riforme

La ventunesima prova di forza

La ventunesima prova di forza

Alfonso Celotto – Il Tempo

Con il Jobs act siamo arrivati a 21 voti di fiducia, sono così tanti che non ci facciamo più caso. Il secondo governo Prodi ha avuto una media di una fiducia al mese, in tutto 28. Il successivo esecutivo, guidato da Berlusconi, riuscì addirittura a fare «meglio», con una media di 1,2 al mese (53 in tutto). Record per Mario Monti con un governo che fece ricorso a 51 voti di fiducia, una media di 3 al mese. A seguire l’allora premier Enrico Letta ne ha previsti «solo» 9, in media 0,9 al mese. E arriviamo ai giorni nostri. In poco più di 6 mesi il governo Renzi ha accumulato 21 voti di fiducia. Sul piano statistico siamo tornati ai tempi dell’esecutivo tecnico di Monti allorché si gridò alla morte della democrazia. Eppure la questione della «fiducia» resta un forte strappo alle regole costituzionali di esame e approvazione delle leggi.

Quando il governo ricorre a questa pratica produce due effetti: fa cadere tutti gli emendamenti presentati dai parlamentari, a cui impone di votare sul suo testo, e fa sì che la scelta avvenga per appello nominale, in maniera da evitare possibili «franchi tiratori». Insomma, la questione di fiducia è una «bacchetta magica» (o una clava) in mano al governo. L’hanno usata a destra e a sinistra. Ora tocca a un governo che dovrebbe essere il più forte degli ultimi anni: ha un leader carismatico e una grande prospettiva di crescita. Eppure Renzi ricorre continuamente alla fiducia. Segno di forza, di debolezza o di assenza di democrazia?

Lavoro, tutte le nuove misure (senza articolo 18)

Lavoro, tutte le nuove misure (senza articolo 18)

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Quello a tempo indeterminato e a tutele crescenti sarà il tipo di contratto «privilegiato in termini di oneri diretti e indiretti». Per questo sarà possibile incentivarlo, sotto forma di taglio dei contributi o dell’Irap da quantificare successivamente con le norme attuative, in modo da renderlo più vantaggioso rispetto ai contratti a termine che altrimenti non avrebbero rivali, specie dopo la liberalizzazione di pochi mesi fa. E con l’obiettivo finale di arrivare al «superamento delle tipologie contrattuali più precarizzanti». Nell’emendamento al Jobs act , il disegno di legge delega per la riforma del lavoro sul quale oggi il Senato dovrà votare la fiducia, il governo fa qualche altro passo verso la minoranza del Pd, che però resta critica.

Licenziamenti
Dal pacchetto, otto pagine che ieri sera hanno avuto la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato e stamattina saranno depositate formalmente in Senato, resta però fuori ogni riferimento alle nuove regole sui licenziamenti e all’articolo 18. La questione sarà confinata ad un semplice discorso che il ministro del Lavoro Giuliano Poletti farà in Aula. Dichiarazioni spontanee, nessuna votazione a seguire. Come indicato nel documento votato nella direzione del Pd, il ministro si impegnerà a mantenere il reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti disciplinari, quelli addebitati al comportamento del dipendente, che dovessero essere giudicati ingiustificati dalla magistratura. Ma solo in alcuni casi limite e comunque rimandando i dettagli al 2015, quando il Jobs act sarà stato approvato anche alla Camera e il governo scriverà i decreti attuativi.

La tipizzazione
A quel punto, ma solo a quel punto, il governo procederà ad una tipizzazione più stretta dei licenziamenti disciplinari ingiustificati, in modo da ridurre il margine di discrezionalità dei magistrati. E lascerà aperta la possibilità per l’azienda di scegliere comunque l’indennizzo, ma più caro, anche quando il magistrato dispone il reintegro. I decreti attuativi passeranno in Parlamento solo per un parere non vincolante, e il governo avrà gioco più facile rispetto al difficile compromesso che deve cercare adesso. Una semplice dichiarazione del ministro non è una garanzia sufficiente per la minoranza Pd, che con Cesare Damiano avverte: «La battaglia per migliorare la delega continuerà alla Camera». Ma potrebbe funzionare da scudo in futuro, se le norme attuative dovessero essere impugnate davanti alla Corte costituzionale perché vanno al di là della delega, visto che nel Jobs act manca un riferimento proprio all’articolo 18.

Mansioni e voucher
Nell’emendamento ci sono altri due passi verso la minoranza Pd. Il primo è sul demansionamento, cioè la possibilità di assegnare al lavoratore mansioni inferiori a quelle della categoria di appartenenza. L’operazione sarà possibile rispettando le «condizioni di vita ed economiche del lavoratore», il che non vuol dire necessariamente conservando lo stesso salario ma quasi. Mentre sui voucher, i buoni lavoro utilizzati per le prestazioni occasionali, resta fermo il principio di un tetto massimo al loro utilizzo, che però sarà definito sempre con le norme attuative.

Scioperi e referendum
Non ci saranno invece, salvo sorprese, le norme sulla rappresentanza, sulla contrattazione aziendale e sul salario minimo, delle quali aveva parlato lo stesso Matteo Renzi nel corso dell’incontro con i sindacati avuto in mattinata. L’obiettivo è quello di impedire scioperi e referendum quando un accordo viene firmato dal 50% più uno dei rappresentanti sindacali, limitando il diritto di veto delle sigle più piccole (leggi Fiom). Mentre il salario minimo potrebbe sostituire in parte i contratti nazionali, indebolendo anche i sindacati più grandi. Il progetto resta in piedi ma con tempi più lunghi.

Non si usi la Costituzione per difendere l’articolo 18

Non si usi la Costituzione per difendere l’articolo 18

Andrea Del Re – Corriere della Sera

Il sondaggio di Nando Pagnoncelli (Corriere, 28 settembre) evidenzia che il 53% degli italiani non sa cosa preveda l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Quella norma rimane dunque più un tema della politica che non del sentire quotidiano. Il che conforterebbe l’assunto di quanti sostengono che si tratti di una mera battaglia ideologica. L’articolo 18 si applica a circa un terzo dei lavoratori – chi si trova in imprese sopra i 15 dipendenti (tranne sindacati, partiti, associazioni culturali). Il datore di lavoro sotto quella soglia, in caso di licenziamento illegittimo, se la «cava» con un risarcimento massimo di 6 mensilità, salvo che non venga dichiarato discriminatorio. «Precari» sono dunque, di fatto, tutti i dipendenti, anche a tempo indeterminato, sotto il fatidico numero di 15 assunti.

Vista l’imbarazzante applicazione di certa magistratura, nel 1985 e nel 1987 il «padre» dello Statuto, il giurista socialista Gino Giugni, tentò invano di modificarlo spostando la soglia a 80 dipendenti e 5 miliardi di lire di fatturato. Nel ’90, Dc e Pci approvarono la possibilità per il lavoratore, vinta la causa, di rinunciare al reintegro in cambio di 15 mensilità. Sono rari i casi in cui il lavoratore abbia poi preferito la reintegrazione al risarcimento: il che dimostra l’inapplicabilità dell’art. 18 nella pratica quotidiana. La Consulta, nel ’92, ritenne legittima tale scelta. Nel 2000, la stessa Corte dichiarò l’ammissibilità del referendum per l’abrogazione dell’articolo 18, definendolo una norma dal contenuto non «costituzionalmente vincolato». Il reintegro è solo «uno del modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro»; senza di esso «resterebbe comunque operante la tutela risarcitoria» di cui si sottolineò la «tendenziale generalità». Dai ripetuti pronunciamenti della Consulta, in modo inequivocabile, si ricava che 1’articolo 18 non ha valore di intangibilità costituzionale e può essere sostituito dalla sola tutela risarcitoria – questa sì indefettibile.

La vera riforma dell’articolo 18

La vera riforma dell’articolo 18

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari. Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.

È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali. Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

Infatti nella via di un’impresa sono rari i casi in cui per sopravvivere deve licenziare, delocalizzare, oppure ridurre l’occupazione (fini per cui tra l’altro si possono attivare già altri strumenti). Rari i casi di disoccupazione tecnologica: già Sismondi, due secoli fa, ironizzava con chi teme que le roi, demeuré tout seul dans l’ile, en tournant constamment une manivelle, fasse accomplir, par des automates, tout l’ouvrage de l’Angleterre. Rari sono anche i casi opposti, in cui l’azienda aumenta gli organici perché è riuscita a invadere nuovi mercati, oppure perché ha sbaragliato la concorrenza con un’innovazione. La gran parte delle aziende, per la massima parte della loro vita, procede per variazioni incrementali, una nuova filiale di vendita, una macchina più veloce, un’organizzazione del lavoro più efficiente: la metodica, incessante, noiosa ricerca di fare le cose in modo più produttivo. Rare sono le inaugurazioni di nuovi capannoni, rare per fortuna le chiusure, la normalità è migliorare marginalmente ogni fase di ogni attività: e questo significa anche trovare persone marginalmente più capaci di svolgerle.

Fare squadra non è soltanto la qualità mitizzata di leader mitizzati, lo fanno tutte le cellule delle organizzazioni: e nessun allenatore riesce a fare squadra se la sola soluzione di cui dispone è allungare la panchina. Per questo, i miglioramenti marginali di efficienza sono «giustificato motivo economico» per licenziamenti individuali: se anche ci fosse ricorso al giudice e questo ordinasse il reintegro, l’azienda deve potere optare per l’indennizzo. È vero, l’azienda è, per storica definizione, luogo dello scontro di classe; è anche, per umane ragioni, luogo di abrasioni caratteriali: dietro il licenziamento disciplinare ci può essere una meschina ripicca, una stupida vendetta. Ma la fabbrica è anche il luogo in cui ognuno è nodo di un reticolo complesso di relazioni, verticali e orizzontali, anche i rapporti gerarchici sono trasformati dalla generale disintermediazione: sarebbe proprio stupido rischiare di danneggiare un ambiente sociale con una palese ingiustizia.

Recuperare produttività è il cuore del problema italiano. Molto dipende dai servizi erogati dallo Stato, quindi dal funzionamento dello Stato stesso, molto dalla produttività delle singole aziende. Per le poche che sono leader mondiali nei loro settori, per le tante che cercano di tenere il mare, l’aumento della produttività è un processo incrementale, che si basa sulla continua ottimizzazione delle funzioni e sulla selezione di chi meglio le sa svolgere. La produttività dell’Italia ristagna da 15-20 anni, rispetto ad aumenti molto più congrui dei paesi concorrenti: eppure il governo sembra voler lasciare a questo proposito le cose come stanno, non far nulla per facilitare questo processo di miglioramento interno.

Le nuove norme, e quindi anche il considerare «giustificato motivo economico» i miglioramenti marginali di efficienza, non si applicheranno a chi oggi ha un contratto a tempo indeterminato. E nella nostra cultura giuslavoristica rimarrà per anni il principio della job property, che la riforma avrebbe dovuto sradicare. Se per i casi di licenziamento disciplinare non si desse all’azienda la possibilità di procedere per l’indennizzo in luogo del reintegro, e se questa comunque non valesse per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato fino alla loro pensione, ci sarebbe veramente da interrogarsi sul perché di tanta contestazione a una legge che estende diritti a molti (dipendenti di aziende con meno di 15 persone, lavoratori non a tempo indeterminato, contratto di reinserimento per tutti) e non ne leva a nessuno. Verrebbe da dire che questa è stata una finta battaglia, ingaggiata soltanto per poter dire di averla vinta.

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Quasi certamente il terzo vertice europeo sul lavoro, che si terrà domani a Milano, non sarà diverso da quelli di Berlino e Parigi che l’hanno preceduto. Parole, impegni vaghi e poi silenzio più o meno pneumatico. Liturgie pubblicitarie utili a chi le celebra: che sia Matteo Renzi, Angela Merkel o François Hollande poco cambia e cambierà per i 26 milioni di disoccupati europei, giovani e non. La soluzione dei loro problemi, infatti, per ora non potrà che essere nazionale e solo in misura marginale targata Ue: anche perché le risorse del bilancio comunitario sono scarse e sempre più insufficienti a coprire il divario tra presunte politiche comuni e risorse disponibili.

Per questo il vero vertice di Milano si giocherà sull’ennesimo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della crescita, tra Germania e nordici da una parte, Francia e Italia dall’altra. La tensione della vigilia è altissima: la Merkel richiama all’ordine i renitenti ai sacrifici, Hollande le risponde picche sull’impegno a portare dal 4,3% attuale al 3% il deficit nel 2015 ma per questo rischia di vedersi bocciata a Bruxelles la legge di bilancio. E Renzi denuncia la vetustà delle regole vigenti pur affermando che non intende violarle, anche se a sua volta difficilmente riuscirà a far fronte alla tabella di marcia europea su conti pubblici e riforme strutturali.

Il tutto mentre si fa sempre più pressante e preoccupato l’allarme della Bce di Mario Draghi sulla crescita europea sempre più fragile e la deflazione che non passa. I dati congiunturali continuano purtroppo a dargli ragione. Ieri il turno degli ordini tedeschi all’industria, crollati in agosto del 5,7% su base mensile, il peggior scivolone dal 2009, con punte del 9,9% fuori dall’Eurozona e una caduta del 2% in Germania. Naturalmente le crisi russo-ucraina e mediorientale hanno dato il loro contributo negativo ma è soprattutto la debolezza dei partner euro a frenare la locomotiva tedesca. Se il buon senso prevalesse sulle profonde diffidenze reciproche e se tutti i protagonisti della partita facessero seriamente la loro parte, la soluzione dei malanni europei sarebbe possibile e anche a portata di mano.

Con un surplus dei conti correnti che supera ampiamente il tetto del 6% massimo previsto dalle regole Ue, Berlino oggi dispone dei margini finanziari per aumentare la spesa e rilanciare la domanda interna ed europea ma non intende usarli: ufficialmente perché conta di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015, nella realtà perché convinta che, allentando la pressione sui Paesi recalcitranti, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato, inducendoli a fare ancora meno del poco o niente che oggi sono disposti a fare. Malfidenza eccessiva e ingiustificata? È difficile considerare Francia e Italia dei campioni di affidabilità: troppe promesse non mantenute, troppi immobilismi e competitività perduta, troppe divergenze economiche accumulate in un’unione monetaria che non può permettersene più di tanto se non vuole diventare ingovernabile.

Detto questo nessuno oggi, nemmeno la nuova Commissione Juncker che si insedierà il 1° novembre, sembra in grado di aiutare a uscire dal pericoloso impasse nel quale l’Eurozona senza crescita rischia di affondare. Ad ascoltare la pantomima delle audizioni parlamentari dei commissari che si susseguono in questi giorni, più che la generale consapevolezza della grande emergenza economico-sociale da affrontare e risolvere al più presto, si percepisce il solito gioco degli equivoci, degli equilibrismi impossibili, delle ambiguità europee senza fine. Non si capirebbe altrimenti come mai Pierre Moscovici, il socialista francese che fino a poco tempo fa prometteva di impugnare le bandiere della crescita e dell’occupazione a nome di tutta la sinistra europea, tenti ora di accreditarsi come il convinto paladino del rigore e delle regole Ue, come se da ministro delle Finanze non fosse stato proprio lui a ignorarli a ripetizione, con i noti risultati. Né si capirebbe Valdis Dombrovskis, il vice-presidente e falco collaudato che comunque ne controllerà da vicino le mosse, il quale sia pure con gran fatica prova a “colombeggiare” chiosando sulla futura dimensione sociale dell’Europa pur ripetendo che la crescita sarà il prodotto delle riforme e che comunque «nessuna legge impedisce agli Stati membri di uscire dall’euro». Cosa attendersi del resto dal premier lettone che ha portato il suo Paese nella moneta unica tagliando il Pil del 20% in 3 anni, i salari pubblici della stessa percentuale e le pensioni del 10%? Non si capirebbe nemmeno come mai il presidente Jean-Claude Juncker abbia promesso in luglio un piano europeo per la crescita da 300 miliardi che però, a quanto pare, punterà su capitali privati, niente fondi nazionali freschi e risorse “riciclate” tra quelle già allocate al bilancio Ue?

Le smentite a questi dubbi e confusioni di intenti naturalmente saranno più che benvenute, se ci saranno come si spera. L’Europa non può permettersi di ignorare ancora a lungo i suoi problemi. L’impatto con la realtà, troppo a lungo snobbata e travisata, potrebbe infatti riservarle, prima o poi, pessime sorprese.

La riforma monca

La riforma monca

Giuseppe Turani – La Nazione

Incontro di Renzi con i sindacati (un’ora) e poi con la Confindustria per cercare di mandare in porto la contestatissima riforma del lavoro. Su un altro tavolo, riservato, proseguono intanto le trattative con la minoranza del Pd, molto contraria a dare deleghe in bianco al governo e schierata in difesa dell’articolo 18. Sarà la volta buona?

La sensazione è che il governo ai sindacati abbia più cose da chiedere che da dare: la riunione, quindi dal punto di vista della Cgil e degli altri suoi colleghi rischia di essere del tutto inutile, se non dannosa. Ma il governo potrebbe decidersi di fare qualche concessione proprio sull’articolo 18 in cambio del via libera al Tfr in busta paga. Stessa cosa, ma rovesciata con la Confindustria. Difficile immaginare l’esito delle due riunioni. E ancora di più della trattativa riservata con la minoranza Pd. Alla fine, comunque, è possibile, molto possibile, che Renzi riesca a procedere con il suo progetto di riforma del lavoro. E allora la domanda che tutti si pongono è: sarà una svolta? Servirà a creare qualche occupato in più? La risposta immediata che viene in mente è: nemmeno uno. E non è una cosa difficile da capire.

Fino a quando il sistema economico è in crisi, in recessione, come ora, si può anche stabilire che i lavoratori andranno in fabbrica o in ufficio gratis, ma nessuno li assumerà per la semplice ragione che non si saprebbe che cosa fargli fare. Dopo questa riforma, se non ci saranno cambiamenti sostanziali, il datore di lavoro avrà più libertà per disfarsi della manodopera non gradita. E questo è certamente un incentivo. Ma solo in periodi di forte crescita economica e quindi con la necessità di aumentare la produzione. In questo momento, invece, abbiamo un quarto del sistema industriale del Paese che, semplicemente, è come se non esistesse più: luci spente e fabbriche ferme. Qui è evidente che non esiste alcun problema nel rapporto con i dipendenti: sono tutti a casa. in cassa integrazione.

Nel resto del sistema produttivo c’è una situazione molto composita. Ci sono aziende che vanno molto bene (perché esportano molto) e aziende che vanno molto male (perché hanno quasi solo il mercato interno). È difficile immaginare che una riforma (per quanto ben fatta) del mercato del lavoro possa indurre le prime a esportare di più e le seconde a trovare un mercato che non c’è. Se si voleva ottenere le due cose appena dette, la strada maestra è stata indicata da tempo da tutti gli esperti: bisognava abbattere di 30-40 miliardi il peso fiscale che grava sul lavoro (portandolo così al livello di quello tedesco). Per fare questo, però, bisognava mettere in cantiere tagli di spesa pubblica almeno per analogo importo.

Ma la spesa pubblica sembra che sia un totem intoccabile. Tutti sanno che i nostri guai maggiori vengono dalle spese della pubblica amministrazione, ma alla resa dei conti nessuno riesce a toccarla. Ormai siamo al terzo governo di emergenza, tutti hanno promesso che avrebbero aggredito il moloch della spesa pubblica. Ma i risultati finora sono stati assai deludenti. Non potendo discutere di questo, che è il tema centrale della nostra precaria condizione, si discute d’altro, ad esempio del mercato del lavoro. La riforma in corso d’opera un giorno si rivelerà probabilmente utile e interessante, quando questo Paese sarà tornato a crescere. Ma nessuno sa dirci quando sarà quel giorno. Forse nel 2016, o nel 2017.

Quel che l’Italia non capisce di Berlino

Quel che l’Italia non capisce di Berlino

Franco Tatò – Corriere della Sera

Nella confusione delle diatribe tra diverse parti politiche in merito alle riforme, si stanno forse trascurando alcuni rapporti di politica estera, e in particolare quello, complesso ma imprescindibile, con la Germania. L’artificiosa polemica tra rigore e flessibilità ha infatti nutrito una deleteria esplosione di antigermanesimo nel nostro Paese. Ostilità che i tedeschi non riescono a spiegarsi, quando è evidente che le difficoltà dell’Italia, testimoniate dalla prolungata assenza di crescita, richiederebbero interventi coordinati a livello europeo e quindi un rapporto collaborativo con la maggiore potenza economica del continente, oltre che nostro principale mercato di esportazione.

L’animosità con la quale vengono avanzate da parte italiana generiche esigenze di flessibilità, cioè richieste di autorizzazioni in bianco di sforare i parametri di bilancio previsti dal trattato di Maastricht, in nome di un orgoglio nazionale che dovrebbe francamente esprimersi con altre modalità, è incomprensibile se non come espressione di un represso complesso di inferiorità. Simili sentimenti antigermanici sono esplosi anche in Grecia, e sfociati nella sorprendente presentazione in Italia di un’imbarazzante lista di candidati alle elezioni europee capeggiata dal capo dell’opposizione di sinistra estrema greca. Nessuno sembra notare che i drastici interventi di risanamento operati da Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda hanno portato, ovviamente con sacrifici, al risanamento dell’economia e a una ripresa della crescita. L’Italia appare invece meno disponibile ad affrontare i sacrifici richiesti per una rapida ripresa, pur essendo i nostri margini di miglioramento molto più ampi di quelli degli altri Paesi citati.

Per valutare l`impatto sull’opinione pubblica europea delle rivendicazioni di una via italiana al risanamento che richiede tempi lunghi e livelli di spesa insindacabili, si deve considerare che proprio i Paesi che negli ultimi anni hanno effettuato ampie riforme e consolidato i loro conti ora chiedono che anche Stati più grandi si attengano alle regole. Quindi non è solo la Germania, come ha detto il Presidente della Bundesbank Jens Weidmann in un’intervista a Der Spiegel, a richie- dere il rispetto dei parametri di bilancio necessari per far parte della comunità europea. Weidmann dice anche che «crescita e lavoro nascono dalle imprese private: queste devono investire, mentre la funzione pubblica deve creare le condizioni giuste, attraverso un miglioramento delle strutture amministrative che è molto più importante della costruzione di nuovi ponti o strade». Alle disquisizioni sulla irragionevolezza della politica del rigore sarebbe stato preferibile un elenco delle misure in trodotte in Spagna e Portogallo e una spiegazione dei motivi per cui misure simili non sono state possibili in Italia.

Non abbiamo molto tempo: recentemente Standard&Poor’s ha infatti emesso un segnale d’allarme sul credito dell’eurozona mettendo in guardia sulla crescita dei consensi elettorali per un nuovo movimento tedesco, l’AfD (Alternative für Deutschland), di ispirazione antieuropeista e che potrebbe portare a un ulteriore irrigidiinento del governo tedesco nei confronti dei provvedimenti di stimolo della Banca centrale europea. Questo movimento è guidato da Bernd Lucke, stimato professore di economia, assistito da Hans-Olaf Henkel, ex presidente della Confindustria tedesca, e si presenta come una potenziale forza di governo. Questa situazione apre interessanti possibilità per l’Italia: l’attuale governo tedesco, per contrastare l’AfD, sarà portato a cercate alleati per un rilancio della cooperazione europea. Potrà quindi essere una buona opportunità, a patto però di fare anche noi i «compiti a casa».

Ora il bazooka è nelle riforme

Ora il bazooka è nelle riforme

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Il programma di acquisti di titoli privati, al centro delle decisioni di ieri della Bce, dovrebbe dare un ulteriore contributo alla strategia di politica monetaria contro un quadro deflattivo sempre più preoccupante. Ma non dobbiamo attenderci effetti immediati come dopo il famoso annuncio del luglio 2012 e tanto meno credere che la battaglia contro la Grande Depressione possa essere combattuta e vinta solo dai generali di Francoforte.

Sul primo punto, quello più strettamente attinente alla politica monetaria, Draghi sottolinea da tempo la complessità del quadro macroeconomico generale, caratterizzato dalla necessità di riassorbire gli squilibri strutturali accumulati dall’Europa negli anni precedenti la crisi e che nel 2012 rischiavano di far implodere l’unione monetaria. Allora, impegnandosi a fare «tutto il necessario», Draghi ottenne effetti quasi taumaturgici perché, una volta spezzate le aspettative pessimistiche, i mercati si riportarono velocemente verso condizioni di normalità e i tassi di interesse (spread inclusi) crollarono ai livelli attuali. Ma neppure nella città di San Gennaro si può pensare che dalla crisi deflattiva si possa uscire con una manovra analoga, anche se di proporzioni ancora maggiori.

Questo non deve portare a sottostimare l’impatto delle armi che la Bce sta mettendo in campo. Fin da questo scorcio di 2014, le operazioni a lungo termine finalizzate alla concessione di prestiti (Tltro) saranno affiancate da acquisti di titoli provenienti da securitisation di prestiti alle imprese (Abs) e da covered bonds. Considerati i vincoli tecnici e gli ostacoli politici che la Bce ha dovuto superare (ancora ieri sul Financial Times la vestale dell’ortodossia teutonica, Hans-Werner Sinn, tuonava contro gli acquisti di «titoli tossici») si tratta di un risultato estremamente importante. La Bce di Mario Draghi è riuscita a interpretare un mandato fin troppo restrittivo per adattare ai problemi di oggi il concetto del credito di ultima istanza teorizzato nell’Ottocento da Walter Bagehot e che ha portato sempre le banche centrali ad assumersi rischi provenienti dal settore reale dell’economia. Le operazioni Abs di oggi equivalgono al risconto di cambiali industriali di un tempo.

Ma c’è di più. Via via che la crisi si aggrava, la diagnosi si fa sempre più dettagliata e mostra che il problema non è riconducibile solo al fatto che le banche non concedono prestiti all’economia perché hanno accumulato squilibri profondi e perché non hanno abbastanza liquidità. Se così fosse, sarebbe davvero sufficiente imbottirle di fondi a basso prezzo fino a quando si decideranno a trasmetterle al sistema produttivo. Purtroppo non è così semplice.

Pochi giorni fa, un autorevole membro del direttivo della Bce, Benoît Coeuré, ha detto che esiste un circolo vizioso fatto di bassi investimenti, crescita deludente e credit crunch, che tocca tutti i soggetti. Gli investimenti privati sono crollati dopo la crisi non solo per mancanza di fondi e tanto meno di profitti lordi (i conti finanziari dicono che in Europa da tempo le imprese sono fornitrici nette di fondi al resto dell’economia), mentre per l’Italia i dati Mediobanca confermano che le grandi imprese hanno investito più in finanza che in impianti, e hanno oggi proventi finanziari superiori (e non di poco) al costo dei debiti. E per contro ci sono imprese che hanno accumulato debiti difficilmente sostenibili e che non troveranno certo in altre dosi di debito la soluzione ai loro problemi, tanto più che le loro prospettive di reddito peggiorano di giorno in giorno. In mezzo ci sono le imprese che sono riuscite a mantenere o addirittura a migliorare i livelli di attività e di vendite all’estero: è questa la fascia che, come dimostrano anche ricerche della Banca d’Italia è stata ingiustamente colpita dal credit crunch nei giorni peggiori della crisi. Ma gli ultimi dati e un recente documento del Financial Stability Board sembrano indicare che almeno in linea generale questo problema stia rientrando e che dunque il credit crunch sia oggi da attribuire più al peggioramento del quadro macroeconomico che aggrava i rischi per le banche che ad un’indiscriminata restrizione dell’offerta.

Proprio questo rinvia al secondo grande tema della strategia che la Bce sta ponendo in essere. La manovra monetaria da sola è insufficiente se non affiancata da politiche economiche adeguate e da riforme strutturali che diano nuovamente slancio all’economia e che facciano ripartire i meccanismi bloccati dell’investimento privato e pubblico. E anche nel campo della finanza d’impresa ci sono riforme strutturali urgenti, che non a caso si ritrovano nei documenti della Bce e nel discorso di Coeuré prima citato. Le imprese in Europa ma anche (e soprattutto) in Italia hanno bisogno di più capitale, non solo di più debiti e ciò comporta grandi trasformazioni che devono essere agevolate da politiche adeguate, che vanno da quelle per favorire la crescita dimensionale di un sistema produttivo come quello italiano caratterizzato da imprese troppo piccole rispetto alla globalizzazione di oggi, a quelle per ampliare i flussi di finanziamento alle imprese intermediati dal mercato finanziario, passando per quelle che consentano la ristrutturazione finanziaria (con immissione di capitali propri) delle imprese sane ma finanziariamente fragili.

È questo l’elenco dei “compiti a casa” che l’Europa, con la Bce in testa, attende per completare l’azione della politica monetaria. E qui Draghi non solo ha ricordato che il Patto di stabilità e crescita rimane «l’àncora della fiducia sulla sostenibilità del debito pubblico» (e a qualcuno in molte capitali europee sono fischiate le orecchie) ma ha anche ammonito che in alcuni Paesi il processo di riforma sembra decelerare rispetto agli annunci. E qui il sibilo è diventato boato.

Riforma articolo 18? Occhio al labiale

Riforma articolo 18? Occhio al labiale

Giuliano Cazzola – Italia Oggi

Che Marco Biagi riposi in pace. Questa non è una legge «sua». L’idea di mercato del lavoro che si può intravedere tra le fumisterie dell’articolo 4 del disegno di legge delega Poletti (AS 1428), ora in Aula a Palazzo Madama, non corrisponde, per tanti aspetti, al pensiero del professore bolognese, assassinato dalle Brigate Rosse dodici anni or sono. La verità è che su quel provvedimento è in atto un regolamento di conti, a sinistra, che non trova riscontro nel merito. Nella norma emendata, infatti, pur essendo meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, continua a non esservi traccia né dei principi, né dei criteri direttivi, né della definizione dell’oggetto come disposto dall’art. 76 Cost. in materia di funzione legislativa delegata. Resta aperta, pertanto, non solo a dubbi di incostituzionalità ma anche ad ogni possibile soluzione al momento della decretazione attuativa. Il suo contenuto, vago e cerchiobottista, non ha nulla da spartire con la durezza del dibattito in corso.

Cominciamo dalle parole che mancano. Non sono neppure nominati lo Statuto dei lavoratori né tanto meno l’articolo 18 e la disciplina del licenziamento individuale. È possibile che significative modifiche ad istituti così importanti e delicati siano soltanto sussurrate o avvengano per «sentito dire» o mediante interviste a Repubblica, senza essere mai accennate, sommariamente, per iscritto, almeno su di una slide? Tralasciamo le questioni del «demansionamento» e dei controlli a distanza (anche in questi casi i criteri sono laschi) per andare diritti al clou: la «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio».

Il contratto di nuovo conio si applicherà ai nuovi assunti o anche a chi cambia lavoro e viene assunto ex novo da un altro datore? In ogni caso, consoliamoci, un cambiamento importante dovrà esserci: la tutela reale interverrebbe, quanto meno, a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Nella peggiore delle eventualità, pertanto, vi sarebbe una tutela modulata con un mix tra indennità risarcitoria e reintegra. Si tratterebbe certamente di un passo avanti. Guai però a chi ha cantato anticipatamente vittoria. Se quelle norme andranno in porto e i decreti delegati saranno coerenti con quegli oscuri principi che si possono decrittare tra le righe, il progetto è rivolto a rimettere al centro del mercato del lavoro il contratto a tempo indeterminato (sia pure a tutele crescenti), potando il più possibile quei rapporti atipici che, ordinati e disciplinati appunto dalla legge Biagi del 2003 (insieme al Pacchetto Treu del 1997), consentirono, pur in un contesto di modesta crescita economica, di incrementare di 3,5 milioni di unità il numero degli occupati e di dimezzare la disoccupazione.

Correrà seri rischi anche la riforma del contratto a termine che pur rappresenta la chiave di volta della flessibilità, dopo l’abolizione del «causalone» per l’intera durata dei 36 mesi e la possibilità di ben 5 proroghe. Questa tipologia non potrà non essere «resa coerente» con il nuovo contratto a tempo indeterminato, proprio perché le due forme contrattuali marcerebbero in parallelo, svolgendo la medesima funzione. E nessun imprenditore con un po’ di sale in zucca rinuncerebbe ad avvalersi del contratto a termine made by Poletti anche se il contratto a tutele crescenti, di nuova istituzione, fosse «drogato» con i soliti sconti fiscali e contributivi (per i quali sarebbe persino problematico reperire le risorse).

Marco Biagi sosteneva che nessun incentivo economico può compensare un disincentivo normativo. Basta considerare l’esito delle agevolazioni previste dal «pacchetto Giovannini» del 2013 (650 euro mensili per 18 mensilità a favore delle assunzioni a tempo indeterminato): appena è entrato in vigore il decreto Poletti sui contratti a termine, le richieste di avvalersi di quelle opportunità sono crollate, perché le imprese hanno preferito assumere a tempo determinato nonostante i maggiori costi previsti. In tutti questi anni, si è diffusa la teoria che i rapporti atipici fossero una «uscita di sicurezza» dal giogo di un contratto a tempo indeterminato troppo rigido. Sarebbe bastato, secondo quella tesi, modificare la disciplina del recesso per riportare quel rapporto al centro del mercato del lavoro.

Non era questa l’opinione del mio amico Marco Biagi, il quale non pensava affatto di introdurre, nella legge che porta il suo nome, tipologie flessibili in entrata allo scopo di consentire ai datori di aggirare, in uscita, la trappola dell’articolo 18. Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici mirati a regolare le diversità dei rapporti di lavoro, anziché imporre loro, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato (non più «unico») sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento. Ecco perché – lo ripetiamo – lo scontro sul Jobs act Poletti n.2 si svolge tra due sinistre: quella conservatrice e quella riformista. Ma il terreno di gioco è lo stesso: l’idea, sempre più fuori dalla realtà, che la figura centrale e prevalente del mercato del lavoro debba essere quella del dipendente assunto a tempo indeterminato. A sinistra, conservatori e riformisti, accettano tutti questo dogma. Si dividono su quale sia il modo migliore per realizzare tale obiettivo: forzando la vita quotidiana dentro i loro schemi ideologici come vogliono continuare a fare i conservatori o incoraggiando i datori ad assumere con incentivi economici e tutele più sostenibili in tema di recesso.

La vera rivoluzione delle riforme

La vera rivoluzione delle riforme

Mario Deaglio – La Stampa

«Siete bravi e simpatici ma dovete fare le riforme». «Mi raccomando, fate le riforme». «Va tutto bene, ma avanti con le riforme». Banchieri centrali, esponenti economici europei, responsabili di centri di ricerca internazionali da tre anni ripe- tono come un «mantra» tibetano lo stesso ritornello. A questo coro sempre più nutrito si è aggiunto ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con due specificazioni importanti: le riforme devono essere «strutturali» e devono riguardare non solo l’Italia ma l’intera Europa. Che cosa sono, allora, queste «riforme» che l’Italia e il resto d’Europa dovrebbero fare?

L’espressione «fare le riforme» è una foglia di fico per nascondere qualcosa di apparentemente scandaloso e politicamente scomodissimo: un ridisegno della società attraverso una diversa distribuzione dei redditi e un ridisegno dell’economia attraverso una rapida variazione dell’importanza dei diversi settori produttivi e dell’occupazione a essi collegata. Si tratta, in sostanza, di incidere profondamente sia sulla domanda sia sull’offerta dei beni che si producono e si vendono.

Negli ultimi vent’anni, la distribuzione dei redditi si è ovunque spostata a sfavore del lavoro e a vantaggio di chi riceve redditi non di lavoro. In Germania, gli anziani che vivono di rendite e di altre entrate fisse non sono mai stati così ricchi e così in buona salute, come titolava domenica il tedesco «Welt am Sonntag». Negli Stati Uniti dalla fine della Seconda guerra mondiale gli utili delle società non sono mai stati cosi alti. Quasi mai così in alto, negli ultimi decenni è stato l’indice di Gini, una sorta di «termometro della diseguaglianza dei redditi» che ha visto l’Italia diventare uno dei più Paesi avanzati con maggior diseguaglianza dei redditi, di poco inferiore a quella degli Stati Uniti. Mentre però negli Stati Uniti la società è diseguale ma anche relativamente mobile e chi è povero può ragionevolmente pensare di migliorare sensibilmente la propria posizione economica, in Italia diventano sempre più rigide le barriere che rendono difficile questo miglioramento, come mostrano le norme per l’ingresso alle varie «libere» professioni. «Fare le riforme» significa quindi ridistribuire questi redditi. Le vie sono molteplici e tocca ai politici – e agli italiani che li eleggono – dire chiaramente quale e quanta ridistribuzione intendono accettare.

«Fare le riforme» implica, però non tanto – o non solo – la riduzione del carico fiscale, come spesso chiedono gli imprenditori ma anche la riduzione dei «costi esterni»: occorre ripensare radicalmente la burocrazia, organizzandola sulla base dei modelli, più semplici e più efficaci, di Paesi come la Germania o la Gran Bretagna, e ridurre cosi i tempi delle decisioni pubbliche, essenziali nel modo di produzione postindustriale. Per far questo non basta, o non serve, «tagliare» lasciando invariata la struttura, come hanno fatto, in vario modo, i governi degli ultimi dieci anni. È necessario ridurre i livelli decisionali e, per conseguenza, imboccare una strada scomodissima che implica una riduzione sensibile nel numero dei pubblici dipendenti. A tale riduzione fa da contrappunto la riduzione delle occasioni di lavoro di numerose categorie professionali che, volenti o nolenti, vivono sulla complicazione delle procedure pubbliche. Un esempio fra i tanti: l’invio a domicilio, già dal 2015, della dichiarazione precompilata dei redditi toglierà lavoro ai Caaf e ai commercialisti. L'(eventuale) semplificazione della giustizia e l’accorciamento dei tempi potrebbe significare meno lavoro per le professioni legali. E l’elenco, naturalmente, potrebbe continuare.

Dietro il generico «fare le riforme» si nasconde quindi una trasformazione rapida e non indolore della società. Alcuni Paesi – Portogallo, Grecia, Irlanda – non se la sono sentita di fare tutto da soli, pur avendo i loro governi maggioranze più solide dell’attuale governo italiano e hanno conferito alla cosiddetta «troika», composta di rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale, della Bce, della Commissione di Bruxelles, una sorta di giudizio di ultima istanza sulla adeguatezza e la sufficienza quantitativa delle manovre di risanamento. Hanno passato un paio d’anni d’inferno e sembrano oggi in via di guarigione. L’Italia non è nella loro condizione, ma, se vorrà conservare un ruolo rilevante nell’economia, nella politica, nella società globale, non potrà semplicemente evitare il problema. Che è già, tra l’altro, in maniera inconfessata, al centro del dibattito politico italiano.

Naturalmente il Paese potrebbe anche decidere di non far nulla. È già successo in un passato lontano: nel Cinquecento, il reddito per abitante degli italiani – stimato circa 1000 dollari dall’economista britannico Angus Maddison – era il più alto d’Europa. Tre secoli più tardi, era pressoché invariato ma largamente superato da Gran Bretagna, Francia e Germania: l’Italia era diventata una sorta di museo a cielo aperto che attirava turisti mentre i giovani bravi – architetti, artisti, scienziati – andavano a cercar lavoro all’estero. C’è qualcosa che suona famigliare in questo riferimento al passato? È perfettamente legittimo aspirare a ridiventare un museo. Sarebbe invece improprio, mentre si ridiventa un museo, credersi ancora un Paese all’avanguardia e rivendicare primati che non esistono più.