mercato del lavoro

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

Tiziano Treu – Europa

È da anni (troppi) che ci interroghiamo sulle regole del mercato del lavoro. Ho sempre sostenuto, che l’obiettivo da raggiungere, e indicato dall’Europa è una vera flexicurity. Quella attuata nei paesi più virtuosi implica, da una parte, una maggiore flessibilità nel lavoro per rispondere alle nuove realtà delle imprese e alle nuove esigenze delle persone, e dall’altra parte una maggiore sicurezza nel mercato del lavoro, per gestire le sue continue trasformazioni. Servono entrambe. Purtroppo in Italia si sono introdotte negli ultimi anni nuove flessibilità, sia in entrata, da ultimo facilitando il ricorso al contratto a termine, sia in uscita riducendo le rigidità delle regole sul licenziamento. Ma non si è prevista una adeguata rete di sicurezza.

Nonostante le modifiche da ultimo della legge 92/2012 sono ancora quasi un milione i dipendenti che sono privi di indennità di disoccupazione. Ne sono privi tutti i collaboratori e partite Iva, che inoltre non hanno quasi nessuna tutela propria dei lavoratori dipendenti. Anche le Cig e le Cigs lasciano fuori oggi oltre 5 milioni di lavoratori, che potrebbero scendere a 2,5 se ci fosse un grande sviluppo dei fondi di solidarietà (non facile). Questi ammortizzatori sono non solo squilibrati per entità e durata, ma anche privi di strumenti di sostegno e accompagnamento per disoccupati e cassaintegrati. Cosicché si traducono in misure assistenziali, costose e poco utili all’occupazione. Sono queste le vere e proprie ingiustizie che vanno corrette. Esse sono state troppo a lungo tollerate anche dai sindacati, preoccupati soprattutto di proteggere gli insider, cioè i lavoratori “storici”. È su questo che insiste Renzi, per cambiare.

È un impegno difficile, perché estendere gli ammortizzatori costa. Anche senza pensare di emulare quelli danesi o tedeschi servono almeno 2 miliardi secondo le stime iniziali. Inoltre, per correggere l’assistenzialismo degli ammortizzatori tradizionali, occorre uno sforzo organizzativo capace di far migliorare i servizi all’impiego pubblici e privati, mettendoli in concorrenza e dando ai lavoratori la possibilità di scegliere da chi farsi aiutare. A questo mira la delega, con indicazioni abbastanza chiare, se si vogliono prendere sul serio.

Mi auguro che sia la volta buona e che su tale fronte si impegnino tutti, con indicazioni abbastanza chiare, dai parlamentari che devono votarle, alle regioni, che finora sono andate troppo in ordine sparso, agli operatori dei servizi che vanno motivati e qualificati professionalmente e aumentati di numero (anche qui senza pensare di emulare i 110.000 addetti della Germania). Realizzare un sistema universale di sicurezze e di aiuti effettivi sul mercato del lavoro ed estendere le tutele a chi non ce le ha, compresi i lavoratori atipici, dovrebbe sdrammatizzare la questione dell’articolo 18 e dei rimedi contro i licenziamenti ingiusti, come avviene nei paesi della vera flexicurity. Sostengo questa tesi da anni, ma senza esito, anche perché è mancata la verifica, cioè una vera sicurezza sul mercato del lavoro, nonché una crescita sufficiente a sostenere l’occupazione.

L’offerta del governo di attuare finalmente un sistema di sicurezze sul mercato del lavoro è importante. Può servire a milioni di giovani e di lavoratori disoccupati e inattivi. E questo va messo sul piatto della bilancia nel valutare le proposte di modifica dell’art. 18 (che riguarderebbero peraltro solo i nuovi assunti) e nel ridimensionarne la portata. Le modifiche della legge Fornero, pur avendo modificato l’art. 18, con l’intento di ridurre l’ambito della possibile reintegra, non hanno dato certezze perché scritte in modo troppo complicato, aperto a interpretazioni diverse da parte dei giudici. La mancanza di certezze circa la decisione del giudice continua a pesare non solo su questo aspetto del nostro mercato del lavoro.

In altri paesi non è così, sia in quelli in cui la reintegra non è prevista dalla legge, (Spagna, Portogallo, UK, ma anche Danimarca), sia dove è prevista, ma di fatto è usata come extrema ratio (salvo naturalmente i casi di discriminazione). Anche per questo in tali paesi il problema non è stato oggetto di discussioni così estremizzate come da noi, e si è potuto risolvere con soluzioni condivise, più semplici e con maggiore discrezionalità dei giudici. Io stesso avevo proposto nel 2001 un ddl con indicazioni simili; che sono state scartate per un contesto politico e sindacale ostile.

Si poteva non arrivare a questo punto? Forse. Ma occorreva un’altra lungimiranza riformatrice, da parte di tutti, partiti e sindacati. Al punto in cui siamo l’incertezza non può continuare. Anche per questo Renzi ha chiesto di voltare pagina. Ma la nuova pagina va letta tutta. Può essere più europea e più equa, anche cambiando l’art. 18, purché si attui tutto il disegno della legge delega e si varino efficaci misure per la crescita e per l’occupazione, anche forzando l’Europa.

Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Federico Fubini – La Repubblica

Seguaci di Margaret Thatcher contro fedeli della bocciofila. Rottamatori contro custodi di una visione che in Germania fu superata nel 1959, a Bad Godesberg, quando la socialdemocrazia accettò l’Occidente. E via con gli scambi di accuse. Non appena si tocca il tema del lavoro in Italia, i decibel salgono al punto da coprire qualunque altro segnale. Le proposte assumono un significato che, sul momento, sembra superare il loro impatto concreto. In questo l’idea di introdurre un contratto permanente a tutele progressive, ma senza diritto di reintegro per via giudiziaria, non fa eccezione.

I semplici numeri alla base di questa ipotesi però raccontano una situazione diversa. Questa riforma non ha l’aria di segnare una svolta radicale, ma un’evoluzione (quasi) cauta rispetto all’aggressività con cui avanza il male italiano. Il tutto, sullo sfondo di sistema di welfare ormai talmente ingiusto verso i più deboli che, visto nei dati reali, grida al cambiamento. Le statistiche su cui il ministero del Lavoro sta misurando gli effetti reali della riforma sono quelle sui nuovi contratti di lavoro. E quanto a questo, i dati segnalano un fenomeno crescente: ai ritmi attuali, le nuovi assunzioni a tempo indeterminato rischiano di diventare una specie in via di estinzione. Nel 2011 sono state 1,8 milioni, nel 2012 sono scese a 1,7 milioni e l’anno scorso si sono ridotte a 1,5 milioni. Non c’entra solo la poca disponibilità di posti di lavoro, perché i contratti coperti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, un tempo la norma, calano molto più in fretta degli altri. Negli ultimi tre anni sono passati dal 20% al 16% di tutti i nuovi contratti. È una tendenza al declino che continua e trova la sua contropartita nella crescita dei contratti a tempo: erano il 63% del totale nel 2011 e sono saliti al 68%. Malgrado un crollo dell’economia del 5% intervenuto nel frattempo, ne sono stati firmati ben 6,5 milioni sia quattro anni fa che l’anno scorso.

Se questi sembrano numeri elevati per un Paese così affamato di lavoro, è perché gli stessi precari firmano più contratti brevi in un solo anno. Ma le statistiche del ministero del Lavoro rivelano anche un’altra conseguenza della riforma voluta da Matteo Renzi: molto probabilmente, al premier serviranno non meno di sette o anche dieci anni per cambiare a fondo il rapporto fra le imprese e i loro dipendenti permanenti. Più che una rivoluzione, sembra una trasformazione progressiva.

Possibile? L’idea del premier sulle tutele crescenti ricorda un aspetto del modello iberico, da Renzi spesso deprecato. In Spagna le tutele crescenti valgono per tutti, perché l’indennizzo in caso di licenziamento per motivi economici vale per qualunque dipendente a tempo indeterminato. Per i giovani il governo di Mariano Rajoy propone qualcosa di simile a ciò che ora vuole fare Renzi: incentivi fiscali o contributivi sui primi due anni per le imprese che li assumono con contratti permanenti. In questo l’Italia cerca di applicare una versione di ciò che la Spagna fa già.

L’impatto però sarebbe graduale, perché la riforma non si applica ai contratti esistenti ma solo alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Queste ultime in Italia sono state due milioni nel 2011 e 1,5 milioni nel 2013, risulta al ministero del Lavoro. Ma poiché l’Istat registra circa 14,5 milioni di dipendenti assunti in modo permanente, l’attrito dei nuovi contratti fa sì che la scomparsa dell’attuale tutela dell’articolo 18 prenderebbe gran parte del prossimo decennio. Un effetto collaterale può verificarsi subito: certi lavoratori potrebbero diventare riluttanti a cambiare azienda, perché non avrebbero più la protezione di cui godono oggi in caso di licenziamento. Con il vecchio contratto potrebbero contare su un giudice del lavoro che li rimette al loro posto, se l’azienda vuole cacciarli; con il nuovo avrebbero diritto solo a un indennizzo. Dunque la coesistenza dei due regimi può bloccare gli ingranaggi di un normale mercato del lavoro, perché pochi avranno ancora voglia di muoversi.

L’altro punto critico riguarda il sostegno ai disoccupati. Chi resta senza cassa integrazione o mobilità, perché era precario o perché è a casa da troppo tempo, oggi può contare solo sull’assistenza sociale dei comuni. Di qui la povertà estrema che si sta diffondendo in molte parti d’Italia, specie fra chi vive in comuni rimasti senza soldi. Finisce così che il welfare è più ricco dove serve di meno, ma miserabile dove sarebbe più drammaticamente necessario. A dati Istat, nel 2011 la spesa per abitante in interventi sociali ha superato i 250 euro in Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, ma è stata di 25 euro in Calabria e di 45 in Campania. Non è un caso: grazie al loro statuto speciale, Trentino e Valle d’Aosta ricevono dallo Stato oltre il doppio dei trasferimenti, sempre per abitante, rispetto alle regioni del Sud. Questo non è un welfare possibile nel terremoto prolungato che il Paese sta vivendo. Renzi ha trovato una parola per definirlo, e i numeri gli danno ragione. Apartheid.

Prima o poi ci arrivano

Prima o poi ci arrivano

Raffaele Marmo – La Nazione

«Prima o poi ci arrivano, magari ma ci arrivano. Il problema è che non si guardano mai indietro e non contano mai i danni fatti nel frattempo». La chiosa è di un vecchio sindacalista che ne ha viste tante, quando parla della Cgil e dell’attuale sinistra Pd. È stato così proprio con lo Statuto dei lavoratori, non votato dall’allora Pci e mal visto dalla stessa Cgil e oggi difeso come fosse il frutto migliore della loro storica azione. Ma è stato cosi anche con il decreto di San Valentino sul taglio della scala mobile, contrastato sempre da Pci e Cgil-tendenza Botteghe Oscure fino a giungere al referendum dell’85 (clamorosamente perso, per inciso): salvo poi sostenere che la politica dei redditi, con annessa concertazione, aveva salvato l’Italia dalla bancarotta. Manca ancora un po’ e analoga sorte toccherà alla Legge Biagi, quando magari verrà messa pragmaticamente in discussione perché superata o superabile.

Ma fermiamoci qui. Sarebbe lungo l’elenco degli appuntamenti con la storia rispetto ai quali la sinistra-sinistra politico-sindacale, è arrivata con decenni di ritardo. E, dunque, non poteva che essere così anche nel passaggio cruciale di questi giorni nei quali vengono poste le premesse per il superamento dell’articolo 18. Senonché, a fare oggi la differenza, è che il presunto «attacco» ai diritti dei lavoratori non viene dalla «destra» sostanziale o formale (Craxi, Berlusconi) o dai «padroni», ma da colui che, fino a prova contraria, è il leader del loro partito. Da qui il disorientamento, la complicazione del quadro di riferimento, anche l’incapacità del «che fare» che attanaglia la sinistra di estrazione Ds-Cgil.

È saltato, insomma, il vecchio modello, all’interno del quale era agevole distinguere «buoni» e «cattivi», salvo accorgersi poi, a distanza, che i «cattivi» magari avevano avuto ragione. Questo è sicuramente un merito – il più importante a oggi – di Matteo Renzi: aver fatto saltare il comodo e confortevole schema di gioco che ha permesso alla sinistra poco riformista e tanto massimalista di non dover fare i conti con i propri errori. Non a caso è il primo vero atto blairiano del suo governo, all’insegna di quel passaggio – la rottura con la sinistra interna – che segnò la nascita del New Labour, perché, come avvisò Tony Blair nel 1995, «values don ‘t change, but times do», i valori non cambiano, ma i tempi sì.

Il falso mito delle garanzie sul lavoro e i veri numeri

Il falso mito delle garanzie sul lavoro e i veri numeri

Oscar Giannino – Il Messaggero

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 è un mito, e per questo da decenni è diventato un tabù da non toccare. Perché i miti hanno forza evocativa, sono bandiere di valori, stendardi di visioni ideologiche. Per questo è così difficile mutarli. Non si piegano alla logica dei numeri. Rimbalzano sulla realtà dei fatti. Perché si misurano con il metro delle utopie, non della realtà che per definizione non soddisfa l’idealista. Ecco perché da una parte è buona cosa che Matteo Renzi abbia dato un forte impulso alla possibilità di modificarlo, usando a sua volta termini «valoriali», e proclamando «basta con l’apartheid dei diritti». Dall’altra parte però bisogna saperlo: ora per una parte non trascurabile della sinistra e per i sindacati si ripropone lo stesso campo di battaglia sul quale hanno vinto e rivinto da 50 anni a questa parte, respingendo ogni volta chi voleva scalfire il mito.

Se guardiamo alla realtà, i termini della questione dovrebbero essere del tutto diversi. Per evitare l’ennesima riforma al margine delle regole sul lavoro – ogni governo italiano pasticcia con incentivi e disincentivi per questo o quel contratto, credendo di far bene e complicando solo la distorsione generale che su domanda e offerta di lavoro esercitano migliaia di pagine di norme – pochi numeri dovrebbero essere posti al centro. Se guardiamo alla popolazione tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era fermo al 49,9%, mentre quello tedesco era al 72,3 percento. Se depuriamo i dati dai cassintegrati e disoccupati “ufficiali” che risultano come lavoratori, “attivi” che cercano lavoro, e assumiamo come base l’intera popolazione nazionale, da noi lavora un italiano su tre, in Germania due tedeschi su tre. Questo è il problema numero uno: abbiamo un’enorme gap di occupabilità rispetto al quale rimuovere ostacoli. a cominciare da giovani, donne e over-55. Secondo problema, altrettanto grave: la produttività. Da noi i salari registrano da molti anni un andamento totalmente scollegato rispetto alla produttività: se guardiamo alla manifattura e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita solo verso quota 110 e i salari orari sono arrivati oltre quota 155, mentre nell’eurozona la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dunque deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità sia quelli alla produttività.

Naturalmente, per gli idealisti dell’utopia questi numeri sono invece da respingere. Descrivono un mondo sbagliato perché vuole remunerare anche il capitale per produrre, mentre bisogna che le norme affermino un mondo dove non contano gli interessi, ma solo i valori. Se fate loro osservare che l’articolo 18 si applica oggi a una minoranza netta rispetto ai 22,4 milioni di lavoratori italiani ufficiali – visto che i dipendenti a tempo pieno e parziale sopra la soglia dei 15 per azienda sono circa 9,4 milioni, e dunque ha ragione Renzi a dire «basta apartheid» visto che ne sono esclusi i contratti a termine, i cocopro, gli autonomi, le partite Iva – ti rispondono che al contrario è un buon motivo per estendere l’articolo 18 a tutti i lavoratori: perché è questione di principio. E poco importa se l’estensione delle forme di lavoro meno tutelate per intere generazioni di più giovani è stata dovuta all’effetto-disincentivo rappresentato dall’elevato costo-fisso del rapporto di lavoro acceso «per sempre», in aziende che oggi devono rispondere a una domanda che varia a settimana. Ti diranno che è colpa della globalizzazione, e a quel punto non c’è più confronto possibile, visto che è proprio sull’export verso il mondo che l’Italia deve puntare a breve per tornare alla crescita, mentre per rianimare la domanda interna serviranno tempi più lunghi. Di conseguenza. la battaglia sarà dura. E il rischio è che ancora una volta si perda di vista l’obiettivo più importante.

Con la delega emendata dal governo – e che in Parlamento susciterà un duro contrasto anche nel Pd – si mira a un codice semplificato del lavoro che prevede un contratto d’inserimento triennale incentivato fiscalmentee a tutele crescenti, che prevede per i nuovi assunti in caso di licenziamento il superamento della reintegra giudiziale, che nella riforma Fornero convive ancora con la possibilità dell’indennizzo per i licenziamenti economici. Resterebbe solo l’indennizzo, proporzionato alla durata dell’impiego sinora svolto. Ma senza più distinzione di soglia dei 15 dipendenti, ed esteso anche agli ambiti di lavoro e contrattuali oggi esclusi.

Non è ancora chiaro se l’indennizzo resterebbe per i licenziamenti economici anche dopo i tre anni. Se si limita l’indennizzo per i licenziamenti economici a soli 30 mesi, come sembra di capire, in realtà si segmenterebbe ulteriormente l’apartheid italiana del lavoro. Ma il governo intende questo come “uno” dei pilastri, non “il” pilastro: perché si affianca a un nuovo strumento universale di sostegno al reddito per chi perde il lavoro, volto alla formazione e alla rioccupabilità tramite il nuovo “contratto di ricollocazione”, superando cioè in toto il sistema Cig e la sua illusione di difendere il lavoro “com’era e dov’era”; e alla rivisitazione profonda – speriamo coraggiosa – dei vecchi uffici provinciali del lavoro, creando un sistema di incrocio tra domanda e offerta aperto agli intermediari privati accreditati, e incentrato anch’esso su crediti di formazione per il reimpiego.
Da questo schema resta ancora fuori la produttività: occorre una svolta vera a favore dei contratti decentrati, dando loro la possibilità di prevalere sul contratto nazionale di categoria anche per la parte salariale, lasciando alla contrattazione nazionale solo le tutele e i minimi salariali, cioè i “diritti”, ma scegliendo di trattare turni, orari e salari nelle aziende, compartecipando ai lavoratori premi retributivi sostanziosi quando le cose vanno bene, e decrementi a tutela dell’occupazione quando le cose vanno male.

E c’è anche un’altra insidia. Perché il nuovo contratto d’inserimento sarà interpretato dagli utopisti come una forma che deve sfociare comunque nell’assunzione a tempo indeterminato per tutti. Sbagliando due volte. Primo perché le imprese hanno bisogno anche dei contratti a tempo determinato. E secondo perché la strada maestra per l’inserimento al lavoro dovrebbe essere quella dell’apprendistato professionalizzante, affiancando scuole e università alle imprese sin dall’istruzione superiore, come avviene con enorme successo in Germania.

Siamo reduci dal fallimento degli incentivi al tempo indeterminato voluti da Letta e Giovannini, ed è in corso una colossale presa per i fondelli a 200 mila giovani che avevano creduto a Garanzia Giovani, e che in nove casi su dieci non hanno ottenuto sinora neanche un colloquio di orientamento. Ecco i nuovi frutti dell’utopismo calato dall’alto su troppe regole disincentivanti. Poiché è molto difficile aspettarsi dal governo un energico taglio delle imposte su imprese e lavoro, almeno ci si risparmino scioperi generali sull’articolo 18. Perché, con rispetto parlando, davvero non è il problema centrale dell’Italia, ma solo un mito che i numeri respingono.

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Come un fiume carsico, di tanto in tanto nell’inconcludente dibattito sulle riforme del mercato del lavoro è emerso in questi anni il termine “flexicurity”, associato al cosiddetto modello danese. In realtà, è stato coniato da un sociologo olandese, Hans Adriaansens, e sperimentato in Danimarca e nei Paesi Bassi negli anni Novanta, quelli dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio Wto, dell’euforia per la globalizzazione e della spinta delle imprese a liberalizzare l’occupazione. Addirittura, l’Unione europea lo adottò come modello di riferimento per eventuali intenti di riforma negli accordi di Lisbona del 2000, ma fu allegramente ignorato da molti Paesi, Italia in testa. L’idea della “flexicurity”, crasi dei termini inglesi “flessibilità” e “sicurezza”, era che per venire incontro alle esigenze delle imprese di licenziamenti più facili, bisognasse trovare il modo di conciliarli con un adeguato paracadute per i lavoratori.

E qui si pone il primo, serio problema di un confronto italiano con l’esempio scandinavo: è un sistema costosissimo. In Danimarca il sussidio di disoccupazione è universale: bisogna sottoscrivere un fondo, la A-Kasse, gestito dai sindacati e finanziato in parte dai lavoratori stessi (il contributo ammonta a circa 500 euro) ma garantito nella gran parte dallo Stato. Il risultato è che copre 1’80% dei lavoratori; e in ogni caso, anche chi non ha sottoscritto l’assicurazione, ha diritto ad un’indennità sociale comunale. Anni fa gli economisti de Lavoce.info fecero una stima sul costo di un’indennità di disoccupazione universale in Italia: circa 12-13 miliardi all’anno. E chissà ora, con i tassi di disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i giovani. La flessibilità significava invece garantire al datore di lavoro la possibilità di licenziare senza particolari ostacoli, con il solo obbligo di un minimo di preavviso che varia da uno a sei mesi, a seconda dell’anzianità di impiego. Il lavoratore può addirittura lasciare il suo lavoro con soli otto giorni di preavviso. E in virtù della conciliazione riuscita tra una maggiore flessibilità in uscita e un paracadute generoso, in Danimarca il 30% degli occupati cambia posto di lavoro e in media non restano per più di otto anni nella stessa azienda.

L’altro aspetto problematico, nel confronto con i Paesi Bassi o con gli altri Paesi che hanno adottato la “flexicurity”, è il reimpiego. Presuppone un sistema di politiche attive efficientissimo, cioè il contrario dell’esempio italiano. La Danimarca spende circa un punto e mezzo di Pil per fare in modo che i disoccupati trovino un nuovo lavoro nel minor tempo possibile. Il collocamento è affidato ai job center comunali, ma a favorire l’incontro tra domanda e offerta concorrono anche accordi tra questi modernissimi centri di reimpiego e sindacati, imprese, istituti di ricerca, scuole o onlus. Gli uffici di collocamento aiutano anzitutto i disoccupati a formulare un curriculum decente, entro tre settimane dal licenziamento, e cercano di capirne le potenzialità, ma sono previsti anche programmi di reimpiego o aggiornamenti. I job center, tuttavia, attuano anche un monitoraggio strettissimo degli sforzi dei senza lavoro e prevedono addirittura corsi che insegnano a cercare un’occupazione. E se nei nordici uffici di collocamento si rendono conto che il disoccupato compie sforzi troppo deboli per trovare un nuovo impiego, le conseguenze sono pesanti: la perdita dell’assegno di disoccupazione.

Occupazione, tante fratture da risanare

Occupazione, tante fratture da risanare

Walter Passerini – La Stampa

Beato il paese che non ha bisogno di eroi, di totem o di scalpi, si può dire parafrasando Bertolt Brecht, perché altrimenti saremmo sempre in guerra, che ammette solo vincitori e vinti. Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 sta incendiando la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro.

C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior Paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne. Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una piece da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio.

La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, di fronte al testo giunto in Commissione al Senato, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che lascia spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che la sinteticità della norma producesse solo lavoro per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi, l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un «matrimonio indissolubile». Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. È questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un aguzzino né una vendetta sociale, ma può essere una tappa per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’economia vive di aspettative razionali. Robert Lucas nel 1995 ricevette il premio Nobel per aver dimostrato con sofisticati modelli come individui e imprese usino in modo efficiente le informazioni che hanno a disposizione per orientare consumi e investimenti senza commettere errori frequenti. Il governo Renzi nel portare avanti la riforma del mercato del lavoro non appare, invece, eccessivamente preoccupato delle distorsioni che gli annunci ripetuti non seguiti dai fatti possono provocare nel regolare svolgimento di un mercato. Il Jobs Act doveva prendere forma in G.U. dopo un mese, forse due dall’insediamento dell’attuale esecutivo. Ad oggi siamo ancora ai prolegomeni della nuova riforma che nel frattempo è stata data per fatta almeno una ventina di volte tra Tweet e passaggi parlamentari o interviste varie di vari esponenti del governo. Si abolisce l’art. 18 come chiede senza se e senza ma Angelino Alfano. L’art. 18 non si tocca per parte importante del Pd, perché non è al centro del programma. Solo per i neoassunti l’art. 18 sparirà. O ancora diventerà un art. 18 a tutele crescenti con il passare del tempo ma senza obbligo di reintegro per le imprese in caso di licenziamento. Eppoi ancora promesse di bonus fiscali per i neoassunti o di esenzioni Irap per i nuovi posti creati in favore delle aziende.

Passano le settimane e del Jobs Act restano solo gli annunci e le proposte che, in ordine sparso, si candidano a riformare il mercato del lavoro. Risultato? Le imprese hanno smesso di assumere con contratti a tempo indeterminato, restano alla finestra e cercano di capire dove si fermerà il pendolo di questa logorrea riformista. Nel frattempo solo contratti a termine o occasionali vengono conclusi. È la legge delle aspettative razionali applicata alla follia della politica economica italica modellizzata da Lucas tanti anni fa. Razionalmente le imprese, non sapendo cosa succederà nell’immediato futuro, smettono di prendere posizioni contrattuali definitive rispetto al fattore di produzione lavoro. Così agendo, evitano di incorrere in un maggior potenziale costo da minor flessibilità o di perdere potenziali incentivi. Tutto perfettamente razionale, talmente razionale che resta un mistero su come l’esecutivo possa tenere aperto per così tanti mesi un dossier tanto critico come il Jobs Act. Soprattutto perché l’Italia è un paese in deflazione, in recessione da tre anni consecutivi e che vanta una disoccupazione superiore al 12,6%, quindi interessato a inviare ben altri segnali agli investitori potenzialmente capaci di creare nuova occupazione. Morale: crescerà il 52,9% di under 25 già oggi occupati con contratti precari.

Articolo 18, chi vince e chi no

Articolo 18, chi vince e chi no

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Diciamoci la verità sul Jobs Act n. 2. Nell’emendamento presentato dal governo in sostituzione dell’art.4, ci si possono riconoscere tutti: da Maurizio Sacconi a Cesare Damiano, passando per Pietro Ichino. La norma di delega emendata è certamente meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, anche se, a mio avviso, resta inadeguata rispetto a quanto dispone l’articolo 75 della Costituzione. Ma la politica ha le sue esigenze che finiscono sempre per prevalere. E in questo caso occorreva fare in modo che avessero vinto tutti e perso nessuno. Poi si vedrà nel corso dell’iter legislativo e soprattutto al momento della predisposizione degli schemi dei decreti legislativi che dovranno raccogliere i pareri di Commissioni validamente presieduto da due dei protagonisti della mediazione di ieri: Sacconi e Damiano, appunto.

Analizziamo gli aspetti più importanti del nuovo testo. Innanzi tutto, le parole che mancano. Non si parla mai di Statuto dei lavoratori né tanto meno di articolo 18 e di disciplina del licenziamento individuale. Vengono però indicate delle materie che necessariamente richiederanno delle modifiche ad ambedue i santuari della gauche: le norme riguardanti il cosiddetto demansionamento (ovvero la possibilità – ora preclusa – di inquadrare i lavoratori in mansioni inferiori se ciò comporta la salvaguardia del posto di lavoro) e il controllo a distanza, essendo le disposizioni assunte nel 1970 completamente superate dalle nuove tecnologie.

Oddio: non è che i criteri di intervento siano ben definiti, dal momento che essi si limitano a raccomandare al legislatore delegato di tener presenti sia gli interessi dei datori che quelli dei lavoratori. Poi si arriva alla ciliegina sulla torta: «la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Alcune questioni rimangono indefinite. Innanzi tutto, non è detto che dal novero delle tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio sia da escludere la sanzione della reintegra per lasciare il posto soltanto al risarcimento economico. In secondo luogo, noi interpretiamo che i nuovi assunti non coincidano obbligatoriamente con i nuovi occupati, ma che il contratto di nuovo conio si applichi anche a chi cambi lavoro e venga assunto ex novo da un altro datore. Se tali soggetti conservassero, infatti, una sorta di status ad personam (una disciplina del licenziamento “d’annata”), una volta usciti da un impiego stenterebbero a rientrare nel mercato del lavoro per ovvi motivi. Ma avverrà davvero così?

In ogni caso, pare indubbio che dovrà esserci un cambiamento importante: quanto meno la tutela reale – anche se continuerà a essere contemplata e non solo come sanzione del licenziamento nullo o discriminatorio – interverrà a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Per capire, dunque, come finirà questa vicenda bisogna aspettare.

Nel frattempo però sarebbe consigliabile non cantare anticipatamente vittoria. E fare tesoro della prima riforma Poletti. Il contratto a termine ”liberalizzato” rimane ancora la modalità di assunzione più conveniente. E, a nostro avviso, lo rimarrà anche in seguito. La delega emendata prevede, poi, un giro di vite sui contratti flessibili (non era così nell’emendamento Ichino). Questo è certamente un successo di principio della sinistra. Al centro destra è già capitato – ai tempi della legge Fornero – di sopravvalutare qualche giro di valzer (poi rivelatosi inadeguato) intorno al totem dell’articolo 18 e di non accorgersi che gli stavano sottraendo la cosiddetta flessibilità in entrata.

Al centro le persone

Al centro le persone

Francesco Riccardi – Avvernire

Premessa essenziale: stiamo discutendo di un emendamento alla legge delega di riforma del mercato del lavoro. I giochi politici sono ancora aperti e le indicazioni in parte generiche. Passerà almeno un anno prima di poter ragionare su un testo di legge effettivo, sul quale sviluppare delle valutazioni che non siano impressionistiche. Chiarito questo, se realmente alla fine dell’iter legislativo si sarà messo mano all’intera normativa sul lavoro – compreso il tema delle tutele in caso di licenziamento, con il reintegro sostituito da un indennizzo monetario di valore crescente – ci troveremo di fronte a un cambiamento fondamentale, culturale assai prima che economico.

L’idea alla base dell’emendamento di arrivare a un nuovo Codice unico semplificato del lavoro è infatti anzitutto la presa d’atto che il mondo è cambiato e il sistema economico-produttivo è ormai lontano anni luce da quello ford-taylorista su cui era stato disegnato, quasi 45 anni fa, lo Statuto dei lavoratori. Soprattutto, segna la fine di un’idea, quella che studiosi come Pietro Ichino definiscono la concezione “proprietaria” del lavoro, secondo la quale quando un lavoratore riesce a conquistare un posto, quello in sostanza gli appartiene. A vita. Con la conseguenza che da noi si è sempre difeso non tanto il lavoratore, quanto il legame tra il singolo occupato e quell’impiego. Con il reintegro obbligatorio nel caso di un licenziamento che il giudice ritiene senza giusta causa (spesso solo perché, in quella zona, per il licenziato sarebbe difficile trovarne uno nuovo). Ma non di meno costruendo un sistema di ammortizzatori sociali che ha relegato centinaia di migliaia di lavoratori nel limbo della cassa integrazione per anni, anziché favorirne l’aggiornamento e il ricollocamento in altre aziende. L’intero nostro sistema produttivo – già schiacciato dall’eccessivo carico fiscale e dalla burocrazia – ha risentito di questa rigidità, cercando ogni possibile via di fuga, fosse essa il restare al di sotto della soglia dimensionale dei 15 dipendenti o il ricorrere a contratti senza tutele. Determinando così un graduale degrado del nostro mercato del lavoro, a danno anzitutto dei lavoratori stessi, dei giovani più di tutti.

Il nuovo Codice semplificato che dovrebbe essere emanato ha dunque l’ambizione di disegnare un sistema di regole generali e flessibili meglio rispondenti al nuovo scenario globale. Ma deve portare con sé anche un altro cambiamento: porre davvero al centro la persona, il nuovo soggetto intorno al quale costruire tutele reali e universali, politiche attive, in grado di rendere il lavoratore più forte sul mercato, maggiormente capace di reagire ai mutamenti di scenario, più “padrone” del proprio destino che non mero dipendente. Per farlo occorre che la delega porti a compimento davvero tutto ciò che promette in termini normativi, ma soprattutto di più efficaci ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego. Su questo – il mezzo disastro della Garanzia giovani purtroppo lo dimostra – siamo all’anno zero.

Nessuno si illuda, però: il superamento delle rigidità del passato, articolo 18 compreso, rappresenta solo la precondizione di un cambiamento necessario più profondo. Il lavoro del futuro sarà sempre meno somigliante a quello dipendente delle fabbriche manifatturiere che abbiamo conosciuto finora e sempre più simile all’interagire di soggetti diversi, in luoghi differenti, di volta in volta impegnati per un progetto da realizzare (un prodotto che magari sarà sfornato da una stampante 3D senza bisogno di essere “assemblato” da operai o un servizio offerto in Rete). Se non si assume finalmente una diversa idea di fare impresa, di cooperazione tra i soggetti coinvolti, di interazione con la società esterna, di partecipazione, allora, non avremo dato che una risposta per l’ennesima volta parziale a un mutamento, quello del lavoro e dell’economia, oggettivamente epocale.

P.S. È fondamentale che nel dibattito politico e sociale sulla riforma non si ripetano i tragici errori del passato. Tutte le posizioni sono legittime e hanno diritto di venire rappresentate. Ma nessuno si azzardi a indicare l’una o l’altra persona come “nemico del popolo” o “traditore dei lavoratori”. Il prezzo di sangue pagato da studiosi come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi all’impegno per il cambiamento del nostro Paese, è già stato troppo alto, insopportabilmente alto.

Lavoro in Italia ultimo per efficienza

Lavoro in Italia ultimo per efficienza

Metro

Il mercato del lavoro italiano è ultimo  per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini  di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente  superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri  Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi  ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in  termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e  soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione  tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle  regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni. L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è  quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che  avevamo raggiunto nel 2011.

«Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione» spiega Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «L’elaborazione del Centro Studi chiarisce come i problemi del nostro mercato del Lavoro siano sempre gli stessi e abbiano subito un peggioramento piuttosto marcato dal 2011 a oggi, complice con ogni probabilità l’irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta legge Fornero».

Collaborazione
Scarsa collaborazione in Italia nelle relazioni tra datori e lavoratori. Tra i Paesi dell’Europa a 27, infatti, il Belpaese si posizione ultimo in classifica proprio per quanto riguarda i rapporti tra dipendenti e imprenditori. AI primi tre posti ci sono Danimarca, Austria  e Olanda.

Tassazione
In tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio alla produttività.  Dati che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione: nessun Paese Ue fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro.

Meritocrazia
Italia arretrata in Ue  nella qualità del personale impiegato.  Siamo penultimi (davanti solo alla Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito (e non per amicizia, parentela, raccomandazioni) e finiamo in coda anche per l’incapacità di attrarre talenti.

Sud sempre più in affanno
Secondo il rapporto annuale dell’Eurispes, la  situazione dell’economia meridionale risulta essere “particolarmente  critica; quasi tutti gli indicatori sono decisamente inferiori  rispetto a quelli delle altre aree del paese e alle medie nazionali”.

Modifiche all’articolo 18 domani in Commissione
Riparte questa settimana la discussione in merito alla  modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nell’ambito del Jobs Act. Domani la commissione Lavoro del Senato esaminerà le proposte di modifica dell’articolo 4, che riguarda lo Statuto e che delega al Governo il riordino delle forme contrattuali. I partiti centristi della maggioranza vorrebbero inserire le modifiche sui licenziamenti , mentre la sinistra Pd chiede di non modificare il perimetro della delega. Obiettivo del Jobs Act, in Aula al Senato dal  23 settembre, è modernizzare il mercato del lavoro.