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Le false vittorie del governo

Le false vittorie del governo

Davide Giacalone – Libero

44 miliardi escono oggi dalle tasche degli italiani e si lanciano nel dirupo delle casse erariali. A salutare il loro precipitare hanno trovato la fanfara di due annunci: nel 2015 non aumenteranno né le tasse sulla casa né il canone Rai. Ma non basta, perché ad accompagnare il volo c’è anche un fatto: solo il 15% della delega fiscale ha fin qui trovato attuazione, scadendo il prossimo 27 marzo. E fra le cose che si dicono imminenti c’è 1’ennesima ridefinizione dell’abuso di diritto. Che è uno strazio del diritto.

Andiamo con ordine. Le imposte legate alla casa non aumenteranno. Che bello. La verità è più prosaica: il governo aveva annunciato che il 2015 sarebbe stato l’anno della “local tax”, sicché una sola tassa che le avrebbe ricomprese tutte, e invece s’è arreso, lasciando tutto com’è. Questa è la notizia. E veniamo al canone Rai: non aumenterà. Evviva. Scusate, ma non doveva dimezzarsi? L’annuncio era: si pagherà la metà e lo si farà con la bolletta elettrica. La notizia è che l’operazione governativa è abortita. Tutto il capitolo della semplificazione fiscale, del resto, dovrebbe essere compitato entro la fine di marzo, dando attuazione alla delega fiscale. Fin qui siamo a carissimo amico.

Dicono in arrivo la parte relativa all’abuso di diritto. Leggo le anticipazioni e inorridisco. Dunque: non sarebbe più reato, ma il fisco può continuare a contestare non violazioni della legge, non evasioni fiscali, ma elusioni fondate sull’applicazione della legge. Non ha alcun senso supporre che il rispetto di una legge possa essere un abuso. Se lo è, ciò discende dal fatto che la legge è scritta male. La riscrivano. Comunque: equiparato all’elusione, l’abuso continuerà ad essere contestato. A quel punto il contribuente dovrà dimostrare di avere agito con finalità non malevole. Quindi: il fisco contesta e il contribuente deve dimostrare di non essere in peccato. Manco il tribunale dell’inquisizione. Il contribuente, però, può prevenire il problema: quando dovrà applicare una legge, potendo scegliere fra quella e un’altra, potrà evitare d’incorrere in tentazione chiedendo prima al fisco cosa sua signoria suggerisce di fare. Appena oltre il confine, se scegli con attenzione, si paga meno ed è tutto più semplice. Se vai in Lussemburgo al funzionario non chiedi quale leggi applicare, ma tratti quale aliquota ti applica, se vai a fargli compagnia. Ecco, se siete di buon carattere, diciamo che tali notizie potrebbero allietarvi le feste, strappando un sorriso. Se già malmostosi, c’è solo da sperare che vi distraiate.

Nel 2014 meno prestiti alle imprese per 20 miliardi

Nel 2014 meno prestiti alle imprese per 20 miliardi

Libero

Che le banche non avessero girato a famiglie e soprattutto imprese la liquidità aggiuntiva che gli è arrivata dalla Bce era nei fatti. Ma ora arriva un nuova conferma della tendenza in atto ormai da anni: nonostante la crisi, i rubinetti dei nostri istituti di credito restano sempre più chiusi. Da gennaio a ottobre il volume complessivo dei prestiti si infatti è ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8miliardi di euro. La stretta creditizia ha colpito in particolare tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Lo rivela un’analisi del centro studi «ImpresaLavoro» su elaborazioni di dati Bankitalia.

Rispetto poi al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, essendo passato da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo periodo i rubinetti delle banche si sono ulteriormente chiusi in particolare per le imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e hanno ridottoilloro sostegno anche per le famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro) e le pubbliche amministrazioni (-0,5%, pari a -1,4 miliardi di euro). Al tempo stesso si è invece registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).

«Ancora ieri le banche italiane hanno ricevuto in prestito dalla Bce nuova liquidità per 26,5 miliardi di euro, nell’ambito di un’azione di rifinanziamento con scadenza a 4 anni finalizzata a riportare il credito alle imprese, che nonostante tutto si ostinano a investire e a produrre» osserva Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”.«Adesso occorre agire rapidamente per non vanificare questa operazione».

Bontà in conto terzi

Bontà in conto terzi

Davide Giacalone – Libero

Non ci sono mica solo i criminali dell’accoglienza. Ci sono anche gli sciacalli del buonismo e del cattivismo. Ai primi interessa poco e nulla dei profughi e degli sfollati. Ai secondi poco e nulla dei soldi spesi per raccoglierli in luoghi circoscritti. A tutti costoro interessa solo il proprio tornaconto. Me ne convinco leggendo Laura Boldrini, che con la politica dei profughi s’è assicurata una carriera da funzionaria e poi il debutto (coronato da grande successo) in politica. Sostiene Boldrini: quelli che profittano sui profughi deturpano il valore della solidarietà, mentre sono moltissimi gli operatori competenti e motivati. Lo spero. Ma dove erano mentre i campi profughi costavano dieci o cento volte quel che valevano? Non si erano accorti che il livello di vita, in quei campi, era infinitamente inferiore al costo che la collettività sosteneva? Fra i propagandisti del cattivismo, del mandiamoli via, del chiudiamo le frontiere, ce ne sono stati che poi davano soldi pubblici ai cooperatori del ladrocinio; mentre fra gli sventolatori del prendiamone di più, accogliamoli tutti, volemose bene, ce ne sono che vogliono bene solo a sé, alla parte che si sono scelti, incapaci di vedere e capire il risultato della propria propaganda.

Scrive Boldrini: “paradossalmente il meccanismo che doveva facilitare la convivenza sta generando ostilità verso i migranti”. Paradossalmente un corno, perché quella è la logica conseguenza della premessa: i buonisti della convivenza se ne infischiano dell’indecenza. Mettono la propria bontà sul conto degli altri. La scaricano nei quartieri dove mettono piede solo se accompagnati dalle telecamere. Se vedono il disagio lo traducono in colpa di quanti non osannano la bontà un tanto al chilo, chiedendo ancora più soldi. Quindi favorendo gli affaracci cooperativistici. E se si stupiscono dello scandalo (dico “se”, perché una parte di quegli stupori è stupefacente) è solo perché ignorano del tutto la realtà concreta.

Proviamo a usare il buon senso e immaginare come porre rimedio. Intanto vanno separati due gruppi: i profughi e i migranti. Buonisti & cattivisti li mischiano, ma è l’errore che poi degenera in impotenza e sperpero. I profughi vanno accolti e istradati verso le destinazioni finali, che non si limitano certo al Paese di primo approdo. Per farlo occorre identificarli. Identificarli non ha alcun senso se non per scoprire chi non è profugo e, quindi, metterlo nel secondo gruppo. Nell’identificarli servono i soldi e la collaborazione dell’Onu, che oltre a stipendiare le nostre fanciulle di buoni sentimenti e abbondante speculazione dovrebbero dedicare una qualche attenzione anche agli interessati: i profughi. L’Onu dovrebbe funzionare soprattutto ai confini delle zone da cui i profughi fuggono, onde evitare il commercio di carne umana e il rischio di morte. Ergo: fare capi profughi in Italia serve a poco e niente, ma per quel che si fanno devono essere finalizzati non alla permanenza, ma all’identificazione e ripartenza.

I migranti, invece, non c’è alcun dovere di accoglierli. Avere immigrati è un affare. Un buon affare. Il saldo è positivo, e non solo economicamente, in Italia come nel resto d’Europa, se riferito agli immigrati regolari. Gli altri, gli irregolari, i clandestini, non si ha il dovere di prenderli. Quindi: identificarli, valutarne l’accoglimento, ove non possibile si procede al rimpatrio. Che è il solo modo serio per stroncare le gambe ai trafficanti dei barconi (per quel che riguarda l’Italia, perché poi c’è la massa che entra via terra, da nord). Qui abbiamo fatto proposte concrete, a cominciare da zone extraterritoriali sotto la giurisdizione Ue. Inutile dire che né ai buonisti né ai cattivisti sono minimamente interessate.

E gli altri disagiati? Chi? Scusate, ma perché dovremmo spendere soldi pubblici per i campi nomadi? Se sono nomadi, girano. Se stanno nei campi, non sono nomadi. Siccome li considero depositari di diritti e di doveri al pari di me, credo che vadano difesi da eventuali aggressioni e messi nella condizione di fermarsi temporaneamente, ma non in quella di fare i mantenuti, consentendo una delinquenza che è ripugnante pietismo di chi li considera essere inferiori, destinati a quel tipo di vita. Il razzismo dei buonisti non ha nulla da invidiare a quello dei cattivisti. Mentre gli attivisti della bontà, incapaci di denunciare il malaffare prima che si intervenga la procura, meritano un solo invito: è ora che anche voi andiate a lavorare. Scrive Boldrini: l’accoglienza genera posti di lavoro per gli italiani. No, genera spesa pubblica degenerante, produttiva di tasse e debiti. L’accoglienza è un business solo laddove non ha nulla di buono.

Ragioni e incubi tedeschi

Ragioni e incubi tedeschi

Davide Giacalone – Libero

C’è un problema tedesco, in Europa. Ma ci sono anche paesi con i conti e le politiche in disordine, che pensano di potersela cavare dando la colpa alla Germania. Ci sono cittadini europei che temono di essere fregati, ritrovandosi a pagare debiti contratti da altri. E ci sono loro concittadini che temono di finire sottomessi a una (altrui) logica di potenza nazionale. E’ normale che queste paure suscitino reazione elettorali colorite, per quanto inutili. Non è normale che molti politici e governanti sfuggano al misurarsi con questi problemi, preferendo strizzare l’occhio agli elettori presi dal panico. Per questo trovo molto interessanti le tesi esposte da Jeans Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, la Bundesbank, in una intervista a Repubblica. Sono parole serie. Che vanno prese sul serio. Dico subito che le condivido nella quasi totalità, ma con un distinguo decisivo, su un punto fulcro del presente e del futuro europeo.

Riassumo, per punti, il pensiero di Weidmann, chiosando in parentesi. 1. Per recuperare competitività è del tutto inutile immaginare il ritorno a monete nazionali, puntando sulla loro svalutazione, perché i benefici da quella indotti sono passeggeri e instabili (giusto, senza contare i malefici e tenendo presente che la Banca centrale europea sta conducendo una politica di graduale deprezzamento dell’euro). 2. La strada saggia consiste nell’abbattere le barriere per l’accesso al lavoro (che significa meno garanzie) e nel favorire le privatizzazioni (quindi meno Stato nel mercato). 3. Il tasso d’inflazione deve salire, ma non c’è motivo di affrettarsi, secondo i calcoli Bundesbank crescerà, di poco, a fine 2016 (giusto che salga, ma la fretta c’è, perché in deflazione il peso dei debiti cresce, fino a soffocare). 4. E’ sbagliato paragonare l’Ue ad aree monetarie come gli Stati Uniti o il Giappone, perché quelle sono entità politiche unitarie, mentre noi siamo 18 stati con politiche indipendenti, debiti diversi e diversi rating (vero, ci torno subito). 5. Lo sviluppo demografico europeo, ovvero la contrazione delle nascite, suggerisce di non spostare nel futuro il peso del debito (giusto). 6. Quando i debiti sono alti non si deve reclamare spesa pubblica anticongiunturale basata sull’aumento del debito, perché questo aumenta il male anziché curarlo, semmai si deve modificare la struttura della spesa pubblica, indirizzandola allo sviluppo anziché al trasferimento (leggi spreco) di ricchezza (giusto).

E qui veniamo a due aspetti delicati. Due tasti politicamente decisivi. Il primo si ricollega al punto 4.: siccome l’Ue non è uno Stato unitario, o federale, delle due l’una: o ci muoviamo in quella direzione, cedendo ciascuno sovranità fiscale; oppure non c’è alternativa al rispetto dei vincoli previsti dai trattati. Ha ragione. Ed è questo il pericoloso errore commesso da alcuni governi europei, il nostro compreso: l’avere puntato sull’elasticità nell’interpretazione dei vincoli anziché nel porre subito il tema della cessione di sovranità. Con il risultato che non avendo ottenuto nulla sul primo aspetto si finisce con il perdere sovranità propria, perché troppo indebitati, senza accedere a una comune. I francesi hanno compiuto questa scelta (sbagliata) consapevolmente, perché soggiogati da quel che resta della perduta grandeur (ma fra quel che resta c’è l’arma atomica). Noi abbiamo perso l’occasione del semestre italiano, per nulla. C’è, però, una seconda faccia della medaglia: noi (con altri) eccediamo nel debito, ma posto che anche quello tedesco è oltre i parametri consentiti, e che è cresciuto più del nostro, il loro surplus commerciale è a sua volta una grave violazione. Se parametri devono essere che siano, ma per tutti. Quell’avanzo (enorme) è continua sottrazione e concentrazione di ricchezza. Intollerabile quanto la crescita del debito.

E se il debito crescente induce il timore che si voglia farlo pagare ad altri (senza dimenticare che abbiamo già pagato per aiutare le banche tedesche e francesi), il surplus permanente, unito al vantaggio di tassi d’interesse bassissimi, quando non negativi, induce la paura che qualcuno covi il ricorrente incubo della potenza nazionale, puntando anche all’indebolimento dei competitori, asfissiati dal credito e dal fisco. Una logica di dominio che ha già ripetutamente prodotto la sua sola possibile conseguenza: la rovina. Questo è il nodo decisivo. Entrambe i timori hanno fondamento. Entrambe devono essere fugati. Ma non uno prima dell’altro, perché ne deriverebbe uno squilibrio ingestibile. Per questo le parole di Weidmann sono importanti e largamente condivisibili. Per questo è insensato supporre di condurre un presunto scontro filo o anti-tedesco. Ma sempre per questo quel nodo va affrontato, nei suoi due aspetti. Chi provasse a fare il furbo sarebbe pazzo.

La Local Tax è rimasta un annuncio, così nel 2015 la Tasi raddoppierà

La Local Tax è rimasta un annuncio, così nel 2015 la Tasi raddoppierà

Sandro Iacometti – Libero

La stangata sulla casa è assicurata anche per il 2015. Mentre l’Europa continua a prenderci a sberle ogni giorno (ieri è stato il turno di Draghi e di Juncker, che ha rincarato la dose), inchiodandoci alla prospettiva di una manovra bis, il governo sembra aver deciso che il prossimo anno non solo resterà la Tasi, ma sarà pure più salata. La piacevole prospettiva è emersa nel corso di un vertice tecnico di mercoledì pomeriggio nel corso del quale, secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore e da alcune fonti parlamentari, gli esperti governativi si sarebbero scontrati con le difficoltà di portare avanti il progetto frettolosamente, e incautamente, annunciato da Matteo Renzi della local tax.

La grande rivoluzione del fisco locale, tutte le tasse riunite in una sola gabella, sembrava da settimane lì lì per arrivare. All’inizio sembrava dovesse addirittura entrare nella legge di stabilità alla Camera. Poi si è detto che sarebbe stata introdotta al Senato. Un paio di giorni fa il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, ci ha spiegato che per la local tax il governo avrebbe usato provvedimenti diversi dalla legge di stabilità, ma comunque entro la fine dell’anno. Infine si è ipotizzato un intervento nei primi mesi del 2015. L’ultima versione, di fronte all’inevitabile complessità di un riordino generale dell’imposizione locale, è che non si esclude uno slittamento al 2016.

Ipotesi catastrofica per le tasche degli italiani. Il prossimo anno, infatti, non resterà tutto così com’è. Il simpatico vizio degli ultimi governi di prevedere clausole, cavilli e gradualità delle misure ha infatti spinto lo scorso anno l’allora ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e l’allora premier Enrico Letta ad inserire nella legge sulla Tasi una devastante bomba a tempo. Il tetto massimo dell’aliquota per la prima casa è fissato al 2,5 per mille (poi diventato 3,3 per mille con l’aggiunta della quota da destinare alle detrazioni), ma solo per il 2014. Dal 2015 l’asticella si allinea a quella prevista dalla vecchia Imu, ovvero il 6 per mille. In più, saranno tolte anche le detrazioni. Considerato che pure la legge che ha previsto l’aliquota aggiuntiva, spalmata sulla prima e sugli altri immobili, vale solo per il 2014.

La Cgia di Mestre si è fatta due conti. I Comuni che hanno applicato quest’anno l’aliquota massima del 3,3 per mille hanno incassato mediamente 347 euro per un’abitazione di tipo civile A2. Con il 6 per mille il conto sale a 631 euro, praticamente quasi il doppio. La stessa cosa si verificherà per un’abitazione di tipo economico A3: dai 233 euro di quest’anno si arriva a 424 euro nel 2015. Molto peggio andrà per chi ha pagato con aliquote inferiori al 3,3 per mille. Alla luce del fatto che la media applicata quest’anno è stata del 2,3 per mille, l’eventuale incremento al 6 per mille farebbe schizzare il gettito riferito ad un’abitazione A2 da 242 euro pagati a 631 euro (variazione +160%). Per un A3, invece, si passerebbe da 134 a 424 euro (variazione +2l6,4%).

Per mitigare la batosta il governo sta valutando l’ipotesi di prorogare le detrazioni. Il problema è che nel 2014 sono stati stanziati allo scopo 625 milioni che oggi non ci sono. I Comuni ieri sono stati chiari: «Il governo deve garantirci nel 2015 le stesse risorse». Se non lo farà, gli aumenti sono sicuri. Nell’attesa, martedì si paga di nuovo: Tasi, Imu e qualsiasi altra cosa vi venga in mente.

Matteo punta alle urne per non pagare i conti

Matteo punta alle urne per non pagare i conti

Davide Giacalone – Libero

L’accordo europeo s’è fatto. I conti non tornano e si dovranno rifare a marzo. Dentro l’accordo c’e un non detto assai pericoloso. Questa volta sì che la presidenza italiana ha lasciato il segno, conducendo l’Unione europea all’accordo del fare finta: io fingo che abbiano un senso i conti che presento, tu fai finta che abbia un senso rifarli fra tre mesi e tutti facciamo finta di non vedere che la voragine della crisi s’allarga. Ma che senso ha guadagnare tre o quattro mesi? Che ci si guadagna? L’Italia nulla. Chi la governa, però, spera nell’improbabile ripresa, o nel crollo dei conti europei, sì da nascondere i nostri nel caos, oppure, più realisticamente, nel far saltare prima il banco, sostituendo i conti economici con quelli elettorali. Lo andiamo ripetendo dall’estate scorsa, benché da Palazzo Chigi si giuri e spergiuri che si voterà a scadenza naturale. Se così fosse non avrebbe alcun senso quel che stanno facendo, compreso l’accordo a far finta.

L’ottimo Pier Carlo Padoan continua a stupirmi. Ogni giorno che passa mi domando chi glielo fa fare di affermare e firmare l’inverosimile. Ora sostiene: è vero che la Commissione europea prima e l’Eurogruppo poi hanno affermato che i conti italiani (e non solo) saranno rivisti a marzo e che dovremmo e dovremo fare di più, ma intendono dire che dobbiamo farlo nell’attuazione delle riforme già approvate, non certo preparare una manovra correttiva. Le riforme è una riforma, quella del lavoro, che è una legge quadro: qualsiasi cosa si faccia da qui a marzo non cambierà di un decimale i conti.

Certo, il governo può ben dire di avere chiuso l’accordo, cantando vittoria. Me ne compiaccio. Ma è un accordo scritto sulla sabbia in una giornata di vento. E se prima la comunicazione governativa continuava a ripetere che l’Italia mai e poi mai avrebbe sfondato il tetto del deficit, comodamente collocato al 3% del Pil, laddove dovrebbe essere significativamente più basso, ora si mormora e sussurra quel che l’aritmetica già gridava: potremmo superarlo. Oibò, che è successo? È in programma una politica di spesa pubblica anticiclica, per la gioia di tutti i magnaccioni, che siano stati terroristi neri, mezzani sinistri, o criminali della società civile? No, temo che la faccenda sia (ove possibile) più prosaica: sappiamo già che a marzo i conti non torneranno e allora si mettono le mani avanti, annunciando come possibilità quella che sarà neanche una necessità, ma la logica conseguenza di numeri messi a capocchia, supponendo crescite che non ci saranno.

Non supereremo il 3% per scelta politica, ma per prepotenza contabile. Questo temo. E come potrà giustificarlo, il governo Renzi? Basta aguzzare l’ orecchio, per capire l’antifona. Già si sente dire: 1’Europa non sia solo vincoli, ma sviluppo. Concetto profondo. Tanto che ci vuole un sommergibile per scorgerlo. Dagli abissi non tornerà certo a galla allargando il deficit, quindi poi il debito, mettendo soldi in tasca a italiani cui lo stesso Stato poi li toglie con la mano fiscale. Perché questo è tale spesa pubblica, incarnata dalle emergenze sociali e dagli 80 euro: un modo per distribuire quel che poi si ripiglia, salvo che a quelli più lesti, che lo portano via nel frattempo. L’antifona, però, è quella di dare la colpa all’Europa. Ah, se non ci fossero loro, a stringerci il cilicio!

Ma dove porta una simile impostazione? Porta al voto. Perché mica puoi tenere la minestra in caldo per anni. A fine marzo non succede nulla, ma entro primavera ci sarà chiesto di onorare le promesse. A quel punto che fa, Padoan, risponde loro che il 70% dei decreti attuativi del Job Act sono stati fatti? Ne prenderanno act e ci domanderanno se abbiamo problemi di comprendonio: i conti sono disallineati. Quindi, fra aprile e giugno, chi governa si deve mettere sulle spalle la loro correzione. O invoca la rivolta smutandata contro l’Europa. Altrimenti no, semplicemente fa osservare che siamo in campagna elettorale e che la democrazia va rispettata. Ci vediamo subito dopo. È vero che guadagnare ancora uno o due mesi non serve a nulla, ma vale solo per gli italiani, non per quel ristretto gruppo fra loro che andrà a popolare le due (leggasi due) aule parlamentari e a formare il nuovo governo. Poi si vedrà. Non brilla in lungimiranza, ma almeno ha un senso. Far finta che siano solidi conti già in fase di smontaggio neanche è lungimirante, ma è pure privo di senso.

Debito, tasse e statali: le tre mosse per far ripartire il Paese

Debito, tasse e statali: le tre mosse per far ripartire il Paese

Carlo Pelanda – Libero

Nei prossimi 3 anni l’Italia galleggerà a pelo d’acqua. Tutte le proiezioni correnti prevedono una crescita attorno allo 0,5% nel 2015 e a cavallo dell’1%, più sotto che sopra, nel 2016-17. Meglio che affondare? Attenti, stagnazione prolungata significa impoverimento sistemico: figli che migrano, figlie costrette ad umiliarsi. Possibile? Il governo non sta alleggerendo i pesi che soffocano la crescita. Infatti l’uscita dalla recessione nel secondo trimestre 2015 non sarà spinta dalla politica economica, ma da fattori diversi: (a) la svalutazione dell’euro che facilita l’export e l’importazione di turismo; (b) un minimo aumento dei consumi dovuto al fatto che tante famiglie, pur con poca fiducia nel futuro, dovranno comprare una nuova auto o il guardaroba del bimbo che cresce, ecc., cioè il fenomeno della «ripresa passiva»; (c) un leggero miglioramento del credito grazie alla stimolazione monetaria della Bce; (d) una riduzione (temporanea) dei costi dell’energia importata. L’insieme di questi fattori potrebbe dare una spinta ben maggiore alla crescita, ma il mantenimento di pesi fiscali eccessivi farà continuare la caduta recessiva di parte del mercato interno. Pertanto la somma tra fattori di spinta e caduta mostra come risultato un misero 0,5% nel 2015, cioè il galleggiamento, poi seguito dalla «stabilizzazione destabilizzante» della stagnazione.

La stimolazione
Un’analisi simile ha portato S&P a declassare l’affidabilità di lungo termine del debito italiano, nell’ambito di una previsione di non peggioramento nel medio termine. Significa che l’Italia in mero galleggiamento potrà ripagare il debito nei prossimi due o tre anni, ma che poi, senza cambiamenti, potrebbe non riuscirci più perché dopo recessioni e stagnazioni prolungate è probabile, senza discontinuità di modello, una spirale depressiva. Mi spiace considerare di efficacia nulla l’azione del governo Renzi che sta rompendo tanti tabù, ma la verità è che il suo progetto di stimolazione economica è e sarà insufficiente: sposta le tasse senza ridurle, modifica in modo irrilevante le norme protezioniste sul lavoro e, soprattutto, mostra poca reattività concreta alla crisi. Ed è ovvio: una maggioranza di sinistra, anche se guidata da un pragmatico, non vorrà mai ridurre le tasse in quanto i suoi elettori in stragrande maggioranza vivono di denaro pubblico. Il punto: senza detassazione stimolativa, cioè senza trasferire una gran massa di capitale dall’intermediazione burocratica al mercato, non sarà possibile invertire la stagnazione-declino. Italia condannata? Non necessariamente, perché la maggioranza degli italiani vive di mercato e se fosse possibile condensare in forma politica la rappresentanza dei loro interessi vi sarebbe il consenso per un’operazione mega-stimolativa: (1) abbattimento della spesa pubblica di circa 100 miliardi; (2) riduzione delle tasse di 70, lasciandone 30 di margine al servizio dell’equilibrio di bilancio; (3) abbattimento di circa 500 miliardi del debito pubblico (2.100 miliardi, circa) con una operazione «patrimonio contro debito» (ripagare parzialmente con obbligazioni basate sul rendimento del patrimonio pubblico i possessori di titoli invece di emettere nuovo debito) allo scopo di portarlo vicino e poi sotto al 100% del Pil, così risparmiando ¼ della spesa annua per interessi nonché altri soldi per il rifinanziamento del debito residuo grazie ad un aumento del rating.

La simulazione
Questi numeri sono usciti da una simulazione, continuamente aggiornata dal 2010, fatta dal mio gruppo di ricerca con l’obiettivo di trovare le quantità allo stesso tempo utili e possibili per invertire il destino dell’Italia, in costanza dei vincoli europei. Semplificando, con tale operazione l’Italia volerebbe rapidamente verso una crescita prolungata oltre il 3% annuo perché la tassazione (totale) sulle imprese andrebbe al 20% e quella sulle famiglie sarebbe ridotta di almeno 1/5. Non dovrebbe essere fatta tutto e subito, ma basterebbe renderla credibile per far scontare al mercato immediatamente il buon esito futuro, bilanciando così con un effetto fiducia – che scongela il risparmio – l’impatto deflattivo momentaneo del taglio di spesa. Il dissenso da parte degli statalisti sarà violento. Ma dobbiamo dirci la verità: senza una tale operazione, che per altro non riduce la socialità dello Stato, l’Italia è finita. Suggerisco, infatti, di chiamare l’operazione tecnica detta sopra «operazione verità», luce che spero illumini il popolo del mercato affinché si compatti e salvi se stesso e la nazione sostenendo l’unica soluzione veramente efficace.

Legge magnaccia

Legge magnaccia

Davide Giacalone – Libero

Nello stato di diritto tutti siamo subordinati alla legge e nessun potere può essere esercitato con arbitrio. La legge può essere modificata, naturalmente, ma finché vige va rispettata. Nello stato storto, il nostro, la legge è irrilevante e solo i fessi vi sottostanno. Cambiare le leggi può essere divertente, ma inutile, perché si fa prima a interpretarle a proprio piacimento. Questa grottesca e inquietante storia romana, che riempie le cronache e svuota gli animi, ha due facce della medaglia, entrambe intitolate all’irrilevanza della legge: a. per concorrere agli appalti pubblici le aziende per bene producono montagne di carte, come la legge prevede, ma poi lavori e soldi possono essere affidati a cooperative di malfattori; b. una legge proibisce di ritrarre cittadini in manette, così che si è inventato il pallino bianco da mettere su fotografie e filmati, in compenso si può vedere in rete il cinema di persone arrestate con i mitra spianati sul muso. Questa è la medaglia di un Paese che non ha orrore di sé.

Quando provi a divenire fornitore della pubblica amministrazione devi presentare un numero impressionante di documenti, attestanti l’onestà tua e dei tuoi familiari, nonché progetti e/o programmi che spieghino come intendi utilizzare il denaro che riceverai. Che poi nemmeno lo ricevi, perché il verbo continua a essere coniugato al futuro. È capitato che gare per importi rilevantissimi, assegnate regolarmente, siano poi state invalidate perché si scopre che l’affidatario ha una cartella esattoriale non pagata, magari per importo ridicolo, magari avendo anche ragione e, comunque, neanche sapendolo al momento in cui presentò la documentazione. Tanta maniacalità burocratica ha tratti di follia, ma, almeno, speri che serva ad evitare che i soldi pubblici finiscano in mani sbagliate. Poi scopri che una cooperativa può ricevere soldi pubblici pur essendo comporta da assassini, terroristi e criminali di varia caratura. Che i soldi che prendono li spendono solo in parte minimale per il servizio, mentre il resto s’imbuca altrove. Che la grana arriva in anticipo ed aumenta a saldo. Che a Castel Romano ha 986 dipendenti per servire 1400 nomadi (che non sono nomadi, dato stanno lì), un addetto e mezzo a testa. Concorrendo con Buckingham Palace, salvo il fatto che domina il degrado (è un discorso diverso, ma quei 1400 potrebbero anche lavorare …). Insomma, scopri che le regole ferree cui devono attenersi gli onesti diventano lattee con i disonesti.

Già, si potrà obiettare, ma quella era proprio una cooperativa di ex detenuti, quindi è ovvio che sia composta da chi fu ospitato, con una qualche ragione, nelle patrie galere. Un momento: conosco il lavoro della solidarietà e lo sforzo per favorire il reinserimento di chi ha vissuto esperienze negative, ma non consiste mica nel ciucciare denari pubblici, bensì nell’imparare a fare qualche cosa e metterci serietà e impegno di cui non si è stati capaci nel passato. Altrimenti, anziché reinserire gli ex galeotti, varrebbe la pena andare tutti in galera, così ti danno appalti a botte di tre milioni. Inoltre: non ha senso che il riassorbimento della devianza sia praticato nell’assistenza alla devianza, perché non ci vuol molto a immaginare quali possono essere le conseguenze.

Né sembra avere un gran valore neanche il dettato costituzionale, ove si legge che si è innocenti fino a sentenza definitiva. Non faccio che ascoltare intercettazioni, oramai corredate da immagini, tratte da indagini neanche ancora completate. Poi arriva la ciliegina dell’arresto in armi. Tutti documenti utili per riunire il tribunale del popolo ed emettere sentenza al bar. Con il che, però, il diritto è morto. Leggo che uno degli intercettati avrebbe detto: “meno male che è finita bene, sennò chissà come andava a finire”. Ci vedo il reato di lesa lingua italiana, ma mi preoccupo per il giornalismo che sugge questo nettare e per il procuratore che glielo segnala. E il cielo non voglia che le risultanze processuali, fra qualche lustro (è in partenza il processo per il sangue infetto, risalente a ventuno anni fa), dimostrino che l’accusa d’associazione mafiosa era un tantino esagerata (intanto ci vedo il reato d’offesa alla cultura sicula), perché non vorrei dover pagare, con i soldi presi dalle mie tasse, un qualche risarcimento alla compagnia dei magnaccioni.

Sugli ogm scelte europee troppo provinciali

Sugli ogm scelte europee troppo provinciali

Davide Giacalone – Libero

L’Unione europea favorisce le coltivazioni Ogm, ma uno Stato aderente all’Ue può proibirle. Questo non è un compromesso, è il fallimento dell’idea stessa di Unione. Una regressione a prima del Mec, Mercato comune europeo. Una decisione eurodemolitoria, perché fa dell’Unione il luogo in cui i doveri sono inderogabili, mentre i diritti negabili. Essendo una conclusione cui si è giunti durante la presidenza italiana, il nostro ministro dell’ambiente, Gian Luca Galletti, la racconta come un successo, il frutto del duro lavoro di mediazione. Avrebbe fatto meglio a riposarsi.

Per capite le dimensioni e il significato di questa porcheria ci si deve mettere nei panni del cittadino europeo (i nostri), non in quelli dei governanti di turno. Perché ha un senso positivo essere parte e cittadini dell’Unione? Perché consente maggiori libertà, a cominciare dalla circolazione delle persone e delle cose. Certo, comporta dei vincoli nella spesa pubblica, ma anche quelli sono un bene, visto che senza freni abbiamo prodotto il più grande debito pubblico del continente. L’Ue non è solo un ideale di pace e convivenza, il cui senso si sbiadisce nel tempo, mano a mano che le tragedie del secolo scorso s’allontanano dalla memoria, deve essere anche conveniente. In tal senso la coltivazione degli Organismi geneticamente modificati è esemplare.

É ovvio che sia accettata in ambito europeo. Perché già la si pratica e perché non c’è nulla, sulla nostra tavola, che non sia Ogm. Siccome ci sono Paesi, come purtroppo l’Italia, in cui la grandezza delle superstizioni e la pochezza della classe politica comportano la coltivazione di miti geneticamente regressivi, siccome ci sono ignorantoni che credono il riso Carnaroli esista in natura, nonché sbadati che dimenticano quanto le carni che mastichiamo, anche allevate interamente in Italia, sono nutrite per la quasi totalità con mais Ogm, ecco che ha senso ed è conveniente una decisione presa non più in dialetto, ma in lingua europea. Decisione che allarga il diritto dei coltivatori italiani e allarga la convenienza dei consumatori, altrimenti costretti a donare all’estero una parte del valore delle merci che digeriscono. Il consumatore ci guadagna anche in salute, perché le modifiche genetiche non vengono introdotte da un’occulta centrale del male, ma per evitare che le coltivazioni siano protette con diluvi di insetticidi. E ne guadagna l’ambiente. Ma se la mediazione politica europea, indotta da governi adusi più a farsi leggere la mano dalla chiromante che a studiare costituzioni e dichiarazioni dei diritti, consiste nel mantenere il potere feudatario di proibire nel contado castellano quel che è consentito nei campi altrui, allora non si capisce più che ci stiamo a lare in Ue. E manco cosa sia, l’Ue.

Forse Galletti fa fatica a capirlo. Forse questa notizia finirà fra le cronache per addetti ai lavori, ove non sia del tutto ignorata. Ma la partita giocata è di grande rilevanza. Peccato che l’Ue l’abbia persa e che l’Italia sarà la più penalizzata, avendo feudatari menomati dall’ignoranza e afflitti da furbizia beota. Se quella roba dovesse andare in porto (c’è ancora la possibilità di far saltare tutto) non solo il giardino del vicino sarà più verde, ma ci vivrà gente più ricca e più sana. Sicché diventa ragionevole la tentazione di saltare la siepe e andare a far loro compagnia.

Reato sponsorizzato

Reato sponsorizzato

Davide Giacalone – Libero

Occupare una scuola, come un edificio o del suolo pubblico, è un reato. Elogiare pubblicamente un reato può avere un preciso significato politico e civile: siccome credo che sia sbagliato considerarlo un reato allora ne faccio l’apologia, o addirittura lo commetto, chiamando su di me la punizione proprio per mettere in evidenza quanto sia sbagliata. Si chiama disobbedienza civile. Ma qui siamo di fronte a un componente del governo (il sottosegretario all’istruzione, il democratico Davide Faraone), che esalta il valore formativo del commettere un reato, ma non lo fa per chiamare su di sé la punizione, che già non subì quando (a sua detta) commise il reato, bensì per attirare su di sé l’attenzione. Si chiama esibizionismo incivile.

Quanti occupano illegalmente le case popolari commettono un reato ed è giusto che si sgomberi. Eppure quelle persone hanno violato la legge in nome di un bene primario, ovvero il tetto sopra la testa. Perché le forze dell’ordine dovrebbero intervenire contro quelli e lasciar correre se le occupazioni di edifici pubblici non rispondono ad alcun bisogno reale? Quegli istituti hanno dei responsabili, che si chiamano presidi. Il compito dei presidi sarebbe quello di chiedere l’intervento delle forze dell’ordine. È naturale che nessuno assennato voglia far precipitare le cose o procurare guai ai ragazzi, ed è per questo che molti presidi provano a continuare il dialogo, chiudendo un occhio sull’occupazione purché si torni in fretta alla normalità. Ma che succede se il responsabile politico dell’istituzione afferma che è più formativa l’occupazione, ovvero un reato, della normale didattica? Succede che i presidi desiderosi di fare il preside si ritrovano pugnalati alle spalle, mentre quelli desiderosi di non fare niente ottengono l’avallo ministeriale. Bella roba.

La preside di un liceo romano, il Tasso, ha voluto impuntarsi. È andata al ministero, con una delegazione di genitori e di studenti. Sono stati ricevuti da un collaboratore del sottosegretario ed è stato, parole loro, un «dialogo fra sordi». Cioè: chi lavora per lo Stato ed è tenuto a far rispettare le leggi, accompagnato da chi manda i figli a scuola e dai figli che ci vanno, chiede udienza a chi dirige il settore dell’istruzione e manco li stanno a sentire, delegando un collaboratore del sottosegretario. Di quello stesso sottosegretario che aveva chiesto di essere invitato alle assemblee studentesche che si tengono durante le occupazioni, in modo da portare la solidarietà del governo alla commissione di un reato. Assemblee cui desidera partecipare per confrontarsi sul disegno di riforma della scuola, che gli studenti occupanti avversano, che il governo propugna, ma che ha un’esilarante caratteristica: non c’è. Non l’hanno scritto. Ci sono dei punti, a confronto dei quali nei Baci Perugina c’è vera letteratura.

Ho molte volte ripetuto che sono favorevole alla cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ma sono in minoranza, quindi rimane. Chiedo: posto che occupare è un reato e posto che le notizie di occupazione sono pubbliche, come anche il commosso plauso ministeriale, per quale ragione le procure non aprono dei fascicoli? Magari riusciamo, per questa via, a dimostrare quel che sosteniamo da molto: nulla è più facoltativo di quella presunta obbligazione, utile solo a mascherare indagini farlocche, quando non pretestuose.

Ma c’è un altro corollario, discendente da quello che capita. Se dal ministero si può sostenere che l’occupazione ha valore formativo superiore a quello della scuola normale è perché quest’ultima sembra avere valore quasi nullo. E a giudicare dai risultati governativi, la tesi ha un suo fascino. Adesso, però, dirò una cosa che non so se sia di destra o di sinistra, ma profondamente giusta: senza una scuola formativa e duramente selettiva andranno ancora avanti i deficienti chiacchieroni e privilegiati, a tutto discapito dei bravi svantaggiati. La scuola di Faraone, la scuola delle occupazioni formative, è vigliaccamente classista, perché condanna gli ultimi a restare tali, togliendo loro l’ascensore sociale della selezione per merito.

Feci la scuola a Palermo, come Faraone. Ci furono le occupazioni, come ogni anno. A scuola mia gli occupanti furono arrestati, di notte. E mi dispiacque, molto. Se ricapita sapete a chi presentare il conto: a quel sottosegretario che ha scritto di avere scoperto, in quelle notti non scolastiche, il sesso e la politica. Spero solo che la prima cosa gli sia riuscita in modo meno imbarazzante della seconda.