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Il fisco setaccia i conti

Il fisco setaccia i conti

Sandro Iacometti – Libero

Il grande fratello fiscale affila gli artigli. Il progetto, che viaggia sottotraccia da anni, era stato annunciato qualche mese fa. Obiettivo: fare in modo che il fisco abbia a portata di mouse la possibilità di controllare in qualsiasi momento anche il più piccolo dettaglio della vita finanziaria, lavorativa, sociale e anche biologica di ogni singolo contribuente. Tutto, ovviamente, nel nome della lotta all’evasione e della semplificazione, che dovrebbe passare per il progressivo trasferimento di una serie di adempimenti fiscali (vedi il 730 precompilato) dal cittadino all’amministrazione. L’operazione ruota intorno al progetto di «vista unica del contribuente» su cui lo scorso autunno il nuovo direttore dell’Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, ha iniziato a premere l’acceleratore. L’idea è quella di eliminare sovrapposizioni e duplicazioni e unificare tutti i flussi di informazione in un solo canale. I dati confluiranno poi in una Anagrafe nazionale della popolazione residente su cui il supercervellone della Sogei, Serpico (Servizi per i contribuenti), effettuerà controlli, incroci e verifiche.

La rivoluzione a cui sta lavorando la Orlandi si sviluppa su più fronti e prevede il coinvolgimento di tutti i soggetti in possesso di informazioni sensibili dei contribuenti, dai sostituti d’imposta ai commercialisti, fino agli enti previdenziali e alla sanità. Punta di diamante del progetto resta, comunque, il cosiddetto archivio dei rapporti, il contenitore dell’Anagrafe tributaria a cui tutti gli intermediari finanziari (banche, assicurazioni, sim e Poste), come previsto dal Salva Italia di Monti, devono periodicamente inviare le informazioni sui clienti. Incamerati negli scorsi anni i dati relativi al 2011 e 2012, il direttore dell’Agenzia delle Entrate ha deciso ora di cambiare passo. Nel provvedimento firmato ieri si stabiliscono infatti le nuove regole per l’invio dei dati. Tempi strettissimi per le informazioni relative al 2013, che dovranno avvenire entro il 28 febbraio, e al 2014, entro il 29 maggio. Poi, dal 2016, il sistema entrerà a regime, con l’invio periodico delle comunicazioni relative all’anno precedente entro il 15 febbraio. La banca dati sarà ricca di informazioni. Ci sarà non solo il nome dei contribuente ma anche il codice identificativo del rapporto, il saldo di inizio e fine anno, l’importo totale dei movimenti attivi e passivi dell’anno.

La novità principale, nell’ottica dell’unificazione di cui si diceva, riguarda le modalità di trasmissione dei dati. Al momento, infatti, le comunicazioni mensili, con le intestazioni dei rapporti attivi, e quelle annuali, con i saldi, viaggiano su un doppio binario: mensilmente tramite Entratel e Fisconline, annualmente tramite Sid (il nuovo Sistema di interscambio dati). Dal 2016 tutto viaggerà tramite Sid. Un’infrastruttura che rispetta standard di sicurezza più elevati e risponde anche alle perplessità sollevate a suo tempo dal Garante della privacy sul rischio di vulnerabilità dei dati sensibili dei contribuenti. L’utilizzo di un solo canale di trasmissione rientra in uno schema di unificazione dei flussi, ma complicherà molto la vita agli intermediari. La sua gestione richiede infatti una serie di accorgimenti tecnici e di automatismi che risulteranno gravosi per gli istituti più piccoli. Basti pensare che nel 2011 il 77% degli operatori finanziari (10mila su 13mila) aveva meno di 100 rapporti da segnalare. Mentre 260 operatori avevano complessivamente più di 550 milioni di rapporti su un totale di 600 milioni. Con il nuovo sistema le segnalazioni mensili conterranno anche il codice univoco del rapporto oltre alle informazioni del tipo e natura e dei soggetti collegati. Un modo per rendere più facile al cervellone il collegamento di polizze, conti, titoli, mutui e tessere telefoniche con ogni singolo contribuente.

Bad & Bank

Bad & Bank

Davide Giacalone – Libero

Alleggerire i bilanci delle banche dal peso dei crediti sofferenti e incagliati è utile. Trasferirli al contribuente non è solo inaccettabile, ma anche pericoloso. Siccome andiamo verso la creazione di un contenitore dove scaricarli, che lo si chiami Bad Bank o meno, e siccome in quello avrà un ruolo lo Stato, quindi i contribuenti, meglio fissare dei paletti e rendere comprensibile a tutti la faccenda, senza inutili tecnicismi.

Le banche sono imprese il cui mestiere consiste nel raccogliere il denaro e darlo in prestito. Se lo prestano a soggetti sbagliati, talché non ne ricevono indietro il giusto guadagno, o, addirittura, non rivedono più i quattrini, è segno che fanno male il loro mestiere. Quindi è bene che falliscano. Se questa è la regola generale si deve anche aggiungere, però, che dopo tre anni di recessione e quattro lustri di perdita di competitività, molti crediti si sono deteriorati non per colpa delle banche, ma perché i debitori non sono stati più nelle condizioni di pagare. Così come si deve aggiungere che, fin qui, l’Italia ha speso poco e niente per aiutare le proprie banche mentre tedeschi, francesi e inglesi (per citare solo i più grossi) hanno già abbondantemente messo mano al portafoglio pubblico.

Posto ciò, se lo strumento per raccogliere i crediti deteriorati (circa 300 miliardi, di cui più di 180 sulla soglia dei soldi persi) fosse un consorzio fra banche, quindi tutto privato, il compito pubblico sarebbe solo quello di verificarne la trasparenza e affidabilità. Per il resto: affari loro e del mercato. Ma non andrà cosi, perché non solo si parla di intervento pubblico, ma il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha detto di averne parlato con la Commissione europea e di avere chiarito che non si tratterebbe di aiuti di Stato (che sono proibiti). Se il dubbio c’è vuol dire che il problema sussiste. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha detto che l’intervento pubblico può configurarsi in due modi: a. prestando garanzia; b. defiscalizzando l’operazione. Nel primo caso ci si appoggia ai soldi pubblici, nel secondo si rinuncia al gettito. ln tutti e due si fa riferimento ai soldi dei contribuenti, senza contare che è in discussione anche l’ipotesi di finanziare direttamente il fondo. Si deve fare? A quali condizioni? E che altro è bene fare?

Togliere quei pesi dai bilanci bancari serve a rendere maggiormente possibile l’erogazione di credito verso il sistema produttivo. Sì, si deve fare. Facendolo, però, si alleggeriscono le banche anche dai loro errori. Il che è distorcente e corruttivo, quindi si mettano delle condizioni: a. l’intervento deve essere temporaneo; b. le cartolarizzazioni devono essere negoziabili e le perdite, alla fine, devono essere ripartite per quota fra chi le ha generate; c. nel corso di questa operazione, per tutta la sua durata, ciascuna banca che avrà crediti sgravati nel fondo (a partecipazione o garanzia pubblica, diverso se privato) non potrà pagare un solo centesimo di premi ai propri dirigenti. Il premio, semmai, dovrebbero darlo ai contribuenti. In altre parole: il ricorso alla garanzia pubblica deve essere possibile, ma disincentivato. Il tutto senza dimenticare che il nostro è un sistema esasperatamente bancocentrico. Siccome non siamo geneticamente diversi da paesi dove la realta è più equilibrata, la ragione va cercata in un fisco satanico, nemico dell’impresa, e in una burocrazia stregonesca. Mali per curare i quali non servono i soldi del contribuente, ma serve prendergliene di meno e ridurre o cancellare superfetazioni inutili e dannose.

Le pensioni (povere) che prenderemo

Le pensioni (povere) che prenderemo

Antonio Castro – Libero

Chi riesce ad arrivare a fine mese con una pensione di 500 euro alzi la mano. La riforma del lavoro e l’annunciata imminente riapertura del cantiere pensioni (Poletti dicet), spalancano le porte ad un baratro di futura indigenza, come se la fase di crisi attuale già non bastasse. C’è solo da sperare che la stagnazione economica non si prolunghi ancora. E che l’economia italiana torni a crescere. Perché le nostre future pensioni sono aggrovigliate (per crescere) proprio all’andamento del Pil. Insomma, non basterà soltanto restare più a lungo al lavoro italiani con la riforma Fornero sfonderanno quota 68 anni), ma bisogna anche augurarsi che la ricchezza annuale prodotta dal Paese sia consistente e di riuscire a compiere una discreta carriera e un’altrettanta dignitosa crescita del reddito (e quindi dei contributi pensionistici connessi).

Il vero problema, forse, è che gli italiani oggi attivi sanno bene che non godranno di una pensione generosa come i padri. Ma non hanno la minima idea di quanto prenderanno, neppure a spanne. “Merito” certo della riforma Dini (1995), come pure dei “tagliandi” peggiorativi introdotti successivamente. Resta il fatto che gli italiani nella maggior parte dei casi ignorano quanto prenderanno quando andranno in pensione. Il “quando ” è agganciato alle aspettative medie di vita. Un complicato algoritmo matematico (aggiornato dall’Istat), stima quanto camperanno in più uomini e donne, domani, tra 10 anni, tra 20 o 30 anni. Ma, a legge invariata, un 30/40enne può serenamente ipotizzare di non potere staccare prima dei 67/68 anni.

Il problema, piuttosto, è intrecciare la scarsa crescita (e quindi la bassa rivalutazione dei contributi accumulati) con le carriere “canguro” (tanti contratti diversi, redditi e contributi modesti e, spesso, una scarsa continuità contributiva). Considerando anche che, con l’introduzione delle novità portate in dote dal Jobs Act (e prima ancora dei contratti flessibili), l’attuale carriera contributiva è fatta spesso di pochi contributi, lunghi periodi di inattività proprio nei primi 20 anni di accumulo. Un ventennio di accumulo fondamentale soprattutto con il sistema contributivo (che ha scalzato il retributivo), periodo che dovrebbe costituire le fondamenta del Castelletto previdenziale. Il rischio è che la bassa crescita porti fra qualche decennio – come ha stimato la società di pianificazione finanziaria Progetica per il supplemento CorriereEconomia di ieri – insieme alla mancanza di continuità nei versamenti a pensioni irrisorie, comunque non in grado di garantire una vecchiaia dignitosa.

La colpa non è solo dei sistemi di calcolo delle nostre pensioni (retributivo vs contributivo), e neppure della crisi, ma anche della scarsa chiarezza degli enti preposti e, in primo luogo, del governo. Da anni si parla della famosa «busta arancione», una sorta di proiezione pensionistica aggiornata che dovrebbe arrivare a cadenze fisse a tutti i lavoratori per renderli consapevoli di quanto accumulato, dei rendimenti maturati, e quindi della futura pensione che verrà percepita. La si promette da anni con ogni governo e qualsiasi maggioranza. Però, politicamente (ed elettoralmente), non è premiante far sapere a chi ha la fortuna di avere un lavoro oggi quanto (poco) prenderà di pensione domani.

Secondo la simulazione realizzata un 30enne con un reddito netto mensile di mille euro potrà contare su una pensione tra i 514 euro (se l’economia dovesse continuare a ristagnare) e di 600 euro al mese (sempre che il Pil torni a correre). Ancora peggio per il lavoratore autonomo (30enne con 1.000 euro al mese di reddito). Potrà contare su un assegno di appena 432 euro al mese. Non andranno meglio le cose neppure per i redditi più alti (2/3mila euro), addirittura più penalizzati. Tanto più che la famosa integrazione al minimo (per il 2014 è stato fissata a 501,38 euro) per chi andrà a riposo con il sistema contributivo non esisterà più. Con il retributivo lo Stato integrava la pensione di chi non aveva versato contributi a sufficienza. E per cui il reddito da pensione risultava inferiore ad un livello fissato dalla legge, considerato il «minimo vitale». Con il contributivo l’integrazione sparirà. Con il paradosso che chi oggi versa contributi per 30/35 anni, avrà un assegno inferiore al pensionato attuale «integrato al minimo».

Da Natale a Carnevale

Da Natale a Carnevale

Davide Giacalone – Libero

Il falso in bilancio va perseguito, ma anche il bilancio falso di comunicazioni governative contraddittorie. A Natale ci hanno detto che si depenalizzano le fatture false sotto i mille euro e che la soglia di punibilità penale per l’evasione fiscale passa da 50 a 150mila euro. Poi hanno messo tutto in un inesistente congelatore, continuando il presidente del Consiglio (giustamente) a difendere il senso di quelle norme. A Carnevale ci dicono di avere trovato un accordo in virtù del quale il falso in bilancio è sempre perseguibile d’ufficio, naturalmente in sede penale. Il fatto è che la depenalizzata fattura falsa diventa reato sia che la iscriva sia che non la iscriva a bilancio, perché lo falsa in entrambe i casi. E se i soldi che la società doveva al fisco sono stati sottratti mediante maggiori iscrizioni di spese o minori di entrate (perché se i conti sono in regola, allora non è evasione, ma un errore o la mancanza di soldi per pagare, cosa che già oggi i tribunali non puniscono come infedeltà fiscale), non serve a nulla depenalizzare sotto certe soglie se poi la procura rientra in casa contestando il falso in bilancio.

Non sono questioni formali, ma due politiche opposte. Preferisco la natalizia, ma temo la carnevalata. Posto che il reato di falso in bilancio, al contrario di quanto molti ripetono, non è mai stato depenalizzato ed è rimasto un “delitto”, nel 2001 si modificarono le regole di procedibilità. La cosa non mi convinse allora, perché così come non si può essere vergini a percentuale un bilancio non può essere vero a porzioni. Ma, comunque, fino al 2001 si procedeva d’ufficio, mentre da lì in poi si è continuato a farlo per le società quotate, mentre per le altre a querela di parte. Ovvero se qualcuno si riteneva danneggiato. Oggi altro non si farebbe che tornare al regime di prima, che non ricordo come l’era dei bilanci cristallini. L’innovazione, quindi, è un ritorno al passato. Con la particolarità che non funzionava neanche in passato.

In ogni caso: sia per l’evasione fiscale che per il falso in bilancio, non c’è ragione alcuna di difendere gli imbroglioni. Che paghino. Ma chi sono, gli imbroglioni? Non sono gli accusati di evasione o falso, bensì i condannati per tali reati. Solo che il fisco frusta con gli accertamenti e punisce poco con il recupero della supposta evasione, mentre i tribunali martorizzano con il procedimento e non condannano con le sentenze. Ci stiamo prendendo in giro, perché in un Paese in cui la giustizia non funziona la giustizia non c’è, quindi invocare procedure d’ufficio e pene più alte è giustizialismo ipocrita e satanico.

Dicono: premiamo i pentiti, nel reato di corruzione. Bello, sono favorevole. Ma il migliore trattamento per chi collabora con la giustizia è già nel nostro ordinamento, da prima che molti straparlanti nascessero, mentre per sapere se un collaborante sta dicendo il vero o rintontonendo la procura occorre una sentenza definitiva. E ci rivediamo fra dieci anni. Dicono: per evitare la prescrizione allunghiamola e facciamola decorrere dal processo. La prescrizione è un pilastro di civiltà ed è ciò che distingue una dittatura dallo Stato di diritto. Ma capisco il punto di vista: per molti quindici anni di processo sono quindici anni di stipendi; per il cittadino sono quindici anni di avvocati da pagare. Se governo e legislatori danno ragione ai primi al cittadino non resta che scappare.

Renzi aveva detto che non si sarebbe fatto influenzare dalla pressioni togate. Plaudo. È andato allo scontro, con piglio guerriero, sulle ferie dei magistrati (con un testo scritto male), ma poi consegna ai magistrati le chiavi delle aziende e il potere di decidere se il falso rilevato crea, o meno, un “danno rilevante”. Così, senza null’altro aggiungere. A piacimento dell’eccellentissima corte. Come essere severi con i pargoli perché passano troppo tempo alla play station, per poi dare loro i soldi acciocché possano comprarsi lo spinello. Strani genitori. Strani governanti.

Istruttivo e distruttivo

Istruttivo e distruttivo

Davide Giacalone – Libero

Istruttivo e distruttivo, lo scontro sui contributi che le emittenti televisive devono pagare per l’uso delle frequenze digitali. È istruttivo che tutti si concentrino su quanto dovranno scucire la Rai e Mediaset (e chi se ne importa), o su quanto questo incremento sia frutto di una ritorsione politica (che neanche nella Chicago del vecchio Al). È distruttivo, invece, che nessuno faccia caso a cosa comporta una simile decisione governativa: la fine delle autorità indipendenti, la demolizione dell’Agcom (autorità per le comunicazioni). Che forse se lo merita pure, ma sarà il caso di concentrarsi sull’elefante entrato in cristalleria, non sulla scimmia sghignazzante che ha sul groppone e finge di guidarlo.

Partiamo dal conoscere, prima di giudicare e deliberare. L’autorità indipendente fu introdotta all’inizio degli anni novanta (con la legge Mammì, che, come tutti ripetono, contribuii a scrivere, ma dato che quanti dicono sono refrattari a studio e lettura, non sanno che i difetti li misi nero su bianco durante la discussione e subito dopo, perché le leggi si scrivono in Parlamento, dove si producono robe da ridere e da piangere). Fu una moda, quella delle autorità, che, anche grazie a Uolter Veltroni, furono da subito chiamate all’americana: Authority (che poi non è manco americano, perché colà al plurale fa: Authorities). A me sembrava che non potessero funzionare, in un sistema di diritto in cui esistono sedi di ricorso amministrativo. Così è stato. Ma ora siamo al salto (in basso) di qualità: è il governo a intervenire sulle decisioni dell’autorità indipendente, che così cessa di essere sia indipendente che autorità.

Nell’aprile del 2012, governante Mario Monti, con una maggioranza di governo che comprendeva le componenti politiche dell’attuale, un decreto legge stabilì che sarebbe stata l’Agcom a fissare criteri e quantificazione dei contributi annuali da versare per l’uso delle frequenze digitali. Nell’ottobre del 2014 (con calma), l’Agcom provvede. Nel decreto legge milleproroghe, il cui nome è un milleprogrammi, il governo Renzi incorpora quella decisione. Non pago di avere decretato d’urgenza, quindi dando vita a un atto che è già vigente e operativo, urgentemente, ma posticipatamente, decide di cambiarlo, presentando un emendamento che attribuisce al governo quella funzione. Tutti si mettono a strillare per le due ragioni sopra ricordate, ma nessuno vede lo scempio del diritto. Altro che semplificazioni e trasparenza dei testi, qui siamo all’azzeccagarbuglismo che genera un kamasutra legislativo, inducente contorsionismo regolamentare.

C’è una sola cosa da farsi, per metterci una pezza: chiudere l’Agcom. Perché se non la chiudono resta evidente che è commissariata, il che, per una supposta indipendenza, è troppo. Avvertendovi di ciò, vi metto sull’avviso di quel che si sta preparando e già praticando. Ricordate il vecchio mercato delle frequenze? Un suk inverecondo, che la legge Mammì stoppava, introducendo, dopo anni, la pianificazione e le concessioni. Peccato che provvidero a disapplicarla, dando poi le concessioni senza le frequenze, sicché il suk raggiunse ritmi e quotazioni stellari. È finito per estinzione, giacché si è passati al digitale. Bene. Peccato che ora si sia aperto il suk Lcn: vale a dire, per capirsi, della posizione di ciascuna emittente sul telecomando. Teoricamente non dovrebbe esistere, perché ad ogni autorizzazione corrisponde una collocazione. Ma praticamente è già attivo e fiorente, con soggetti che si fanno pagare milioni null’altro che il riflesso del valore di un atto amministrativo e governativo. In un Paese mezzo serio tutto questo verrebbe stroncato sul nascere, salvo il fatto che nessuno se ne occupa. Né il governo né la (non) autorità (non) indipendente. Quando qualcuno, fra qualche tempo o anno, ve lo racconterà come uno scandalo, sapete dove indirizzarlo.

Dati non dati

Dati non dati

Davide Giacalone – Libero

Cresciamo meno della metà dell’eurozona, non riuscendo a riassorbire la disoccupazione. Ciò dovrebbe imporre, a tutti, il tema di cosa fare per rimediare. Invece si cerca su chi scaricare la colpa, agevolati dal fatto che al governo hanno appena provato a prendersi il merito di dati e previsioni di pura fantasia. Nelle scorse settimane abbiamo letto di previsioni di crescita del prodotto interno lordo, per l’anno in corso, del 2,1%. Alcuni, più prudenti, supponevano un +1,6. Domandavamo: da dove arriva questa manna? Rispondevano: dal calo del petrolio e dalle politiche espansive della Banca centrale europea. Più le meravigliose riforme già fatte e che solo chi si picca di leggere i documenti non riesce a vedere.

Ora arriva la previsione della Commissione europea: 1’Italia dovrebbe crescere dello 0,6%. Dopo tre anni di recessione. L’intera zona dell’euro, noi compresi, è data in crescita dell’1,3%. Considerato che in quella media ci siamo noi, ed è già più del doppio della nostra, risulta evidente che gli altri crescono allargando il distacco. Le cose non andranno meglio nel 2016, perché è vero che noi dovremmo crescere dell’1,3, ma l’area e previsto che faccia +1,9. Lo svantaggio relativo diminuisce solo dello 0,1, mentre quello assoluto cresce. Tale crescita, inoltre, non è il frutto delle riforme che facciamo all’interno, ma del trascinamento che subiamo dall’esterno, tanto è vero che un’eventuale flessione della domanda globale è segnalata come possibile causa di problemi nei nostri conti. Sono le esportazioni a funzionare, prevedendosi un saldo attivo del 2,6 fra importazioni ed esportazioni. Ciò vuol dire che a tirare la carretta ci sono le aziende che esportano, agevolate da null’altro che dal deprezzamento dell’euro. Cioè da quel che non dipende da scelte politiche compiute all’interno dei nostri confini. Occhio a quel che segue.

Nelle stime fatte a novembre si prevedeva una crescita del nostro pil dello 0,6. Esattamente quella che si prevede ancora oggi. Ma si pensava che quella crescita avrebbe portato al 12,6% la disoccupazione, nel corso del 2015. Posto che il 2014 si era chiuso con la disoccupazione al 12,9. Ora, invece, si corregge la previsione, peggiorandola: dovremmo chiudere l’anno con il 12,8% dei disoccupati. Ovvero quelli che abbiamo oggi. Ma non ci era stato raccontato che solo a gennaio si erano creati 100mila posti di lavoro? Peccato fossero 94mila e compensassero a malapena gli occupati persi da ottobre. Nel 2016 dovremmo trovarci con il 12,6% di disoccupati, quindi con un calo dello 0,2. Nessuno, intellettualmente onesto, può sostenere che sia colpa di questo governo, visto che scontiamo una lunga e devastante perdita di competitività e crescita dei costi interni. Però nessuno, intellettualmente onesto, può continuare a vendere la balla che le riforme denominate all’inglese sono in grado di mettere al lavoro i disoccupati in vernacolo. L’Italia arranca e scivola anche perché al gran clamore delle polemiche seguono risultati striminziti e contraddittori.

E veniamo ai conti pubblici, dove si trova la polpetta avvelenata, fin qui nascosta agli italiani. Qui la Commissione si fa prudente, perché i conti italiani devono ancora essere rivisti. Fin qui siamo alla fede rispetto a quel che dice il nostro governo. E sentite che dice: nel 2014 il deficit è stato al 3% (che il cielo ci assista e che non si trovi nulla a farlo crescere); nel 2015 sarà del 2,6; nel 2016 del 2. Come si ottiene questo risultato? Mediante l’aumento del gettito fiscale. Avete letto bene. E io lo leggo nelle carte europee: perché aumenta la pressione fiscale. Laddove ci era stato detto che sarebbe diminuita nell’anno in corso. La verità è che rispetto ai conti a sua volta fatti dal governo italiano c’è una imponente novità, ovvero la Bce che fa scendere significatívamente il costo del debito pubblico. Bravissimi, ma com’è, allora, che tale meravigliosa cosa non produce da sola, senza tasse, la discesa del deficit? Risposta: perché non sono capaci d’imbrigliare la spesa pubblica. Vedi al capitolo Collarelli e secretazione dei suoi lavori. Saldo finale: debito pubblico che cresce al 133% del pil quest’anno e si spera scenda (si fa per dire) al 131,9 il prossimo.

Torno da dove sono partito: dobbiamo chiederci cosa fare per disincagliare l’Italia, posto che il motore produttivo funziona, come dimostrano le esportazioni. Rispondiamo: abbattimento del debito, mediante dismissioni; tagli della spesa corrente; tagli alla pressione fiscale; smantellamento della pressione burocratica. I dettagli illustrati molte volte. Ma, prima di tutto, piantiamola di prenderci per i fondelli fa soli. Operazione impossibile per la fisica, ma praticata dai parolai.

Ci rifilano 131 miliardi di buffi delle banche

Ci rifilano 131 miliardi di buffi delle banche

Francesco De Dominicis – Libero

Pulizia dei conti delle banche a spese del contribuente. Con la scusa di dare una spinta alla ripresa economica, rimettendo in moto il motore dei prestiti alle imprese, il governo di Matteo Renzi sta per scaricare sulla testa (e sulle tasche) degli italiani una gigantesca montagna di spazzatura. Cioè gli oltre 131 miliardi di euro di «sofferenze» delle banche, vale a dire i finanziamenti non rimborsati dalle aziende. Un giochetto battezzato «bad bank» che potrebbe costringere lo Stato, con la inevitabile sottoscrizione di garanzie, a un esborso che oscilla da 10 a 30 miliardi. Quattrini pubblici utilizzati per salvare i bilanci degli istituti di credito.

L’idea è allo studio del governo da un paio di mesi e ora siamo alle battute finali. Il progetto non ha ancora preso la forma finale, ma la sostanza è questa: nasce un nuovo soggetto a cui partecipa lo Stato nel quale confluiscono, appunto, le sofferenze. Per gli istituti il vantaggio è enorme: dalla sera alla mattina incasseranno denaro fresco e soprattutto sicuro, a fronte di crediti «dubbi», difficilmente monetizzabili. Un alleggerimento dei conti che ­ ecco la spinta alla ripresa ­ si potrebbe tradurre in una maggiore capacità di erogare nuovi prestiti, magari sfruttando quella liquidità in arrivo, da marzo, con il bazooka della Banca centrale europea.

Qui entrano in gioco noiosissimi dettagli tecnici e regole patrimoniali (italiane ed europee) che ingessano i prestiti. Fatto sta che il cosiddetto quantitative easing dell’Eurotower dovrebbe portare in Italia, fino a settembre 2016, circa 120 miliardi (su 1.140 totali di Qe) che, grazie alla mossa di palazzo Chigi, potrebbero rapidamente essere «dirottati» sull’economia reale. Fin qui tutto ok. Gli esperti delle super società di consulenza definirebbero l’operazione «win­win»: vincente per tutti. Senza dubbio la questione delle sofferenze va affrontata a livello «sistemico» perché per l’industria bancaria la zavorra dei finanziamenti non ripagati è ormai insostenibile e i nuovi prestiti, nonostante un lieve miglioramento a fine 2014, sono una chimèra. Eppure non mancano i rischi; e le zone d’ombra, legate proprio al ruolo di un soggetto pubblico, non sono poche. I rischi derivano dalle concrete probabilità che lo Stato riesca a recuperare dalle imprese quei soldi che per le banche sono di fatto una perdita secca o quasi. L’attività di recupero crediti, del resto, con l’onda lunga della crisi, equivale grosso modo al gioco d’azzardo: ti siedi al tavolo verde e la possibilità che ti alzi senza quattrini in mano è altissima. E se lo Stato perde, bisogna metterci una pezza con una manovra: nuove tasse o tagli alla spesa. Al momento esistono tre o quattro ipotesi diverse, come confermato ieri da fonti del Tesoro. In linea di massima, sembra scontata la partecipazione della Banca d’Italia oltre che della Cassa depositi e prestiti, anche se a via Nazionale le perplessità non sono poche e i tecnici stanno analizzando l’esperienza tedesca di Commerzbank.

A via Venti Settembre si ragiona attorno a una realtà oggi controllata da banca Intesa, Sga, società di gestione dell’attivo nata nel 1997 per salvare il banco di Napoli, che il Tesoro acquisterebbe per 600 mila euro. Attraverso uno o più aumenti di capitale ­ che verrebbero sottoscritti dalle banche, dallo Stato, dalla Cdp, da Bankitalia e da eventuali investitori privati ­ la nuova Sga arriverebbe a un capitale da 3 miliardi. Potrebbe così finanziare l’acquisto delle sofferenze verso le imprese superiori a una soglia minima di valore nominale di 500 mila euro, anche emettendo titoli obbligazionari assistiti da garanzia statale, da collocare sul mercato. Per quanto riguarda l’assetto proprietario, due sono gli scenari ipotizzati: nel primo la partecipazione pubblica si fermerebbe al 49%, mentre le banche deterrebbero il 19% e il 32% andrebbe agli investitori privati; uno schema che escluderebbe la ricaduta delle passività del veicolo nel perimetro del debito pubblico. L’altra opzione invece vedrebbe la partecipazione pubblica all’81% mentre il restante 19% andrebbe alle banche, senza la partecipazione di investitori privati. Il soggetto però ricadrebbe nel perimetro del debito pubblico.

Le zone d’ombra riguardano i divieti dell’Unione europea: l’intera operazione potrebbe essere bollata come «aiuto di Stato» e il tetto al 49% per la partecipazione pubblica potrebbe non bastare, secondo alcuni esperti. Divieti Ue a parte (magari aggirabili), Renzi sarà comunque costretto a sgonfiare le inevitabili polemiche su un palese aiutino pubblico alle banche. Ragion per cui l’ex sindaco di Firenze vuole evitare il passaggio parlamentare, costruendo l’intera operazione con decreti ministeriali e atti societari: niente leggi da mandare al vaglio di Camera e Senato. Obiettivo non facile da raggiungere visto che, alla fine della giostra, l’esborso di denaro pubblico a titolo di garanzia sulle sofferenze «acquistate» dallo Stato, ci sarà. Il che implica una manovra sul bilancio pubblico perciò un provvedimento legislativo è indispensabile.

La cifra finale sarà definita sulla base della quota di rischio legata all’operazione: ballano tra i 10 e i 30 miliardi di euro. C’è poi chi punterà il dito contro il premier, snocciolando i dati di Bankitalia secondo cui, come calcolato nei mesi scorsi da alcune associazioni di categoria, la maggior parte delle sofferenze è legata ai grandi prestiti non rimborsati. Nel dettaglio, il 67% dei «crediti dubbi» si riferisce a finanziamenti superiori a 500mila euro e a 505 soggetti sono attribuibili 25 miliardi di perdite. Come dire: paghiamo gli errori dei banchieri e i soldi prestati agli amici. La comunicazione, pertanto, sarà decisiva. In ogni caso, il governo è intenzionato a procedere rapidamente. E nelle prossime settimane la creatura bancaria statale potrebbe vedere la luce. Ma i dubbi restano e i pericoli pure. Renzi non vuole far più «soffrire» le banche, ma corre il rischio di far piangere i contribuenti.

Fede fiscale

Fede fiscale

Davide Giacalone – Libero

Attenzione alla mala fede della (presunta) buona fede. Il fisco è già materia dolorosa e ingarbugliata, sicché non si sente alcun bisogno d’imbrogliarla ulteriormente. Per giunta con la pretesa di semplificarla. Sono stato fra i pochissimi che hanno difeso il senso del decreto legislativo approvato dal governo a Natale. Pur inorridendo per il successivo congelamento e trovando raccapricciante che alcune norme siano state inserite dopo il consiglio dei ministri, rendendo falso il verbale. Difendo la soglia del 3%, al di sotto della quale non scatterebbe il procedimento penale. Ma lo faccio senza ipocrisie e senza birignao inconcludenti: ha un senso se serve ad evitare il proliferare di processi in gran parte inconcludenti, spingendo il contribuente a pagare subito il dovuto. Ora, però, il presidente del Consiglio dice che varrà solo per chi evade in buona fede. Non ha alcun senso: chi è in buona fede, ovvero commette un errore, già oggi non viene punito penalmente. Il fatto è che se distinguo fra buona e mala fede occorre che ci sia qualctrno preposto a giudicare se quel singolo contribuente, per quel singolo importo non versato, si trova nella prima o nella seconda condizione. Quindi ci vuole il giudice. Quindi non c’è nessuna innovazione, perché è già così. L’innovazione sarebbe: sotto una certa soglia non me ne importa nulla se tu sei in huona o cattiva fede, paga (ammesso che tu debba pagare, perché se non è così farai ricorso avverso l’ingiunzione).

Questo è un favore a Silvio Berlusconi? Questa è una convenienza collettiva, perché diminuisce il contenzioso penale, noto per la sua lentezza, e potenzialmente aumenta il gettito fiscale. Se è un favore a qualcuno in particolare, semmai, è a quanti si ritrovano quel tipo di procedimenti penali da affrontare (e ci sono bei nomi), non a chi avrà già scontato la pena. (A proposito, e fra parentesi, quando Matteo Renzi dice, a Rtl 102.5, che solo poche decine sono gli italiani condannati a pena per questioni fiscali, si rende conto di solidarizzare con quanti sostengono essere anomala quella condanna, per giunta dopo l’assoluzione di chi stilò e firmò i bilanci incriminati?). E, comunque, se anche fosse: ma vi pare il modo di legiferare? Pro o contro che siano, le leggi per un solo caso sono riprovevoli. Aggiungono, dal governo: non si può depenalizzare la frode. Ma lo sanno che nel medesimo decreto sono depenalizzate (entro limiti) le fatture false?

Rischiano di riprodurre l’errore del Jobs Act: per i licenziamenti, si torna sempre dal giudice per sapere se sono legittimi o meno. Come oggi, tale quale. Mentre principi come il no al reintegro e il risarcimento crescente o il no al procedimento penale obbligatorio se hai pagato il 97% del dovuto, cambiano la realtà. Senza regalare nulla a chi viola le regole. Mentre supporre che sia severo chi vuole il penale e accondiscendente chi pretende la pecunia, significa non sapere nulla, ma proprio nulla, della giustizia italiana. Le imprese estere che vogliono investire in Italia sono spaventate dalla malagiustizia, mica dall’idea che non si possa evadere (in quel caso vanno a investire nei paradisi, non negli inferni fiscali).

Renzi ammise l’errore sulle partite Iva (con la triplicazione dell’aliquota sui minimi), che ha colpito proprio i giovani spinti fuori dal lavoro dipendente e stangati perché autonomi. Dice che il 20 sarà corretto. È lecito sapere come? Perché è perverso farti sapere cosa devi fare la sera prima di quando lo devi fare. Se non il giorno dopo. In questo senso l’abuso di diritto e la dichiarazione precompilata stanno trasformando i commercialisti da professionisti pagati dai clienti per far da esattori dello Stato in esattori e accertatori al servizio del fisco. Il tutto cambiando le norme mentre sono chiamati ad applicarle. Una condotta inaccettabile, certo non accompagnata da alcuna buona fede. Semmai da incapacità e dipendenza dalla cultura della burocrazia fiscale.

Trappola greca

Trappola greca

Davide Giacalone – Libero

Alexis Tsipras arriva a Roma da capo del governo. In campagna elettorale accompagnava slogan estremisti con dichiarazioni ragionevoli, assicurando che non aveva alcuna intenzione di portare la Grecia fuori dall’euro. Il guaio è che ci finisce comunque, se non cambia musica. E che, finendoci, ci fa marameo e cancella il debito che ha nei nostri confronti. I contribuenti italiani hanno pagato per salvare la Grecia. Oggi è l’occasione per dirgli: scordatelo. Ed è l’occasione per dire agli alleati occidentali: sappiamo che questo bastione Nato non può essere perso, né abbandonato a capitali potenzialmente ostili, ma noi italiani non possiamo pagare più dei tedeschi e contare meno dei greci.

Cancellare il debito è improponibile. Rimodularlo è razionale. Significa che i tempi si allungano, ma i creditori sono garantiti in sede europea e, sebbene abbiano fatto un cattivo affare, almeno non si vedono costretti a cancellare o decurtare il credito, con gravi conseguenze per la finanza pubblica. La cancellazione, inoltre, innescherebbe il desiderio emulativo, sicché le elezioni sarebbero vinte, in giro per l’Europa e a cominciare dalla Spagna, dai partiti che propongono di fare altrettanto. Basti pensare che c’è chi lo dice anche da noi, ignorando che il 65% del debito lo abbiamo con noi stessi. Rinegoziare, ancora una volta, è possibile. Ma i greci non possono far troppo i furbi. Il loro nuovo governo ha provveduto alle riassunzioni di dipendenti statali, ha mollato il già fiacco contrasto all’evasione fiscale e si propone l’aumento dei salari. Spesa pubblica corrente a go-go. In questo modo fuori dall’euro ci vanno da soli. Una volta usciti scoprirebbero che le loro banche sono tutte fallite e per rianimarle si troverebbero a spendere assai più di quel che costa onorare i debiti già contratti.

Un avvenire di certa e crescente miseria, evitabile solo consegnando la sovranità a capitali che incorporano pretese politiche forti. I greci lo sanno talmente bene che dopo avere votato Tsipras hanno fatto ridefluire i loro soldi verso l’estero. Restare nell’eurozona serve a mantenersi agganciati al mondo ricco e civile, ma comporta la rinuncia all’idea di cancellare i debiti. Non così e non unilateralmente, comunque. Però, e ne ho già scritto, c’è il fatto che la Grecia presidia una posizione geopoliticamente rilevante, considerata l’aria che tira in Medio Oriente. Vero, ma questo, giusto per dirne una, comporta che chi la governa non abbia atteggiamenti ostili verso Israele, altrimenti possiamo considerarli già persi. Le parole di Obama, che segnalano all’Unione europea l’inopportunità di una rottura greca, devono essere lette in questa chiave, oltre che nel quadro del negoziato sul libero commercio.

Il fatto è che se si deve tendere la mano ai greci, per ragioni politiche, e credo sia bene farlo, allora deve essere chiaro che anche noi abbiamo qualche problema da risolvere. Qui facciamo finta di non accorgercene, ma l’intero programma quantitative easing, della Banca centrale europea, si basa sul principio dell’acquisto di titoli del debito considerati affidabili. L’ultimo gradino dell’affidabilità è quello in cui l’Italia si trova. Basta scendere di un capello e piombiamo all’inferno. Siccome la cosmesi dei conti può essere venduta alla Commissione europea, se il compratore accetta di crederci, ma non alle agenzie di rating, ecco che su quel fronte non dobbiamo restare né isolati né scoperti. Questa faccenda non si negozia con Tsipras, ma la sua visita è l’occasione per rendere noto che non ci possono essere valutazioni asimmetriche. Tenercelo nell’euro ci conviene, sotto molti aspetti. Ma guai a farsi spingere con lui verso la spazzatura.

La ripresa rischia di spaccare l’Italia

La ripresa rischia di spaccare l’Italia

Carlo Pelanda – Libero

Nel secondo trimestre 2015 è prevista l’inversione della crescita del Pil da negativa a positiva. La ripresa avrà effetti omogenei o differenziati per settori economici e territori? Saranno differenziati perché la stimolazione sarà incompleta: monetaria, ma non fiscale. Per capirci, se il governo decidesse di tagliare 100 miliardi di spesa pubblica (in tre o quattro anni) e di 70 miliardi le tasse, lasciando un margine di 30 per gestire l’equilibrio di bilancio statale, il capitale così liberato, via più investimenti e consumi privati, darebbe un impulso fortissimo e diffuso a tutta l’economia nazionale. Nel simulatore, una tale mossa, combinata con la megastimolazione monetaria attuata dalla Bce, porterebbe la crescita del Pil nel 2015 ad oltre il 4%, vicino al 6% nel 2016, per poi stabilizzarsi al 3% negli anni successivi (a condizione di una media stabilità globale). Per inciso, va considerato che un euro intermediato dallo Stato, in un modello politico socialistoide che alloca il più dei denari fiscali per finanziare apparati invece di investimenti modernizzanti, produce circa 0,90 euro per anno, cioè perde valore, mentre un euro lasciato nel mercato ne genera almeno 2. Da questo cenno si può intuire l’importanza stimolativa, nonché la diffusività sociale, di una defiscalizzazione massiva.

Vi sarebbero alcuni punti delicati: la minor spesa pubblica colpirebbe nel breve termine le aree meridionali, comporterebbe lo spostamento di una parte dei dipendenti pubblici al mercato privato, ecc. Da un lato, tali problemi sarebbero risolvibili in un momento di allentamento monetario che, rendendo possibili crescite forti e rapide, permetterebbe di assorbire velocemente più trasferiti dal pubblico al privato nonché di sostituire con capitale di investimento (incentivato) il minor denaro pubblico nelle aree meno sviluppate (se bonificate dalla criminalità). Dall’altro, non avverrà perché è impensabile che una maggioranza di sinistra voglia farlo e che il governo abbia la tecnicità per attuarlo in modo liscio, pur azione fattibile. Pertanto bisogna assumere la continuità del modello socialistoide e contare solo sull’effetto di maggiore liquidità e svalutazione competitiva.

Il punto: proprio l’inerzia riformatrice del governo produrrà un effetto selettivo sulle unità economiche, basato sulla maggiore vicinanza o lontananza dai settori-territori stimolati dalla Bce. La svalutazione dell’euro favorirà l’export delle aziende internazionalizzate ed il loro indotto nei territori dove queste sono più dense, cioè il Nord e parte della costa adriatica. L’effetto sarà maggiore o minore in relazione all’intensità e durata della svalutazione competitiva e, al riguardo dell’indotto, in base alla quantità di investimenti. L’effetto complessivo sarà espansivo, ma non così propulsivo e rapido per le reazioni contrarie del dollaro e di altre valute all’eurosvalutazione e perché prima di fare nuovi investimenti ed assunzioni le imprese useranno la capacità inutilizzata, questa rilevante. Un effetto positivo e spalmato è atteso dall’importazione di turismo da aree non-euro, moltiplicato dalla fortunata coincidenza dell’Expo. Ma la crescita in questi due settori non riuscirà a smuovere la stagnazione dei consumi e del settore delle costruzioni, lasciando milioni di piccole imprese industriali, artigianali e commerciali nei guai, complicati da una restrizione del credito che, pur di meno, continuerà.

In conclusione, la stimolazione solo monetaria e non fiscale causerà una ripresa incompleta che spaccherà l’Italia in tre settori: a) più ricchi, i territori ad alta densità di aziende internazionalizzate (Lombardia, Veneto, Piemonte e, meno, Emilia); b) galleggianti, ma senza vera ripresa, quelli con minore densità di imprese esportatrici, ma con certa capacità turistica (Centro italia); c) più poveri i territori meridionali nonostante un incremento del turismo stagionale. Come è sempre stato? Attenzione: la differenziazione per ricchezza tra persone e territori diventerà più marcata e ciò si trasformerà in un grave problema di governabilità della nazione. L’assenza della stimolazione fiscale (detassazione) in presenza di quella monetaria, oltre a ridurre i potenziali di ripresa, potrebbe disgregare l’Italia. Va segnalata a Mattarella la relazione tra integrità nazionale, di cui è tutore, e cambiamento di un modello economico inadeguato, esercitando la dovuta pressione su un governo orbo e/ o non ostacolando la sua sostituzione quando una destra inevitabilmente rinnovata ritroverà consistenza.