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La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un salasso da 6,8 miliardi di euro nel 2013, un altro record negativo in ambito europeo e, soprattutto, un finanziamento indiretto alla “casta” che ai cittadini l’anno scorso è costata 5,1 miliardi. E’ questa la sintesi di una ricerca sulla ricadute negative dei ritardati pagamenti della pubblica amministrazione condotta da “ImpresaLavoro”, il centro studi creato dall’imprenditore friulano Massimo Blasoni e il cui board è presieduto da Giuseppe Pennisi.

Lo studio, infatti, analizza gli effetti del malcostume tutto italiano di non onorare prontamente le scadenze verso i fornitori. Il centro studi, basandosi sui dati di Eurostat e di Intrum Justitia, ha stimato in 72,2 miliardi di euro il totale dei debiti della pubblica amministrazione non saldati l’anno scorso, una cifra pari al 4,8 del Pil. Il valore, però, non tiene conto dei debiti delle partecipate dello Stato e degli enti pubblici che spesso sfuggono a queste misurazioni e, probabilmente, è sottostimato. Anche se lo stock si sta riducendo (nel 2010 era di 87 miliardi e nel 2012 di 81 miliardi circa) per effetto del recepimento della normativa europea – su imput dell’ex commissario Antonio Tajani – sui tempi di pagamento e sullo stanziamento di risorse ad hoc, ciò non toglie che i 170 giorni medi per un pagamento costituiscano un grave problema per le aziende.

Aspettare sei mesi per ottenere il pagamento di una fattura vuol dire rischiare il fallimento, a meno di non ricorrere a un “cuscinetto” di capitale che consenta di ovviare alla difficoltà. Questo “cuscinetto”, in molti casi, si chiama finanziamento bancario che può, ovviamente, articolarsi in differenti modalità di erogazione. Il centro studi ImpresaLavoro ha pertanto simulato quanto paghino le aziende queste risorse aggiuntive cui non si farebbe ricorso se lo Stato fosse un buon pagatore. Tecnicamente parlando, il costo del capitale è una variabile microeconomica funzione anche degli utili attesi, ma – in questo caso – si utilizza il costo medio dei finanziamenti bancari che, grosso modo, rappresentano una misura equivalente. Ebbene, la media ponderata tra linee di credito (tassi oltre il 10%), scoperti di conto (oltre il 16%), anticipo e sconto crediti (tra il 5,5% e l’8%) e factoring (tra il 4,2 e il 7,7%) restituisce un valore medio del 9,1 per cento. Ciò significa che quei 74,2 miliardi non pagati dallo Stato costano alle imprese 6,8 miliardi di extracosti di finanziamento, una cifra elevata anche a causa della congiuntura economica che rende sempre meno convincente alle banche prestare soldi alle aziende in difficoltà.

Per ironia della sorte, la memoria scritta del pg della Corte dei Conti Salvatore Nottola sul giudizio di parifica del rendiconto dello Stato indica in 5,1 miliardi di euro il costo sostenuto per gli organi istituzionali (Presidenza della Repubblica, Camera, Senato, Presidenza del Consiglio, enti locali). Insomma, è come se con quei soldi non pagati alle imprese lo Stato finanziasse la “casta” a spese delle attività produttive. Ma soprattutto, ed è questo ciò che conta, le aziende non recupereranno mai totalmente il costo dei finanziamenti: il centro studi ha infatti calcolato in circa 3,3 miliardi il valore degli interessi di mora applicabili ai debiti non saldati. Ben 3,5 miliardi se ne vanno perciò in fumo. Ultimo ma non meno importante è il costo sociale dei ritardati pagamenti: minori investimenti, meno sviluppo, perdita di posti di lavoro e fallimenti. Questo si traduce in una progressiva diminuzione della competitività: l’Italia è il Paese dell’Ue con il più elevato stock di debiti commerciali della Pa scaduti e il secondo dopo la Grecia (che però non fa testo essendo tecnicamente in default) per incidenza dei debiti sul Pil. Difficile dar torto a chi non investe in un Paese dove avere come controparte la Pa significa rischiare più del necessario.

CARLO LOTTIERI: Stato-Imprese, un rapporto da ripensare

CARLO LOTTIERI: Stato-Imprese, un rapporto da ripensare

Come evidenzia lo studio di ImpresaLavoro, nel corso degli ultimi anni le imprese fornitrici della pubblica amministrazione italiana hanno subito un danno annuo di circa 6 miliardi a causa dei ritardi nei pagamenti. Si tratta di una cifra altissima, che ci pone al primo posto in questa speciale classifica europea, ma tutto ciò obbliga a fare due considerazioni.
In primo luogo, l’Italia resta ben lontana da ogni regola elementare del rule of law e dello Stato di diritto. La struttura pubblica non si ritiene vincolata al rispetto di quelle regole che i privati devono osservare. In altre parole, il mortificante trattamento subito dalle aziende fornitrici è la riprova del fatto che lo Stato impone regole che esso stesso non ritiene di dover rispettare. In secondo luogo, è chiaro che questo è anche il risultato di un’economia che registra un’eccessiva presenza dello Stato.
È l’interventismo pubblico che ha posto le premesse per tale situazione, in cui è alto il numero delle aziende che producono per la pubblica amministrazione e si muovono quindi nell’orbita del settore politico-burocratico. Di fronte a tale quadro generale, è necessario che si ripensi alla radice il rapporto tra pubblico e privato, tra Stato e imprese, perché solo in tal modo è possibile porre le premesse per un rilancio dell’economia.
Carlo Lottieri, Università di Siena
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SALVATORE ZECCHINI (Board Scientifico): un danno per imprese e cittadini

SALVATORE ZECCHINI (Board Scientifico): un danno per imprese e cittadini

I ritardi di pagamento del settore pubblico alle imprese, segnatamente le piccole e medie, rappresentano uno dei fattori che hanno aggravato la crisi dell’ultimo quinquennio, sia sul piano dell’economia complessiva, sia su quello della vitalità del sistema imprenditoriale italiano. Va ricordato che le PMI rappresentano una grossa componente nella formazione del reddito nazionale e sono particolarmente vulnerabili nell’accesso alle fonti di finanziamento. La crisi, innescata nel 2008 dalle gravi insolvenze nel sistema finanziario americano, nel 2011-12 ha assunto caratteristiche prettamente nazionali per le ripercussioni dei notevoli squilibri accumulati nel debito pubblico italiano. Il settore pubblico ha quindi esercitato effetti negativi sulla condizione finanziaria delle imprese attraverso i due canali dei ritardi di pagamento e del rischio d’insolvenza sul suo debito.
Le imprese ne sono state colpite in termini di aggravio del costo del denaro, ma soprattutto attraverso un notevole razionamento dell’offerta di credito bancario alle tante imprese considerate a rischio. In una situazione di forte carenza di liquidità, particolarmente tra le PMI, pagare il debito pubblico commerciale in arretrato è divenuto quindi un fattore essenziale per la sopravvivenza delle imprese e il sostegno all’economia.
In termini di ritardo nei pagamenti rispetto alle scadenze contrattuali l’Italia si pone in una posizione estrema rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea. Si tratta in media nell’anno trascorso di circa 90 giorni in più rispetto alla data di scadenza, con il risultato che i tempi medi di pagamento hanno raggiunto i 170 giorni.
Sia il governo Monti sia quello attuale, pur consapevoli dell’effetto che l’eliminazione dei ritardi avrebbe nell’accrescere il già elevato peso del debito pubblico, hanno messo in campo misure per alleviare il problema. In ciò l’Italia non è l’unico Paese a presentare gravosi ritardi, ma gli altri due Paesi che condividevano la stessa condizione – la Spagna e la Grecia – hanno reagito più rapidamente e con maggiore determinazione. Entrambi hanno ridotto il peso di questi arretrati con il supporto del sistema bancario e delle istituzioni finanziarie estere. Il nostro Paese invece non ha avuto sostegno dall’estero e ha dovuto trovare la soluzione sulla base delle proprie forze e mettendo in campo nuove garanzie al sistema bancario.
È evidente che gli arretrati di pagamento dei debiti commerciali pesano sull’economia, ma gravano anche sulle tasche dei cittadini. Pesano sull’economia in termini di competitività del sistema, pesano sui cittadini che si trovano a dover sostenere il peso di una tassazione aggiuntiva per coprire la mora sugli arretrati. Va peraltro considerato che le imprese che forniscono beni e servizi al settore pubblico sono consapevoli del problema e quindi caricano sui loro prezzi di vendita il costo aggiuntivo che devono sostenere per finanziare le vendite stesse. Ne consegue un ulteriore gonfiamento della spesa pubblica.
La soluzione del problema oggi va vista sotto due profili: 1) abbattere i tempi medi di pagamento per riportarli in linea con i limiti raccomandati dall’Unione Europea (che sono 60 giorni); 2) riportare gli enti territoriali all’osservanza di una disciplina di bilancio anche nelle loro commesse pubbliche. Il contributo di analisi che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha appena pubblicato è molto utile per far comprendere all’opinione pubblica italiana non solo la dimensione del problema, ma i suoi costi più ampi e rappresenta altresì uno stimolo alle autorità ad accelerare quelle misure annunciate (ma non ancora attuate) attraverso un’attenta gestione delle grandezze di bilancio. Queste misure darebbero un contributo efficace a ravvivare la domanda interna, specialmente gli investimenti fissi, nella strategia di rianimazione di una crescita economica, che appare tutt’ora un miraggio lontano.
Salvatore Zecchini, Università Tor Vergata Roma
I debiti della Pubblica Amministrazione costano alle imprese 6 miliardi l’anno

I debiti della Pubblica Amministrazione costano alle imprese 6 miliardi l’anno

COMUNICATO STAMPA

Il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca (scaricabile interamente dal sito www.impresalavoro.org) realizzata dal centro studi di ispirazione liberale “ImpresaLavoro” di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).
Lo studio di “ImpresaLavoro” sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».
Secondo le stime prudenziali di “ImpresaLavoro”, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di €, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra PA risulta in calo: nel 2010, esso aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del PIL. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.
La ricerca di “ImpresaLavoro” rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%).
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L’opinione di Giuseppe Pennisi, Presidente del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Salvatore Zecchini, Membro del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Carlo Lottieri, filosofo, Università degli Studi di Siena
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Crescita, la scossa che serve all’Italia: tasse giù, opere pubbliche e investimenti europei

Crescita, la scossa che serve all’Italia: tasse giù, opere pubbliche e investimenti europei

Luca Cifoni – Il Messaggero

L’economia italiana non sembra ancora in grado di uscire dalle sabbie mobili della recessione: le difficoltà in cui continua a dibattersi sono legate ad un insieme di nodi difficili da sbrogliare: da una parte i vizi antichi che già a partire dagli anni Novanta hanno messo il freno al nostro prodotto interno lordo, dall’altra le recenti tempeste, in particolare nell’area dell’euro, che hanno imposto un percorso di risanamento faticoso. Nel 2000 il nostro Paese ha sperimentato per l’ultima volta una crescita robusta, con +3,7 per cento, ma poi nel nuovo secolo l’incremento del Pil è tornato solo una volta sopra la soglia del 2 per cento. E subito dopo è iniziata la grande crisi, prima nel segno degli Stati Uniti e delle sue banche, poi dei debiti pubblici europei.

Il governo guidato da Matteo Renzi rivedrà a settembre le proprie stime, dopo aver preso visione del dato preliminare sul prodotto del secondo trimestre, che l’Istat diffonderà il prossimo 6 agosto. Ma lo stesso presidente del Consiglio ha riconosciuto che sarà praticamente impossibile confermare l’obiettivo fissato in primavera, ossia un pur modesto incremento dello 0,8 per cento. L’esecutivo conta sull’effetto favorevole delle riforme sia economiche che istituzionali, molte delle quali sono però ancora nel pieno del percorso parlamentare. Tra le misure già in vigore c’è l’alleggerimento dell’Irpef per i dipendenti con reddito medio basso: un provvedimento che secondo la Banca d’Italia avrà un effetto di spinta all’economia, ma limitato: nel biennio 2014-2015 due decimi di punto in più per i consumi e un decimo per il Pil. Questo anche a causa del contemporaneo impatto di segno contrario, restrittivo, delle misure di taglio alla spesa incluse nel provvedimento.
È chiaro che non esiste una ricetta magica per la crescita. Né si può pensare che la spinta all’economia venga solo dall’azione di un governo. Ci sono però scelte che possono contribuire a riportare il Paese su un sentiero di sviluppo, soprattutto se perseguite con coerenza nel tempo. Il Messaggero ha chiesto a quattro rappresentanti di altrettante associazioni d’impresa e a due autorevoli economisti di sintetizzare le proprie indicazioni, di spiegare quale può essere la scossa necessaria a far ripartire davvero il Paese.
Il quadro che ne esce è naturalmente variegato, ma emergono alcuni importanti elementi in comune nelle diverse analisi. Da una parte la necessità di alleggerire in modo sensibile un carico fiscale che si è fatto insopportabile in particolare con l’avanzare della crisi. Dall’altra quella di rilanciare davvero l’investimento pubblico, vera vittima della stagione della stretta sui bilanci: al momento di tagliare la mannaia è sempre caduta in maniera più pesante su questa voce che sulle uscite correnti. Ma una vera spinta agli investimenti non può che passare per l’Europa, e questo a sua volta richiede un cambio di marcia sia delle strutture comunitarie che degli stessi governi. Poi certo ci sono i mali atavici del nostro Paese, la burocrazia, l’insufficiente livello di innovazione: occorre agire anche su questi ma i tempi saranno inevitabilmente più lunghi.

Marcella Panicucci (Confindustria)
Puntare sull’impresa regole certe e semplici

Ritrovare la crescita: un imperativo urgente. Le imprese hanno le idee chiare sulla ricetta per farlo.
Regole semplici, certe e stabili nel tempo. Ecco perché le riforme costituzionali sono essenziali. Sono la chiave per accendere il motore dell’economia e fa bene il Premier a perseguirle con determinazione. Parallelamente serve un piano urgente di rilancio dell’economia, per recuperare competitività e permettere alle nostre imprese di andare sui mercati esteri a pari condizioni con i concorrenti stranieri. Un unico perno di questa strategia: puntare sull’impresa manifatturiera. Tre i pilastri: ridurre i costi, rilanciare gli investimenti, dare liquidità. Per ridurre i costi occorre partire dal carico fiscale sul lavoro, abbattendo l’Irap, che è una vera tassa sull’occupazione, e dal costo dell’energia, evitando, come fatto con il taglia-bollette, di distribuire pochi benefici a centinaia di migliaia di soggetti facendone pagare il costo (alto) alle imprese manifatturiere.

Rilanciare gli investimenti il secondo imperativo, a partire da quelli in R&I. La leva fiscale è un grimaldello che se usato in modo virtuoso può dare frutti straordinari. In altri paesi che hanno seguito questa strada è stato così. Per questo serve liquidità. Vanno sbloccati i prestiti alle imprese, anche sfruttando le misure della BCE, e pagati subito tutti i debiti della PA. Le imprese hanno voglia di ripartire. Con pochi, ma decisi interventi la ripresa è a portata di mano.

Carlo Sangalli (Confcommercio)
Un piano credibile per ridurre le imposte

Gli effetti della recessione picchiano ancora duro sulle imprese che continuano a chiudere e sulle famiglie, ancora molto prudenti per il futuro incerto. Per Pil e consumi non c’è ancora nessun chiaro segnale di risveglio ed è evidente che l’export da solo non basta a spingere l’economia. Il 2014 non sarà certamente l’anno della ripresa. In questo quadro la priorità è quella di un’unica, grande riforma economica: quella fiscale. Con l’obiettivo di ricostituire il potere di acquisto delle famiglie. Perché deve essere chiaro a tutti che l’attuale livello di pressione fiscale su famiglie e imprese è incompatibile con qualsiasi concreta prospettiva di ripresa. Quello che serve, dunque, è una certa, graduale e sostenibile riduzione delle tasse perché solo così si possono stimolare nuovi investimenti, favorire nuova occupazione e soprattutto si può dare una scossa tangibile alla domanda interna che, per consumi e investimenti vale l’ottanta per cento del prodotto interno lordo e che può favorire una ripresa più robusta e duratura. Per fare questo occorre agire su due leve fondamentali: da un lato, controllo, riduzione e riqualificazione della spesa pubblica, e qui occorre davvero usare il bisturi su quegli ottanta-cento miliardi di sprechi ritenuti aggredibili sia a livello centrale che periferico.
Dall’altro, fare in modo che ogni euro recuperato dalla lotta all’evasione e all’elusione fiscale venga destinato alla riduzione della tasse.

Antonio Patuelli (Abi)
Recuperare la fiducia per spezzare la crisi
Occorre più fiducia per spezzare ciò che rimane del clima di recessione, per favorire una ripresa degli investimenti di imprese e famiglie. In questi mesi è cresciuta la valutazione internazionale dell’Italia e sono affluiti capitali sui nostri titoli azionari e di Stato e per gli aumenti di capitale (in particolare delle banche) che hanno avuto successo. Paradossalmente vi è più fiducia dall’estero verso l’Italia che di troppi italiani verso l’Italia stessa. Non bisogna arrendersi a stati d’animo del genere né sottovalutare i gravi problemi esistenti: occorre non rassegnarsi ad essi ma favorire uno spirito costruttivo anche quando non gioca la Nazionale di calcio. Occorre rifiutare ogni pessimismo strumentale: non si tratta di diventare ottimisti comunque, ma di imprimere un ottimismo della volontà. In tal senso sarà decisiva la prossima legge di stabilità con le misure che emergeranno. Anche le recenti decisioni assunte dalla Bce per tutta l’Europa potranno contribuire a dare concretezza a un nuovo clima di fiducia. L’innovazione di rendere disponibile nuova liquidità solo per ulteriori prestiti bancari sarà importante e da utilizzare con efficacia appena le nuove misure saranno operative, dal settembre prossimo. Le banche operanti in Italia, tutte sorrette da capitali privati nazionali ed esteri, devono essere in prima fila a spingere la ripresa in convergenza con gli investimenti delle imprese di ogni altro settore. Non è un sogno astratto, ma un obiettivo concreto e realizzabile per innestare un nuovo circuito virtuoso per più produttività e occupazione, anche con più solidi valori etici.

Jean-Paul Fitoussi (Luiss)
Più libertà sul deficit per le spese produttive
Matteo Renzi ha cominciato bene, con energia, dimostrando che alle parole seguono i fatti, agli annunci le riforme. Adesso comincia una fase più difficile, quella di capire quali siano i reali margini di manovra economici, ovvero fino a dove si possa arrivare per sostenere crescita e occupazione. Il proseguimento della politica di Matteo Renzi implica un accordo europeo. Le questione che si pone in questa nuova fase è la stessa per tutti i paesi europei: intendiamo accontentarci di un tasso di crescita leggermente positivo dopo sei anni di segno negativo e di stagnazione, oppure ci decideremo finalmente a prendere misure all’altezza della situazione, molto più radicali, che prevedano spese d’investimento e un aumento transitorio del deficit pubblico nella maggior parte dei paesi europei? In altri termini, o l’Europa si accontenta di registrare unicamente gli aumenti del deficit che sono conseguenza diretta della riduzione del Pil, oppure farà scelte più dinamiche e accetterà aumenti del debito per incoraggiare gli investimenti e facilitare la crescita. Non mi riferisco a cifre o percentuali: è necessario mettersi d’accordo su quali spese si possano considerare produttive, educazione, ricerca, ambiente energie rinnovabili. O l’Europa accetterà che queste spese possano essere finanziate con prestiti – e questo servirà a tutti, Italia compresa – o continuerà con la sua politica puramente aritmetica. Basta con le percentuali e le cifre magiche, bisogna essere intelligenti e pragmatici.

Paolo Buzzetti (Ance)
L’edilizia unico motore del mercato interno
La crisi non è finita. Dopo quasi 5 anni di austerity anche la locomotiva Germania sta perdendo colpi. Segno che le politiche europee di contenimento della spesa pubblica e di tagli radicali agli investimenti (-47% in Italia solo nell’edilizia dall’inizio della crisi) non hanno sortito gli effetti sperati, anzi hanno contribuito alla recessione. Tra le peggiori performance c’è sicuramente quella del nostro Paese che per ripartire non può che puntare sull’edilizia: unico vero motore del mercato interno. Messa in sicurezza delle scuole, manutenzione del territorio, riqualificazione delle città sono alcuni dei principali capitoli sui quali dobbiamo concentrarci nei prossimi mesi. Ma per riuscire a mettere in atto questi ambiziosi programmi, che finalmente sono tra le priorità dell’agenda di Governo, ci vuole una forte spinta politica e il coraggio di superare dogmi finanziari che hanno frenato finora ogni possibilità di ripresa. Come il limite del 3% del rapporto deficit/Pil, un parametro anacronistico e arbitrario, o il patto di stabilità che non consente alle amministrazioni pubbliche di fare manutenzione, pagare le imprese e garantire servizi efficienti ai cittadini. Ci vuole dunque un grande piano di opere pubbliche diffuse su tutto il territorio da realizzare con regole ordinarie, all’insegna della trasparenza e della legalità. Insieme a una politica di sostegno alla casa martoriata da un fisco iniquo che penalizza le fasce più deboli della società.

Giacomo Vaciago (Università Cattolica)
Programma europeo di nuovi investimenti

Tutta l’Europa è ferma, per un semplice motivo: manca una politica economica europea. All’interno del continente naturalmente c’è qualcuno che va avanti e qualcuno che va indietro, ma questo succede anche nel nostro Paese. E non ha senso rallegrarsi perché la Germania rallenta un po’, visto che il suo rallentamento danneggerà anche noi. C’è una sola cosa da fare, subito: i 18 governi dell’Eurozona devono smettere di credere che questa sia composta da 18 Paesi indipendenti, come se l’Europa fosse solo un’espressione storico-geografica. È necessario agire insieme. Invece, come nel caso della polemica sulla flessibilità, passiamo il tempo a discutere su come interpretare la mole di regole che abbiamo prodotto. La crescita però bisogna meritarsela: la Cina ad esempio è riuscita a ripartire dopo i provvedimenti del governo. Noi europei rischiamo di diventare l’ultimo vagone del treno globale, di dipendere da quello che si decide altrove. Dobbiamo piantarla con il giochino di darci la colpa l’un l’altro e iniziare a muoverci. In concreto, si tratta di attivare rapidamente un piano europeo di investimenti, un piano congiunto anche se differenziato nei vari Paesi.
Le cose da fare sono tante, basti pensare in Italia alle infrastrutture per la mobilità o alla messa in sicurezza del territorio. Il nostro Paese ha la responsabilità della presidenza di turno, è fondamentale non far passare questo semestre in chiacchiere ma concentrarsi sulle decisioni. Da noi poi servono investimenti massicci anche nel privato: è giusto ricapitalizzare le banche, ma hanno bisogno di essere ricapitalizzate le stesse imprese.

Governo Renzi, i numeri del disastro: Pil, crescita, consumi, export e produzione industriale. Ecco perché l’Italia sta peggio di 6 mesi fa

Governo Renzi, i numeri del disastro: Pil, crescita, consumi, export e produzione industriale. Ecco perché l’Italia sta peggio di 6 mesi fa

Libero

L’effetto Renzi, se cominciato, è già finito. Questo dicono i numeri, snocciolati in un freddo ed allarmante elenco da tutti gli Istituti economici: Istat, Bankitalia, Bce. Al netto di proclami, promesse e aspettative alimentate dal governo, la verità è che l’Italia sta peggio di sei mesi fa e che la ripresa, più volte prospettata in primavera a turno dal premier, dal presidente dell’Eurotower Mario Draghi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il numero uno di Palazzo Koch Ignazio Visco, non arriverà né nel 2014 né nel 2015.

I numeri del disastro

Mettiamoli tutti in fila, quei numeri: a maggio i consumi sono calati dello 0,7%, proprio in concomitanza con l’annunciato bonus Irpef da 80 euro in busta paga, mentre i saldi estivi dovrebbero registrare un calo intorno al 3-4 per cento. Le spese alimentari sono scese dell’1,2% e a simboleggiare una qualità della vita sempre più all’insegna del risparmio c’è una produzione industriale scesa, sempre a maggio, dell’1,2 per cento. Anche l’export, unica voce trainante in tutti questi anni di crisi, segna il passo: -4,3%, una mezza tragedia anche se Renzi l’Africano continuava a ripetere di voler alzare di 1 punto (appena) il Pil legato alle esportazioni nei prossimi 1.000 giorni. Già, il Pil: nel 1° trimestre del 2014 ha registrato un calo dello 0,5% annuo, cui si somma una previsione di crescita per il 2014 stimata ad aprile allo 0,6% dal Fondo monetario internazionale, che oggi ha però rivisto la previsione allo 0,3. Dimezzato, e pensare che la Bce fissa la soglia a un ancora più pessimistico +0,2 per cento. Il governo parlava di 0,8%: un miraggio.

Confronto impietoso

Se i consumi stagnano, il Pil non cresce, il debito aumenta, si rende praticamente impossibile ogni politica di investimenti statali e aumento della spesa pubblica, perché ci sono da rispettare i rigorosissimi tetti dell’Unione europea sui rapportideficit/Pil e debito/Pil. E il paragone proprio con gli altri Paesi dell’Eurozona certifica lo stato di malato cronico dell’Italia: anche nel 2015, secondo l’Fmi, cresceremo dell’1,2%, variazione minima rispetto all’1,1% del 2014. Le cose all’estero non vanno benissimo, vero, ma meglio che da noi. Secondo il Fondo monetario internazionale nel 2015 il Pil francese crescerà dell’1,4% (-0,1 rispetto alla precedente stima), quello tedesco all’1,7% (+0,1), quello spagnolo all’1,6% (+0,6). Tutti quanti, più o meno, agganciano la ripresa. Noi no.

Sparigliare il gioco

Sparigliare il gioco

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non ci siamo. La scossa che il paese attendeva, e sul presupposto della quale si è costruita la ripresa della fiducia di famiglie e imprese – importantissima sul piano della tenuta sociale – non è arrivata, e ora tutto sembra ancor di più maledettamente in salita. Il ministro Padoan, poco avvezzo alle sparate mediatiche, ci comunica che la ripresa è lenta, eufemismo per dire che non è nemmeno partita, e oppone un «no comment» all’ipotesi di una manovra correttiva dei conti pubblici, che poi un po’ penosamente è costretto a trasformare in un «no, non c’è nessuna manovra in arrivo». Al presidente di Confindustria Squinzi, che da tempo sembra mordersi la lingua per evitare di sbottare, scappa detto che «il tempo per riforme concrete, profonde, incisive, a 360 gradi, è ormai agli sgoccioli», che è un modo per manifestare scontento per quanto fin qui non c’è stato. Può essere che l’Istat fra poco ci comunichi che nel secondo trimestre il Pil abbia fatto +0,2 per cento anziché quel -0,1 per cento che sommando all’analogo risultato dei primi tre mesi ci avrebbe riportato in recessione (per la verità altre voci dicono che comunicherà lo zero senza virgola, così giusto per evitare il segno meno, ma niente di più), ma è dal fronte della produzione industriale che giungono i segnali maggiormente preoccupanti. Per maggio l’Istat ha già certificato il peggior risultato da novembre 2012, con un calo dell’1,2 per cento su aprile (dell’1,5 per cento per il manifatturiero puro) e dell’1,8 per cento sull’anno precedente. Considerato che nel primo trimestre la caduta era stata dello 0,9 per cento e pur mettendo in conto che per giugno Confindustria stima un aumento dello 0,7 per cento su maggio, è plausibile che nel secondo trimestre si arrivi a un’ulteriore riduzione dello 0,5 per cento sul precedente, e che dunque questa dinamica metta a rischio la possibilità di un recupero, seppure marginale, del Pil nella prima metà dell’anno. È ormai evidente, quindi, che gli otto decimi di punto di crescita previsti nel Def dal governo – peraltro del tutto insufficienti a farci rialzare la testa, visto che dal 2008 di punti di Pil ce ne siamo mangiati 9,4 – sono una chimera e che nel migliore dei casi si chiuderà il 2014 con il -0,4 per cento predetto dall’Istat (ma occorrerebbe una seconda parte dell’anno brillante, a essere realisti è più probabile la metà). Insomma, c’è da essere preoccupati, molto preoccupati. E non solo perché tutti i dati economici (persino l’inflazione allo 0,2-0,3 per cento è un problema grosso) sono talmente negativi da spezzare i sogni di ripresa anche dei più inguaribili ottimisti – a proposito, questi ultimi, signor presidente del Consiglio, sono i veri “gufatori” – ma soprattutto perché, mentre la positiva congiuntura internazionale a cui ci siamo aggrappati in questi mesi sembra volgere al termine, rischiamo che la speculazione finanziaria torni a colpirci.

In questo quadro, con la coperta corta che ci ritroviamo addosso della ripresa che non c’è e delle risorse che il rispetto dei vincoli europei ci impedisce di disporre, l’unica chance che abbiamo è sparigliare il gioco. Come? Certamente non tirando la giacca a Bruxelles e a Berlino per ottenere qualche margine di manovra in più, come, per esempio, usare i fondi Ue inutilizzati (nel 2013 ne abbiamo usati solo poco più della metà di quelli di cui avevamo diritto, ultimi in classifica insieme con la Romania). No, qui dobbiamo mettere in campo una doppia manovra. Da un lato, l’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico di cui si parla ormai da troppo tempo – e che anche Delrio ultimamente ha evocato, anche se non si capisce se a titolo personale o a nome del governo – finalizzata sia all’abbattimento una tantum di una fetta dello stock di debito sia all’acquisizione di risorse per fare investimenti pubblici e favorire quelli privati abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto a esso connessi, e di portare – come ha giustamente suggerito in un ottimo intervento sul Sole 24 Ore il viceministro Calenda – dal 30 al 50 per cento, come la Germania, la quota di export sul Pil. Gli strumenti sono ormai individuati, e lo stesso Calenda li riassume efficacemente nella magica parola «riforme strutturali». Il postulato è quello ripetuto più volte in questa rubrica: la crisi non supera dal lato della domanda – che più di tanto non si fa stimolare e che comunque richiederebbe risorse che non abbiamo – ma agendo da quello dell’offerta, che deve essere ripensata partendo dal presupposto che essa deve soddisfare i consumatori del mondo e non più soltanto quelli italiani. Si tratta di rimuovere le cause di contesto che frenano lo sviluppo, specie quelle che hanno a che fare con la Pubblica amministrazione e il mercato del lavoro, così come di favorire il ridisegno di interi settori (turismo, filiera agroalimentare, energie rinnovabili, utilities, trasporto e logistica, facility management, solo per citarne alcune) e la moderna infrastrutturazione, materiale e immateriale, del paese. Attendiamo segnali. Anche a Ferragosto.