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L’Acropoli e il Quirinale

L’Acropoli e il Quirinale

Davide Giacalone – Libero

C’è un filo che lega l’Acropoli al Quirinale. E non è fatto di moneta. Guardando alle elezioni greche ci siamo tutti concentrati su faccende di debito e valuta. Che sono certo rilevanti, ma non uniche. Quel filo passa da questioni politiche più generali, attinenti agli equilibri globali. E mette ancora di più in frizione la posizione della Germania con il posizionamento atlantico dell’Europa.

Gli errori tedeschi li vedemmo per tempo, quando in Italia erano considerati fulgido esempio di virtù economica e lungimiranza politica. Monti arrivò al governo dicendosi economista tedesco e fummo pochini ad avvertire il rischio. Ora, però, provate a mettervi nei panni della classe dirigente tedesca, politica e non solo: hanno aizzato i cittadini nel far credere (falsamente) che correvano il rischio di pagare i debiti altrui, impugnando l’arma del rigore come una specie di falce morale, e si ritrovano con politiche monetarie espansioniste e messi in minoranza presso la Banca centrale europea. Guardate i numeri con i loro occhi: passano per gli affamatori d’Europa, ma poi scoprono che le famiglie italiane hanno più patrimonio delle loro; in Italia ci sono più ricchi, in rapporto alla popolazione, che da loro; mentre nel loro Paese ci sono più poveri che da noi. Gli invasati del germanocentrismo possono non vederlo, ma i tedeschi s’avvedono che, ancora una volta, rischiano per mancanza di visione intemazionale. Erano stati avvertiti, anche da due ex cancellieri. Fatto è che, in questa condizione, è forte la tentazione di far i rigidi con i greci. Tanto più che i torti ellenici non sono pochi. Ma è possibile?

Il problema non è economico. Se all’inizio di questa storia si fosse scelta la strada della protezione, ci sarebbe costata meno. Il problema è di politica estera. La Grecia ha una posizione e un ruolo importanti, accresciuti dallo scivolare della Turchia verso non tanto i costumi neo-islamici, quanto verso le rimembranze vetero-imperiali. Non dimentichiamoci che il bastione della Nato, in quell’area, poggiava e poggia su Turchia e Grecia. E ciò fu possibile grazie all’occidentalismo kemalista, che dominava la Turchia, per il tramite dell’esercito, così come da un equilibrio ellenico che escludeva la possibilità d’influenze comuniste nell’area, fino a rendere possibile il colpo di stato militare. Roba del secolo scorso, certamente. Ma non è che in questo possa avvenire l’opposto.

Il nuovo governo greco è un’incognita, da tale punto di vista. Le alleanze che lo reggono non rassicurano. Ha chiarito che non intende allontanarsi dall’euro, ma cosa succederebbe se politiche sbagliate allontanassero l’euro dalla loro portata? La Grecia sprofonderebbe in una miseria senza fondo, con le banche destinate a saltare una dopo l’altra. Oppure interverrebbero capitali non europei. Quelli cinesi sono gia presenti e crescenti. La Russia è interessata, sia per rapporti esistenti che per riequilibrio sul versante del Mar Nero (dove la Grecia non si affaccia, ma presidia le spalle della Turchia). Anche capitali arabi sarebbero interessati, per giocare qualche pezzo in più sulla già complessa scacchiera mediterranea. E tutti hanno il loro tornaconto nel divaricare le posizioni dell’Unione europea da quelle degli Stati Uniti. Ue che, del resto, nel ribollire scomposto d’astratte patire e di concreti errori, vede crescere, a destra e a sinistra, formazioni nazionaliste e isolazioniste che incarnano la perdita dell’orientamento e della vitale collocazione atlantica. Non è un mistero che l’operazione Quantitative easing sia ben vista a Washington e mal sopportata a Berlino. Mettete anche questa nel conto e darete maggiore corpo al nervosismo tedesco. Quindi: condonare ai greci i loro debiti è impossibile, anche perché sono i nostri soldi; supporre di farglieli pagare per fargliela pagare è impossibile, perché significa perderli; perderli è pericoloso, perché rattrappisce l’Ue attorno agli imperi centrali (e fanno giusto ora 100 anni!). Occorre equilibrio, dunque. Che è il contrario del cavalcare il marasma e soffiare sulle paure.

Il Quirinale c’entra, perché con la Francia implosa (anche lì i tedeschi hanno sbagliato, e la Merkel, facendo campagna per Sarkozy, ha dimostrato i limiti della sua e della tedesca visione politica) l’Italia ha un ruolo accresciuto. O potrebbe averlo. Il che comporta un presidente della Repubblica eletto guardando anche questo scenario, non solo la cucina del potere nostrano. Potremmo essere noi (traendone vantaggio) a tendere la mano di cui i tedeschi hanno bisogno, per placare gli spiriti di un passato oggi interpretato da chi non lo ha vissuto: i più giovani. Per riuscirci, però, c’è bisogno che i nostri protagonisti non siano a loro volta ghermiti da quegli spiriti, sebbene in versione maccheronica. Sarebbe saggio che la cronaca della corsa al Colle, legittimamente agonistica, non fosse meramente dialettale.

Tafazzieconomy

Tafazzieconomy

Davide Giacalone – Libero

Non capita spesso che i creditori si compiacciano dell’ipotesi che i debitori non paghino i loro debiti, quindi non perdete lo spettacolo offerto dai tanti dichiaratori e commentatori che festeggiano ciò di cui dovrebbero preoccuparsi. Bei tempi quando a orecchio si parlava di calcio, usando la pancia di politica e solo alla memoria di sesso. Ora son tutti economisti, esponenti di spicco della Tafazzieconomy. Grazie alla Grecia, allora, si porrà fine all’eurorigore? No. Intanto perché le politiche monetarie europee sono espansioniste, ovvero il contrario del rigore. Non si può porre fine a una cosa che non c’è. I greci lo sanno e il loro nuovo governo ribadisce: nell’euro siamo e ci restiamo. Alcuni degli scalmanati anti-euro, come Costas Lapavitsas, economista di spicco nel gruppo di Alexis Tsipras, già tirano il freno: dicevo che sarebbe stato meglio uscire, ma ora è diverso. Appunto. I greci, dunque, intendono restare nell’euro, ma vogliono rinegoziare il debito pubblico. E qui ci si deve intendere.

Un negoziato è necessario, perché così come è strutturato non possono pagarlo. Ma l’ipotesi della denuncia del debito, del suo disconoscimento, non solo sarebbe contro ogni regola europea, o anche solo di civile convivenza, sarebbe un danno per l’Italia, visto che i soldi li abbiamo prestati noi. Non solo: mentre le banche tedesche e francesi si alleggerirono dei titoli del debito greci, cedendoli al fondo salva stati, da noi cofinanziato, così sottraendosi a tagli del debito che sono già stati fatti (anche se sembra ci se ne sia dimenticati), mentre questo accadeva si è anche deciso che gli altri europei avrebbero prestato soldi ai greci a un tasso agevolato, solo che i tedeschi presero i soldi dal mercato, pagandoli meno di quanto venivano remunerati, mentre noi li prendemmo pagandoli più di quel che avremmo riscosso. Noi, al contrario dei tedeschi, abbiamo già fatto regali alla Grecia, sicché è demenziale festeggiare l’ipotesi che non restituiscano neanche il poco cui sono obbligati.

Ma mentre un negoziato sulla struttura del debito è necessario, ciò non significa che la Grecia possa tornare all’andazzo pre-crisi, quando la copertura dell’euro rese possibile una spesa pubblica torrentizia e clientelare, priva di compatibilità con la ricchezza reale prodotta dalla Grecia. E’ qui che i festeggianti italiani fanno confusione, confondendo il debito con la spesa. Fraintendimento sul quale trionfa la Tafazzieconomy, sicché si lanciano gridolini di soddisfazione all’idea di essere colpiti colà ove non batte sole. Il rigore nella spesa è non solo necessario, ma salutare. Se lo si perde si compromette il dolore subito e ogni prospettiva futura. Se si torna a scambiare l’investimento produttivo con la spesa produttrice di voti si otterrà solo la crescita del debito e la moltiplicazione della miseria, mediante satanismo fiscale. E questo concetto potete dirlo in greco tanto quanto dovete dirlo in italiano.

Alcuni gioiscono, da noi, perché sentono i tedeschi lamentarsi. Solo che in Germania si lamentano perché rivogliono indietro quello su cui hanno già guadagnato, mentre qui sembra che si goda a mollare quello su cui abbiamo già perso. A guardare questa scena capisci la differenza: in Germania si governa e si suppone di risponderne, qui si starnazza per cercare di non doverne rispondere. I tedeschi usano la posizione dei greci per mettere in forse la politica della Bce, cui si sono inutilmente opposti, perdendo. Noi dovremmo fare l’opposto, avendo vitale convenienza a che quella politica si sviluppi fino in fondo. Invece cerchiamo di dare loro ragione, sebbene ghignando del crucco disappunto. E dimostrando di avere capito poco e niente.

Mi spiace che Syriza non abbia preso la maggioranza assoluta. Il governo di coalizione potrà rivelarsi un rischio, se fra sinistra e destra partirà la concorrenza e si protrarrà la campagna elettorale. Sarebbe una maledizione, perché c’è più consapevolezza della realtà in chi ha vinto le elezioni greche che in tanti orecchianti italici, presi dal disorientamento di vedere l’estrema destra e l’estrema sinistra, in giro per il continente, dire le stesse cose. Motivo in più per non parlare a vanvera.

Patrimoniale mascherata sui nostri risparmi: 9 miliardi in più tra 2011 e 2014

Patrimoniale mascherata sui nostri risparmi: 9 miliardi in più tra 2011 e 2014

Liberoquotidiano.it

Il prelievo forzoso sui conti correnti degli italiani c’è già stato, e negli ultimi 3 anni ha tolto dalle nostre tasche qualcosa come 9 miliardi di euro. Per interdersi sulle proporzioni: quello ufficiale e dichiarato, anche se eseguito nottetempo, ad opera dell’allora premier Giuliano Amato nel luglio 1992 oggi corrisponderebbe a 3 miliardi di euro. A fare la conta sull’incredibile escalation di pressione fiscale sui 3.800 miliardi di euro di attività finanziarie detenute dalle famiglie italiane è una ricerca del centro studi ImpresaLavoro pubblicata sul settimanale Panorama. E i numeri del triennio 2011-2014, corrispondente ai governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, se messi l’uno dopo l’altro sono impressionanti.

La patrimoniale occulta di 9 miliardi – A pesare sulle tasche degli italiani sono stati tre interventi massicci, che sommati risultano una vera e propria patrimoniale mascherata. Innanzitutto, l’aumento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, passata dal 12,5% al 26% (eccetto i titoli di Stato), che nel 2015 porterà all’Erario 11,2 miliardi di euro rispetto ai 6,5 stimati per il 2011. Quindi l’introduzione della tassa su una parte delle transazioni finanziarie, la celebre Tobin Tax: secondo gli analisti, la tassa non ha portato nelle casse dello Stato non più di qualche centinaia di milioni di euro. Le stime parlano di 300 milioni, praticamente la stessa entità della diminuzione degli scambi sui mercati italiani, riflesso negativo della misura. Infine, l’imposta di bollo sul deposito titoli che, sottolinea Panorama, da imposta si è trasformata in vera e propria patrimoniale occulta. Dal 2012 a oggi ha già raddoppiato la sua portata e pesa per lo 0,2% su depositi bancari, fondi e alcune polizze e per 34,20 euro sui conti correnti con una giacenza media di 5.000 euro. Rispetto al 2011, nel 2015 questa misura dovrebbe portare allo Stato 4,4 miliardi, 4 in più rispetto al 2011. In tutto, dunque, le tasse sui risparmi degli italiani oggi ammontano a 15,9 miliardi, rispetto ai 6,9 del 2011. Una mazzata, in un quadro in cui a causa della crisi la ricchezza complessiva dei contribuenti si è ridotta contemporaneamente di 814 miliardi.

L’aumento su interessi e capital gain – Basta dare un’occhiata nello specifico alla progressione dell’imposta su interessi e capital gain per comprendere la portata degli interventi fiscali degli ultimi tre governi. Soltanto sui conti correnti e depositi bancari e postali c’è stato un leggero miglioramento, passando dal 27% del 31 dicembre 2011 al 26% attuale. C’è da dire però che fine al 30 giugno 2014 l’imposta era stata abbassata al 20 per cento. Invariata l’aliquota sui titoli di stato sovranazionali e governativi (12,5%), è cresciuta in modo esponenziale quella sui titoli azionari, obbligazionari societari e bancari, dal 12,5% del 2011 al 20% del 2014 fino al 26% attuale. Aumentate anche le imposte su fondi comuni e polizze vita (dal 12,5% alla media ponderata comunque oscillante tra il 12,5 e il 20%) e sui fondi pensione e piani pensionistici individuali (dall’11% alla media tra 12,5 e 20%). Alla luce di tutto ciò, ritrovare Amato al Colle sarebbe non tanto una beffa, quanto la perfetta chiusura del cerchio.

Proibizione & superstizione

Proibizione & superstizione

Davide Giacalone – Libero

Lesti son lesti, quando si tratta di proibire. Garantendo all’Italia un ulteriore elemento d’arretratezza e violazione del diritto dei cittadini. Quando il ministro dell’ambiente, Gian Luca Galletti, tornò trionfante annunciando di avere indotto i colleghi europei a stabilire che, circa le coltivazioni Ogm, ciascun Paese avrebbe deciso per i fatti propri, scrivemmo subito che trattavasi dell’apoteosi dell’antieuropeismo, nonché la premessa, dalle nostre parti, per la proibizione oscurantista. È puntualmente, nonché malauguratamente, accaduto.

Si deve ragionare su basi razionali, senza accecarsi e farsi accecare da paure e stregonerie mediatiche. La prima domanda è: la coltivazione degli Organismi geneticamente modificati può arrecare danni collaterali o, addirittura, comportare pericoli per la collettività? La risposta è: no. Non è “forse”, è “no”. Non c’è nessuna evidenza scientifica di danni o pericoli. Questo non è un buon motivo per metterci tutti a coltivare Ogm, perché non basta una cosa non sia pericolosa perché sia anche conveniente e utile. Ma è un buon motivo per non proibirla. Oggi, e per la precisione dal luglio del 2013, un agricoltore italiano è meno libero di un agricoltore spagnolo. Ciò vuole dire che un cittadino italiano è meno libero di un cittadino spagnolo. Tanto è evidente la violazione dei diritti, collettivi e individuali, che non hanno il coraggio né la base giuridica per proibire definitivamente quel che altrove non è solo consentito, ma praticato, e allora ricorrono a un trucco: la proroga della proibizione temporanea. Un trucco che serve a evitare che un cittadino italiano si rivolga alla Corte di giustizia e ottenga la sicura condanna dello Stato.

Perché proibiscono? Perché, dopo avere in tutti i possibili modi tassato il settore dell’agricoltura, cedono alla pressione corporativa di organizzazioni che pensano, in questo modo, di tutelare le coltivazioni tradizionali. Tanto è vero che parlano di rispetto dei sapori e dei profumi della nostra tradizione. Il che è comico assai, visto che gli Ogm che taluni pensavano di coltivare erano mais, con cui far mangiare gli animali. Negli allevamenti italiani, del resto, il mais dei mangimi è per la quasi totalità importato e Ogm. E dato che si è quel che si mangia: loro mangiano Ogm e noi mangiamo loro, o beviamo il loro latte. A qualcuno sono spuntate le branchie?

Oltre al danno per il diritto e i diritti, oltre a quello che subiscono gli agricoltori che avrebbero voluto coltivare (e alcuni, in Friuli, già annunciano che lo faranno ugualmente), c’è anche il danno per la ricerca scientifica. Se c’è un problema, sicuramente legato agli Ogm, è che importando le sementi si dipende da chi le ha prodotte (Monsanto, il più delle volte). Poi c’è la fastidiosa cantilena delle lamentazioni per i nostri cervelli che fuggono all’estero. Ebbene, ma come si può pensare di non dipendere dalle multinazionali dell’Ogm, e come si può credere che i ricercatori restino in Italia, se qui è proibito fare quel che altrove sono premiati e pagati per realizzare? Dentro il valore di quelle multinazionali c’è anche il peso dei nostri cervelli che hanno portato le loro capacità e scoperte dove non fosse proibito utilizzarle. Quindi, anche in questo caso, il problema non sono i cervelli che vanno via, ma quelli che rimangono e non funzionano. Uno speciale ringraziamento, allora, ai ministri dell’ambiente, dell’agricoltura e della sanità, che ci hanno conquistato, per altri diciotto mesi, uno spazio d’illibertà, povertà e superstizione.

Potere dell’immaginazione

Potere dell’immaginazione

Davide Giacalone – Libero

Evitiamo di passare dal rigorismo immaginario all’altrettanto immaginario espansionismo. Gli accademici del sentito dire hanno già maledetto qualche milione di volte la dottrina eurorigorista. Peccato che la spesa pubblica continui a crescere (ottime le considerazioni di Alberto Mingardi). Hanno invocato un maggiore deficit, con l’impareggiabile festival della “flessibilità”. Peccato che assieme al deficit, mai mancatoci, cresce il debito, assieme al debito il suo costo, il che porta in alto le tasse. Hanno predicato che l’Unione europea sia la landa della lesina. Peccato che nel frattempo si siano sviluppati stimoli enormi e che l’operazione Ltro abbia ristretto la suicida divaricazione degli spread. Ora, però, si rischia il ribaltamento dell’immaginazione.

Leggo che secondo il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, dopo il varo del Quantitative easing, è bene che le famiglie spendano di più e le imprese maggiormente investano. No, non funziona così. Non basta la pioggia, che cade dal cielo, per passare al raccolto. Dopo anni d’impoverimento non basta dire: sentitevi ricchi e scialate.

Sul lato delle famiglie i dati ci dicono che la forbice s’è allargata. C’è una parte del ceto medio che ha contratto i consumi per potere aumentare il risparmio. Condotta suggerita non solo dalla paura, ma dalla razionale e contabilizzata constatazione che il governo continua a togliere ricchezza tassando il patrimonio più diffuso: la casa. E tassa senza neanche avvertire per tempo. Quindi meglio essere pronti. E c’è un’altra parte del ceto medio che è smottato nella precarietà, trasformando la paura in terrore della povertà. A tutti loro non basta dire: spendete. Perché c’è chi non può e chi non si fida. Si devono prendere i proventi del QE, che porta minore spesa per il debito, unirli a politiche di contenimento e riqualificazione della spesa e tradurli in sgravi fiscali sicuri e permanenti. Altrimenti son chiacchiere.

Sul lato imprese sarà bene ricordare che non veniamo mica da anni in cui sia scarseggiata la liquidità, nei mercati. Anzi, era ed è abbondante. Qui scarseggia il mercato interno (vedi sopra, circa i consumatori) e scarseggia il credito. L’altro programma espansionista, sempre di marca Bce, è il Tltro, finalizzato a fornire liquidi da trasferire alle imprese. Ma da noi rischiano di fermarsi in banca, per debolezza sia delle banche (dal punto di vista patrimoniale) che dei clienti (dal punto di vista dell’affidabilità). Scarseggia anche la certezza del diritto e, tanto per dirne una, dopo mesi di discussioni sulla legislazione del lavoro, ancora oggi un imprenditore non sa in quale regime fiscale e regolamentare assumere. Quindi aspetta. Abbondano, invece, la pressione fiscale e la perversione burocratica. Se non si mette mano a queste cose gli investimenti non ci saranno, o non nella quantità e diffusione tali da lasciare intendere che la ripresa è una realtà, non uno slogan.

Ergo, evitiamo di prenderci in giro da soli. L’operazione della Bce è ottima, per giunta senza limiti di tempo e quantità. Chi si ferma all’80% delle garanzie nazionali non coglie la portata rivoluzionaria del 20% federato. Un passaggio storico. Ma, oltre a essere tutto bancario, che già non è bello, è escluso che provochi quel che si vorrebbe far credere. La saggezza popolare diceva: aiutati che dio ti aiuta. E qui, comunque, non c’è alcun dio intento ad aiutare.

Salviamoci dal salva-aziende

Salviamoci dal salva-aziende

Davide Giacalone – Libero

Per smontare i carrozzoni ci vogliono, tempo, soldi e dolore. Per crearli basta un attimo e le idee confuse. Ha senso creare una società per azioni destinata al salvataggio delle imprese in difficoltà? La risposta potrebbe essere positiva. Ha senso che sia pubblica? No, perché non ci salveremmo dal salvaziende. La creazione della Spa è già contenuta in un decreto legge. Non basta, però, a capire di che si tratta. Qualche parola in più l’ha detta il viceministro allo sviluppo economico, Claudio De Vincenti. Sudo, dopo averle lette.

Di fondi e società che intervengono nelle crisi delle imprese e pieno il mondo. Operano in modo risoluto, avendo in mente il salvataggio del valore e la remunerazione dell’investimento. Come lavorano? Dipende: se la crisi è di mercato, sicché si pensa che le cose torneranno ad andar bene, si tratta di fare un ponte da qui ad allora, contenere al massimo i costi di gestione, e quando il sole risorge sapere che iprimi ad essere remunerati dovranno essere i pontieri; se la crisi e dell’azienda, allora ci si rimboccano le maniche e si taglia il tagliabile, a cominciare da dirigenti, costi fissi e personale, si chiudono le linee produttive morte e ci si concentra su quelle che si ritiene possano tornare a generare profitto, quando questo avviene, come sopra, i primi a intascare il guadagno sono i ristrutturatori. Non solo così va il mondo, ma va anche bene, perche l’alternativa ai tagliatori e ristrutturatori sono i giudici fallimentari. O la vendita a chi è più ricco e più bravo.Voi credete che questo mestiere possa farlo lo Stato? Neanche se lo vedo, ci credo. E se lo sento dire mi preoccupo, perché so già a chi toccherà pagare il fallimento di quelli che avrebbero dovuto evitare i fallimenti: ai contribuenti. Veniamo al decreto e alle parole di De Vincenti, soffermandoci su tre punti.

1. La Spa, dicono, non sarà dello Stato. Bene. Di chi sarà? Della Cassa depositi e prestiti e dell’Inail. È uno scherzo? Ma, dicono, ci saranno investitori privati. Bene. Quali? Non si sa, per ora dicono: «Operatori di mercato, investitori istituzionali e professionali». Si, è uno scherzo, sembra: faccio cose vedo gente. Saranno in maggioranza i privati o lo Stato, per il tramite di Cdp? Rispondono: lo vedremo. Certo che è uno scherzo. Sta in un decreto legge, ma è uno scherzo.

2. In quali casi potrà intervenire? Nel decreto non c’è scritto e non ci sono né argini né vincoli. Pessimo segnale. Dice De Vincenti: sulle aziende in difficoltà, ma non decotte. E chi distingue, il consiglio d’amministrazione, composto da quelli che ci mette la politica? E come resisteranno alle pressioni di piazze, politici, sindacati, che chiederanno interventi per ogni dove? Sempre De Vincenti: si potrebbe cominciare subito con l’Ilva. Peggio mi sento: l’acciaieria è andata in collasso per l’intervento dello Stato. Se questo è l’avvio vuol dire che assisteremo a una nuova alba dell’umanità: il comunismo giudiziario, con il giudice che blocca e lo Stato che porta via.

3. In che tempi agirà? Il limite di tempo, dice De Vincenti, abbiamo deciso di demandarlo allo statuto della società. Ditemi che è uno scherzo. Quindi: lo Stato, negando di essere Stato, ci mette subito un miliardo, salvo che si dovrà scrivere nello statuto cosa farne e in che tempi. «Possiamo immaginarlo – afferma – come una sorta di private equity rovesciato, guidato non da una logica di breve periodo ma di medio-lungo termine». Ecco, adesso è chiaro: non esistono privati disposti a investire in ristrutturazioni che abbiano l’orizzonte temporale del lungo periodo. Termine nel quale, secondo la facile battuta di Keynes, saremo tutti morti. In questo caso anche dal ridere. Anziché procedere a tentoni, per poi finire con il riprodurre la Gepi, suggerisco una strada diversa: nel caso di crisi aziendali conclamate si faccia un duplice sconto fiscale a chi ci metta soldi e competenze propri o che in proprio amministra: uno al momento dell’ingresso e l’altro al momento dell’uscita, prefissata in un massimo di due-tre anni. Così il privato che ci crede ha maggiore convenienza a salvarla, investendo.

Contratto sleale

Contratto sleale

Davide Giacalone – Libero

Giunge al Consiglio dei ministri la bozza di un decreto legge contenente il “contratto per dare certezze ai grandi investimenti produttivi”. Proposito lodevole. Ma quel che se ne legge è deplorevole. Talora sembra che si mettano problemi reali, slogan e idee confuse in un frullatore, sperando possa uscirne una bevanda energetica. Più probabile il bibitone energivoro.

L’idea, se capisco bene, è questa: occorre dare certezze agli operatori economici, non modificando continuamente i parametri amministrativi e fiscali che essi inseriscono nei propri business plan, mandando all’aria ogni razionale valutazione del rischio. Eccellente. Ma, scusate, non è la base su cui regge il patto sociale e fiscale di tutti i cittadini? Non è la lettera e lo spirito (mai incarnatosi) dello Statuto del contribuente? Perché se così fosse avremmo un’evoluzione perversa della politica degli annunci: s’annunciano sempre le stesse cose, fidandosi del fatto che poi non si fanno.

Volendo scartare questa ipotesi, che sarebbe vergognosa, provo a immaginare reali novità. C’è un indizio: il governo dice che speciali accordi verranno offerti a chi investe più di 500 milioni (in cinque anni). Che accordi? Fiscali, mormorano. Fiscali? Non avrei obiezioni se si varasse un’aggressiva politica di tax ruling, ovvero di accordi su misura che attirino l’insediamento fiscale di società estere. Ma questo è esattamente il motivo per cui il Lussemburgo è finito sotto procedura d’infrazione. Queste è la politica che è stata contestata (a sproposito) a Junker. E seppure, con uno sforzo di fantasia, si supponga che abbiano in anima una scelta di quel tipo, chi volete che si fidi, nel mondo? Il governo che ha abbassato da 3,9% a 3,5 (con il decreto contenente anche i celeberrimi 80 euro) l’aliquota Irap, salvo poi, alla fine dello stesso anno, il 2014, riportarla dove era con valenza retroattiva, può supporre che qualcuno creda in una promessa di quel genere? Fatta in un Paese in cui qualche decina di giudici possono comunque demolirla? Una promessa in capo ad un governo che cambia le regole fiscali sui giochi e le scommesse, mentre gli operatori del settore affermano che non pagheranno perché prive di legittimità e violanti le regole precedenti? Direi che si tratta di supposizione troppo folle per essere vera. E allora?

Allora potrebbe trattarsi di un trattamento fiscale di favore, ma non diverso da azienda ad azienda, non sottoposto a rapporto contrattuale specifico. Bene, è una bella cosa. Ma se è questa, scusate, che lo fate a fare il decreto legge? Piuttosto date attuazione alla delega fiscale, che avete ancora nel congelatore. E che esista un congelatore costituzionale è idea che non smette di sembrarmi agghiacciante. Ove mai la delega non coprisse l’intera riforma necessaria, ove fosse necessario un intervento ulteriore, il minimo della serietà vuole che prima si attua quel che il Parlamento ha già votato e poi si passa ad aggiungere il resto. Altrimenti ne viene fuori la solita legislazione rococò, che è l’esatto contrario di quel che c’è scritto nel titolo del decreto.

Perché una regola, fiscale, amministrativa o di qualsiasi altro tipo, sia stabile nel tempo occorre non solo che non sia messa nelle mani ballonzolanti di chi cambia idea ogni cinque minuti, ma anche che sia credibile. Alla partenza. La stabilità è un valore, ed è encomiabile che al governo se ne accorgano, dopo avere praticato la traballarietà. Ma la credibilità è un pre-requisito.

Quel che fa rabbia, osservando l’azione di questo governo, è che la gran parte di quel che annuncia è condivisibile, mentre la gran parte di quel che fa è reversibile. Una pirotecnia che abbaglia, ma lascia sul terreno solo bossoli cartonati e mezze cartucce inesplose. Il successo comunicativo è dato dal fatto che chi lo fa osservare viene schiacciato fra gli oppositori dell’orale, mentre chi tace diventa complice dello scritto. E’ un giochino vincente (fin qui), ma inconcludente.

Fili non elastici

Fili non elastici

Davide Giacalone – Libero

Moneta, politica e anche giustizia. Studiare con attenzione come s’annodano questi tre fili serve ad evitare di coltivare inutili illusioni. Come capita, credo, a proposito dell’esultanza italiana per la (s’immagina) conquistata elasticità nell’esame dei conti economici. Capisco le ragioni della propaganda, che ha anche effetti sul comportamento dei consumatori. Purché non diventi inganno. O, peggio ancora, autoinganno.

Cominciamo dall’elasticità. Più si canta vittoria più si rischia di prendere stecche. Nella sostanza si tratta di un accordo circa la correzione strutturale dei conti, destinata a ridurre il debito pubblico, limitata a 0,25 punti di prodotto interno lordo, contro lo 0,5 chiesto dalla Commissione europea. In termini assoluti: fra i 4 e i 5 miliardi di euro. Questa sarebbe la conquista. Ma si basa sul presupposto che il deficit del 2014 sia entro il 3%, mentre l’ultimo dato disponibile è quello relativo ai primi nove mesi, quando quotava 3,7. Mettiamo (e speriamo) che sia totalmente rientrato e i conti tornino, abbiamo qualche miliardo in più da spendere? Tuttalpiù abbiamo meno conti da correggere, perché la “conquista” vale solo per il 2015 e si basa sul fatto, certo non festeggiabile, che siamo i soli rimasti in recessione. Con il debito che cresce. Poi c’è l’altra faccia della flessibilità: non contabilizzare gli investimenti nel deficit. Ma, al momento, è fuffa legata al piano Junker, a sua volta dotato di scarso realismo.

Sospendiamo un attimo la riflessione e prendiamo il filo della giustizia: la Corte europea non ha emesso alcuna sentenza, ma l’avvocato generale ha sostenuto essere legittimo l’operato della Banca centrale europea. Perché se ne occupano e cosa significa? Se ne occupano perché la Corte costituzionale tedesca rimise a loro il quesito che le era stato sottoposto. Fortunatamente lo fece, perché se la Corte di un Paese avesse potuto decidere per tutti gli altri la storia dell’euro sarebbe già finita. Dice l’avvocato generale: l’Omt e il Qe (ovvero lo scudo anti spread e l’acquisto di titoli da parte della banca centrale) sono da considerarsi legittimi perché la Bce ha strumenti di analisi che noi non abbiamo e non c’è motivo di dubitare che abbia agito correttamente, ma sono legittimi in quanto rispettano e rispettino un principio cardine dei trattati: niente trasferimenti di ricchezza da uno Stato all’altro (e la proporzionalità). Bene. Mario Draghi è più forte, ma il limite oltre il quale non può spingersi si avvicina.

Qui arriva il terzo filo, la moneta. La classe dirigente italiana farebbe bene a imparare a memoria l’intervista rilasciata da Draghi a Die Zeit. Sembra concepita per difendersi dalle critiche tedesche, ma lancia messaggi inequivocabili. Il primo: la Bce agisce sul piano monetario perché non ha legittimità a fare altro, ma non basta (lo ha detto cento volte), non è fra i suoi compiti valutare l’effettività delle riforme strutturali necessarie, in alcuni paesi e segnatamente in Italia, ma altri dovranno farlo. Chiaro? Non basta la parola, insomma. Il secondo: l’Italia perde competitività da prima dell’euro, mentre i bassi tassi d’interesse hanno sostenuto l’economia e i consumi facendo crescere l’indebitamento. Così non si va da nessuna parte, ergo il rigore nell’amministrare il bilancio pubblico è necessario. Il terzo: non è nell’interesse dei contribuenti e risparmiatori tedeschi lasciare affondare chi s’è appesantito, ma è autolesionista e insostenibile che questi ultimi non si alleggeriscano.

Rimettiamo assieme i fili. Quello giudiziario è sciolto, sebbene in modo condizionato. Quello monetario è stato gestito egregiamente (dalla Bce) nel far scendere gli spread e bloccare la febbre speculativa, ma ora che si tratta di spingere l’economia si ricordi che: a. non abbiamo mezzi infiniti; b. non ne abbiamo di autosufficienti. Quello politico è ammatassato, con capi di governo che fanno finta di non capire. Noi italiani, ad esempio, siamo a un solo gradino dai titoli spazzatura, uno solo. È ingiusto, ma è così. Se lo scendiamo la Bce non potrà più accettare i nostri titoli in garanzia. Una tragedia. Per risalirlo, però, non servono 5 miliardi di spesa statale in più, ma molti punti di riconquistata produttività, il che significa meno tasse, meno burocrazia, più intrapresa. La festeggiata elasticità non ci serve a nulla. A vigilare questo processo dovrebbe essere la Commissione europea, che, però, ondeggia sia sotto le pressioni dei singoli governi, sia spaventata dagli umori delle opinioni pubbliche, che cercano sempre altrove il colpevole di quel che vivono. Quest’anno si vota non solo in Grecia (fra due settimane), ma anche in altri sette paesi, fra i quali Regno Unito, Portogallo e Spagna.

Se per aiutare i governi si molla la presa sui conti, poi arriva la mazzata dei mercati. Se si stringe troppo sui conti vanno al governo i parolai arruffapopolo. È questo il fronte più pericoloso, quello politico. Esserne consapevoli dovrebbe aiutare a non farsi abbindolare dai ridanciani o dagli sbuffanti, recuperando un po’ di consapevolezza e serietà.

Mancano ancora le politiche attive e i soldi per finanziarle

Mancano ancora le politiche attive e i soldi per finanziarle

Gianni Bocchieri – Libero

Con l’individuazione di criteri di delega tanto ampi, per il giudizio sulla portata riformatrice del Jobs act si è attesa l’emanazione dei primi decreti delegati. La definizione del contratto a tutele crescenti è avvenuta con un provvedimento che non consente di superare tutte le possibili obiezioni. Innanzitutto, non è stata superata la segmentazione del mercato del lavoro, determinandone un’altra: da una parte ci saranno i lavoratori per cui vale il precedente articolo 18 e dall’altra i nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti. Inoltre, non è ancora chiaro come la flessibilità in uscita sarà opportunamente bilanciata da un sistema di politiche attive.

Le maggiori perplessità permangono sulla riforma delle forme di sostegno al reddito che dovrà portare al superamento dei vecchi ammortizzatori sociali. Infatti, non è ancora chiaro su quali funzioni e su quali strutture poggeranno le politiche passive nel loro incrocio con quelle attive. I provvedimenti delegati fanno indistintamente riferimento ai Centri per l’impiego e alle agenzie pubbliche o private accreditate, in un contesto organizzativo dopo l’abolizione delle Province.

Ma non era nemmeno necessario aspettare i decreti delegati per confermare il sospetto che manchino le risorse per la riforma del mercato del lavoro. Lo stanziamento previsto dalla legge di stabilità, pari a 2,2 miliardi per il 2015, non è sufficiente a coprire il fabbisogno, né per le politiche passive né per quelle attive. Ora, alla certezza della insufficienza delle risorse attuali, si aggiunge anche l’incertezza per quelle future: per tutte le misure si afferma che la copertura per gli anni successivi al 2015 deve avvenire tramite le risorse stanziate per gli altri provvedimenti attuativi del Jobs act, al momento sconosciute anche allo stesso governo.

Quando tutto l’assetto del Jobs act sarà definito, inclusa la riforma del Titolo V, con l’istituzione dell’Agenzia nazionale, il giudizio potrà essere più compiuto. La speranza è che non sia troppo tardi soprattutto se la nuova organizzazione del mercato del lavoro dovesse farci rimpiangere le vituperate Regioni e le soppresse Province. Ma non ci pare che qualcuno sia riuscito a dare una riposta positiva e convincente alla domanda che sorge spontanea: perché mai lo Stato dovrebbe riuscire a fare ora ciò che non è riuscito a fare fino al 1997, quando si è deciso di delegare i servizi all’impiego a Province e Regioni?

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Libero

Germania-­Italia? Finisce 7 a 0. Non si tratta di uno sfortunato incontro di calcio, ma del confronto tra i due Paesi nei principali indicatori economici dall’introduzione dell’euro (2001) al 2013 (ultimi dati disponibili). L’analisi impietosa è stata realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” che condensa così lo sconfortante raffronto: in Italia la disoccupazione è passata dal 9 al 13% (a novembre 2014 al 13,5), il rapporto debito/Pil è cresciuto del 23,2%, senza dimenticare che l’Istat ha appena certificato come questo sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Insomma, se si trattasse di una sfida calcistica i tedeschi, negli ultimi 12 anni, ci batterebbero 7 a 0. Questo perché l’euro – secondo la ricerca – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando proprio il divario con l’Italia.