi perché se si procede a quel modo l’Italia si troverà sempre meno dotata di patrimonio e sempre più indebitata. Ricetta assassina. Dopo di che non basterebbe certo uscire (essere cacciati) dall’euro, si dovrebbe uscire dalla ragioneria e dal pianeta. Fatta la schifezza di questa quotazione c’è solo una cosa che possa aggravarla: considerarla esemplare.

Il 2015 vedrà sul piatto la vendita di quote Eni ed Enel, oltre che la corsa perla quotazione di Ferrovie e Poste. Il problema non è solo stabilire cosa si vende e quando, decisioni da prendersi puntando al migliore incasso, ma anche fissare inderogabilmente la destinazione dei proventi. Che devono andare al Fondo ammortamento del debito pubblico, istituito nel 1993 per ritirare dal mercato quote del nostro debito, e agli investimenti veri, che non consistono nel rifare gli uffici della dirigenza ma neanche nel finanziare la spesa sociale bensì nel mettere benzina nel motore dei lavori pubblici. Più alla prima che alla seconda destinazione, comunque non alla spesa corrente.

Tutta la gnagnera della riforma elettorale e dei grandi cambiamenti nella legislazione del lavoro s’annuncia tale da lasciare le cose in grande parte come stanno. Palestre d’eloquio per politici verbosi e sbandieratori inconcludenti. Mentre le vendite sul modello Rai Way sono operazioni che vanno in ogni modo impedite. E guardate cosa tocca scrivere a chi si batte per le privatizzazioni e la dismissione di patrimonio pubblico. Il fatto è che una cosa sono le vendite e le dismissioni, tutt’altra le dissennatezze e gli sprechi, destinati a far quadrare bilanci che restano compromessi dai debiti. L’anello della nonna si vende una sola volta, quella successiva ci si vende la casa e al terzo giro si va sotto ai ponti, se i soldi precedentemente incassati li si spende per comprare la moto cromata e pagare il prezzo di una vita d’inutili vizi e smisurata incoscienza.